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16/01/19

Storia di una canzone - e di una meravigliosa cover: "Hallelujah" di Leonard Cohen.




Il destino delle grandi canzoni - di essere abusate fino allo stremo - è toccato anche a Hallelujah, scritta da Leonard Cohen per l'album Various Positions, pubblicato nel 1984. 

Anche a questa nobilissima canzone, dal testo enigmatico e colto, è toccato di diventare una specie di inno dell'ovvio, tappeto musicale usato ovunque e in ogni occasione, cantato nelle chiese e nei ricevimenti molto mondani, negli X-factor  e nelle innumerevoli e spesso sgangherate cover. 

Il paradosso è che, pubblicato come singolo, insieme al lato B The Law, inizialmente Hallelujah non ebbe alcun successo commerciale. 

Con il tempo però grazie anche alle successive reinterpretazioni di Hallelujah, ad opera sia dello stesso Cohen, che ne modificò ripetutamente il testo, sia di molti altri artisti, questa canzone diventò un must assoluto. 

Per me la migliore e insuperabile cover della canzone (forse superiore anche all'originale) è quella che risale al 1991 e che fu incisa dal grande  John Cale, soltanto con la sua voce accompagnata dal pianoforte. 

Versione che passò piuttosto inosservata, almeno in Italia, fino al 1998 quando fu usata come tema dell'epilogo del film "Basquiat", realizzato da Julian Schnabel sulla vita dell'artista Jean-Michel Basquiat, lanciato da Andy Warhol e morto prematuramente - a soli 28 anni - nel 1988. 

Vale la pena riascoltare questa versione. 

Cale genialmente ha accelerato i tempi della ballata, rendendola molto più incalzante (l'opposto delle versioni lamentose, da canto scoutistico che vengono fatte oggi), un vero e proprio inno disperato, una richiesta, un contraddittorio ingaggiato con Dio, con il senso vero del trascendente, che parte dalla più coerente tradizione biblica e diventa un trascinante appello moderno nel quale ciascun uomo dei nostri tempi può riconoscersi, con le aspirazioni, le domande irrisolte e l'abbandono e lo sconforto che caratterizzano ogni vita umana. 

Fabrizio Falconi.

08/01/19

Cos'è l'amore?





L'amore non è una gara, non è una competizione a chi sa ferirsi di più e meglio; l'amore non è una nevrosi; l'amore non è credersi innamorati perché ci si specchia nell'amore che l'altro ti dà continuando ad amare solo se stessi; l'amore non è una dipendenza; l'amore è offrire se stessi all'altro, volere il suo bene, la sua felicità; l'amore è non soffrire e non far soffrire. Il fondamento dell'amore come sofferenza è la più grande truffa del fallimento umano.


(Fabrizio Falconi)

15/11/18

David Grossman: "Contro il cinismo" (dilagante).





Amo l'umorismo, disprezzo il cinismo, che è il modo crudele con cui ci chiamiamo fuori dalla vita. E con cui dimostriamo disperazione. I cinici ridicolizzano tutto e si dicono incapaci di cambiare le cose. Così la morsa di cinismo ci avvolge sempre di più, l'indossiamo come un'armatura. 
La cosa triste è che spesso ci diciamo: ok, viviamo tempi duri, proteggiamoci, quando la situazione sarà migliore potremo toglierla. In realtà dopo un po' quell'armatura s'infiltra nel nostro dna. E diventa difficilissimo liberarsene. Gradualmente questa diventa la tua grammatica interiore. Il modo in cui vedi la vita e la gente.




08/11/18

Enzo Bianchi: "Nessuno vive solo per se stesso" - un intervento illuminato.


È terminato il sinodo dei vescovi dedicato a “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale” e ora attendiamo con fiducia le ricadute nelle chiese e nelle realtà locali di quei giorni di preghiera, lavoro, dialogo, discernimento comunitario e dei documenti che ne sono scaturiti e ne scaturiranno. 

Tornando al mio monastero ritrovo nella mia bisaccia di mendicante i volti così diversi di tanti giovani che le parole dei padri sinodali hanno saputo tratteggiare, sovente anche attraverso tonalità di luce contrastanti. A loro, da anziano che li guarda con simpatia e cerca ogni giorno di ascoltarli, chiederei di meditare su una semplice verità: nessuno vive per se stesso e solo da se stesso. 

La sua felicità, il suo bene dipendono sempre anche dal tessuto di rapporti che ognuno crea, custodisce, sviluppa ogni giorno. E in questo tessuto un giovane deve scoprire di essere debitore verso molti altri che gli hanno reso possibile il suo presente, sacrificando qualcosa o molto del loro presente: altri hanno faticato, operato rinunce, a volte hanno dato la vita o, perlomeno, l’hanno spesa affinché il loro mondo fosse più umano. Molti hanno lavorato all’umanizzazione della società e della vita, hanno sacrificato qualcosa del loro presente affinché il futuro fosse più vivibile, più umano. 

E questo debito è ancora più grande per i giovani che vivono in una condizione ancora ignota a molti, troppi loro coetanei, immersi in un presente segnato da miseria, fame, guerra, migrazione forzata… 

È importante esserne consapevoli, perché se i giovani non dimenticano il loro passato né le sofferenze di tanti loro compagni di cammino ai quattro angoli del mondo, allora non sono tentati di appiattire il loro presente solo al fine del godimento; non sono tentati di crescere dandosi un comportamento individualistico, egoistico, in cui pensano solo a se stessi senza gli altri, magari a costo di mettersi contro gli altri. 

