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08/12/22

8 Dicembre, Festa dell'Immacolata. La storia della famosa Colonna a Piazza di Spagna a Roma



  

Per molto tempo, la Piazza di Spagna fu definita cristianissima piazza, quasi si trattasse della Piazza più santa di Roma, ancor più di Piazza San Pietro. Ciò si doveva in parte alla pianta della Piazza, che sembra ricalcata quasi sul monogramma di Cristo, cioè il Labarum, il Chi-Ro, con le due lettere greche simbolizzate dalle quattro strade laterali che vi convergono e che sembrano una ics (la Chi greca) e l’asse centrale che l’interseca (da Via Condotti alla Scalinata) che rappresenterebbe la erre (la Ro greca); in secondo luogo per l’affollamento di edifici o monumenti di ispirazione cristiana che vi si affacciano, la Chiesa di Trinità dei Monti, il collegio di Propaganda Fide, la Barcaccia del Bernini che sembra richiamare la navicella di San Pietro e infine la colonna dell’Immacolata.

Questa, ha una storia davvero particolare. Alta quasi dodici metri e con un diametro di un metro e mezzo fu rinvenuta integra durante scavi eseguiti nel 1778, e proveniva probabilmente dal complesso degli edifici augustei che sorgevano in quella zona nel I secolo d.C.

Proprio per le sue notevoli dimensioni, però, la colonna rischiò incredibilmente di essere di nuovo sotterrata. Al contrario degli altri frammenti ritrovati in quegli scavi che si prestavano ad un rapido reimpiego, era difficile trovare una giusta collocazione ad una colonna così imponente.

Restò dunque malinconicamente abbandonata per molti anni nei pressi del Quirinale, in attesa di una occasione per un suo riutilizzo, occasione che arrivò quando papa Pio IX decise di celebrare il dogma dell’Immacolata Concezione da lui proclamata. 

L’inaugurazione della Colonna (grazie ai diecimila scudi versati al Papa da Ferdinando II di Borbone), nella nuova collocazione avvenne l’8 dicembre – festa dell’Immacolata – del 1854, e a sorpresa, il Papa non fu presente.  Uno dei cronisti dell’epoca, il britannico Norton, che era protestante, colse allora subito l’occasione per ironizzare sul Pontefice, vaticinando che l’opera avrebbe avuto sicuramente una ottima riuscita, visto che – come scrisse nei suoi diari – ho sentito dire che la sua presenza era temuta per la fame che egli ha di portare il malocchio.

Davvero irriverente, nei confronti di un Papa !

La Colonna, poi fu oggetto anche di un’altra celebre pasquinata: quando furono svelate le quattro statue alla base del monumento, rappresentanti i quattro profeti, Isaia, Ezechiele, David e Mosè, il popolo non tardò ad accorgersi che l’ultima di queste statue – proprio quella di Mosè – aveva una bocca che appariva sproporzionatamente piccola.

Pasquino allora scrisse uno sferzante epigramma, facendo finta di rivolgersi al Mosè, come aveva fatto Michelangelo, dicendogli: Parla ! E il Mosè dalla bocca piccola, gli rispondeva: Non posso !  E di rimando Pasquino: Allora fischia! E il Mosé: Sì, fischio lo scrittore !  Che era il povero e inconsapevole Ignazio Jacometti.


Tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri e Segreti dei Quartieri e dei Rioni di Roma, Newton Compton, Roma, 2015

05/11/22

Esce il 25 novembre "Le Basiliche di Roma", il nuovo Libro di Fabrizio Falconi

 



Esce in tutte le librerie (e su quelle online) il prossimo 25 novembre "Le Basiliche di Roma", il nuovo Libro di Fabrizio Falconi.

Sinossi

Dalle costruzioni pagane e paleocristiane fino a San Pietro e San Giovanni in Laterano

La storia bimillenaria di Roma è indissolubilmente legata a quella delle numerose basiliche che punteggiano la città. Che si tratti delle grandi chiese della cristianità o degli edifici pubblici pagani superstiti, questi luoghi sono diventati iconici della grandezza di Roma, e non mancano mai di stupire e affascinare i milioni di turisti che visitano la Città Eterna. In questo prezioso libro, Fabrizio Falconi illustra la nascita e il significato originale delle basiliche, per poi condurre il lettore in un percorso che tocca tutte quelle presenti nell’Urbe. Si raccontano aneddoti e curiosità sulla costruzione e la storia di questi magnifici luoghi, spaziando dalle quattro basiliche apostoliche ai ruderi di quelle di Roma antica, fino ad arrivare alle basiliche minori e a numerose chiese di fondazione paleocristiana. Da San Pietro in Vaticano alla Ulpia, da San Giovanni in Laterano a Santa Croce in Gerusalemme fino a Santa Cecilia in Trastevere e San Martino ai Monti: uno straordinario viaggio all’interno della storia della Capitale.

La storia di intere generazioni racchiusa in monumenti eterni

La basilica di San Paolo fuori le mura
Santa Maria Maggiore
Santa Croce in Gerusalemme
San Sebastiano fuori le mura
San Lorenzo fuori le mura
Santa Prassede
Santa Maria degli Angeli e dei Martiri
Santi Dodici Apostoli
Santa Maria sopra Minerva
Santa Maria in Domnica
San Clemente

e tante altre...

  • ISBN: 8822767179
  • Casa Editrice: Newton Compton
  • Pagine: 288
  • Data di uscita: 25-11-2022

TUTTE LE INFORMAZIONI QUI







18/10/22

Fabrizio Falconi fotografato da Gabriele Pagnini a Cannes nel 1987

 

Fabrizio Falconi fotografato da Gabriele Pagnini a Cannes nel 1987 

Nel Maggio dell'87, mentre seguivo il Festival di Cannes come inviato accreditato - in una edizione di grande livello, purtroppo vinta da un modesto film francese, Sous le soleil de Satan di Maurice Pialat, proclamazione che suscitò polemiche ma era piuttosto prevedibile visto che ricorreva il 40mo anniversario del festival), durante una delle mille corse su e giù per la Croisette mi fermai a bere qualcosa al bar del Majestic, insieme a Gabriele Maria Pagnini con cui avevo fatto amicizia in quei giorni.

