20/03/12

Pasolini, il professore a Ciampino a cui non passavamo la palla. Di Vincenzo Cerami.



Ho avuto Pier Paolo Pasolini come insegnante di Lettere alle scuole medie, dalla prima al secondo trimestre della terza, quando venne a sostituirlo il cugino Nico Naldini, anche lui poeta. Siamo nei primi anni Cinquanta, quando la terra italiana ha ancora la faccia di mille anni prima. 

La scuola, un minuscolo istituto privato, stava a Ciampino, non lontano dalla chiesa ed era intitolata a Francesco Petrarca. La gestiva una giovane coppia di insegnanti, marito e moglie, Anna e Gennaro Gullotta. Dalle finestre della nostra classe potevamo intravedere, tra le piccole case, alcune in vago stile liberty, la grande costruzione del Sacro Cuore di Gesù, un ex collegio distrutto dai bombardamenti e popolato di sfollati, quasi tutti provenienti da Cassino, dalle zone disastrate dalla guerra e dalla miseria. 

Nel taglio dei nostri sfilatini, le mamme mettevano la pastasciutta avanzata la domenica, oppure olio e sale. Malgrado tanti stenti non mancavano l’allegria e la speranza del futuro. 

L’aeroporto di Ciampino era internazionale e dalle recinzioni in ferro spinato potevamo ammirare i progressi dell’aeronautica. Nel giro di pochi anni ho visto apparire e scomparire i Dakota, i Vampire, i Constellation, fino all’irruzione dei turboelica, degli F84, del Comet (primo aereo di linea a reazione). Tutti segnali che dicevano a noi ragazzini con le scarpe bucate e le magliette tinte, che si poteva guardare avanti con fiducia. 

Infatti molti dei miei amici di classe non facevano in tempo ad iscriversi alle superiori che venivano chiamati a lavorare dalle aziende o anche dalle compagnie aeree. Proseguivano gli studi i più sfortunati o i figli dei piccoli borghesi che puntavano a salire la scala sociale in grazia del pezzo di carta. 

In quell’eremo campagnolo, tra macerie e crateri aperti dalle bombe, a 14 chilometri da Roma, paracadutato dal Friuli, il destino ha fatto arrivare un professore di 29 anni, a insegnare italiano, latino, storia e geografia, povero come noi, malgrado l’obbligo di giacca e cravatta, non importa se sgualcite e consumate. 

Solo che aveva una voce dolcissima e un sorriso timido, e, al contrario degli altri insegnanti, sapeva dare calci al pallone come un professionista. Era maestro anche nei tiri in porta, sempre di collo pieno. La prima cosa che abbiamo scoperto è che il Friuli stava in Italia. E poi che a scuola si va per diventare grandi insieme. Conoscersi era per Pasolini il passo necessario alla scoperta del mondo. Quando, in un mio momento difficile, gli chiesi: «Scusi, professore, ma cosa dovrò fare per stare bene nella vita», lui, dopo un attimo, mi rispose: «Basta che non fai quello che fanno tutti!». Fu per me la frase meno ideologica che abbia mai ascoltato. 


19/03/12

Il silenzio di lei - di Fabrizio Falconi





Il silenzio di lei

La Verità esiste solo perché tu la cerchi.

Non dissipare il cerchio del vapore
che lentamente disegna intorno a te
un bersaglio, non preservare le prove
non aspettare che il fiore cada
dai capelli, che il miscuglio di tenerezza
e ostentazione avvampi sul ciglio del tuo volto.

Canta ancora, nelle notti di polvere orientale
il disinteressato mormorio della ragione
che ti guida, come la luce del porto un levantino;
che possiedi, come il profumo che s’ apre
dal ventre di un’orchidea, consisti ancora
nel proposito di un giorno, nella paternità
dell’ardua sfida che chiamano: idea.

Nulla sanno di te i pallidi coscritti che scendono
dai treni del nulla d’occidente, nulla possono
prendere di te, i finti cocchieri della potenza,
memori di illusioni finite, profeti del gorgo
della distruzione, tu non appartieni a loro
e nessuno possiede il silenzio tragico
che di notte, dolcemente, ti culla.

La Verità esiste e tu nel vento insonne, la cerchi.  



Fabrizio Falconi  © -   riproduzione riservata  29 maggio 2009

17/03/12

La poesia della domenica - 'Quando un uomo arriva ai quarant'anni' di Evgenij Evtusenko



Quando un uomo arriva ai quaranta

Quando un uomo arriva ai quaranta
è tempo ormai che si domandi
se l'anima è decrepita;
e che risponda agli anni suoi,
ad ogni gocciola di latte,
a ogni tozzo di pane.

Quando un uomo arriva ai quaranta
non trova più misericordia
né in se stesso né in dio.
Tutti i pianti che ha cagionato
e i mocci bugiardi d'inchiostro
gli si parano a fianco.

Quando un uomo arriva ai quaranta
alla sua sete di piaceri
deve porre un divieto:
ché se non la vinci, la carne
borboglia, si lecca le labbra
e ti divora l'anima.

E poi le carni son spavalde
quando t'insudici di bava
come un falso Cristo.
Hai un romanzetto, un altro... E poi ?
Restano solo donne nude,
come in un bagno, e nebbia...

E lo scopo è chiaro e la vita
è un ebbrezza, fino ai quaranta:
ma a quarant'anni poi devi smaltirla.
E la testa diventa greve.
Le parole non si congiungono.
Traslochi in una fossa.

Prima che giungano i quaranta
galoppi alla fiera a pigliare
per le corna il successo,
e a quarant'anni torni a piedi
da quella fiera, e il sacco è vuoto.
Ti han derubato: piangi.

Quando un uomo arriva ai quaranta
deve darsi il saggio consiglio
di evitare le fiere.
Non può imbrogliare più, né vendere.
Questa è una legge del commercio...
Se imbroglia, è lui che compra.

E ancora peggio se nitrisci,
tremando, in mano a un mercante
mangiapopoli e tirchio.
Son due vergogne equivalenti
quando commerci e quando un altro
fa commercio di te.

