Vorrei ringraziarvi tutti, per aver tagliato, dopo così poco tempo, il traguardo ragguardevole dei 100.000 visitatori per il nostro Blog.
26/03/13
100.000 visitatori per il Blog di Fabrizio Falconi. Grazie a tutti.
Vorrei ringraziarvi tutti, per aver tagliato, dopo così poco tempo, il traguardo ragguardevole dei 100.000 visitatori per il nostro Blog.
06/01/13
La fatica degli anni che passano.
La fatica degli anni che passano, cambia le nostre prospettive. E cambia anche il senso della nostra fatica.
Ho trovato queste parole straordinariamente rispondenti.
23/12/12
Andrej Tarkovskij - "Una persona egoista non può leggere e amare Tolstoj".
19/12/12
Dieci luoghi dell'Anima, dal Negev a Taizé - Una intervista a Fabrizio Falconi di Eleonora Bianchini
31/08/12
E' morto Carlo Maria Martini. Quel giorno al Conclave.
17/07/12
"La prova di Dio" secondo Bergman ("Come in uno specchio").
21/04/12
Il relativismo contemporaneo filosofia inevitabile e virtuosa - Dario Antiseri sul "Corriere della Sera".
Vi riporto questo interessante articolo comparso ieri sul Corriere della Sera a firma Dario Antiseri, nelle pagine della cultura.
«Non esiste un principio etico razionale che valga più di altri» «Nel campo di coloro che cercano la verità non esiste nessuna autorità umana e chiunque tenti di fare il magistrato viene travolto dalle risate degli dèi». È questo il messaggio epistemologico di Albert Einstein.
continua a leggere QUI
fonte Corriere della Sera.
in testa una tavola di Escher, Encounter.
15/12/11
George Steiner: sulle "questioni ultime" in 2000 anni non abbiamo fatto un solo passo avanti, nella conoscenza.
25/08/11
La crisi che viviamo e la chiamata politica e spirituale. "Segnare una svolta" - di Alberto Melloni.
E' un testo breve, ma veramente illuminante questo che vi riporto, di Alberto Melloni, sul Corriere della Sera di pochi giorni fa. Il momento di crisi per tutto l'Occidente - e il mondo - è un ripensamento globale della nostra vita. Come ogni 'crisi' è anche una 'occasione', un punto di svolta e di scelte, dalle quali dipenderà il nostro futuro. Un momento cruciale che impone agli spiriti intelligenti, di muoversi, di non starsene più fermi nei propri freschi o angusti cortili. Ecco l'articolo.
La svolta storica che ci sovrasta è di proporzioni superiori al panico che produce. Lo stile di vita tenuto dall' Occidente, nel quale il debito aveva sostituito altri sistemi di dominio, è finito. Per sempre. Come il colonialismo in India, come il bolscevismo in Russia. È una «krisis» nel senso del Vangelo: un «giudizio». Non è la fine del mondo: è la fine di un mondo. Dunque solletica le paure, incoraggia i minimizzatori, svela la statura dei sovrani, denuncia la sordità di chi ha fatto spallucce per anni, chiama intelligenze politiche e spirituali dal domani.
In questo rimestarsi della storia (per ora incruento, come nel ' 29 e nell' 89), la Chiesa è parca nel dire le parole che pur possiede. Questi non sono i tempi di Gregorio Magno, che davanti alla fine di un' era, raduna il popolo in basilica per spiegare il profeta Ezechiele. Non sono i tempi di papa Giovanni, che nel montare del fatalismo atomico, scardina i parametri dottrinali della guerra giusta. Sono i tempi nostri, nei quali la generazione del benessere più prepotente sente di lasciare ai propri figli le macerie di un disastro politico e morale.