Gabriele era ed è ancora uno dei migliori ritrattisti italiani ed era lì per Vogue. Senza nessuna posa, mi scattò al volo (inquadrando appena nell'obiettivo) questa foto, che mi ricorda i tempi belli di quegli anni e che mi piace ritrovare ogni tanto tra le cose.

Al link qui sotto alcune delle bellissime foto di Gabriele ai veri divi:



13/09/22

Cos'è la strana creatura scolpita da Bernini che appare nella Fontana dei Fiumi a Piazza Navona? Lo si scopre tra le pagine di "Porpora e Nero"

 



Che cos'è quella stranissima creatura che si erge dalle acque proprio al centro della meravigliosa Fontana dei Fiumi realizzata dal genio di Gian Lorenzo Bernini a Piazza Navona ? 

Le forme del tutto inconsuete hanno procurato molti grattacapi agli studiosi della storia dell'arte che soltanto in tempi recenti sono riusciti ad individuare l'animale misterioso al quale si ispirò Bernini, la cui vicende è strettamente legata al nome e al sapere sconfinato di un grande personaggio che visse a Roma negli stessi anni di Bernini (morirono anche a pochi giorni di distanza): il gesuita Athanasius Kircher, nato in Germania, vissuto a Roma, grande erudito, consigliere di principi e papi, collezionista compulsivo di rarità preziose proveniente da ogni angolo di mondo che allora veniva scoperto. 

Ne fu un esempio l’armadillo – il cui nome nella lingua degli indigeni Guaranì era Tatu un animale che nessun europeo aveva mai visto fino a quando un missionario gesuita al seguito dei conquistadores spagnoli pensò bene di spedirne un esemplare a Kircher. Il gesuita lo imbalsamò e lo appese al soffito, proprio all’entrata del suo Museo del Mondo: i visitatori ne restarono così impressionati, che perfino Gian Lorenzo Bernini prese ispirazione da quella strana creatura per immaginare e realizzare il drago che oggi si può ammirare tra le diverse sculture ornanti la Fontana dei Fiumi di Piazza Navona, e che per molto tempo fu scambiato per un coccodrillo.

L'armadillo-drago fa la sua comparsa ed è uno degli anelli-chiave per risolvere il mistero contenuto nel romanzo "Porpora e Nero" di Fabrizio Falconi, frutto di molti anni di appassionante ricerche. 

Per acquistare Porpora e Nero clicca qui. 

07/09/22

"(in)abisso" - una poesia di Fabrizio Falconi

 



in(abisso) 



generale tempo del senso perso,
ecco i tuoi amici distratti
ecco coloro che se ne sono andati,
i marinai del vento contrario,
ecco i monchi pazzi
ecco le vedove
ecco mio padre che sorride
e quello che un solco venerabile
ha lasciato, eccoli in corteo:
non vedi come conta i denti la ruota
del tempo soppesato da te,
non vedi come si ribella
reclama un nuovo visibile
spavento, uno spavento che finisca
in riso e non si penta e non scolori
mai
nel pianto.


06/09/22

"Dammi forza", una poesia di Fabrizio Falconi






Dammi forza 
e un quieto scomparire, 
di questo poco
sventolio evanescente 
non voglio ricordare
neppure
l'ombra o l'inizio.


Fabrizio Falconi, da "L'ombra del ritorno", Campanotto, Udine 1998, e da "Poesie 1996-2007", Prefazione di Robert P. Harrison, Postfazione di Marco Guzzi, Campanotto, Udine, 2007 

12/08/22

Quando eravamo free-lance : una parola oggi scomparsa

 

Fabrizio Falconi a ventisette anni 

Per molti anni ho fatto (o sono stato) un free-lance e solo ora mi accorgo che questa parola ormai non la usa più nessuno.

Il motivo è che l'instabilità lavorativa è diventata la norma.

Per noi che la vivevamo allora era una splendida opportunità.

La lente a ritroso di quello che allora era il futuro ci ha mostrato quanto fortunati fummo all'epoca, quando il lavoro c'era, accadeva spesso che premiasse i talentuosi, ed era anche ben retribuito.

Non pensavamo alle garanzie, alla pensione, al domani.

Ci buttavamo nella mischia, e si passava attraverso mille collaborazioni e cose ed esperienze assai diverse, che a volte stordivano e inebriavano. E che era poi bello raccontare.

Ci si innamorava anche, e non solo del lavoro.

Si imparava, più che altro, da chi era più bravo.

Poi certo anche allora era pieno di quelli che conoscevano bene e praticavano silenziosamente mille scorciatoie privilegiate e di quelli che tenevano ben serrate le porte a chi non aveva patentini di casta da esibire.

Ma anche di questo ce ne fregavamo.

La più importante medaglia da portare a casa era il lavoro che si era fatto, a tuo padre che sgobbava in officina da quando aveva 16 anni e a tua madre che hai visto piegata a cucire, in ogni giorno e ogni stagione, dalle 8 di mattina a mezzanotte, sempre.

Fabrizio Falconi 

03/05/22

A Roma esisteva una "Via Tiradiavoli" - una storia di apparizioni e bizzarrie

 


Non è celebrata come la sorella consolare Appia Antica, che per una lunghezza di quasi dodici chilometri di percorso cittadino (entro il Raccordo Anulare) ha mantenuto lo stesso aspetto che aveva duemila anni fa, ma anche la Via Aurelia è capace oggi di stupire il visitatore.

Del resto questa consolare fu una delle primissime costruite a Roma, esattamente nella metà del III secolo a.C. e come le altre prese il nome del suo costruttore, Gaio Aurelio Cotta. Aveva lo scopo di collegare l’Urbe a Cerveteri, l’antica Caere Vetus, etrusca, la cui fondazione sembra risalire addirittura al XII secolo a.C.

L’Aurelia Vetus – questo primo tratto – fu poi prolungato fino alla colonia di Pyrgi, alle pendici del Monte della Tolfa, e poi sempre più su fino a Cosa – la colonia che si trovava sul promontorio di Ansedonia – a Populonia, Vada (oggi in provincia di Livorno, che sorgeva al duecentottantasettesimo chilometro della Via), Pisa, Luna, Genova e Sabatia, cioè fino al confine naturale delle Alpi liguri, al confine con la Francia odierna, scavalcando con la geniale ingegneria romana, zone paludose (come quella nel Versiliese) e popolazioni ostili che si incontravano durante la costruzione (come i temibili Apuani).