Quando un uomo arriva ai quaranta
la vita lo dipinge in grigio,
ma se non sei un sauro,
sii almeno un bel grigio pezzato:
e non smerciare le tue pezze
nei giorni di mercato.

Quando un uomo arriva ai quaranta
il mondo, in fondo non è tutto
nel chiasso di una fiera...
Son tutti avanti: abbi pazienza.
Ma non cascar nella commedia,
non perderti in un dramma!

Quando un uomo arriva ai quaranta,
se deve avvizzire o sbocciare
sarà lui a deciderlo.
Dalla morte non ci si salva,
ma, a parte questo, di fiorire
nessuno ci impedisce.

1972

Evgenij Evtusenko, da Poesie 1952-1973 Ediz. Garzanti 1982, traduzione dal russo di Igor Sibaldi.

16/03/12

Downton Abbey - Le vite, i destini.




E' facile comprendere perché
Downton Abbey, la serie televisiva BBC scritta da Julian Fellowes abbia fatto man bassa di tutti i premi possibili, negli ultimi due anni.

Non si riescono a trovare difetti a quest'opera - giunta alla seconda stagione, ma è già in cantiere la terza serie per la gioia degli aficionados di mezzo mondo - compiuta, realizzata con standard qualitativi inimmaginabili per la gran parte dei prodotti di fiction pensati e realizzati oggi, non soltanto per la televisione ma anche per il cinema. 

Attori eccellenti - su tutti Jim Carter, che interpreta il vecchio maggiordomo e la mitica Maggie Smith nel ruolo della nonna, matriarca della famiglia Crawley, conti di Grantham - ricostruzioni di scene e costumi minuziosi fino al più piccolo particolare, sceneggiatura impeccabile, senza cadute o forzature, regia non convenzionale, scrittura dei dialoghi mai banale, all'altezza anzi di un vero grande romanzo letterario (si è appresa e studiata la lezione di Henry James). 

Julian Fellowes è l'autore di Gosford Park, l'ultimo grande film di Robert Altman e il copione di Downton Abbey ripete le orme di quello del film:  una grande casa nobiliare della Vecchia Inghilterra dentro la quale si intrecciano le vicende della famiglia possidente (padre, madre, tre figlie femmine e vari parenti al seguito) e quelle della numerosa servitù che vive all'ombra dei ricchi proprietari.

Ha molto da dire, Downton Abbey perché le cose che ci racconta sono propriamente le cose umane: le ambizioni e i rimpianti; le incapacità dei caratteri, le bassezze, le piccole meschinità del cuore, che sempre rendono amara la vita propria e quella degli altri; i gesti di generosità gratuita, le qualità umane, i dolori, le sofferenze taciute e quelle manifeste; soprattutto la velleità di orientare la propria vita alla radice di un senso, che è quello di una eterna ricercata (e continuamente perduta) pienezza.

Downton Abbey - è stato fatto notare, inevitabilmente - ha riscosso così unanime consenso perché ci riporta ad un'epoca in cui la vita e i destini individuali sembravano ancora obbedire a regole condivise, a forme di convivenza che promettevano ordine e restituivano un senso.

Un mondo che nel Novecento ha conosciuto una crisi fortissima, una vera e propria catastrofe.

Non è un caso che le vicende di Downton Abbey prendono avvio alla vigilia del Primo Conflitto Mondiale, che segna proprio la linea di discrimine tra classicità e modernità, la fine di un mondo ormai decaduto e decadente e la nascita - catastrofica - di un 'nuovo mondo'. 

Quei personaggi di Downton Abbey parlano a noi. Parlano di quel che eravamo e di quel che siamo diventati.  Perché ciò che eravamo è ancora dentro di noi. E per comprendere ciò che siamo oggi non possiamo e non potremmo mai smettere di interrogarci su quel che eravamo.

15/03/12

Maupassant lo scrittore più venduto in Francia (quasi 4 milioni di copie in 8 anni) - un solo italiano in classifica, Primo Levi.


La notizia non può che farmi piacere, vista la mia passione per il grande Maupassant. Ecco il dettaglio:

Guy de Maupassant superstar nelle librerie francesi. Spetta infatti all'autore di "Bel-Ami" e "Una vita" il palmares delle vendite tra gli scrittori di lingua francese. 

Dal gennaio 2004 al gennaio 2012 Maupassant ha venduto complessivamente quasi 3,8 milioni di copie (per la precisione 3.790.000). 

Nello stesso periodo secondo posto per Molière, che con le sue celebri commedie, da "L'avaro" a "Il misantropo", ha venduto 3.400.000 di copie. 

Poco meno di 3 milioni di esemplari per il terzo posto conquistato da Emile Zola (2.900.000), per il quarto di Albert Camus (2.810.000) e per il quinto di Victor Hugo (2.710.000). 

Sono questi i risultati di un'indagine di "Le Figaro litteraire", pubblicata oggi dal quotidiano parigino, realizzata con la collaborazione di Gfk, che per la prima volta propone "la classifica dei classici" sulla base delle vendite effettive nelle librerie in Francia nell'arco di un periodo di otto anni. 

"E' la prima volta che accade: nessuno finora aveva valutato il numero reale delle copie vendute dai nostri autori classici", sottolinea il supplemento letterario del "Figaro", ricordando come nella comune convinzione degli specialisti Marcel Proust (38/esimo in classifica con 790.000 copie) sembrava uno tra i piu' richiesti, Alexandre Dumas (27/esimo con 980.000) appariva incrollabile sul suo trono e Antoine de Saint-Exupery (ottavo con 2.310.000) con il suo "Piccolo principe" si diceva il piu' venduto in assoluto. 

Il primo ed unico autore italiano nella classifica dei 50 classici piu' venduti e' Primo Levi, trentesimo con 930.000 copie. 

 Dalla classifica esclusiva realizzata da "Le Figaro" insieme a Gfk emerge un podio di 50 autori classici, tra francesi e stranieri di tutte le categorie mescolate (romanzi, saggi, teatro e poesia) dove non mancano sorprese. 

Il primo scrittore straniero per numero di copie vendute si piazza al sesto posto, ed e' la regina del giallo, l'inglese Agatha Christie (2.650.000), che sopravvanza nettamente il campione del giallo alla francese, Georges Simenon, il padre del commissario Maigret, che conquista solo la 26/esima posizione (990.000). 