E in questo tempo la Chiesa, nel senso più ampio del termine, è come ritratta: articola lentamente le consunte condanne degli «ismi», sussurra cose ovvie o interessate, quasi che anche per lei fosse così poco leggibile una realtà che urla da ogni orizzonte, Nel Medio Oriente sunnita esplode una jihad nella quale il nome di Dio non viene usato per aggredire, ma per sopportare, senza che chi ne ha giustamente criticato le perversioni violente ne sappia dare una lettura. Un assassino psicotico norvegese trascina fuori dall' oscurità il fondamentalismo di antisemiti classici, omofobici aggressivi, tradizionalisti paranoidi, monoculturalisti fascisti, che il diritto penale e canonico hanno ignorato, prima e dopo quel crimine. Il genio di personaggi come Pacelli, Adenauer, De Gasperi e Schuman che - parlando in tedesco e pensando in cattolico - hanno dato all' Europa un orizzonte politico di pace, viene irriso per mesi dall' egoismo tedesco senza che il discorso cattolico sappia uscire dal vittimismo delle radici, dall' euforia dei crocifissi e dall' ossessione dei diritti dei gay.
La guerra di Libia suscita proteste periodiche del Papa che cadono nel vuoto di una Chiesa più sensibile allo spiritualismo che alla realtà. E quel pezzo di Africa che annega fra la Sirte e Lampedusa estorce qualche senso di colpa alle anime colte, ma alla fine viene trattato come una fatalità che non deve essere capita, ma accettata. La forza che ha avuto la Chiesa in transizioni di magnitudo comparabile a questa - nel VI secolo si diceva, ma anche nell' XI e nel XVI con le riforme, nel XX con il Concilio - è stata quella di saper leggere i processi storici nella loro globalità: trovarne quella chiave supremamente sintetica che, a partire dall' atto di fede in Gesù Cristo morto e risorto, sa indicare le vie di un nuovo tempo e preparare quel che è già tutto scritto nelle premesse presenti.
Oggi questo atto - reso più urgente dal tragico nanismo delle leadership politiche - tarda a farsi sentire. Eppure solo l' intuito spirituale di una comunità globale come quella cattolica può dire con autorevolezza che, se crolla un' Europa poco amata, non finisce l' euro, ma la pace. Può spiegare alla luce del proprio tesoro di insegnamenti sulla sobrietà e la condivisione che il crollo di uno stile di vita è un' opportunità di giustizia o l' anticamera del cannibalismo economico. Ma la Chiesa sa anche che per ogni profezia c' è un tempo opportuno, un «kairós», perduto il quale resta solo il peso silenzioso della penitenza: anche questa testimoniata dalle lunghe epoche buie della sua storia. Sarebbe stupido e irriverente pensare che il dire tocchi al Papa o che l' afasia di questi mesi sia la sua. Certo Benedetto XVI ha modo di farsi sentire: in questi giorni a Madrid davanti a milioni di ragazzi, soprattutto a Berlino nel discorso al Bundestag di settembre, a ottobre alla preghiera interreligiosa di Assisi. E quel che dice resterà.
Ma è dalla Chiesa come communio che il mondo attende una lettura del tempo che mostri la capacità di rompere quella omologazione ai riti del potere e dei media. È la communio che permette di leggere un tempo che deve essere trattenuto dalla tendenza a diventare prebellico proprio da una forza spirituale che lo lega, se sa di essere una forza e se sa di essere spirituale.
Alberto Melloni, Il Corriere della Sera, 20,8,2011.
12/08/11
Lo stupore e la dialettica di Pavel A.Florenskij
Mano a mano che conosciamo la sua opera, io credo, ci addentriamo meglio in un pensiero filosofico straordinario, complesso e illuminante, sebbene ancora in italia poco conosciuto.
"Stupore e dialettica" si chiama il libriccino, che consiglio veramente a tutti. Un modo per accostarsi al piacere estetico e sostanzioso della filosofia come strumento di conoscenza, e strumento spirituale.
Questa è la recensione che ne ha fatto oggi sul Fatto Quotidiano nel supplemento 'Saturno' Marco Filoni.