Una costruzione che durò per tre secoli e che fu completata nel 13 a.C. sotto Augusto, con la via Julia Augusta che celebrò il consolidamento delle conquiste del nord e la sottomissione delle popolazioni alpine.

Ma a noi interessa qui il circuito cittadino della Via consolare, che prende origine dalla Porta San Pancrazio, anche se anticamente la Via partiva proprio dal Campidoglio, come tutte le altre consolari, nella computazione chilometrica (e come del resto avviene anche oggi), scavalcando il Tevere attraverso il cosiddetto Ponte Rotto, i cui resti monumentali sono ancora oggi visibili a valle dell’Isola Tiberina, opera del console Manlio Emilio Lepido e costruito negli stessi anni della Via Aurelia, intorno al 241 a.C.

La Via Aurelia poi, si inerpicava sul colle del Gianicolo, attraversava le campagne oggi occupate dalla Villa Doria-Pamphilj ( attraverso un sentiero laterale si accedeva al Casale di Giovio) per spingersi poi sempre più a nord, a una distanza più o meno regolare dal litorale.

Al giorno d’oggi, l’Aurelia antica, nel suo tracciato, rimasto lo stesso da secoli, separa con esattezza il confine tra il quartiere Aurelio e il quartiere Gianicolense, fino all’altezza della via Bravetta.

E proprio lungo questo itinerario c’è una vecchia consolidata leggenda romana, secondo cui una carrozza trainata da cavalli con occhi di fuoco e con a bordo il fantasma di donna Olimpia (la celebre cognata di papa Innocenzo X Pamphilj) partiva a tutta velocità dalla villa della famiglia, in direzione del centro di Roma, lungo la Via Aurelia Antica, attraversava come un fulmine Ponte Sisto per tornare poi nuovamente a sparire all’interno della stessa villa percorrendo obbligatoriamente la via Tiradiavoli, una strada ricordata fino a tutto il 1914 nella toponomastica romana (e dall’origine piuttosto eloquente), poi incorporata anch’essa nell’Aurelia Antica.

Come nacque la leggenda è opportuno brevemente narrare.

A Donna Olimpia Maldaichini, che il popolo dell’Urbe chiamava, a metà tra il familiare e lo sprezzante, la pimpaccia, il nomignolo che alla temuta dama aveva affibbiato l’irriverente Pasquino, sono ancora oggi intitolate a Roma una importante via e una piazza.

La gente di Roma la chiamava anche Papessa,  per le sue frequentazioni importanti oltretevere e la sua parentela acquisita con il Papa, e per le stesse ragioni: il Cardinal padrone.

Quello invece di pimpaccia derivava dalla geniale scritta che giocando sulla separazione delle lettere del suo nome, apparve un giorno affissa sulla più celebre statua parlante di Roma, Pasquino: « Olim pia, nunc impia »,  che tradotto dal latino si leggeva: olim (una volta)  pia (religiosa), nunc adesso) impia (peccatrice).

Nata a Viterbo nel 1592 da una famiglia modesta, Olimpia Maidalchini aveva  sposato in seconde nozze Pamfilio amphilj,  fratello di quel cardinale, Giovanni Battista Pamphilj, che pochi anni dopo sarebbe diventato papa con il nome di  Innocenzo X. 

Grazie alla sua sottile intelligenza e alle sue arti politiche, Olimpia divenne con gli anni la consigliera molto influente del papa, ed in poco tempo la donna più potente e temuta di Roma, al punto che alla sua morte lasciò l’incredibile somma di due milioni di scudi d’oro, contribuendo in questo modo a consolidare la fortuna dei Pamphilj. 

Innocenzo X, avvalendosi dell’opera dei più geniali architetti e artisti dell’epoca – in primis Bernini e Borromini – cambiò il volto alla città, risistemando Piazza Navona, la Basilica di San Giovanni in Laterano,  edificando la sontuosa Villa Pamphilj, organizzando una celebrazione sfarzosa, destinata a rimanere negli annali, dell’Anno Santo del 1650, il tutto con la stretta collaborazione della cognata.

Dopo la morte di Panfilio, il fratello del futuro papa, che aveva sposato in seconde nozze e che era più vecchio di lei di trent’anni, infatti Olimpia si era ritrovata  nel 1639 libera dall’assolvere i doveri coniugali, e soprattutto libera di dedicarsi completamente al cognato, alimentando in tal modo le dicerie e i veleni (generati in gran parte proprio dalle pasquinate)  secondo le quali i due erano stati amanti, ed era stata la stessa Olimpia a provocare la morte del marito, somministrandogli nel sonno un potente veleno.

Cinque anni dopo, l’ascesa di Giovanni Battista Pamphilj, si completò con la sua elezione a papa: era il trionfo per Donna Olimpia: ad essa, il  cognato consegnò un potere immenso. Non v’era praticamente affare importante  che a Roma potesse essere deciso senza averla prima consultata, non v’era la possibilità di essere ricevuti in udienza privata dal pontefice, senza prima passare dal suo avallo.  Al figlio della nobildonna, Camillo, fu inoltre concesso l’onore di diventare dapprima capo della flotta e delle forze dell’Ordine della Chiesa, e poi di divenire a sua volta Cardinale, ricevendo la porpora nel concistoro del 1644 direttamente dalle mani dello zio paterno.

Questo potere smisurato attirò però su Olimpia, inevitabilmente, l’odio feroce di molti avversari, con la proliferazione  di rumorosi scandali, che ne aumentarono la fama controversa.  

Un ultimo episodio infamante fu attribuito ad Olimpia nella occasione della morte di Innocenzo X,  che morì il 7 gennaio del 1655 – alla bella età di 81 anni: sembra proprio che, con il cadavere ancora caldo del Pontefice,   Olimpia non si fece problemi a cavare, dal di sotto del suo letto,  due casse piene d’oro, e al contempo, professandosi  ‘una povera vedova’, a esimersi dal fargli fabbricare una cassa da morto. Non solo, l’ingrata cognata non volle saper nulla, né di esequie, né di sepoltura  o dei convenzionali, lussuosi abiti da lutto che si imponevano al pontefice morto: con il risultato che  la salma di Innocenzo fu abbandonata per tre giorni in una segreta del Vaticano, dove venne vegliato da tre operai i quali si incaricarono quanto meno di proteggere il cadavere dall’insidia dei topi. Sembra incredibile, ma anche la poverissima bara e le esequie furono poi pagate da due generosi  maggiordomi (uno dei quali fra l’altro era stato da lui perfino malamente licenziato), nella indifferenza totale dell’austera Olimpia.

