23/10/13

Dieci grandi anime. 2. Andrej Tarkovskij (6.- fine)



Dieci grandi anime. 2. Andrej Tarkovskij (6.- fine)


Sul tema del sacrificio, dell’incontro tra il sacrificio umano – quello di Giuda Iscariota, ma anche quello di ogni uomo, e dello stesso Tarkovskij, ormai giunto al termine della sua vita  - e quello divino del Cristo, si giocano le ultime riflessioni del grande regista, che sembra consegnare la sua anima, “faccia a faccia con la propria vita”, come scrive il 4 novembre, un mese prima di morire.

Sono anche le considerazioni che concludono il suo libro più famoso, quello nel quale Tarkovskij ha riassunto il suo pensiero teorico, sul cinema, sulla creazione, sull’arte (20) . Nelle ultime pagine di Scolpire il Tempo, scrive:   
       Il nostro mondo è scisso in due parti: il bene e il male, la spiritualità e il pragmatismo.  Il nostro mondo umano è costruito, è modellato sulla base delle leggi materiali poiché l’uomo ha costruito la propria società sul modello della morta materia. Perciò egli non crede nello Spirito e rifiuta Dio.
      C’è una speranza che l’uomo sopravviva, nonostante tutti i segni del silenzio apocalittico preannunciato dall’evidenza dei fatti ?  La risposta a questo interrogativo, forse, è  contenuta nell’antica leggenda sulla resistenza dell’albero inaridito, privato dei succhi vitali, che ho preso come base del film più importante nella mia biografia artistica (21).
      Un monaco, passo dopo passo, secchio dopo secchio portava l’acqua sulla montagna e innaffiava l’albero inaridito, credendo senz’ombra di dubbio nella necessità di quel che faceva, senza abbandonare neppure per un istante la fiducia nella forza miracolosa della sua fede nel Creatore e perciò assistette al Miracolo: una mattina i rami dell’albero si rianimarono e si coprirono di foglioline. Ma questo è forse un miracolo ?  E’ soltanto la verità.   (22)
     
Non ci sono forse parole migliori di queste per raccontare cosa sono state la vita e il percorso artistico di Tarkovskij.  Il miracolo della pienezza espressiva, creativa dei suoi film è sotto gli occhi di vecchie e nuove generazioni. Il suo cinema è senza tempo, come la bellezza è senza tempo.

La fiducia, la fede nella vita – e nel suo ispiratore – pur nelle traversie di una esistenza obiettivamente molto difficile, a tratti penosa, hanno compiuto questo miracolo.
      
Forse meglio di ogni altro, Tarkovskij è stato colui che con la sua arte – ma anche con il resoconto della sua vita – è riuscito a tradurre, già in questo tempo terrestre, l’aforisma di Lao-tse, che lo stesso regista aveva posto tra i suoi preferiti: Quel che v’è di più potente al mondo è quel che non si vede, non si ode, e non si tocca.


(6. - fine) 

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20.      Scolpire il Tempo, di Andrej Tarkovskij è pubblicato in Italia da Ubulibri, 2002, a cura di Vittorio Nadai.
21.      Il film a cui si riferisce è l’ultimo, Sacrificio.
22.     Scolpire il Tempo, cit. pag. 211



22/10/13

Dieci grandi anime. 2. Andrej Tarkovskij (5./)



Dieci grandi anime. 2. Andrej Tarkovskij (5)


La malattia incurabile di Tarkovskij ottiene almeno questo effetto. L’interessamento personale del presidente francese Francois Mitterrand fa sì che Mikhail Gorbaciov, divenuto Segretario Generale del Partito Comunista Sovietico da qualche mese, prenda a cuore la vicenda dei familiari del regista concedendo finalmente al figlio di uscire dalla Russia e ricongiungersi al padre.

Sono arrivati, Andrjusa e Anna Semenovna ! scrive a grandi lettere Tarkovskij nel suo diario, il 19 gennaio del 1986 e questa pagina è accompagnata dalla prima foto che ritrae insieme padre e figlio, di nuovo insieme dopo cinque anni. Andrjusa è un adolescente,  Tarkovskij è un uomo malato, nel suo letto, gli occhiali sulla federa,  un libro (la Bibbia?) accanto al cuscino.  Scrive: Se avessi incontrato Andrjusa per la strada non l’avrei riconosciuto. E’ cresciuto molto, ha raggiunto 1 metro e 80 centimetri di altezza e ha solo 15 anni ! Un dolce, buon ragazzo dai grandi denti. Tutto questo ha del miracoloso !

Gli ultimi mesi di vita di Tarkovskij trascorrono a Parigi, tra pause di momentanei miglioramenti, progetti per nuovi film -  un Amleto, una pellicola su Sant’Antonio,  un progetto sul Vangelo – e ancora fitte note nei Diari, sempre più rivolte a un dialogo ultimo con Dio:  Dobbiamo abbandonare i nostri pregiudizi. Noi non sappiamo vedere. Dio solo vede e ci insegna ad amare il nostro prossimo. L’amore trionfa su tutto. E in ciò Dio si manifesta.  Senz’amore crolla tutto. (16)

L’11 aprile, quando la malattia si è fatta più dura, con fortissimi dolori al petto e alla schiena, e i conati di vomito causati dalla chemioterapia, scrive:

Un’immensa speranza è penetrata oggi nell’anima mia: non so come definirla, semplicemente come felicità.   La speranza che la felicità sia possibile.  Fin da stamattina le finestre della mia stanza d’ospedale sono inondate di sole. Ma la felicità non dipende da questo: ecco, è il Signore !

Un mese dopo, Sacrificio viene presentato al Festival di Cannes.  La giuria, all’ultima votazione gli preferisce, per la Palma d’Oro, Mission di Roland Joffé. A Sacrificio viene assegnato, tra le polemiche (17), il Gran Premio Speciale della Giuria.  Il figlio,  Andrei, va a ritirare il premio  sulla Croisette  al posto del padre.

Nelle settimane successive, che gli restano da vivere,  Tarkovskij continua a riflettere e a scrivere, febbrilmente, sul progettato film sui Vangeli.  Torna sul tema del sacrificio, e di quello che gli appare come il Sacrificio del Cristo, che gli altri, tutti contiene e riassume.