Al settimo posto arriva l'austriaco Stefan Zweig, autore dell'autobiografico "Il mondo di ieri" e di biografie di illustri personaggi, che in Francia risulta molto amato, visto che in otto anni e' riuscito a vendere ben 2.510.000 esemplari, qualcosa come 200.000 copie in piu' rispetto all'amatissimo Saint-Exupery e oltre 300.000 copie in piu' di Voltaire (nono posto con 2.200.000), sommo filosofo dell'Eta' dei Lumi. 

Per trovare un altro filosofo bisogna arrivare al quattordicesimo posto con Jean-Paul Sartre (1.320.000). Decimo classificato Honore' de Balzac (2.020.000). La classifica vede poi William Shakespeare (1.510.000), George Orwell (1.350.000), Jules Verne (1.330.000), Charles Baudelaire (1.280.000), Jean Anouilh (1.240.000), Boris Vian (1.230.000), Eugene Ionesco (1.230.000), JR Tolkien (1.200.000), Gustave Flaubert (1.190.000), Robert Louis Stevenson (1.180.000). 

14/03/12

Dove è andato quel che ho vissuto (e che non ricordo)?



Qualche settimana fa mi è capitata una strana cosa.

Un mio parente ha ritrovato un vecchio super-8 di famiglia girato nel 1970.  Lo ha trasformato in supporto digitale e messo a disposizione di noi, che all'epoca eravamo poco più che bambini, i cui volti sono rimasti impressi in quella vecchia pellicola.

E' una giornata normale, deve esserci stata qualche cerimonia, la famiglia si è riunita al mare.  Non è inverno e non è estate. Deve essere una giornata come quelle che stiamo vivendo, di primavera prematura e già calda.

La 'pizza' del film dura 3 minuti, ma è un documento molto chiaro. 

E però la particolarità è questa, e mi fa riflettere: riemerge dall'oblio una giornata della mia vita, che io non ricordo assolutamente di aver vissuto. 


Fino al momento prima di vedere quel film, infatti, io non ho minimamente memoria di quella giornata, che pure ho vissuto, come dimostra incontrovertibilmente il filmato girato.

Sono io quel bambino che cammina, si gira, si tocca i capelli. Sono io quello che siede e ascolta i discorsi dei grandi. Sono io, certamente.

Eppure, se questo filmato non fosse riemerso dalle tenebre, io non avrei saputo nemmeno di aver vissuto quella giornata.   Perché la mia memoria ha cancellato quella giornata, come ha cancellato la stragrande maggioranza delle singole giornate che io ho vissuto nella mia vita.

Eppure, come dimostra questo filmato, quelle giornate esistono. O meglio, sono esistite.  Sono esistite ed esistono, a quanto pare, anche se io non le ricordo, e anche se nessuno le ricorda.

Esistono davvero  ?  Non appare in contraddizione questa esistenza, con la constatazione che spesso facciamo secondo cui qualcosa esiste solo finché c'è qualcuno o qualcosa che ne è testimone e che lo ricorda ? 


Oppure i ricordi e le cose che abbiamo vissuto esistono indipendentemente dal fatto che io le ricordi e che qualcun altro le ricordi ? 


Le moderne teorie quantistiche descrivono il tempo come una quarta dimensione della realtà che viene descritta come un foglio ripiegato in infinite (e inaccessibili) sottili piegature (stringhe) che sarebbero allineate una accanto all'altra (o dentro o attraverso l'altra).

Questo darebbe la possibilità - teorica - di srotolare quelle pieghe e di 'disporre' dei singoli momenti del tempo come singole entità TUTTE esistenti.

Dunque, quella giornata che io non ricordavo, esiste ancora, in qualche piega dell'universo ?

In quella piega ci sono ancora io bambino che ascolto i discorsi dei grandi seduti al tavolino ?

Il breve filmato dal ritmo sincopato che è tornato dal buio del passato, vuol forse dirmi questo ? Vuol dirmi che niente, in fondo, fino in fondo, è definitivamente perduto (anche se io non ne ho memoria, anche se io l'ho... dimenticato) ?


13/03/12

"Quel primato degli umili che rovesciò il mondo. Perché la predicazione di Gesù si distingue da tutte le altre" di Pietro Citati.



Un bellissimo articolo oggi, di Pietro Citati, sul Corriere della Sera. Eccolo: 


In quel tempo Gesù rispondendo disse: «Io ti glorifico, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così piacque al tuo cospetto. Ogni cosa mi è stata rivelata dal Padre mio. E nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete affaticati e gravati, e io vi ristorerò. Prendete su voi il mio giogo, e imparate da me, poiché io sono mite e umile di cuore. E troverete ristoro per le vostre anime. Poiché il mio giogo è soave e il mio peso è leggero.
(Vangelo di Matteo 11,25-30; i primi versetti sono, quasi nella stessa forma, nel Vangelo di Luca, 10, 21-22) 

Il frammento del Vangelo di Matteo, che vorrei commentare, comincia con una nota solenne. «Io ti glorifico, Padre, Signore del cielo e della terra»: vale a dire, io confesso il mio peccato, e insieme ti lodo, ti ringrazio, ti esalto, invoco il tuo nome, professo la mia fede in te, ti prometto solennemente come tu mi prometti. In queste parole risuona l'eco di un passo di Enoc: «In quel giorno, tutti ad una voce cominceremo a lodare, esaltare, glorificare, magnificare nello spirito della fede, della sapienza, della misericordia, della giustizia, della pace e della bontà, e tutti quanti diranno con una sola voce: "Lodatelo, e il nome del Signore degli spiriti sia glorificato per ogni eternità"». 