Ritiratasi a vivere nelle sue sconfinate tenute di San Martino al Cimino, nel viterbese,  Olimpia sopravvisse due anni, prima di morire.

Ma anche dopo la morte la leggenda nera intorno ad Olimpia continuò per molti e molti anni. Basti pensare, come abbiamo detto, che soltanto nel 1914 fu cancellata dagli stradari cittadini quella certa Via Tiradiavoli, nella quale la tradizione popolare voleva che il carro fiammeggiante con a bordo il celebre fantasma fosse bloccata, nelle notti di tempesta, dai demoni che volevano portare con loro l’anima avida della signora.

Ma anche l’abolizione della Via e del suo lugubre nome, non ha cancellato la memoria del curioso destino di Donna Olimpia e del suo inquieto, esoterico andirivieni, lungo il tracciato della antica Via Aurelia.

Tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri e Segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton, 2013 


29/03/22

Pochi lo sanno, ma sotto il Roseto comunale di Roma c'è il grande cimitero ebraico di Roma

 



Il Roseto comunale di Roma, noto per la bellezza e l’enorme varietà di specie che ospita – circa millecento tipi di rose diverse – sorge oggi sul declivio destro del Circo Massimo che sale verso l’Aventino, in un’area divisa in due da Via di Villa Murcia. E per una specie di scherzo del destino, in quest’area sorgeva nel III secolo avanti Cristo un tempio dedicato alla divinità di Flora, dea romana delle piante.

La collocazione attuale del Roseto però è piuttosto recente. Esattamente risale al 1950 quando il Comune di Roma decise di spostare in questo luogo il Roseto comunale che dal 1931 sorgeva invece poco lontano, sul Colle Oppio dove era stato realizzato su incarico del Governatore di Roma Francesco Boncompagni Ludovisi. 

La nuova sistemazione, nell’area attuale dell’Aventino ebbe una storia piuttosto travagliata a causa della particolarità di questa area. Chi oggi visita il Roseto comunale, infatti, non sa di trovarsi proprio sopra una enorme distesa (si calcola siano decine di migliaia) di antiche tombe.   Per l’esattezza tombe ebraiche. Le prime sepolture risalgono al 1645, quando venne istituito in quest’area un cimitero, il cosiddetto Ortaccio degli ebrei. Più anticamente, almeno dal Trecento, il cimitero ebraico di Roma si trovava all’interno della vecchia Porta Portese, nel rione Trastevere. Poi, quando furono costruite le nuove mura, nel 1587, il vecchio cimitero fu abbandonato e spostato proprio nell’area dell’Aventino.

Al primo terreno, concesso da papa Innocenzo X agli israeliti, presto seguirono, a causa del sovraffollamento, altri due lotti.  In questi tre spazi contigui, per circa 250 anni gli ebrei seppellirono i loro morti.

L’area dell’Aventino, però cominciò, in tempi più recenti a fare gola alle autorità comunali, per la sua vicinanza alla zona archeologica.  Falliti i primi tentativi di esproprio, per la opposizione della comunità israelitica, nel 1934, in pieno fascismo, tutta l’area fu definitivamente sottratta al cimitero, dopo un lungo e infruttuoso braccio di ferro da parte degli ebrei di Roma che cercarono protezione anche presso il rabbinato europeo.  Ma erano tempi molto difficili e anche da parte delle autorità religiose del continente arrivò il consiglio di cedere per evitare complicazioni ancor più pericolose.

Così il nuovo piano regolatore fascista ricoprì di terra una gran parte dell’antico cimitero per realizzarvi una nuova arteria di collegamento tra Via della Greca e Viale Aventino (l’attuale Via del Circo Massimo) per farvi sfilare gli atleti in ricordo della Marcia su Roma.

Del vecchio cimitero si salvarono circa ottomila sepolture che furono in gran fretta traslate al Verano.

I terreni dell’Aventino, quelli che non erano stato interessato dall’asfalto per la costruzione di Via del Circo Massimo divennero, durante i combattimenti della seconda guerra mondiale, orti di guerra.  E soltanto nel 1950 il comune decise di trasferirvi il Roseto comunale del Colle Oppio, che era stato distrutto dalle bombe.

La nuova sistemazione fu decisa con il consenso della Comunità ebraica ed il Comune, consapevole che il Roseto avrebbe fatto da copertura e da custodia a tombe e sepolture secolari, decise di rendere omaggio e ricordo della originaria funzione del luogo: così anche oggi si può osservare come i vialetti che dividono le aiuole nel settore delle collezioni delle specie pregiate, formino esattamente la trama visibile dall’alto, di una menorah, il celebre candelabro a sette braccio simbolo degli ebrei.

Ancora oggi, i kohanim, i sacerdoti ebrei, non possono calpestare quelle aiuole e quel giardino, per il divieto imposto dal capitolo XXI della Torah.

Tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri e Segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton, Roma, 2013


13/02/22

Poesia della Domenica: "Lieve avvicinamento" di Fabrizio Falconi







Lieve avvicinamento 

Avvicinandosi gli anni del mercimonio 
con la morte, l'intenso amaranto degli oleandri
sembra staccandosi dal muricciolo di selci 
prevalere sul bruno di ogni parola pensata 
sul cielo e la cometa lievi sussurri pronunciati 
come fanno gli animali che riconoscono il momento e vanno di buon grado 
senza nemmeno gridare. 

Smette l'amore, non la sete 
divide il tempo ma non separa 
piove l'attesa senza asciugare.