L’amore è sempre un donarsi agli altri, scrive. E nonostante il termine sacrificio, sacrificale,  comporti un significato quasi negativo ed esteriormente distruttivo (se preso nella accezione del linguaggio parlato) riferito alla persona che si sacrifica, in effetti l’essenza di quest’atto è sempre amore, cioè un fatto positivo, creativo, divino. (18) 

E ancora:  Ma perché esiste Giuda Iscariota ?  A che è servito il suo bacio ? Perché Giuda ? Evidentemente per spiegare con chi Lui aveva a che fare: cioè con gli uomini.  L’unico personaggio che porta un inimmaginabile peso psicologico. Giuda è il motivo per cui Gesù deve compiere la sua missione. Un esempio concreto per capire fin dove l’uomo può arrivare nella sua caduta.  Qui bisogna scavare più in profondità ! (19) .

(segue -5./) 

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15.   Op.cit. pag. 653.
16.   Op. cit. pag. 663.
17. Sarà lo stesso presidente francese Francois Mitterrand a definire uno ‘scandalo’ la mancata assegnazione del massimo riconoscimento al film di Tarkovskij.
18.   Op.cit. pag. 682
19.   Op. cit. pag. 686

20/10/13

La poesia della domenica - "Sonetto dell'amore totale" - di Vinicius de Moraes, tradotto e letto da Giuseppe Ungaretti.





E' una rara registrazione della voce di Giuseppe Ungaretti che legge una poesia di Vinicius De Moraes, tradotta da lui stesso.  Ungaretti e De Moraes si conobbero in Brasile negli anni '50. Ne nacque una amicizia poetica e anche una collaborazione, testimoniata anche da un album Lp, fino a pochi anni fa introvabile ed ora ristampato come CD dalla Warner, in cui si alternano le meravigliose canzoni di De Moraes cantate da Sergio Endrigo e da Moraes stesso insieme a Toquinho e brani di Ungaretti letti da lui stesso. 

(Sonetto dell'amore totale Da La vita, amico, è l'arte dell'incontro con Vinicius De Moraes, Sergio Endrigo e Giuseppe Ungaretti)

SONETTO DELL’AMORE TOTALE 
Vinícius de Moraes

Ti amo tanto, amore mio... non canta
Il cuore umano con più verità...
Amo te come amico e come amante
In una sempre diversa realtà.

Ti amo affine, di calmo amore pronto,
E da oltre ti amo, presente in nostalgia.
Ti amo, insomma, con grande libertà
Dentro l’eterno ed in ogni momento.

Come ama l’animale ti amo semplicemente,
D’amore privo di mistero e privo di virtù
Con un desiderio massiccio e permanente.

E di amarti talmente e di frequente,
Un giorno nel corpo tuo di repente
Avrò da morire di amarti più che uno possa.


(Traduzione di Giuseppe Ungaretti)

Dieci grandi anime. 2. Andrej Tarkovskij (4./)



Dieci grandi anime. 2. Andrej Tarkovskij (4.)


Nei taccuini di Tarkovskij cominciano ad intensificarsi citazioni dalle Scritture, dall’Ecclesiaste, dai Vangeli, soprattutto, ma anche da Lao-tse, Seneca, Dostoevskij, Montaigne.

E la radicalità nei confronti di quella che Tarkovskij chiama falsa conoscenza, ritorna in forme sempre più definitive e apparentemente arbitrarie. La vera poesia si accompagna alla religiosità, scrive, un non credente non può essere un poeta. (11)
        
Ma essere poeta, di qua come di là dalla Cortina di Ferro continua ad essere sempre più difficile. Spero quando si ha a che fare con mancanze primarie. A Larisa, la moglie di Tarkovskij viene concesso alla fine del 1982 un permesso per raggiungere il marito a Roma. Ma con lei non c’è l’adorato figlio, adesso dodicenne, al quale le autorità non permettono l’espatrio. Andrej ha il cuore spezzato: ha la moglie, ma non il figlio.  Vorrebbe lasciar tornare la moglie in Russia, ma ha paura che una volta rientrata non le permettano più di uscire.   Si svolgono accorate telefonate tra Roma  e Mosca. 

Scrive: Con quanta tristezza Tjapa (il figlio,  NDA) parla al telefono ! Che nostalgia che ha… Come deve essere disumana una società per arrivare a dividere le famiglie senza nessuna pietà, con il solo scopo di avere degli ostaggi. E sarà sempre peggio, questo è chiaro. Ma è anche chiaro che Dio ci guida. (12)  E più avanti: Penso continuamente a quanto abbiano ragione coloro che ritengono che la creatività sia una condizione dello spirito.  Donde viene?  .. Il nostro dovere dinanzi al Creatore impiegando il libero arbitrio di cui Egli ci ha fatto dono, combattendo il male che è in noi, di superare gli ostacoli sul nostro cammino verso di Lui, di crescere in senso spirituale, combattere tutto ciò che c’è in noi di turpe. Dobbiamo purificarci. Allora non avremo nulla da temere. Aiutami Signore ! Mandami un Maestro! Sono stanco di aspettarlo… (13)

Nel 1983, intanto esce sugli schermi Nostalghia.  Che ottiene favori non unanimi. C’è anzi già chi è disposto a scommettere che il grande autore russo abbia perso brillantezza e ispirazione, lontano dal suo paese d’origine. Il film vince il Gran Premio della Giuria  a Cannes, nonostante l’ostruzionismo di Sergej Bondarciuk, il regista ‘ortodosso’ sovietico, che fa parte della Giuria. 

Nello stesso anno va in scena una memorabile rappresentazione del Boris Godunov al Covent Garden di Londra che ottiene un successo trionfale. Tarkovskij si rende conto che ormai non può più tornare indietro.  L’ostracismo delle autorità sovietiche, anzi, gli rendono necessario alzare i toni, nella speranza di smuovere le cose e riunificare la sua famiglia,  e nel 1984 chiede e ottiene asilo politico dagli Stati Uniti, con un annuncio che viene dato in una affollatissima conferenza stampa a Milano.