Questa solenne glorificazione promette, a tutti quanti confessano che Gesù è il Signore, la salvezza alla fine dei tempi. Perché il lettore di Matteo glorifica Dio con queste parole solenni? La spiegazione potrebbe essere molto semplice: egli glorifica Dio perché ha creato l'universo, o perché è buono, o perché ci soccorre, o perché ci ama. In realtà, il testo dice tutt'altro: Dio ha nascosto qualcosa (che per ora resta indeterminato) agli uni e lo ha rivelato agli altri. Se ci chiediamo chi sono gli uni, penetriamo di colpo nel cuore del paradosso cristiano. Gli uni, ai quali la rivelazione viene nascosta, sono i sapienti e gli intelligenti, cioè i maestri professionali di sapienza e di cultura, che specialmente l'ebraismo ha tanto esaltato, e tutti i sapienti e gli intelligenti che nei secoli cristiani educheranno i popoli e i re, e pretenderanno di conoscere, essi soli, il vero segreto della realtà e della verità. San Paolo insiste con grandioso estremismo: «Disperderò la sapienza dei sapienti e renderò vana l'intelligenza degli intelligenti», sviluppando un passo di Isaia. 

Con queste parole, la storia del mondo è rovesciata: la luce non illumina più chi dovrebbe ricevere e diffondere la luce in tutto il mondo. Né sapienti né intelligenti: il cristianesimo ha sempre avuto scarsa tenerezza per loro, se non ricevono dal cielo un altro dono. A chi va dunque la rivelazione? Con immenso scandalo del mondo greco-latino, Gesù risponde: ai népioi. Nel greco classico népioi significa: i bambini, i figli, i figli degli animali, gli indifesi, gli stolti, gli inesperti, coloro che mancano di discernimento e non comprendono né la realtà né la volontà degli dei né i segni del destino. 

11/03/12

La poesia della Domenica - 'Te' di Erich Fried


Te


Te
lasciarti essere te
tutta intera

Vedere
che tu sei solo
se sei
tutto ciò che sei
la tenerezza
e la furia
quel che vuole sottrarsi
e quel che vuole aderire

Chi ama solo una metà
non ti ama a metà
ma per nulla
ti vuole ritagliare a misura
amputare
mutilare

Lasciarti essere te
è difficile o facile ?
Non dipende da quanta
intenzione o saggezza
ma da quanto amore e quanta
aperta nostalgia di tutto -
di tutto
quel che tu sei

Del calore
e del freddo
della bontà
e della protervia
della tua volontà
e irritazione
di ogni tuo gesto
della tua ritrosia
incostanza
costanza

Allora
questo
lasciarti essere te
non è forse
così difficile

Erich Fried (Vienna, 6 maggio 1921 - Baden Badem 22 novembre 1988) - da 'E' quel che è", (poesie d'amore, di paura, di collera), Einaudi, 1983. 

10/03/12

Petrology - I dipinti di Justin Bradshaw nella mostra del 2005 (con Fabrizio Falconi)


PETROLOGY
dipinti di Justin Bradshaw
con poesie di Fabrizio Falconi
introduzione al catalogo
di Fabio Galadini
Sala delle Capriate
Roma
16 Novembre - 4 Dicembre 2005

Uno dei lavori più stimolanti che mi è capitato di fare è stato per la mostra Petrology, realizzata insieme a Justin Bradshaw, artista inglese che vive ed opera da molti anni in Italia. 

Ritengo la tecnica e la cura nell'arte - intesa anche come pensiero - di Bradshaw una continua fonte di stimolo.  Dopo questa Mostra, inaugurata al Chiostro del Bramante di Roma, nel 2005 il cui catalogo è consultabile qui, la nostra collaborazione è proseguita con l'allestimento di Zodiac,  alla Chiesa di Santa Croce di Tuscania, nel 2007. 

Ora, Justin ed io abbiamo in cantiere un nuovo progetto che presto vedrà la luce. Si tratta della realizzazione di un'opera - dipinti tratti dai nuovi studi di Bradshaw sul Giardino e miei testi, Trio di fine Millennio (parzialmente inedito) - fruibile e scaricabile direttamente on line, nell'applicazione Kindle/Amazon.  Ne riparleremo presto.  





09/03/12

Che cosa ci lascia una madre - di Massimo Gramellini.


Questa lettera, e la risposta che segue - di Massimo Gramellini - comparve nella rubrica 'Cuori allo Specchio', del settimanale de La Stampa 'Lo Specchio', molti anni fa. 

L'ho finalmente ritrovata, e voglio riportarla qui per voi, amici. 

Questa lettera è un po' atipica in quanto non parla di amori persi, di tradimenti o di quant'altro può accadere nella vita di un individuo nel momento in cui si trova a relazionare col sesso opposto.  Questa lettera parla di un rapporto particolare, di un rapporto finito prematuramente in una stanza di un ospedale, parla di mia madre.     Ho 39 anni, sono sposato(felicemente) e avevo una mamma stupenda di soli 20 anni più vecchia di me. Una neoplasia mammaria me l'ha portata via e da allora la mia vita è diventata un  film in bianco e nero.     Da lei ho imparato ad amare i Rolling Stones (un po' meno i Beatles), Lucio Battisti e il mio prossimo.  Mia madre mi ha insegnato a stare bene in mezzo alla gente, a portare rispetto per i più deboli e a imparare a non soffrire per la sordità e la cecità del mondo nei confronti di noi romantici.  Ho lavorato tutta la vita in fabbrica, ho amato profondamente mio padre, ho curato mio nonno e già malata terminale di cancro ho assistito comunque mia nonna per due mesi, prima che lei spirasse.   Dopo  il decesso di mia nonna si è chinata su di lei e le ha sussurrato nell'orecchio: "grazie di tutto." Tre mesi dopo è mancata anche lei. Era un mattino di sole e mi ha detto all'orecchio con un filo di voce: " non mollare mai, sei in gamba, ed è stato un onore per me averti come figlio."  Mentre Le sto scrivendo sto piangendo, ma ho il cuore spezzato e non riesco a riprendermi.   E' troppo dura da mandare giù. Voglio rivolgermi a Lei in questo momento di estremo dolore in modo che la sua saggezza e la sua preparazione riescano in parte a colmare questo enorme vuoto.   
Gabriele

Non sono né saggio né preparato, Gabriele. però sono orfano anch'io. Dall'età di nove anni. E lettere come la sua hanno ancora il potere di turbarmi, persino in un'epoca che ha trasformato le emozioni in un genere televisivo, in una marmellata indistinta e insapore che ci ha reso tutti inappetenti. 