30/12/21

Torna in libreria, in una nuova edizione, "I Fantasmi di Roma" di Fabrizio Falconi

 



La storia della città eterna attraverso i suoi misteri, le sue inquietanti presenze, le sue figure spettrali

Lo spirito di Messalina, le ombre che frequentano le catacombe cristiane, i celebri spettri di Beatrice Cenci e Lucrezia Borgia; altri meno conosciuti come la bella Costanza De Cupis, il fantasma dalle mani mozze o l'infelice Emmeline che abitò la splendida Villa Stuart, e poi i fantasmi di Shelley e Keats fino alle ossessioni di Dario Argento: questo libro ripercorre la storia millenaria della città dei papi e degli imperatori da un punto di vista insolito, attraverso i racconti dei suoi fantasmi e delle sue presenze occulte. Ne emerge una Roma dai tratti magici, legata alle religioni e ai riti misterici del passato, alla tradizione etrusca, ai culti orientali, ai primi riti cristiani. Si parte dai fantasmi che si dice infestino i teatri della città antica e imperiale, per passare a quelli creati dai roghi e dai processi della Santa Inquisizione, e arrivare infine ad alcune presenze più vicine a noi: una finestra su una Roma esoterica misteriosa, inquietante e dal fascino sorprendente.

Tra i fantasmi di Roma:

Storia infelice di Berenice, l'amante dell'imperatore Tito, e del suo fantasma
Il Pantheon, monumento esoterico per eccellenza, e i suoi abitanti misteriosi
La notte delle streghe e il fantasma di Salomè al Laterano
Le geometrie di Athanasius Kircher e il suo spaventoso museo del Collegio Romano
Il fantasma di Donna Olimpia Maidalchini, la Pimpaccia, la donna più temuta di Roma
Piazza Vittorio e la porta magica degli alchimisti
Il terribile fantasma di Lorenza, moglie del Conte di Cagliostro
I fantasmi del Museo delle Anime del Purgatorio
Beatrice Cenci, il più famoso fantasma di Roma
I Borgia a Roma, una storia di fantasmi
Costanza de Cupis, la nobildonna dalle mani mozze
Il fantasma della chiesa dei Cappuccini e il racconto gotico di Hawthorne
Shelley e Keats, fantasmi a Roma
I fantasmi di Emmeline e di Lord Allen e Villa Stuart
Il Quartiere Coppedè, set per Dario Argento


Fabrizio Falconi

Nato a Roma, ha scritto i saggi Osama bin Laden. Il terrore dell'Occidente (con Antonello Sette), Dieci luoghi dell'animaIn Hoc vinces (con Bruno Carboniero) e i romanzi Il giorno più bello per incontrarti, Cieli come questoPer dirmi che sei fuoco, Porpora e Nero. Saggi e articoli di argomento storico e archeologico sono apparsi su varie riviste italiane. Con la Newton Compton ha pubblicato I fantasmi di RomaI monumenti esoterici d'ItaliaMisteri e segreti dei rioni e dei quartieri di Roma, Roma esoterica e misteriosa, 501 domande e risposte sulla storia di Roma.


Pre-ordina qui la tua copia 

15/11/21

Il mistero della scomparsa di Ettore Majorana - C'è una traccia che porta a Roma ?

 


La scomparsa di Ettore Majorana è uno dei grandi enigmi irrisolti che ha appassionato a lungo giornalisti e storici. Il geniale fisico catanese infatti, come si sa, scomparve letteralmente nel nulla nel marzo del 1938, dopo aver preso un traghetto della Tirrenia da Napoli a Palermo. Nessuno sa con certezza se giunse mai a destinazione, nessuno sa se mise in opera una geniale messinscena, nessuno sa se si suicidò nelle acque del Tirreno (le ricerche in mare non diedero mai frutti), nessuno sa se – come ha sostenuto il prof. Antonino Zichichi - Majorana, sconvolto da quanto aveva scoperto sull’atomo e preconizzando i disastri che sarebbero provenuti dalle scoperte sull’energia nucleare, non decise di sparire rinchiudendosi in un convento.

In realtà, tra le diverse piste, la Procura di Roma, che recentemente ha chiuso dopo decenni le indagini, ha privilegiato quella sudamericana: della scomparsa cioè volontaria del fisico in Venezuela, sotto falsa identità, laddove la sua presenza sarebbe stata accertata – nella città di Valencia – negli anni compresi tra il 1955 e il 1959.

Ma l’ipotesi di una sopravvivenza, sotto falso nome, di Majorana segue anche una pista romana, che negli ultimi tempi si è arricchita di nuovi particolari.

Secondo un nuovo testimone, infatti, il grande fisico avrebbe terminato i suoi giorni proprio a Roma, e nemmeno troppo distante, anzi molto vicino a quell’Istituto di Fisica di via Panisperna 89/a dove insegnava Enrico Fermi e dove si formarono quei geniali ragazzi destinati a scompaginare la storia della scienza e a far parlare di sé nel mondo intero.

Le ultime tracce di Majorana, infatti, portano sugli scalini della Università Gregoriana, in piazza della Pilotta, a pochi passi da Fontana di Trevi.

La testimonianza arriva da un uomo che asserisce di aver parlato a lungo con quel barbone, incontrato un giorno del marzo 1981 insieme a monsignor don Di Liegro, fondatore della Caritas romana (il quale però, essendo scomparso, non può avvalorare la testimonianza).

Secondo il racconto dell’uomo, il clochard dimostrò di conoscere la soluzione del Teorema di Fermat, un difficilissimo enigma matematico rimasto irrisolto per quattro secoli, definitivamente sciolto nel 2000.

Fu proprio monsignor Di Liegro, racconta il testimone, a confermare l’identità dell’uomo, spiegandogli che si trattava proprio del grande fisico, il quale, dopo una sosta in un convento di Napoli, si era trasferito in un altro istituto religioso, nei pressi di Roma, e da qui si era allontanato, proprio per tornare sui suoi passi, nella zona di Roma cioè dove aveva mosso i suoi primi passi di brillantissimo fisico.

Di Liegro chiese al testimone di mantenere il segreto «per almeno quindici anni dopo la mia morte».

E l’uomo decise di rispettare le volontà del sacerdote.

Vero o falso che sia il racconto, fa molta impressione ancora oggi immaginare Ettore Majorana nei panni di un barbone trasandato, tra la folla indifferente, in quella piazza della Pilotta dove ha sede una delle istituzioni accademiche romane più prestigiose e in prossimità di quei luoghi dov’era nato il mito dei Ragazzi di via Panisperna.

 Tratto da: Fabrizio Falconi, Roma esoterica e misteriosa, Newton Compton, 2015

 

29/10/21

Qual è stato il primo Teatro costruito a Roma ? E dove si trovava ?

 



Quando fu costruito il primo teatro a Roma?