Ma il regime di Mosca non è disposto ancora a cedere.  
Nel 1985 Tarkovskij è impegnato nella realizzazione del suo ultimo film, Sacrificio (Offret), che rappresenta una sorta di testamento spirituale del grande regista, con la storia di Alexander, un uomo che assiste al crollo di ogni cosa in cui crede in seguito all'improvviso scoppio di una guerra nucleare, e che  disperato prega Dio di salvare il mondo, facendo voto di rinunciare a tutto ciò che possiede, se questa sua preghiera si dovesse realizzare.

Tarkovskij fa appena in tempo a terminare le riprese del film.  Il 6 dicembre del 1985, a Parigi, si sottopone ad una radiografia e scopre di avere “un’ombra” nel polmone sinistro. Dieci giorni dopo gli viene diagnosticato un tumore incurabile.

I Diari registrano la reazione umana di Tarkovskij, il dolore profondo, anche la disperazione, che però si rivolge subito ad altro, agli altri, a coloro che ama:

L’uomo nel corso della propria vita sa che prima o poi dovrà morire. Non sa però quando morrà, perciò sposta questa scadenza lontano nel futuro. E questo lo aiuta a vivere. Ora, invece, io lo so. E niente mi può aiutare a sopravvivere. E questo è molto duro.   Però ora la cosa importante è Lara. Come potrò dirglielo ?! Come potrò infliggerle un colpo tanto tremendo con le mie stesse mani ?!  Come reagirà ?  Come farà in futuro per Andrjusa e la mamma ? (14)  Bisogna continuare a combattere per ottenere il loro espatrio. Andrjusa ha bisogno di vivere libero, non deve vivere in prigione. Visto che abbiamo cominciato su questa strada, bisognerà andare fino in fondo. (15)


(segue -4./) 

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11.     Op. cit. pag.486
12.   Op. cit. pag. 550
13.   Op. cit. pag. 556
14.   La “mamma” a cui si riferisce qui è Anna Semenovna, madre di Larisa, cioè la suocera di Tarkovskij, che è colei che per tutti gli anni dell’esilio di Tarkovskij si è occupata del nipotino, Andrej, e che riuscirà a lasciare la Russia, proprio a causa della malattia di Tarkovskij, insieme al bambino, un mese dopo questa nota scritta dal regista.
15.      Op.cit. pag. 653.

19/10/13

Dieci grandi anime - 2. Andrej Tarkovskij (3./)




Dieci grandi anime. 2. Andrej Tarkovskij (3)

Tarkovskij si sente a un bivio, e sa che sta per arrivare l’ora di una difficile scelta, che appare però inevitabile.  Sono divenute sempre più frequenti le visite, in Russia, di Tonino Guerra, uno dei maggiori sceneggiatori italiani. Guerra parla il russo, è un poeta, come il padre di Andrej.  Nasce una grande amicizia, un rapporto profondo e creativo, il progetto di lavorare insieme ad un nuovo film (7) .  Ogni nuova visita di Tonino Guerra a Mosca, rappresenta una tentazione per Tarkovskij, il quale capisce che si tratta forse dell’occasione che il destino gli ha messo davanti per abbandonare definitivamente il suo paese, e lavorare finalmente senza più pressioni, senza più censure, liberamente all’estero, dove il suo lavoro è apprezzato e pienamente riconosciuto.

Il 5 gennaio del 1979, scrive nei Diari:

Larisa (8) e io stiamo pensando molto seriamente a Tonino.  Non si può continuare così. Come farò a restituire i debiti che abbiamo ? Non so come riuscirò a consegnare Stalker. Che non accetteranno senza che io apporti cambiamenti radicali al film, cambiamenti che io, in ogni caso, mi rifiuto di introdurre. Solo un vero miracolo mi può aiutare.
       E se me ne andassi sull’onda di un grosso scandalo ? Questo significherebbe almeno due anni di tormenti: per Andrjuska a scuola, per Marina, la mamma, mio padre. Sarebbero sottoposti a continue vessazioni.   Cosa posso fare ?! Non mi resta che pregare! E avere fede.     E la cosa più importante è che questo (quello della croce) è un simbolo che non bisogna capire, ma soltanto sentire, capire…  Nonostante tutto, credere…     Siamo crocefissi in una sola dimensione, mentre il mondo è pluridimensionale. E noi questo lo sentiamo e soffriamo per l’impossibilità di conoscere la verità…. Ma non serve conoscere ! Bisogna amare. E credere. Perché la fede è conoscere tramite l’amore. (9).
      
E’ un passaggio molto importante questo, per Tarkovskij.

La fuga dalla Russia si concretizzerà prima con il permesso ottenuto nel 1979 per raggiungere Roma e contattare i dirigenti RAI per la realizzazione del progettato film italo-russo scritto con Tonino Guerra, e poi, dopo un breve intermezzo moscovita, con il definitivo distacco dell’aprile 1980, quando Tarkovskij sfrutta l’invito del premio David di Donatello -  Lo Specchio ha ottenuto il massimo riconoscimento dalla giuria - per raggiungere nuovamente l’Italia.  

Gli anni dell’esilio significano per Tarkovskij una ulteriore chiusura in se stesso. L’isolamento a cui lo costringe la lingua – non parla inglese, soltanto russo e poco francese – le difficoltà continue con le autorità del suo Paese, che negano l’espatrio con ogni pretesto a Larisa e al figlio,  la frequentazione di ambienti estranei e completamente diversi (molto più disinvolti, superficiali, mondani) da quelli che è stato abituato a frequentare nel suo paese, lo portano a intensificare le note dei suoi Diari, e a spingere la sua ricerca spirituale a una radicalità estrema.

Sono anni di viaggi continui, di esplorazioni – insieme a Tonino Guerra girano in lungo e in largo l’Italia alla ricerca di locations per Nostalghia – di partecipazioni a festival e cerimonie in suo onore, a salotti borghesi nei quali egli rappresenta l’ospite esotico, l’intellettuale russo in esilio, che lo fanno sentire sempre più un pesce fuor d’acqua.

Si fa più profondo, in quest’uomo troppo intelligente e introverso, un rifiuto delle inutili apparenze. Una continua ricerca della vera sostanza.