Dieci anni fa, e ne avevo già 30, non parlavo volentieri di mia madre con nessuno, nemmeno con me stesso.  E dieci anni prima, a 20, negavo inconsciamente che fosse morta, nascondendone le foto in un cassetto. Se ora riesco addirittura a scriverne in un giornale è perché ho accettato il mio dolore e ho perdonato tutti.    Lei per essersene andata così presto e Dio per essersela presa:  a 43 anni, dopo una vita che non fu purtroppo diversa da quella di Sua mamma. 

La mia era orfana di padre e durante la guerra, all'età in cui oggi le adolescenti raccontano a Cuori allo Specchio i primi raffreddori sentimentali, lavorava in fabbrica sotto le bombe per aiutare mia nonna a mantenere quattro fratellini più piccoli.
Era bionda, sbadata, emotiva, buffa come me.  Era altruista e disponibile con tutti, un termosifone sempre acceso a temperatura costante, come io vorrei essere e non sono.
Se fosse sopravvissuta al tumore che la portò via durante le vacanze di Natale, proprio come Sua madre, io oggi sarei probabilmente un avvocato (era la sua previsione: "con quella parlantina!") perché il giornalista era un mestiere troppo aleatorio per un'apprensiva come lei e forse non ce l'avrei fatta a darle un simile dolore.

La invidio, Gabriele, per non aver pronunciato nella Sua lettera, la più ovvia delle recriminazioni: come mai una donna così buona se n'è andata così giovane ?
Certo non ha lasciato nel nido un pulcino spaurito, ma un adulto al quale aveva fatto in tempo ad insegnare ad amare il prossimo, Battisti e i Rolling Stones: l'essenziale insomma.  

Però morire a 59 anni, quando si ha il cuore grande di Sua madre, resta un'ingiustizia inconcepibile. 
Ci salva solo la consapevolezza che questa vita abbia un senso e che il suo senso sia: allenarsi.
Col sorriso sulle labbra, se si può. Ma la vera goduria non può che essere altrove. Lo chiami paradiso o come le pare. Noi siamo qui per prepararci.  Ma non ci troviamo tutti allo stesso livello. Alcuni sono più avanti col programma e gli serve meno tempo per prendere il "tagliando" e spiccare il volo.   Chi è già angelo da giovane non ha bisogno di diventare anziano.  Non sempre, almeno, perché altrimenti si dovrebbe concludere che solo i cattivi invecchiano e non è vero. 

Meglio metterla così: ognuno ha un suo progetto da compiere in questa vita, e le nostre madri hanno esaurito il loro più rapidamente di altri. Perché era più breve, o perché erano più brave.  

Rimaniamo noi figli, con un carico di ricordi che nel Suo caso, per fortuna, è superiore ai rimpianti.  

Mi è stato detto che l'ultimo gesto che mia madre compì, la notte in cui perse definitivamente conoscenza, fu di venire nella mia stanza a rimboccarmi le coperte. 

La Sua le ha sussurrato all'orecchio quelle parole meravigliose. 
Ricordiamocele così, nell'atto di amarci e benedirci per l'ultima volta.
E cerchiamo di esserne degni, Gabriele.  Senza retorica. E senza paura.

Massimo Gramellini


Douglas Hofstadter: "La nostra anima risiede non solo nei nostri cervelli, ma anche nei cervelli di altre persone."



Niente di più scivoloso che palare di 'anima'.

Eppure, spesso abbiamo l'impressione che 'anima' non riguardi semplicemente noi stessi, non riguardi direttamente solo e semplicemente l'individualità, la singolarità umana. L'uomo è animale sociale, l'uomo è perfettamente, completamente calato nell'anima mundi. 


Nel 1979, un giovane esperto di intelligenza artificiale sorprese il mondo con un libro di enorme mole, labirintico, geniale e di immenso successo. Il libro era "Gödel, Escher e Bach" e il suo autore Douglas Hofstadter. 

Attraverso logica matematica, musica, paradossi grafici e linguistici, Hofstadter cercava di dare sostanza a un'intuizione che sembrava scandalosa: la mente umana potrebbe non essere altro che un computer, i neuroni dei semplici chip, l'intelligenza mera capacità di eseguire i programmi scritti nel cervello. 

A quasi trent'anni di distanza, molte cose sono cambiate: i computer non occupano più gli scantinati delle università ma sono in tutte le case e in tutte le tasche, e gli studi sul cervello hanno raggiunto un grado di raffinatezza quasi inimmaginabile. Eppure, resta intatto l'ultimo mistero: dove si trova e come è fatta l'anima? 

Cos'è che chiamiamo "io" quando parliamo con noi stessi? Cosa resta di noi (se resta qualcosa) dopo la nostra morte fisica? 

Nell'ultimo libro di Hofstadter, pubblicato anche in Italia, Anelli nell'Io,  Hofstadter affronta anche direttamente il tema della dolorosa perdita della moglie, che ha suscitato nuove e profonde riflessioni.  Inoltre, ritroviamo tutta la sua abilità di divulgatore, capace di spaziare dalla letteratura all'informatica, dai giochi di parole ai dibattiti più attuali della filosofia, dagli esempi più curiosi agli esperimenti mentali più originali e vividi.

07/03/12

L'unica cosa che si ripete costante nella vita è il cambiamento.



Mi ha molto colpito leggere oggi una frase del grande drammaturgo (è un po' riduttivo definirlo così)  Bob Wilson, intervistato dal Corriere, a proposito della nuova messa in scena del capolavoro Einstein On The Beach, su musiche di Philip Glass, presentato per la prima volta - con accoglienza stupefatta per la grande carica innovativa di quello spettacolo - ad Avignone esattamente 30 anni fa. 

'L'unica cosa che si ripete costante nella vita è il cambiamento'. 

E' una frase breve ed essenziale nella sua nuda verità - che ciascuno di noi può sperimentare come vera - se soltanto si ferma a riflettere sulla vita, un istante.  E paradossalmente, proprio ciò che dà continuità alla vita, che è sempre costante nella vita, è il suo divenire continuo, il suo non essere mai la stessa cosa

Mi sono tornate in mente le parole di J.Krishnamurti che ha fatto di questo tema una costante del suo pensiero (e della sua vita). 