GLI EPITETI si sprecano. I suoi contemporanei lo paragonavano al genio di Leonardo da Vinci per i suoi interessi poliedrici. Altri parlavano di un Pascal russo per la sua sensibilità teologica e religiosa, capace di esprimersi nei più diversi campi dello scibile umano. Dalla matematica alla fisica, dall’iconologia alla filosofia, ma anche estetica, ingegneria elettronica, simbologia e semiotica.
Questi sono soltanto alcuni dei temi che ha trattato nella sua breve vita il russo Pavel A. Florenskij, sacerdote ortodosso morto fucilato dopo 5 anni di rieducazione in un gulag sovietico, nel 1937, a soli 55 anni. Florenskij è considerato, a ragione, uno dei maggiori pensatori del XX secolo. Come scriveva il suo amico Sergej Bulgakov, la perfetta padronanza dei suoi interessi nel campo del sapere era tale che la grandezza della sua erudizione «non si può nemmeno stabilire per mancanza in noi di capacità equivalenti».
Negli ultimi anni questo geniale e straordinario pensatore sta venendo alla luce, anche in Italia, grazie alla pubblicazione di alcune sue opere. Già le lettere inviate durante la prigionia nel gulag avevano commosso i lettori italiani (uscite da Mondadori con il titolo Non dimenticatemi).
Ora invece appaiono due importanti tasselli dell’immensa opera del russo. Il primo volume, La concezione cristiana del mondo (curato da Antonio Maccioni per Pendragon), raccoglie i corsi tenuti da Florenskij fra la fine dell’estate e l’autunno del 1921 all’Accademia teologica di Mosca. Pagine che sono da leggere anche come una preziosa testimonianza di resistenza e profonda onestà intellettuale: in un momento in cui, all’indomani della rivoluzione bolscevica, vi era la smobilitazione totale e la nazionalizzazione dei beni religiosi, Florenskij non rinuncia a un ciclo di lezioni a carattere teologico. E nemmeno rinuncia all’abito talare, nonostante l’esplicito divieto, con il quale si presenterà anche nei vari contesti professionali ai quali le autorità politiche lo obbligheranno.
Ma una definizione ancora più chiara, sul piano teorico, arriva dall’aureo libello Stupore e dialettica, in libreria per Quodlibet (ottimamente tradotto da Claudia Zonghetti e altrettanto ben curato da Natalino Valentini, il nostro maggior esperto di Florenskij, che firma un’utile introduzione e una completa notizia biografica). Questo libro, nato come sezione di un’opera più ampia (Agli spartiacque del pensiero), è un’intensa riflessione sulla dialettica. Ma quale dialettica? Il ritmo della vita, risponde Florenskij, ovvero la filosofia nella sua espressione dialogica attraverso la parola. “Pensiero in crescita”, “pensiero vivo”, perché appunto la filosofia è vita, riflessione immediata fortemente e direttamente legata alla realtà. Questo percorso tracciato dal russo conduce al riconoscimento dello stupore come fonte del pensiero: la meraviglia delle cose reali apre a un’esperienza di conoscenza ed è un principio di verità. Pagine molto belle, che nella loro lungimiranza anticipano molti temi di ermeneutica e di filosofia del linguaggio novecenteschi. Ancora una volta, leggere Florenskij è fonte di stupore.
Marco Filoni - IL FATTO.
12/01/11
Hereafter - Un capolavoro spirituale.
Sono piuttosto esterrefatto dalla lettura che sui giornali italiani alcuni osservatori hanno dato di ‘Hereafter’, il nuovo film di Clint Eastwood appena uscito in sala.
In verità, me lo aspettavo. Il fatto che il rude Clint, il prosaico Clint, il Cavaliere Solitario, abbia deciso di affrontare un tema scivoloso come l’aldilà e la vita dopo la morte, lo poneva a serio rischio di vedersi piovere addosso critiche liquidatorie.