 

Il primo teatro in muratura a Roma può essere considerato il Teatro di Pompeo, che sorgeva nei pressi dell’attuale Largo Argentina, tra via dei Chiavari e via dei Giubbonari, dove si trova oggi piazza di Grotta Pinta (resti importanti dell’edificio si possono ancora ammirare oggi nei locali dell’Hotel Lunetta), la cui forma richiama quelle della costruzione romana. 

Il teatro prese il nome dal console Gneo Pompeo Magno che ne ordinò la costruzione al ritorno dalla sua campagna vittoriosa sui popoli orientali, tra il 60 e il 55 a.C. 

Prima di Pompeo, vigeva il divieto di costruire edifici stabili di spettacolo in città. Il console aggirò il divieto facendo apporre sulla sommità della cavea un piccolo tempio dedicato a Venere Vincitrice, cosicché tutta la gradinata del teatro appariva come una grande scala d’accesso al tempio. 

Il teatro aveva dimensioni considerevoli – il diametro era di centocinquanta metri – e fu il primo passo della grande opera di monumentalizzazione del Campo Marzio, una zona destinata a diventare di vitale importanza nella vita della città di Roma.


Tratto da Fabrizio Falconi - 501 domande e risposte sulla storia di Roma - Newton Compton, 2020

 


27/10/21

Il Palazzo del Monte di Pietà a Roma e l’orologio dalle ore matte

 


Il Palazzo del Monte di Pietà e l’orologio dalle ore matte

 

E’ davvero molto lunga la storia del Palazzo del Monte di Pietà che affaccia sulla piazza omonima, nel cuore del rione di Regola. Il Palazzo fu costruito nel 1588 come nobile residenza di un Cardinale, Prospero Santacroce. E’ soltanto quindici anni più tardi, nel 1603, dopo la morte del Cardinale, che divenne la sede del Monte dei Pegni fondato nel 1527 da un padre minorita, Giovanni da Calvi e che era originariamente ospitato in Via dei Coronari.

Per destinarlo alla nuova funzione – che era quella del Monte dei Pegni, istituita da un gruppo di nobili romani papalini per combattere la piaga dell’usura – furono necessari lavori di ampliamento del Palazzo Santacroce, affidati ai più geniali architetti dell’epoca, Carlo Maderno e Francesco Borromini: il Palazzo fu ingrandito e diviso in due parti, una destinata a conservare il denaro, e l’altro i pegni che da quel periodo in poi i Romani in difficoltà economica andavano a piazzare al Monte.

Tra i numerosi abbellimenti e ornamenti del Palazzo, si provvide nel Settecento anche a dotare il Palazzo di un grande orologio – uno dei più grandi di quelli pubblici a Roma – al di sotto del campanile a vela sul frontone.

A quanto pare però, questo orologio monumentale, sin dalla sua installazione, cominciò a mostrare difetti di funzionamento, con gli orari che quasi mai coincidevano con gli altri orologi romani.

Una leggenda – probabilmente basata su un fondamento di verità – allora, spiegò questo malfunzionamento con l’ira di un orologiaio, quello che si era dedicato alla costruzione del meccanismo, il quale indignato per la somma ricevuta, ben più bassa rispetto a quanto pattuito, aveva deciso di sabotare il congegno lasciando perfino la firma del suo dispetto, con una iscrizione incisa sull’orologio stesso: Per non esser state a nostre patte/ orologio del Monte sempre  matte. E cioè, in pratica: accordi saltati, orario impazzito. Più verità che leggenda visto che l’iscrizione pare vi fosse realmente e fu cancellata dalle autorità cittadine in tempi relativamente recenti.

Resta la singolare circostanza che proprio una comune, quotidiana questione di soldi finì per condizionare e per restare ad emblema – visto che l’orologio anche ai tempi nostri continua a seguire un suo orario – del Palazzo che più di ogni altro a Roma è stato ed è il simbolo del denaro.


tratto da: Fabrizio Falconi - Misteri e segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton editore, 2014-2017 

 


26/10/21

La storia della celebre Statua a Giordano Bruno, in Piazza Campo de' Fiori





La celebre statua di Giordano Bruno in Campo de' Fiori fu inaugurata in un caldo giorno di giugno (il 9, giorno della Pentecoste) dell'anno 1889, tre anni dopo la Statua della Libertà e soltanto tre settimane esatte dopo l'inaugurazione della Tour Eiffel a Parigi. 

Ma le peripezie che ne permisero l'erezione sono talmente complesse e lunghe che ci vollero 13 anni per ultimare il tutto. 

L'omaggio a Bruno proprio nella piazza dove il frate pagò il prezzo più alto per il coraggio e la libertà di pensiero, fu dovuto all'iniziativa politica di quella Italia liberale, laica, massona, radicale che dopo l'unità aveva cominciato a raccogliere sempre più sostenitori contro il potere clericale e papale, e ovunque si celebrava il ricordo di quell'eroe sacrificato in modo inumano. 

La statua era una vera e propria sfida al potere vaticano e suscitò l'indignazione delle università pontificie e dello stesso papa Leone XIII, che stigmatizzò ferocemente l'iniziativa. 

L'eco di questa battaglia asperrima varcò i confini italiani e si spanse fino a Londra e a New York, dove il pensiero di Giordano Bruno era da molto tempo studiato nelle aule di filosofia e di teologia. 

Intorno al 1880 fu costituito un comitato internazionale che si poneva come obbiettivo la realizzazione di un monumento a Roma dedicato al frate di cui furono promotori anche Victor Hugo e Ernest Renan

A gennaio del 1888 la battaglia intorno al monumento si fece talmente virulenta che una manifestazione studentesca venne brutalmente repressa dalla polizia

Solo a seguito di questi fatti il capo del governo di allora, Francesco Crispi, decise di concedere il parere favorevole alla realizzazione della statua, anche per rendere evidente e palese l'emancipazione di Roma, divenuta capitale de Regno d'Italia, dal potere dei papi. 