Credo infatti che proprio da questa 'impermeabilità' al cambiamento (ma anche all'idea stessa di cambiamento) personale, a questo pensare e pensarsi granitico derivino molti dei nostri mali e dei nostri disagi come individui e come collettività.

Allora sia cio che è,  dice Krishnamurti, rispondendo ad una domanda di un visitatore, Quando ne comprende la falsità, l'ideale scompare. Lei è "ciò che é".    Il "ciò che è" è lei stesso: non in un periodo particolare o in un dato stato d'animo, ma come lei è di momento in momento.  Non si condanni o si rassegni a quel che vede, ma sia attento, senza interpretare il movimento di "ciò che è".  Sarà difficile, ma in ciò c'é gioia. La felicità c'è solo per chi è libero, e la libertà giunge con la verità di "ciò che è". 





06/03/12

La visione di Costantino e L’Arco di Malborghetto sulla Via Flaminia - 8 - Conclusioni.




8. Conclusioni.


Al termine di questa relazione, vogliamo esporre qualche breve conclusione che ci sembra di poter trarre dalle considerazioni precedentemente esposte:

Non sembra esservi plausibile dubbio che il cosiddetto Arco di Malborghetto, al 19mo chilometro della Via Flaminia, alle porte di Roma, sia stato edificato in stretta relazione all’episodio della Battaglia di Ponte Milvio. 

La lontananza però dell’arco stesso dal luogo dove la Battaglia ebbe luogo – una distanza di circa 12 km. -  autorizza a immaginare che l’Arco stesso non sia stato edificato a ricordo della Battaglia, ma per commemorare il luogo dove avvenne la misteriosa visione del segno nel cielo, riferita da diverse fonti coeve e posteriori alla vita dell’Imperatore Costantino.  Nella raffigurazione artistica più famosa dell’episodio in questione – quella di Piero della Francesca ad Arezzo – l’artista dipinse, sullo sfondo della scena, un cielo stellato che i recenti studi hanno dimostrato rispettare fedelmente la riproduzione esatta del planisfero celeste boreale.   

L’esperimento di puntatura di un normale programma astronomico sul cielo di Malborghetto - compiuto per la prima volta da Bruno Carboniero e illustrata nel suo libro (scritto a quattro mani con Fabrizio Falconi, In Hoc Vinces, Edizioni Mediterranee, 2011) -  durante la notte della visione, conferma a grandi linee il quadro astronomico riprodotto da Piero, con in più il particolare che l’artista di San Sepolcro inserisce nel quadrante di cielo al posto dove avrebbe dovuto trovarsi la Costellazione del Cigno: un angelo con in mano una croce. 

Peraltro la raffigurazione dell’angelo di Piero risulta assai somigliante all’immagine della costellazione così come è riprodotta nelle antiche tavole di astronomia. La dimostrazione che abbiamo riferito – riproducibile con i normali programmi di simulazione astronomica in commercio, non è, ovviamente dimostrativa.  

Propone semplicemente una ipotesi di lavoro, e cioè che Piero della Francesca, studioso appassionato dei principi matematici e alchemici, abbia avuto conoscenza della particolare luminosità della Costellazione del Cigno – che appare in cielo con forma di croce – nel periodo dell’anno in cui avvenne il Sogno di Costantino (cioè la fine del mese di Ottobre) , e che abbia inserito questo velato  riferimento, nelle forme e nei volumi dell’angelo (con le ali di cigno) che scende dal cielo per portare il Segno al primo imperatore cristiano.  I molti studi, le molte ricerche fiorite negli ultimi anni intorno al Piero esoterico offrirebbero numerosi spunti a questa pista interpretativa. 

Ma ci fermiamo qui, convinti come siamo che l’episodio della battaglia di Ponte Milvio debba continuare ad essere argomento di prioritaria competenza da parte degli storici, considerata la complessità degli effetti che quel rapido conflitto portò come conseguenza durante i secoli a venire sui destini dell’intero Occidente. 
Fabrizio Falconi
 (C)(riproduzione riservata)
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05/03/12

Il tempo è una freccia.



Fa sempre una certa impressione rivedere le immagini del passato. Specialmente quelle - queste - girate con il super-8 che possedeva un fascino unico.
E tornano in mente i versi di Percy B. Shelley: 



Come il fantasma d'un amico amato
è il tempo passato.
Un tono che ora è per sempre volato
via, una speranza che ora è per sempre andata
un amore così dolce da non poter durare
fu il tempo passato.

Ci furon dolci sogni nella notte
del tempo passato.
Di gioia o di tristezza, ogni
giorno un'ombra avanti proiettava
e ci faceva desiderare
che potesse durare
quel tempo passato.

04/03/12

La poesia della Domenica - '12 settembre 1966' di Giuseppe Ungaretti.






12 Settembre 1966 

Sei comparsa al portone
in un vestito rosso
per dirmi che sei fuoco
che consuma e riaccende.

Una spina mi ha punto
delle tue rose rosse
perché succhiassi al dito,
come già tuo, il mio sangue.

Percorremmo la strada
che lacera il rigoglio
della selvaggia altura,
ma già da molto tempo
sapevo che soffrendo con temeraria fede,
l'età per vincere non conta.

Era di lunedì,
per stringerci le mani
e parlare felici
non si trovò rifugio
che in un giardino triste
della città convulsa.

Giuseppe Ungaretti - da Ungà (Dialogo, 1966-1968)

28/02/12

Paola Capriolo su Rainer Maria Rilke, il doppio regno della vita e della morte.


Oggi, sul Corriere della Sera un bellissimo articolo di Paola Capriolo su Rilke. La Capriolo è ormai da parecchi anni, l'autore che forse più, in Italia, ha studiato e compreso la grandezza del genio delle Elegie Duinesi. Vi propongo il testo.

In un celebre saggio, Martin Heidegger annovera Rilke tra quegli autori che nel «tempo della povertà», in un tempo cioè che è ancora il nostro, «debbono espressamente poetare l'essenza stessa della poesia»; definizione, a prima vista, tutt'altro che accattivante. 