In realtà va così da sempre, almeno già da un paio di millenni, da quando – per dire – quel Paolo di Tarso sull’Aeropago, ricevuto dai dotti ateniesi fu ascoltato e considerato finché non pensò di tirar fuori la storia della Resurrezione. “Sì, sì, di questo parleremo un’altra volta”… gli dissero, compatendolo. Arrivederci e grazie.
La stessa cosa succede oggi a chi si mette a tavolino a discutere con qualcuno che abbia tanto buon senso e sale in zucca, pretendendolo di convincerlo che sì, che forse una vita dopo la morte esiste, che forse anche l’eterno esiste, e che forse non è nemmeno tanto difficile averne contezza.
Viviamo infatti in un mondo – almeno in quello che oggi è l’Occidente (e che comprende anche molte parti di Oriente)– dove esercita la sua dittatura e il suo dominio l’hic et nunc. Il qui ed ora.
La prospettiva è asfittica, limitata, anzi quasi cieca. E risponde, semplicemente, a questo imperativo:
pensa a quello che hai ora, vivi il tuo presente, comprati la cintura firmata ai saldi, guardati la partita, fatti la tua vacanza in crociera, e vivi tranquillo. Per morire, c’è sempre tempo.
Chiunque osi ribellarsi a questa dittatura, viene guardato come un sabotatore, e anche come un tipo stravagante, tutt’al più da compatire per la sua ingenuità.
E’ questo forse il lato più bello del bellissimo film di Eastwood: la dittatura del mondo dell’hic et nunc si mette di traverso quando la bella anchorman che è rimasta sospesa tra la vita e la morte durante lo tsunami in Indonesia e ha visto l’aldilà, pretende di mettere questa cosa al centro dei suoi interessi; la dittatura del mondo dell’hic et nunc si mette di traverso quando il povero Marcus, il ragazzino sopravvissuto alla tragica morte del suo gemello, pretende di mettersi in contatto con lui, con il fratello morto, pretende di proseguire a dialogare con lui, a farlo parte della sua vita; la dittatura del mondo dell’hic et nunc si mette di traverso quando il sensitivo George Lonegan (Matt Damon) deve addirittura rinnegare le sue qualità di tramite con i morti, per poter vivere tranquillo e avere una vita normale.
E’ questo, credo, che dovrebbe farci riflettere tutti.
E come si fa a liquidare tutto questo con ‘melassa newage’ come fa Luca Doninelli sulle pagine de ‘Il Giornale’ ? Come si fa a scrivere che “Sapere o non sapere se esiste qualcosa dopo la morte non cambia quasi niente della vita di un uomo” ? (sic!).
Ma davvero ?
Eastwood non scollega affatto l’hic et nunc, la vita che viviamo ora e adesso su questa terra con quello che succede dopo. Fa anzi esattamente l'opposto. E la sua prospettiva non è né eretica, né pagana, né new age. E’ la più vicina al buon senso. Il fatto che non sia corrispondente a una logica ‘confessionale’ cioè religiosa, non toglie nulla al rigore di un’opera che va letta semplicemente per quello che è.
Gli esperimenti di Near Death Experience non sono new age. Le migliaia di persone che sperimentano nel mondo un legame – in qualsiasi modo questo avvenga - con coloro che non ci sono più, non sono new age. Sono parte – e che parte ! – della nostra vita. La parte che ogni lutto, qualsiasi lutto che affrontiamo nella vita, ci costringe, volenti o nolenti, ad affrontare.
Non è poco. E’ moltissimo, anzi. E non finiremo mai di ringraziare Clint Eastwood, il rude, prosaico, cinico Eastwood, per averci regalato, a 80 anni suonati, il film più spirituale degli ultimi dieci anni.
Fabrizio Falconi
22/10/10
Dag Hammarskjold, un martire della Pace.
02/02/10
La forza del 'piccolo' contro lo strapotere del mondo.
26/05/09
La Teologia di Dostoevskij - Un articolo di Giovanni Reale.