I lavori vennero affidati a Ettore Ferrari il quale realizzò il ritratto in bronzo di Bruno il cui volto, ricoperto dal cappuccio da frate, fu orientato proprio in direzione del Vaticano e le cui mani incrociate sui polsi (come un condannato) sorreggono con dignità un grosso volume

Il filosofo Giovanni Bovio redasse l'iscrizione da porre sul piedistallo: "A Bruno, il secolo da lui divinato qui dove il rogo arse" 

La stata non ebbe vita facile nemmeno in seguito. Durante il fascismo, movimenti ultracattolici di destra chiesero ripetutamente al duce la rimozione del monumento

Mussolini però, consigliato dal filosofo Giovanni Gentile decise di soprassedere e la statua di Bruno ancora oggi è il punto di ritrovo di militanti del pensiero laico e anticattolico che nel giorno della morte del filosofo 17 febbraio si riuniscono a Campo de' Fiori intorno al grande ribelle per perpetuare la memoria e il sacrificio. 

24/10/21

Cagliostro a Roma: Una incredibile avventura

 



L’eretico Conte Cagliostro e il rogo di libri maledetti a Santa Maria Sopra Minerva


Uno dei personaggi più controversi del Settecento fu sicuramente quel Giuseppe Balsamo, palermitano, passato alla storia con il ben più famoso appellativo di Conte di Cagliostro. 

La storia di Cagliostro a Roma nasce quando Giuseppe – alias Alessandro, come scelse di chiamarsi in seguito il sedicente Conte – sposò Lorenza, la figlia analfabeta e a quanto pare bellissima di un orafo. Il matrimonio si consumò nel giorno dell’anniversario della fondazione di Roma – il 21 aprile del 1768 -  in una storica chiesa del rione Regola: San Salvatore in Campo. 

Cagliostro all’epoca aveva venticinque anni,  ma si era già lasciato alle spalle  un passato turbinoso fatto di fughe, ribellioni, piccole truffe che dalla sua Sicilia lo avevano poi portato, dopo viaggi avventurosi,  a Roma.  Qui l’intraprendente giovane aveva aperto una fiorente bottega di falsario (i documenti erano la sua specializzazione) al Vicolo delle Grotte, sempre in quel quartiere della Regola, a due passi da Via dei Giubbonari.

A Roma, il futuro Conte di Cagliostro non si fece certo passare inosservato: venne arrestato per una rissa scoppiata in una taberna al Pantheon,  e dopo qualche giorno venne rilasciato soltanto grazie all’interessamento di un amico che svolgeva le mansioni di maggiordomo in una delle case più importanti di Roma, quella abitata dal Cardinale Orsini

Lorenza e Giuseppe, sposandosi, stipularono una specie di patto di sangue che li portò nel giro di un trentennio  a sconquassare le nobili corti di mezza Europa: lui imbastendo improbabili traffici, stregonerie, guarigioni miracolose,  pseudo artifici alchemici, riti esoterici, che gli guadagnarono la fama del più grande furfante del secolo, lei mettendo a disposizione le sue arti amatorie per sedurre e ammorbidire mecenati, conti (veri) e marchesi, ricchi gentiluomini, e farli diventare strumenti in mano all’ingegnoso e mai domo marito. E ciò ovunque: nel nord Italia – a Bergamo vengono arrestati e poi rilasciati – in Francia,  Spagna, a Lisbona, Londra, e ancora in Francia, Belgio, Germania, Malta, Olanda, Lettonia, San Pietroburgo. Non c’è angolo della vecchia Europa che non li veda protagonisti di qualche intrigo, di qualche teatrale messinscena, di qualche fuga rocambolesca, magari seguita ad un arresto, di qualche scandalo sessuale.

Giuseppe, chimico e ipnotizzatore, inventore e alchimista, trasforma anche la sua identità: comincia a farsi chiamare Alessandro e si inventa il titolo di Conte di Cagliostro. Conosce le grandi personalità del secolo, da Casanova ai sovrani di Francia e di Russia, si mette in testa anche l’idea di fondare un nuovo rito massonico egizio che pretende addirittura sia riconosciuto dal papa, organizza la clamorosa truffa della collana ai danni della Regina Maria Antonietta, finisce nuovamente in carcere, alla Bastiglia, quattro anni prima della Rivoluzione Francese, da cui riesce ad uscire grazie all’intervento dei migliori avvocati del Paese che perorano la sua causa presso il Parlamento.

Ma anche dalla Bastiglia, Cagliostro riesce a fuggire. Ripara a Londra, e per la prima volta Lorenza comincia a prendere le distanze da quell’uomo impossibile, fosco e tiranno.

Qualche anno più tardi, quando Giuseppe si presenta di nuovo a Roma con un prezioso salvacondotto predisposto per lui dal potente principe di Trento, Pietro Virgilio Thun, il vero scopo di Cagliostro è quello di ottenere udienza dal papa e di riuscire nell’intento folle di ottenere il suo riconoscimento dell’ordine egizio da lui fondato. 

A Roma comunque Cagliostro ricevette la massima attenzione dai circoli massonici dell’epoca (frequentati in gran parte da diplomatici stranieri) e in particolare dai Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme che avevano la loro sede a Villa Malta, nell’odierno quartiere pinciano.

A Villa Malta Cagliostro diede spettacolo: organizzando sedute massoniche, dando prova delle sue doti di medium e di veggente, convertendo nuovi adepti al neo ordine da lui fondato.

Questi movimenti però non passarono inosservati agli emissari della Inquisizione, nei cui ambienti si sospettava fortemente che Cagliostro fosse un agente segreto (o un commissario mandato dagli Illuminati di Weishaupt) inviato nella capitale per sobillare le migliaia di massoni che, nascosti, attendevano un segnale per ribellarsi al potere papale.

Non contento, nello studio del pittore francese Augustin Belle, Cagliostro allestì una specie di tempio della sua nuova religione: una stanza completamente ricoperta di drappi neri, e ornata di colonne e simboli massonici, nella quale venivano compiuti i riti di iniziazione.

Ed è a questo punto della vicenda, nel settembre del 1789, quando il conte si sente ormai spiato e seguito ovunque, che Lorenza rompe gli indugi e lo denuncia ad un chierico, parroco della chiesa di Santa Caterina della Rota, a due passi dalla sua casa avita.

La denuncia viene immediatamente spedita al temibile Sant’Uffizio. Lorenza, in un estremo empito di pentimento si rifiuta di firmarla, ma ormai è troppo tardi; le autorità pontificie hanno già deciso la sorte del Conte: bisogna mettere fine alla sua pericolosa intraprendenza, alle sue scandalose e oscure trame.