Quando leggiamo un volume di versi, ci aspettiamo di trovarvi espresse e trasfigurate le esperienze fondamentali di ogni essere umano, l'amore, il lutto, l'emozione di fronte a un paesaggio... mentre l'«essenza della poesia» ci sembra un tema astratto e quasi specialistico, che riguarda uno sparuto pubblico di addetti ai lavori. Non fosse che per Rilke, erede della tradizione romantica e di un pensiero filosofico che, con Nietzsche, eleva l'arte a metafora centrale nella comprensione della realtà, questa essenza coincide con la natura più profonda dell'uomo. 

Chi è dunque l'uomo, secondo Rilke? La risposta è: la più fuggevole, la più effimera tra tutte le creature. Ciò che è nostro, ciò che noi siamo, ad ogni istante svapora da noi «come rugiada dalla tenera erba, ... come il calore da una calda vivanda»; passiamo sulle cose con la rapidità dell'aria quando si apre la finestra per ventilare una stanza. A prima vista, sembra un po' eccessivo: è vero che non possediamo la salda durata delle pietre o persino degli alberi, ma i moscerini ad esempio vivono molto meno di noi e non imprimono certo nel mondo una traccia più persistente. Come può dunque Rilke definirci «i più fuggevoli»? Perché, ci spiega nell' Ottava elegia , diversamente dai moscerini noi viviamo «in un continuo prender congedo», siamo sempre nell'atteggiamento di chi parte e «... sull'ultima collina che gli mostra per una volta ancora tutta la sua valle, s'arresta, si volge indietro, indugia -».

 In altre parole, perché diversamente dai moscerini noi conosciamo la morte. La vediamo in anticipo, fissa davanti a noi come la linea che chiude il nostro orizzonte, ed è appunto questa chiusura a costituire il «mondo», la rigida, dolorosa forma in cui esistiamo. Così, credendo di guardare avanti, in realtà guardiamo costantemente indietro, con quello sguardo «rivoltato» che si posa sulle cose come un addio: credendo di guardar fuori a perdita d'occhio, in realtà vediamo soltanto le sbarre della gabbia che noi stessi ci siamo costruiti, anzi, che noi stessi siamo... Eppure la poesia è resa possibile proprio da questo sguardo «rivoltato», rammemorante, che muovendo dall'orizzonte della morte trasforma le cose in ricordi, ossia in pura interiorità. Quella stessa potenza che ci ingabbiava costringendoci a rinchiuderci nelle anguste forme del mondo può diventare una potenza liberatrice quando la morte viene per così dire metabolizzata, accolta, fatta propria, anziché porsi eternamente davanti a noi come qualcosa di estraneo che ci sbarra la strada. Se l'animale, che è di casa nell'aperto, sente il proprio essere come infinito e «dove noi vediamo l'avvenire, là vede il tutto e sé nel tutto, risanato per sempre», anche il morto, o chi accoglie la morte, disimpara a dare alle cose «il senso di umano futuro», impara ad abbandonare le rigide distinzioni proprie dei vivi per assumere ogni cosa in uno spazio di libertà che è, insieme, memoria e trasfigurazione, la segreta, paradisiaca vastità che l'anima possedeva in sé a propria insaputa. 

Sorge così quel «doppio regno», alla cui celebrazione sono dedicati i Sonetti a Orfeo: una totalità originaria che abbraccia la vita e la morte senza contrapposizioni e cesure, quasi senza distinzione: perché, come afferma la Prima elegia, noi compiamo tutti l'errore di distinguerle troppo nettamente, mentre «gli angeli (si dice) di sovente non sanno se vanno tra vivi o tra morti». 

 Il doppio regno è quel regno della metamorfosi dove le forme perdono la loro rigidezza per trapassare l'una nell'altra attraverso modulazioni finissime e quasi impercettibili: come nella splendida composizione per archi di Richard Strauss intitolata appunto Metamorfosi, con la stessa, duttile fluidità; è quel regno, scrive Rilke, «la cui profondità e influsso noi, ovunque indelimitati, dividiamo con i morti e con coloro che verranno». Ma per essere «indelimitati», cioè cittadini consapevoli del doppio regno, bisogna in primo luogo «tentare un rapporto con la morte del tutto libero dal rimprovero», cioè imparare a concepirla senza l'aspetto della negazione. 


26/02/12

La poesia della Domenica - 'E la morte non avrà più dominio' di Dylan Thomas.



E la morte non avrà più dominio
di Dylan Thomas (Swansea 1914 - New York 1953)

E la morte non avrà più dominio.
I morti nudi saranno una cosa
Con l’uomo nel vento e la luna d’occidente;
Quando le loro ossa saranno spolpate e le ossa pulite scomparse,
Ai gomiti e ai piedi avranno stelle;
Benché impazziscano saranno sani di mente,
Benché sprofondino in mare risaliranno a galla,
Benché gli amanti si perdano l’amore sarà salvo;
E la morte non avrà più dominio.
E la morte non avrà più dominio.
Sotto i meandri del mare
Giacendo a lungo non moriranno nel vento;
Sui cavalletti contorcendosi mentre i tendini cedono,
Cinghiati ad una ruota, non si spezzeranno;
Si spaccherà la fede in quelle mani
E l’unicorno del peccato li passerà da parte a parte;
Scheggiati da ogni lato non si schianteranno;
E la morte non avrà più dominio.
E la morte non avrà più dominio.
Più non potranno i gabbiani gridare ai loro orecchi,
Le onde rompersi urlanti sulle rive del mare;
Dove un fiore spuntò non potrà un fiore
Mai più sfidare i colpi della pioggia;
Ma benché pazzi e morti stecchiti,
Le teste di quei tali martelleranno dalle margherite;
Irromperanno al sole fino a che il sole precipiterà;
E la morte non avrà più dominio.
And death shall have no dominion.
Dead men naked they shall be one
With the man in the wind and the west moon;
When their bones are picked clean and the clean bones gone,
They shall have stars at elbow and foot;
Though they go mad they shall be sane,
Though they sink through the sea they shall rise again;
Though lovers be lost love shall not;
And death shall have no dominion.
And death shall have no dominion.
Under the windings of the sea
They lying long shall not die windily;
Twisting on racks when sinews give way,
Strapped to a wheel, yet they shall not break;
Faith in their hands shall snap in two,
And the unicorn evils run them through;
Split all ends up they shan’t crack;
And death shall have no dominion.
And death shall have no dominion.
No more may gulls cry at their ears
Or waves break loud on the seashores;
Where blew a flower may a flower no more
Lift its head to the blows of the rain;
Though they be mad and dead as nails,
Heads of the characters hammer through daisies;
Break in the sun till the sun breaks down,
And death shall have no dominion.
traduzione di Ariodante Marianni

23/02/12

L'affidabilità storica dei Vangeli.