Ma come mai si ripubblica Dostoevskij in una collana di filosofia e non di narrativa? La risposta è semplice: in Italia, Dostoevskij viene considerato dai più un grande romanziere, mentre in Russia lo si considera un grande filosofo. Berdiaev, per esempio, dice: «Dostoevskij fu vero filosofo , fu il più grande filosofo russo». In effetti, i suoi romanzi sono storie di Idee, personificate nei vari personaggi.
Idee vive sia nella loro profondità, sia nel loro complesso movimento dinamico-relazionale e nella loro forza. Dostoevskij stesso precisa che le Idee sono quella forza che muove il mondo e scrive: «Nella storia ciò che trionfa non sono le masse di milioni di uomini né le forze materiali, che sembrano così forti e irresistibili, né il denaro né la spada né la potenza, ma il pensiero, quasi impercettibile all’inizio, di un uomo che spesso sembra privo di importanza».
Dostoevskij fa con i suoi romanzi ciò che Platone ha fatto con i suoi dialoghi. Il filosofo ateniese ha trasposto sul piano dialettico le due grandi forme dell’arte dei suoi tempi, la tragedia e la commedia (per esempio, il Protagora è una grande e straordinaria commedia, il Gorgia e il Fedone sono due grandi tragedie).
Già Nietzsche sosteneva la tesi che «Platone ha dato ai posteri il paradigma di una forma artistica, il modello del romanzo», che sarebbe in sostanza «una favola esopica infinitamente sviluppata». E Dostoevskij ha scelto una forma tipica dell’arte dei suoi tempi, quella del romanzo, per comunicare grandi messaggi filosofici. I suoi personaggi sono incarnazioni di Idee in forma di vere e proprie «icone».
In Italia Luigi Pareyson ha ben sviluppato l’interpretazione di Dostoevskij come vero grande filosofo che si colloca al di sopra della mera analisi dell’animo umano a livello psicologico, e lo considera «uno dei culmini della filosofia contemporanea e un immancabile punto di riferimento nel dibattito speculativo del mondo d’oggi».
Fra le molte idee che Dostoevskij porta in primo piano nei suoi romanzi, ne ricordiamo quattro: il nichilismo, il male, la libertà e la fede.
1. Per quanto riguarda il nichilismo Pareyson afferma addirittura che il personaggio Ivan dei Fratelli Karamazov esprime l’anima nichilistica in maniera perfetta, perfino meglio di Nietzsche.
2. Il male non è in principio una realtà sostanziale (in senso manicheo). Ma non è neppure solo una «privazione del bene», ossia la scelta di un bene inferiore in luogo di un bene superiore (come voleva Agostino). Il male nasce nell’animo dell’uomo: è una volizione negativa, che, proprio respingendo il bene superiore, si impone come una forza distruttiva che produce il male nella sua reale dimensione.
3. Secondo Dostoevskij la libertà consiste nel riconoscimento e nella volizione del Principio supremo dell’Essere e del Bene, oppure nel rifiuto di esso, con tutto ciò che ne consegue. E quindi è una forza che si distingue dal bene e dal male, i quali si realizzano, in quanto tali, proprio in conseguenza della libertà. Dostoevskij è giunto alla fede passando attraverso il nichilismo, e indagando la autodistruzione di esso.
4. La fede presuppone il dubbio, ed è vera fede solamente se è un continuo e dinamico superamento del dubbio stesso. In risposta ai critici che gli rimproveravano la sua fede in Cristo, diceva: «In fatto di dubbio nessuno mi vince. Non è come un fanciullo che io professo Cristo. Il mio osanna è passato attraverso un crogiolo di dubbi». E in una lettera del 1854 esprimeva la forza veramente dirompente della sua fede: «Arrivo a dire che se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità e se fosse effettivamente vero che la verità non è in Cristo, ebbene io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità».
Giovanni Reale
04/04/09
Florenskij: cosa vuol dire autentico portatore dello Spirito di Dio.
27/03/09
Signore dei Tempi e degli Attimi - Una preghiera.
dov’è dunque la luce di questo giorno?