Il 27 dicembre di quell’anno il Papa (Pio VI) firmò l’istanza speciale per l’arresto di Cagliostro e un manipolo di soldati pontifici fece irruzione negli alloggi del pittore Belle e prese il Conte in flagranza di reato, incatenandolo e portandolo a Castel Sant’Angelo.

Le accuse contenute dalla denuncia della moglie e quelle derivate dagli stessi scritti del Conte, sequestrati, oltre che le delazioni dei molti nemici, causarono al Conte l’imputazione per reati gravissimi che andavano dall’eresia alla pratica di magia nera, al falso contro la Chiesa. 

Per scongiurare il pericolo di una nuova fuga, venne raddoppiata la guardia alle segrete di Castel Sant’Angelo, dove Cagliostro era detenuto in totale isolamento.

Nel processo di fronte al Sant’Uffizio l’imputato viene anche coinvolto in dispute teologiche delle quali egli non poteva minimamente disquisire.

Cagliostro fu interrogato, nel corso di un anno, per ben quarantatre volte e torturato a fuoco dagli inquisitori.

La sua rovina era ormai completa, e il Conte cercò di difendersi in ogni modo  riversando ogni colpa sulla moglie, e sui suoi costumi licenziosi, e giunse fino al punto di scrivere direttamente al Papa, negando ogni accusa di massoneria e chiedendo la grazia. 

Ma la sentenza, pronunciata il 21 marzo 1791 fu di colpevolezza, con la pena prescritta per eretici, eresiarchi e maestri di magia nera, ovvero il rogo.

Pio VI però, per evitare di trasformare il truffatore in un martire, decise di trasformare la sentenza di morte in ergastolo.  Il frate cappuccino Fra’ Giuseppe di San Maurizio, ritenuto corresponsabile (si era fatto convincere ad aderire alla società massonica dal Conte) viene condannato a dieci anni, mentre una assoluzione piena viene dispensata a Lorenza, la cui testimonianza è stata decisiva per l’arresto e la condanna del furfante.

I documenti del processo però sono rimasti segreti per secoli e gli archivi del Vaticano non hanno mai messo a disposizione i documenti: quel che sembra certo è che il Conte arrivò anche a confessare un incontro segreto con gli Illuminati di Weishaupt allo scopo di convertire la massoneria francese alla nuova causa.

Per umiliare in pubblico Cagliostro, fu deciso di costringere il condannato a camminare scalzo e con abiti laceri, tenendo una candela tra le mani, tra due file di monaci, lungo le vie di Roma, da Castel Sant’Angelo e fino a Santa Maria sopra Minerva, la chiesa sorta sui resti del tempio romano dedicato ad Iside.  Giunto nel sacro edificio, Cagliostro fu obbligato ad inginocchiarsi di fronte all’altare e a rendere pubblica abiura delle sue eresie.

Poi, in piazza, proprio di fronte all’Obelisco – il cosiddetto Pulcino della Minerva – fu dato alle fiamme il manoscritto di Cagliostro, nel quale enunciava i principi del suo nuovo Ordine, gli altri testi (andati perduti) e tutti gli emblemi massonici sequestrati nel Tempio del pittore Belle.

Questo rito fu particolarmente simbolico: l’Ordine di Cagliostro, tutto fondato sui crismi della sapienza massonica egizia, veniva eloquentemente distrutto proprio nel luogo di Roma che ricordava più da vicino i contenuti del paganesimo orientale-egizio.

Dopo l’umiliazione pubblica, il Conte venne trasferito a piedi (e al buio, temendo che la presenza del noto prigioniero fosse notata da qualcuno), nella fortezza di San Leo, in cima alle montagne di Montefeltro, la prigione più malfamata d’Italia, dove i detenuti si diceva impazzissero: la cella a lui destinata fu il terribile Pozzetto,  un cilindro di pietra sprovvisto di porta (il detenuto venne calato da una fessura in alto), con una sola misera feritoia e un nudo letto di paglia.

Qui, in questa oscura e spaventosa prigionia, Cagliostro trascorse gli ultimi cinque anni di vita, in un alternarsi di crisi mistiche ed estatiche (durante le quali finirà perfino nel credersi un santo, mandato sulla Terra per convertire gli infedeli), deliri disperati, e una febbrile attività di pittura delle pareti della sua stessa cella, con immagini sacre, e autoritratti.  

Nel giugno del 1795 riuscì a diffondere il suo ultimo annuncio profetico: “Sarò l’ultima vittima dell’Inquisizione, perché quando raggiungerò l’aldilà pregherò talmente tanto che su questa terra ci sarà un nuovo Ordine.”

Morì il 26 agosto del 1795, a cinquantadue anni, per un colpo apoplettico, dopo tre giorni di agonia, rifiutando la confessione e l’estrema unzione.  Il suo corpo fu sepolto nella nuda terra non consacrata, avvolto in un lenzuolo, e ancora oggi c’è qualcuno che rivendica il ritrovamento delle ossa del suo scheletro.

Quel che la leggenda tramanda è che nel dicembre del 1797 la fortezza di San Leo fu occupata dai soldati della legione polacca della repubblica cisalpina di Napoleone. Liberati tutti i prigionieri, i soldati si misero alla ricerca della sepoltura di Cagliostro, la cui fama continuava a propagarsi in tutta Europa, anche post-mortem, e  trovato il suo teschio, lo usarono come coppa per bere il vino.

Qualche tempo dopo, quando le truppe francesi del generale Massena fecero irruzione a Roma, a Castel Sant’Angelo scoprirono un misterioso manoscritto sequestrato a Cagliostro il giorno del suo arresto: un prezioso testo, decifrato nel XX secolo che conteneva e descriveva un rituale autentico della Confraternita dei Rosacroce, opera si disse, del Conte di Saint-Germain, pieno di riferimenti alchimistici e cabalistici.

Circostanza che alimentò a lungo la fama oscura del Conte e la leggenda del suo fantasma: di Cagliostro si continuerà a sostenere per decenni che il Pozzetto di San Leo non fu affatto la sua ultima dimora terrena, e che egli invece, riuscito a fuggire travestendosi con il saio del frate, venuto per confessarlo e ucciso a mani nude, continuò ad imperversare a lungo, sotto mentite spoglie, nelle corti nobili di Roma.  Ma di questo, ovviamente non v’è alcuna prova documentale.


Tratto da Fabrizio Falconi - Roma Segreta e Misteriosa, Newton Compton, 2015