Nel mondo si possono riscontrare in assoluto un numero assai maggiore di squarci verso l’Assoluto di quanto possa sembrare a prima vista. Solo che non li sappiamo vedere e riconoscere, scrive nel luglio del 1981, la nostra conoscenza non è che sudore, secrezione organica, prodotto delle funzioni naturali dell’organismo inseparabili dall’esistenza, che non ha nessun rapporto con la Verità.  L’unica funzione della nostra coscienza è quelle di creare finzioni, mentre la conoscenza è data dal cuore, dall’anima. (10) 

(segue -3./) 

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1.   Sarà Nostalghia, che uscirà quattro anni dopo, nel 1983, verrà scritto a quattro mani da Guerra e Tarkovskij e sarà girato interamente in Italia, prodotto dalla RAI.
2.   Larisa Pavlova Egorkina è la moglie di Tarkovskij, sposata in seconde nozze nel 1969 e da cui l’anno seguente il regista ha il suo secondo figlio, Andrej Andreevic. Larisa resterà fedelmente  – nonostante i sette anni di forzata separazione – al fianco di Tarkovskij fino all’ultimo giorno della sua vita.
3.   Op.cit. pag.237
4.   Op.cit. pag. 400

18/10/13

Dieci grandi anime - 2. Andrej Tarkovskij (2./)





2. (Dieci grandi anime) - Andrej Tarkovskij (2) 

Il fatto di scegliere come titolo Martirologio, per questi diari, è già un segnale molto chiaro: per Tarkovskij la vita è un percorso di conoscenza che non  può essere disgiunto dal percorso terreno dell’uomo, tormentato tra la carne e lo spirito, la vita e la morte.  Ed è lo stesso figlio Andrej, curatore oggi dei Diari,  a riferire una frase che il padre gli ripeteva spesso: l’uomo non è stato creato per essere felice, vi sono cose ben più importanti della felicità. (2)

Per capire quali fossero queste cose, basta sfogliare le tormentate pagine dei diari, composte di vere illuminazioni, riflessioni profondissime, citazioni dei libri e dei maestri preferiti, preghiere, promemoria, sottolineature,  progetti, invocazioni, confessioni.  Un cahier umano, molto umano, che documenta il prezzo pagato alla creazione artistica, e soprattutto all’auto-conoscenza.

Ciò che interessa Tarkovskij è principalmente lo scopo della vita, che non può essere soltanto il soddisfacimento dei bisogni. Per l’uomo, scrive il 5 settembre del 1970, perché possa vivere senza tormentare gli altri, deve esistere un ideale.  L’ideale in quanto concezione spirituale e morale della legge.  La moralità è dentro l’uomo.  Là dove non c’è moralità, regna una misera e insignificante legge morale. Dove c’è morale, la legge morale non è più necessaria. (3)

Ma quel che vede intorno Tarkovskij, specie nella notte senza fine in cui il suo Paese appare precipitato, è un rifiuto di dare voce a questa moralità che è dentro l’uomo, e che ha a che fare con lo spirito.    Iddio a che punto arriveremo ! - scrive pochi giorni dopo, il 20 settembre del 1970 -  Mai prima d’ora l’incultura aveva raggiunto un tale livello. Questo rifiuto di ciò che è spirituale può solo generare dei mostri. Oggi come non mai bisogna difendere tutto ciò che ha anche un solo minimo rapporto con il mondo spirituale ! Quanto rapidamente l’uomo rinuncia all’immortalità, possibile che la sua condizione naturale sia quella della bestia ? (4).

Difendere tutto ciò che è spirituale. E’ quello che Tarkovskij cercherà di fare strenuamente, con i suoi film.  Il più misterioso dei quali, forse resta proprio Lo Specchio (titolo originale Zerkalo), girato nel 1975, e infarcito di immagini simboliche e di citazioni di versi del padre del regista, il poeta Arsenij. Nei Diari del periodo, Tarkovskij, riferisce anche delle critiche e degli insulti ricevuti e commenta: Lo specchio è un film antiborghese e perciò non può non avere una gran quantità di nemici.  Lo specchio è un film religioso. Naturalmente quindi, incomprensibile per la massa, abituata al cinema da quattro soldi e incapace di leggere libri, di ascoltare musica, di osservare un dipinto.  Alle masse in genere serve qualcosa di divertente, di distensivo, di spettacolare, sullo sfondo di una “storiella” edificante… il mio compito è di occuparmi di quello che Dio mi ha dato senza badare alla invettive di chicchessia. Non è che io pensi di me cose molto esaltanti, è solo che ognuno deve portare la sua croce.  E sarà il tempo a dire se è stata una meritata beffa, o se avevo ragione io.  Una persona egoista non può leggere e amare Tolstoj.  (5).

Temi che torneranno anche nel film seguente, Stalker,  nel 1979, a proposito del quale Tarkovskij scrive: Il film parla della presenza di Dio nell’uomo e della rinuncia alla spiritualità per l’acquisizione di una falsa conoscenza. (6)

E’ abbastanza semplice intuire quanto questi argomenti potessero sembrare sospetti alle autorità sovietiche dello spettacolo e ai produttori della Mosfilm.  Tarkovskij è riconosciuto come un grande regista di talento. Ma perché, invece che ad astratti sofismi di natura spirituale, non dedica il suo genio a raccontare storie di gente comune, magari esaltando il modello di vita e i sani valori della civiltà sovietica ? 

(segue -2./) 

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note 
2.     E’ quanto scrive il figlio di Tarkovskij, Andrej A. , nella prefazione al volume stesso, intitolata Il Martirologio (op. cit. pag.5).
3.      Op. Cit. p.37
4.      Op. cit.  pag.52
5.     Op. cit. pag. 191
6.     Op. cit. pag. 232. 

17/10/13

Dieci grandi anime - 2. Andrej Tarkovskij (1./)




2. (Dieci grandi anime) - Andrej Tarkovskij (1) 

Per una di quelle circostanze che decidono i destini degli uomini – in questo caso l’essere nato in un periodo storico di feroci opposizioni e blocchi contrapposti – il corpo del grande Andrej Tarkovskij, uno dei più grandi autori della storia del cinema, riposa lontano dal suo paese, il paese dove è nato e dove hanno vissuto i suoi predecessori.  La tomba di Tarkovskij non è infatti a Zavraz’e, il piccolo villaggio sulle rive del Volga dove il regista nacque il 4 aprile del 1932  e nemmeno in nessun’altro cimitero della sconfinata Russia, ma al cimitero ortodosso di Saint-Géneviève-des-Bois, nei pressi di Parigi.