La sera spoglia ogni uomo,
lo distende per il sonno,
mostrandogli che tutti i suoi beni
restano quaggiù.
Gli leva le vesti,
lo mette a nudo.
Così la morte spoglia l’uomo
dei suoi beni.
Appare il mattino
e rende le vesti
a coloro che se ne rivestono:
figura della Risurrezione,
grandioso stupore.
Dì a te stesso questo:
quel che la sera ti toglie,
il mattino te lo rende
perché tu te ne copra le membra.
Svegliaci Signore,
dalla sonnolenza di questo mondo.
Allora in colui che viene
noi erediteremo la vita con i tuoi santi.
Donaci di rivestire
le vesti appropriate
per la sala del banchetto
e di prepararci
dei sontuosi mantelli di virtù.
Lode a te, mio Signore,
che hai separato la notte dal giorno,
e li fai immagini, parabole del mistero.
Noi ti confessiamo, Signore dei tempi e degli attimi.
Tutto se ne va, ma tu, tu resti te stesso
senza fine. Amen.
20/10/08
Il Vangelo della Domenica - La moneta di Cesare.
In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva ridotto al silenzio i sadducei, ritiratisi, tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi.
Mandarono dunque a lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: "Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia ad alcuno. Dicci dunque il tuo parere: È lecito o no pagare il tributo a Cesare?".
Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: "Ipocriti, perché mi tentate? Mostratemi la moneta del tributo". Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: "Di chi è questa immagine e l'iscrizione?". Gli risposero: "Di Cesare". Allora disse loro: "Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio".
E' senza alcun dubbio uno dei passi del Vangelo più citati, più equivocati, più fraintesi, e più strumentalizzati.
Ed è difficile interpretarlo correttamente, secondo me, se non si fa veramente silenzio, e non si lascia sedimentare la Parola, che anche in questo caso ha molto più da dirci, di quanto appaia a prima vista.
La domanda fatta a Gesù è capziosa. E' frutto addirittura di un complotto, ordito da farisei ed erodiani per indurre il Profeta a inciampare, a fare - come diremmo oggi - una 'gaffe' screditante agli occhi dei suoi 'sostenitori'.
La domanda che costoro fanno è se 'pagare il tributo a Cesare sia lecito'. E già qui ci sarebbe da discutere, perchè loro non chiedono se sia 'giusto', ma 'lecito', ed è già una bella differenza.
Gesù, però, non cade nel tranello. Cosa vorrebbero che dicesse ? Che non è 'lecito' ? Che ai Romani, agli esattori, agli amministratori, non è lecito pagare tributo, ma soltanto a Dio ? Questa parola basterebbe a condannarlo a morte, subito.
Ma Gesù non elude la domanda. Dà anzi una risposta che più piena non si potrebbe: "Rendere a Cesare quel che è di Cesare (la sua moneta, la moneta che egli ha coniato, ovvero far restare in ambito mondano tutto ciò che è mondano), e rendere a Dio tutto ciò che è di Dio ( ovvero tutto ciò che non è mondano, cioè effimero, e sul quale Cesare, o chiunque altro Cesare nulla può).
La risposta di Gesù è tutto meno che qualunquista - come qualcuno l'ha interpretata a volte. Non dice: paga le tasse e stai a posto così. Non dice: i soldi sono una cosa, la spiritualità un'altra, e bisogna coltivare tutte e due.
Non dice niente di tutto questo.
Dice di rendere a Cesare, e cioè di far restare in quell'ambito, quelle cose che nella vita servono per vivere. Cioè la stretta materialità. E di dedicare a Dio tutto il resto. La separazione è chiara. Gesù l'ha affermata tante altre volte, in altri passi del Vangelo, non si può servire Dio e Mammona, ed è più facile che un cammello (o una corda) passino nella cruna di un ago, che un ricco entri nel Regno dei Cieli.
Dio, dice Gesù, è un'altra cosa.
Dio vuole altro.
Non sa che farsene della moneta di Cesare.
E di questo, dovremmo ricordarci tutti.