Capita spesso, in discussioni o convivi, di incappare nel vecchio argomento della attendibilità - vera o presunta - dei Vangeli cristiani, della loro potenzialità 'documentale'.  E siccome mi accorgo della dilagante ignoranza in materia - di nozioni storiche, collegata alla perdita di radici millenarie  - vorrei qui riproporre un prezioso résumé che traggo dal sito camcris e che allinea le informazioni storiche relative ai testi più famosi dell'antichità classica.   

Credo che sia utile leggere e conservare. 

L'affidabilità storica del Nuovo Testamento

Come per la maggior parte dei testi antichi, non possediamo gli scritti originali del Nuovo Testamento. Ciò che abbiamo a disposizione sono delle copie dei documenti originali. Queste sono state ricopiate e tradotte nelle varie lingue. Naturalmente la stessa cosa vale per gli altri documenti dell'antichità.


La tabella comparativa che segue - tradotta e adattata dal libro di J. McDowell, "Evidenza che richiede un verdetto" - ci mostra dove si situa il Nuovo Testamento (la tabella è incompleta).




Autore - opera
Periodo di redazione
Copia più antica disponibile
Intervallo (anni)
Numero di copie
Giulio Cesare
100 - 44 a.C.
900 d.C.
1.000
10
Tito Livio
59 a.C. - d.C. 17
20
Platone
427 - 347 a.C.
900 d.C.
1.200
7
Cornelio Tacito (Annali)
56 - 115 d.C.
1100 d.C.
1.000
< 20
   (opere minori)
56 - 115 d.C.
1000 d.C.
900
1
Plinio il Giovane (Storia)
61 - 113 d.C.
850 d.C.
750
7
Tucidide (Storia)
460 - 400 a.C.
900 d.C.
1.300
8
Svetonio (De Vita Caesarum)
75 - 160 d.C.
950 d.C.
800
8
Erodoto (Storia)
480 - 425 a.C.
900 d.C.
1.300
8
Orazio
 65 - 8 a.C. 
900
Sofocle
496 - 406 a.C.
1000 d.C.
1.400
193
Lucrezio
95 - 55 a.C.
1.100
2
Catullo
84 - 54 a.C.
1550 d.C.
1.600
3
Euripide
480 - 406 a.C.
1100 d.C.
1.500
9
Demostene
383 - 322 a.C.
1100 d.C.
1.300
* 200
Aristotele
384 - 322 a.C.
1100 d.C.
1.400
** 49
Aristofane
450 - 385 a.C.
900 d.C.
1.200
10
Omero (Iliade)
1100 a.C.
400 a.C.
700
643
il Nuovo Testamento
40 - 100 d.C.
125 d.C.
25
> 24.000
* tutti dalla stessa copia
** di qualsiasi opera

Il numero di manoscritti del Nuovo Testamento (ben 24.000) è di gran lunga superiore a quello di qualsiasi altra opera antica. Osservando questa tabella risulta anche chiaro che moltissimi documenti antichi sono stati copiati e ricopiati per secoli prima di giungere alla copia più antica in nostro possesso. Il manoscritto più antico del Nuovo Testamento, ha un intervallo di soli 25 anni dall'originale.

In conclusione, basandoci sul numero di documenti disponibili e sull'intervallo fra l'originale e la copia più antica, risulta chiaro che il Nuovo Testamento è storicamente molto più attendibile degli scritti di qualsiasi altro autore sopra menzionato.

Ma oltre all'evidenza che proviene dai manoscritti, abbiamo anche le citazioni in testi e lettere dei padri della Chiesa. Essi citano brani del Nuovo Testamento. Questa fonte esterna garantisce ulteriore sostegno all'affidabilità storica del Nuovo Testamento.




Autore
Periodo
(dopo Cristo)
Citazioni
Vangeli
Atti
Lettere di Paolo
Lettere generali
Apocalisse
Totale
Giustino martire
100 - 165
268
10
43
6
3 (+266 allusioni)
330
Ireneo
 150 - 200
1.038
194
499
23
65
1.819
Clemente d'Alessandria
150 - 212
1.017
44
1.127
207
11
2.406
Origene
185 - 253
9.231
349
7.778
399
165
17.922
Tertulliano
160 - 220
3.822
502
2.609
120
205
7.258
Ippolito
170 - 235
734
42
387
27
188
1.378
Eusebio di Cesarea
 260 - 340
3.258
211
1.592
88
27
5.176
Totali
19.368
1.352
14.035
870
664
36.289

In tutto il Nuovo Testamento, fra i 24.000 manoscritti ci sono solo circa 40 righe di testo (400 parole) che presentano delle variazioni, peraltro minime. Paragonato all'Iliade di Omero, con 643 copie disponibili, le linee varianti sono più di 700. In percentuale questo significa che il testo dell'Iliade è alterato al 5%, mentre il testo del NT è alterato in misura dello 0,5%. Le variazioni o gli errori del NT consistono essenzialmente in duplicazioni o errori d'ortografia e non incidono minimamente su alcuna dottrina fondamentale. Nessun altro libro al mondo presenta tali garanzie di qualità.

Queste non sono le uniche informazioni sulla validità storica del Nuovo Testamento. Ci sono molti altri documenti che confermano la validità dei testi biblici.

Negli ultimi 100 anni l'archeologia ha scoperto numerosissimi riferimenti a città, luoghi, popoli e nazioni descritti nella Bibbia.