Se Tarkovskij fu seppellito in Francia e non nel suo paese, fu dovuto alla decisione della moglie Larisa, che rifiutò l’offerta da parte delle autorità sovietiche di far rimpatriare il corpo del grande regista perché fosse sepolto a Mosca.  La decisione era del tutto conseguente a una estenuante guerra, cominciata molti anni prima, con le autorità sovietiche che – da sempre, dall’inizio, da L’infanzia di Ivan, girato nel 1962 – avevano mal sopportato i contenuti dei film di Tarkovskij, l’ermetismo e il forte simbolismo delle immagini, e soprattutto i riconoscimenti tributati all’estero ad un autore considerato genialmente innovativo.   Il conflitto con le autorità di controllo dello spettacolo sale, pellicola dopo pellicola, fino alla decisione di Tarkovskij, inevitabile, di usufruire nel luglio del 1979 di un permesso di espatrio, per raggiungere l’Italia e lavorare finalmente liberamente ad un nuovo progetto.  Decisione, alla quale il regime sovietico darà una risposta durissima, impedendo alla moglie del regista Larisa, e al figlio Andrej – che all’epoca ha solo nove anni – di raggiungere Tarkovskij.  I tre – marito da una parte, moglie e figlio dall’altra – resteranno separati per sette lunghi anni,  fino a pochi mesi prima della morte del regista, avvenuta appunto nel dicembre del 1986 a Parigi.

Una testimonianza irripetibile di questi anni, ma anche di quello che accade prima, nella mente e nell’anima del regista, costretto a fare i conti con una realtà limitante – che diventerà poi soffocante – è contenuta nei diari che Tarkovskij inizia a scrivere il 30 aprile del 1970, a trentotto anni, quando è già un regista affermato che ha vinto il Leone d’Oro a Venezia con L’infanzia di Ivan nel 1963  e stupito il mondo con Andrei Rublev  terminato nel 1966 ma presentato al Festival di Cannes soltanto tre anni dopo nel 1969, e distribuito in patria addirittura cinque anni dopo, nel 1971.

Nel 1970, quando comincia a scrivere i suoi Diari, Tarkovskij è già un uomo disilluso.  Il potere sovietico lo boicotta. I suoi progetti vengono quasi sempre bocciati, osteggiati,  boicottati.   Il regista è isolato dall’invidia dei colleghi, dalla ottusità della burocrazia,  dall’arroganza dei dirigenti statali.  Rivive su di sé la stessa amara frustrazione del padre Arsenij, grande poeta insignito dell’Ordine della Stella Rossa, la più alta onorificenza sovietica, per il suo eroismo durante la guerra contro i nazisti, che si vede rifiutare la pubblicazione del primo volume, nel 1946, con la motivazione che i versi tanto più sono talentuosi, tanto più “sono nocivi e pericolosi.”

E’ forse anche per sublimare questa frustrazione, e non soccombervi, che Andrej comincia dunque a stilare questi diari, che copriranno un arco di vita di sedici anni.  Si tratta di sette quaderni autografi, scritti in lingua russa, rilegati dallo stesso autore, che contengono anche schizzi e disegni, ma che soprattutto rappresentano una importantissima testimonianza del processo creativo, dei tormenti, delle crisi e della vita spirituale del grande regista. (1) 

(segue -1./) 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata

1.      I Diari di Andrej Tarkovskij sono stati pubblicati finalmente in forma completa nella accurata e meritevole edizione italiana con il titolo di Diari – Martirologio (1970-1986),  da Edizioni della Meridiana di Firenze,2002,  curati dal figlio del grande regista, Andrej A. Tarkovskij, tradotti da Norman Mozzato, sfruttando la imponente documentazione custodita dall’Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij che ha sede a Firenze, e con la collaborazione della Sovrintendenza Archivistica per la Toscana e dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze.  Le citazioni contenute nel testo, tratte dai Diari di Tarkovskij, fanno riferimento a questa edizione. 

16/10/13

Intervista al premio Nobel 2013 Alice Munro - di Irene Bignardi.





Dopo La vista da Castle Rock aveva giu­rato che non avrebbe scritto più. E il suo edi­tore ita­liano, per con­so­larci di non poter più con­tare sull’atteso perio­dico appun­ta­mento con i bel­lis­simi rac­conti di Alice Munro, la signora della short story, una delle grandi scrit­trici di que­sti due secoli, ha pen­sato bene di pub­bli­care una intensa, fre­schis­sima rac­colta del 1991, Le lune di Giove (Einaudi, pagg. 300, euro 19,00, tra­du­zione sem­pre impec­ca­bile di Susanna Basso).ù
Rac­conti acuti, dolo­rosi, su gente vera e nor­male, su fram­menti di vita impec­ca­bil­mente ricreati. Ma, dice ora mali­ziosa e rilas­sata la bella signora con i capelli bian­chi, «che non avrei più scritto era una grossa bugia». E per­ché ha men­tito, signora? «Pen­savo che fosse una buona idea. Pen­savo che la gente mi potesse essere grata per que­sto». E Alice Munro, cana­dese, anni set­tan­ta­sette por­tati con gra­zia estrema («ma se mi penso mi penso a qua­ranta, quando sei ancora capace di eser­ci­tare un’attra­zione ses­suale e hai tempo davanti a te»), autrice di un cor­pus rela­ti­va­mente pic­colo e molto accla­mato di opere, sor­ride, beve vino bianco e ricorda. 

«Sono nata nel 1931, durante la depres­sione. Non so come sia stata in Europa, ma nel Nord America è stata disa­strosa. Non era­vamo dispe­ra­ta­mente poveri. Era­vamo men­tal­mente poveri. Col­ti­va­vamo il nostro cibo, le nostre ver­dure. E nostro padre alle­vava volpi argen­tate. Allora erano molto alla moda. Se lei guarda le foto­gra­fie di Elea­nor Roo­se­velt aveva sem­pre una stola di volpe attorno al collo. Mio padre aveva sognato di diven­tare ricco con que­sta atti­vità, ma non ha avuto mai abba­stanza soldi per inve­stire, e non ci è riu­scito. Poi, durante la guerra, quel tipo di pel­licce è pas­sato di moda. Ed è stato costretto ad andare a lavo­rare in una fab­brica, in una fon­de­ria. Mia madre si è amma­lata molto gra­ve­mente di Par­kin­son ed è vis­suta per quasi vent’anni in que­sta condi­zione dispe­rata. E io, io ero la figlia più grande. E imma­gino che se fossi stata una brava figlia una volta finito il liceo sarei rima­sta a casa, con mia madre e mio fra­tello e mia sorella più pic­coli. Invece ho vinto una borsa di stu­dio e me ne sono andata. All’ uni­ver­sità. Per la verità non avevo abba­stanza denaro. Avevo soldi per tre anni e non per quat­tro. Dovevo tro­vare qual­che forma di lavoro. Ho avuto dei premi, ma non basta­vano. Così ho deciso che la cosa migliore da fare di fare era spo­sarmi». 

Scherza? Spo­sarsi per soprav­vi­vere? 
«No, ero anche inna­mo­rata. Sa, ai ragazzi della mia città non pia­cevo affatto, per­ché ero così strana, una che leg­geva sem­pre. Ma è suc­cesso che all’ uni­ver­sità ho incon­trato un ragazzo capace di accet­tare il mio modo di essere. Molti ragazzi ai miei tempi non pote­vano sop­por­tare che le loro donne si impe­gnas­sero seria­mente in un lavoro. Lui invece, Jim Munro, ne era feli­cis­simo, era deliziato da me, era molto bello, molto carino. Ho preso il suo nome e me lo sono tenuto per­ché è meglio del mio. Abbiamo avuto una bam­bina Sheila, poi una seconda bam­bina Cathe­rine, che è morta subito, poi una terza, Jean­nie, poi Andrea, che è nata nove anni dopo. Vive­vamo a Van­couver, nei sob­bor­ghi. C’ erano all’ epoca in Canada delle pic­cole rivi­ste e una radio che pro­muoveva la let­te­ra­tura nazio­nale. Ho comin­ciato a ven­dere qual­che rac­conto, ad essere cono­sciuta nei giri che si occu­pa­vano di let­te­ra­tura…»

La leg­genda di Alice Munro vuole che per le short sto­ries si sia ispi­rata alla Sire­netta di Ander­sen e per i romanzi a Cime tem­pe­stose. 
«Non ose­rei mai di scri­vere sul modello di Cime tem­pe­stose, è un libro unico. Ma è vero che La sire­netta ha avuto un influsso molto pro­fondo su di me. Si è con­dan­nata per amore, ha dato la sua anima per amore. E’ la donna ideale. Ed è vero, a me piace la tra­ge­dia. In genere si pensa che una scrit­trice donna debba scri­vere come Jane Austen. E Jane Austen è bra­vis­sima. Ma per qual­cuna della mia classe sociale non è inte­res­sante come le Bronte. Io non sono mai stata inte­res­sata alla società ben edu­cata. Volevo che la gente avesse dei destini tra­gici e grandi emo­zioni. Quando i bam­bini erano pic­coli ho letto come una dispe­rata, tutto, ma non sono mai stata influen­zata dai clas­sici del ven­te­simo secolo come Proust, Mann, la let­te­ra­tura nobile, sa, per­ché non capivo quel tipo di società. No, gli autori che mi hanno spinta a scri­vere sono Flan­nery O’ Con­nor, Car­son McCul­lers, Eudora Welthy, scrit­trici che rac­con­tano le pic­cole città, la povera gente. Il mio ter­ri­to­rio. Per­ché non solo ho avuto la for­tuna di nascere povera, ma di vivere in un paese che tratta i poveri con dignità»

Ci sono state anche altre influenze. 
«Quando avevo sedici anni, ho avuto un lavoro come came­riera, presso una fami­glia, durante le vacanze su un lago. Era­vamo in un posto molto iso­lato. Il padrone di casa mi ha dato da leg­gere le Sette sto­rie goti­che di Karen Bli­xen. E le ho amate mol­tis­simo, anche se poi più tardi ho pen­sato che non mi pia­ceva il suo punto di vista - quello di un’ ari­sto­cra­tica, e non solo, una che pen­sava che all’ ari­sto­cra­zia vanno riser­vati trat­ta­menti spe­ciali. Quando leggo una scrit­trice così penso sem­pre che nei suoi rac­conti io sarei la ragazza che sta in cucina. Ma è anche gra­zie a lei se ho sco­perto la bel­lezza della forma rac­conto - senza tut­ta­via mai cer­care di imi­tare quella prosa. E’ così facile il rischio di fare la paro­dia del bello stile»

Ma lei fa dello stile: la lin­gua che usa è ricca, pre­cisa, a volte per­sino pre­ziosa nella scelta les­si­cale. «E’ un fatto cana­dese. La lin­gua è rima­sta pro­tetta in una cap­sula che non è tanto cam­biata»

Dif­fi­cile, per una donna, scri­vere nel suo paese? 
«Non dif­fi­cile, quasi impos­si­bile. Ero una gio­vane moglie e madre. Gli uomini non mi pren­de­vano sul serio. Be’, vera­mente, alcuni sì. Per esem­pio Robert Wea­ver, l’uomo a cui devo quasi tutto, e che ora non c’è più. Diri­geva una rivi­sta, e non ha mai smesso di inco­rag­giarmi. Ma quando andavo agli incon­tri con gli altri scrit­tori, era un club maschile. E poi c’erano le loro mogli che non mi sop­por­ta­vano»

Per­ché era troppo bella? 
«Non mi sono mai con­si­de­rata bella. No. Per­ché ero donna e facevo il mestiere dei loro mariti. Le donne, allora, erano o mogli o orna­menti. Nes­suno mi pren­deva sul serio come scrit­trice. Ero lontana da tutto. Vivevo ai mar­gini. Scri­vevo sulle cose sba­gliate, non scri­vevo di guerra, di poli­tica - ed era ancora l’ epoca Heming­way»

Ed è uno stu­pendo con­trap­passo che lei oggi sia il nome più grande della let­te­ra­tura cana­dese. «Sì. Una stu­penda ven­detta». Per­ché si è eser­ci­tata soprat­tutto la forma della short story? 
«Per via del mio lavoro da casa­linga. Non ho mai avuto un anno in cui lavo­rare alla stessa cosa. Il mio lavoro era sem­pre inter­rotto. Non potevo nem­meno lon­ta­na­mente pen­sare a un romanzo»

Cin­que rac­conti di Le lune di Giove sono in prima per­sona. Siamo auto­riz­zati a pen­sare che sono molto per­so­nali? 
«Molto. Le lune di Giove è stato il quarto o quinto libro che ho scritto, ed era molto auto­bio­gra­fico: cose che ho vis­suto, per­ché non puoi scri­vere d’ amore senza aver avuto una certa quan­tità di espe­rienze d’ amore. O di sof­fe­renza»

O, come in L’inci­dente, dell’ azione del caso, del suo potere di scon­vol­gere e ridi­se­gnare le vite. «Non ho mai avuto un’ espe­rienza del genere, ma era impor­tante scri­vere quella sto­ria. E se in pas­sato ho capi­ta­liz­zato sulla mia vita, ora mi guardo mag­gior­mente in giro. Per esem­pio, sto lavo­rando adesso su una vec­chia signora che ho visto andare a farsi tin­gere i capelli di viola e di blu, ma che non ha nean­che un filo di trucco. Mi sono chie­sta: che cosa sta cer­cando, che cosa vuol pro­vare? E la mia fan­ta­sia si mette in moto. E poi parlo molto con la gente. Ascolto le sto­rie della comu­nità in cui vivo. Da qual­che anno sono tor­nata a vivere con il mio secondo marito in una pic­cola città, a trenta miglia da quella in cui sono cre­sciuta. Non scrivo diret­ta­mente sulla vita dei miei co­cittadini, ma mi incu­rio­si­sce come la orga­niz­zano - e la vita è sem­pre molto dif­fi­cile, è dif­fi­cile attra­ver­sarla ed essere felici»

Accet­te­rebbe la defi­ni­zione di pie­tas per il suo modo di guar­dare ai per­so­naggi dei suoi rac­conti? 
«O di com­pren­sione. O di capa­cità di per­do­nare i torti degli altri. Sì, se è pie­tas sapermi iden­ti­fi­care nella con­di­zione degli altri, nei loro com­por­ta­menti. Non scrivo così per­ché io sia par­ti­co­lar­mente buona. Ma per­ché posso imma­gi­nare che io stessa, in certe con­di­zioni, potrei com­por­tarmi in maniera diso­no­re­vole». 

Lei è molto amata e letta, ma i suoi rac­conti non sono certo con­so­la­tori o tran­quil­liz­zanti, sca­vano, fanno sof­frire. 
«Credo che la gente legga le mie sto­rie per le stesse ragioni per cui io le scrivo. Per­ché non cerco lo happy ending, per­ché scrivo per un momento di choc, di stu­pore, di rive­la­zione - ciò che rende la vita appas­sio­nante per me. E se rie­sco a susci­tare negli altri que­sto effetto, è mera­vi­glioso. Lo so, parlo di cose dif­fi­cili, di sof­fe­renza, di come si soprav­vive alla sof­fe­renza». Di Le lune di Giove, il rac­conto che dà il titolo alla rac­colta e che ha al cen­tro la figura di suo padre, col­pi­sce il suo rap­porto con la vec­chiaia. «Non ho mai avuto paura della vec­chiaia, ma ora, a set­tan­ta­sette anni, sento che il tempo si sta chiu­dendo. E ho un po’ paura delle cose che pos­sono suc­ce­dere. Di quello che ho visto suc­ce­dere agli altri. Non c’ è che una cosa da fare. Stare più attenta che in pas­sato a come uso il tempo che mi è con­cesso. Voglio usarlo al meglio. Magari - sor­ride - per scri­vere». 

Intervista di Irene Bignardi,  Repubblica 5 marzo 2005

15/10/13

"Pasolini e Roma" - Una grande esposizione alla Cinematheque francese di Parigi.




Pasolini e Roma, un legame inscindibile e un rapporto di scambio tra il regista, sceneggiatore, poeta e scrittore, nato a Bologna il 5 marzo 1922, uno dei maggiori artisti e intellettuali del XX/o secolo, ma anche il piu' "scandaloso e controverso", e la capitale italiana (dove si e' trasferito dal 1950 fino alla morte nel 1975). E' il tema dell'ampia e ricca esposizione che si apre domani alla Cinematheque francaise di Parigi (fino al 26 gennaio) organizzata in collaborazione con il Centro de cultura contemporanea di Barcellona (dove e' stata in cartellone fino al 15 settembre), il Palazzo delle esposizioni di Roma (in cui fara' tappa dal 3 marzo all'8 giugno 2014) e il Martin-Gropius-Bau di Berlino (in mostra dall'11 settembre 2014 al 5 gennaio 2015). Gli archivi di Bologna e Firenze e l'Istituto Luce, con il contributo della cugina di Pasolini, Graziella Chiarcossi, custode dell'eredita' letteraria del maestro, hanno messo a disposizione lettere autografe, sceneggiature, foto, film, documenti inediti, libri, locandine, dipinti, disegni e oggetti personali e intimi. 

Il percorso espositivo di 'Pasolini-Roma' e' cronologico e la voce di Pasolini accompagna il visitatore attraverso le varie sezioni che sono anche i luoghi della capitale che il maestro frequentava.

"La mostra - dice il direttore della Cineteca, Serge Toubiana - cerca di rendere conto dell'importanza e della complessita' dell'uomo attorno a un tema preciso, Roma vista attraverso lo sguardo Pasolini: i film, le amicizie, i suoi lavori come l'incarico di professore in un liceo di Ciampino, le case in cui ha abitato. Pasolini si e' impregnato di questa citta' per ridipingerla a suo modo".

Si parte con il suo arrivo in "una casa di poveri" nella periferia di Roma dal Friuli, quindi l'appartamento in via Fonteiana 86, nel quartiere di Monteverde, dove porta a compimento il suo primo romanzo 'Ragazzi di vita', quello in via Giacinto Carini 45, dove visse dal 1959 al 1993, nello stesso palazzo di Bernardo Bertolucci, il quale e' diventato poi il suo assistente, e poi l'ultima residenza in Via Eufrate e la trattoria di Ostia dove ha cenato prima di essere assassinato. Nel mezzo vari flash back: Piazza del popolo e il bar Rosati dove era solito incontrare gli amici, Elsa Morante, Alberto Moravia e Laura Betti, la collaborazione con Fellini sul set de 'Le notti di Cabiria'. Ma anche le frequentazioni con Ungaretti e Calvino, i viaggi a New York, Parigi e in Africa, la relazione professionale e di profonda amicizia con Ninetto Davoli (presente all'inaugurazione della mostra che lo ricorda con grande affetto e fierezza), le sue 33 denunce e l'accanimento della giustizia nei suoi confronti, tra l'altro, per vilipendio alla religione con il film 'La ricotta', per una presunta tentata rapina ai danni dell'addetto a un distributore di benzina, per censurare 'Accattone' e per le parolacce in 'Mamma Roma'. Ci sono anche estratti e sceneggiature di film (in programma nella sala della Cinematheque fino al 2 dicembre) da 'Accattone' (1961), a 'Il vangelo secondo Matteo' e 'Comizi d'amore' (1964), 'Uccellacci e uccellini' (1966), 'Teorema' (1968), 'Medea' (1969), 'Salo' e le centoventi giornate di sodoma' (1975). Tra le novita' della mostra un percorso virtuale sulla Roma di Pasolini disponibile sul web. Oltre a spettacoli, letture, giornate di studi. Persino due stazioni della metropolitana parigina dedicate a Pasolini.

"Questa esposizione non e' assolutamente commemorativa, Pasolini non deve diventare un monumento - spiega il curatore francese, Alain Bergala -: Pasolini non e' morto, il suo pensiero non e' morto". "Nel XX/o secolo gli artisti che hanno meglio interpretato o incarnato Roma non erano romani, salvo due eccezioni, Roberto Rossellini e Alberto Moravia - ricorda anche Gianni Borgna -. Pasolini, bolognese e friulano, fa cadere il velo che nascondeva la Roma di periferia. Nei suoi romanzi e film mostra un'altra Roma, a tal punto che si puo' dire che c'e' una Roma prima e dopo Pasolini".


14/10/13

Bauman a Milano: La felicità non è evitare i problemi, la felicità è superarli.




"Devo deludervi, non sono un guru", ha esordito Zygmunt Bauman, aprendo il suo intervento milanese a Meet The Media Guru: "non vi dirò come condurre la vostra vita". La conferenza di Bauman, uno dei maggiori pensatori viventi, ha toccato molti aspetti centrali della nostra condizione di esseri umani, a cominciare dal rapporto con la vita digitale. Secondo il sociologo, la nostra esistenza ha conosciuto, con la rivoluzione digitale, l'impatto con una divisione, quella tra online e offline, che ci ha imposto di vivere allo stesso tempo in due differenti dimensioni. In questo contesto, i bambini incontrano Internet ormai già a 4 anni e crescono senza nemmeno poter immaginare che la connessione al Web possa non esserci, tanto il nostro rapporto con la vita online è diventato stretto. La Rete, per Bauman, è parte del progresso, ma porta con sé anche un numero di "perdite collaterali". L'automatizzazione del lavoro, ad esempio, causa diminuzione di posti di lavoro "umani" sia nell'industria pesante che nel lavoro intellettuale, ha puntualizzato Bauman: "i server stanno immagazzinando la nostra conoscenza e la nostra capacità di memorizzare sta scomparendo".

Per esemplificare questa dicotomia tra guadagno e perdita dovuta al progresso, Bauman ha citato Mark Zuckerberg e l'incredibile successo di Facebook: il social network ha intercettato la nostra paura di non essere visti ed essere soli e ha fondato il suo successo sull'allontanamento di questa paura: "il fondamento delle relazioni online è la soddisfazione", ha specificato Bauman, "e le relazioni diventano estremamente fragili". Facebook ci dà un "gadget" che ci fa credere di poter incontrare 500 amici in un giorno stesso, "io non sono riuscito a farne altrettanti in 80 anni di vita", ha scherzato Bauman. "Il problema con Facebook e gli altri social network è che promettono esattamente quello che il progresso promette: rendere la nostra vita più semplice". Questo meccanismo si presenta anche nella gestione delle relazioni umane e sentimentali. Per Bauman, i social media servono, ad esempio, a rendere semplice la conclusione della relazione con un'altra persona, superando le dinamiche del mondo "offline". Ma siamo davvero felici di questa possibilità? Per Bauman la risposta è no: "la felicità non è evitare i problemi, la felicità è superarli".

La Rete, però, nella visione di Bauman porta con sé anche vantaggi, come la disponibilità quasi infinita di conoscenza: "con un click, Google ci presenta due milioni di risposte, un numero che non potremmo consultare nemmeno in tutta la nostra vita". Anche questo aspetto, però, ha un prezzo: l'impazienza e la perdita della capacità di conservare conoscenza "dentro di noi". Sono i server a conservare il nostro sapere, noi possiamo solo consultarlo e questo "avrà un effetto negativo sulla nostra creatività".

Per Zygmunt Bauman, Internet ci fa vivere "senza rischi", consentendoci di relazionarci solo con persone che la pensano come noi e condividono il nostro punto di vista: "le persone diventano così nostri specchi", ha spiegato Bauman; in caso contrario, "clicchiamo il tasto 'delete' e passiamo a un altro sito". Ma come uscire da questa condizione? Per l'autore della "vita liquida" una risposta è piuttosto ovvia: "parlando gli uni con gli altri e dimostrando interesse nel dialogo" per mantenere vivo l'interesse nei confronti di chi la pensa in modo diverso, evitando opinioni preconcette. La seconda soluzione è "essere aperti", dando inizio a un dialogo tenendo viva la possibilità che le nostre opinioni possano essere sbagliate. La terza possibilità è la cooperazione: "il dialogo non deve servire a far prevalere il nostro ego", ha spiegato Bauman, "perché nel dialogo con il diverso non devono esserci né vincitori, né vinti". Queste "arti" sono messe a repentaglio da Internet, nella visione di Bauman. Allo stato delle cose, riscoprire queste capacità di dialogo nei confronti del diverso è una questione "di vita o di morte" per il nostro futuro perché, ha chiosato Bauman, "Il futuro non esiste, il futuro va creato".