Un giovane che comprende il suo essere debitore verso gli altri, il suo aver ricevuto dagli altri, sente di avere responsabilità neo confronti degli altri e del futuro collettivo della società e dell’umanità intera: ecco come uno scopre, assume l’etica, che è sempre un guardare alla convivenza, alla communitas, in modo da vivere con gli altri nel rispetto, nella giustizia, nella collaborazione, nella solidarietà, in modo da godere insieme della vita piena, della pace, fino a sperare insieme… 

E così un giovane scopre il bisogno di autodominio, di autocontrollo, impara a discernere tra le proprie voglie ciò che è possibile, ciò che è buono, ciò che costruisce la vita insieme agli altri. Si tratta di assumere la disciplina che non cede a concessioni continue a ciò che si vuole, si sente, si desidera, a ciò che soddisfa. Essere intelligenti, esercitare un giudizio, mettere in atto tutte le proprie facoltà intellettuali è un dono e una responsabilità. 

La vita infatti è complessa, sempre esposta al male e al bene, tentata dal demonio e nel contempo attirata dalle energie dello Spirito santo. Immerso in questo contesto, il cristiano è chiamato, indipendentemente dalla sua età, a leggere il futuro, a scegliere un’azione piuttosto che un’altra, ad accogliere o rifiutare una chiamata. 

Proprio qui si situa la necessità del discernimento, carisma che va invocato, custodito e costantemente affinato; fino a possedere, se Dio la concede, quella chiaroveggenza spirituale che è vera partecipazione allo sguardo di Dio sugli uomini, sulle cose e sugli eventi, attraverso un progressivo cedere alla sua grazia che ci attira. Compito non facile, quello del discernimento quotidiano, soprattutto per un giovane sollecitato da chi ha interesse a orientare in un determinato senso le scelte, per trarne profitto a breve o a lungo termine. Eppure compito ineludibile: non esistono infatti scelte individuali che non abbiano effetto di bene o di male sulla vita sociale, sul futuro di tutti! L’esistenza di un giovane deve saper vivere anche le rinunce, anche il sacrificio, ma è in questo modo che si conosce la beatitudine della comunione dell’amicizia, dell’amore: e allora si può vivere sperando, sì sperando… 

Ha scritto sant’Agostino: «In tutte le cose umane nulla è bene per l’uomo, se l’uomo non ha uomini amici». Si vive umanamente bene solo se fin da giovani condividiamo, se siamo responsabili gli uni degli altri, se conosciamo la dolcezza della societas, la bontà della communitas.

Fonte: Enzo Bianchi - Monastero di Bose


10/10/18

L'amore calpestato.





Lo invochiamo sempre, ma quando l'amore arriva, non si è quasi mai all'altezza. 

Regna nell'animo umano una spinta cieca, distruttrice, che quasi mai riesce a resistere alla tentazione di arginare, profanare, umiliare, dissipare quel che è puro e che non si sa gestire, vivere naturalmente, felicemente. 

Si allontana da sé l'amore, come fosse un reietto, e ci si dilegua in mare aperto come un naufrago, sentendosi inutili protagonisti. 

Lo si allontana in spregio a quanto dice Pound: "Quel che ami veramente, rimane" e a quanto aggiunge Simone Weil: "I beni più preziosi non devono essere cercati ma attesi come dono".

L'uomo è fondamentalmente stupido.

Preferisce comunque, con ebbrezza, la rovina di una cosa, alla cosa.

Dimenticando la lezione della vita breve, della vita che è importante. Perdiamo l'amore di chi ci ama, perdiamo le cose che non sappiamo coltivare e non sappiamo nemmeno apprezzare, come dono immeritato.




15/09/18

Palestra della durezza.




Ci sono tanti modi per allevare un ragazzo o una ragazza alla palestra della durezza.  Nei primi anni di vita - Bettelheim sosteneva che fondamentali per la determinazione del carattere fossero i primi 6 - basta mettere in scena nel teatro famigliare comportamenti e modelli come: l'instaurazione del senso di colpa come dogma, la repressione, il rispetto di regole dogmatiche, la propensione all'istinto di fuga, la ribellione, la competizione, la freddezza o l'assenza. 

Certo, ha ruolo fondamentale anche la predisposizione, il carattere, quello che è il proprio destino personale, quello con cui si nasce. 

Ma non c'è dubbio che ciò che si assorbe nell'ambiente famigliare nei primi anni, soprattutto a livello di sofferenza interiore - quando il bambino e poi l'adolescente si sentono abbandonati a se stessi e obbligati a trovare una strada propria, una regola morale o non morale interna, indipendente - racconterà molto della vita di un adulto. 

Esercitato a lungo alla palestra della durezza, il bambino diventato adulto tenderà a ripetere quei modelli, a metterli nuovamente in scena, ciclicamente, periodicamente, nevroticamente per poterli poi smentire, tradire o con-traddire.  

Non servirà ricoprire questo adulto di rassicurazioni o bene, dispensato più o meno gratuitamente. Il carattere tenderà a imporsi non appena sarà libero di farlo, cioè non appena i vincoli o le sovrastrutture - un sentimento, un obbligo, un legame - si saranno spezzati. 

Il carattere anzi, segretamente, lotterà sempre, già da prima e durante, contro questi vincoli e queste "sovrastrutture". Remerà contro, per poter un giorno dire all'altro se stesso, trionfante: "ecco, vedi, io avevo ragione". 

La palestra della durezza lascia segni come cicatrici, che non si cancellano con il tempo.  Rifiutando, fingendo di accettarlo, ciò che è mansuetudine, malleabilità, comprensione, genuinità. 

E' come se - e la storia della letteratura mondiale e del cinema è piena di modelli/stereotipi di questo tipo - l'eroe della durezza avesse bisogno di dimostrare a se stesso molto prima che al mondo, che occorre essere duri, non lasciarsi ingannare, non scendere a patti.  Jake La Motta prenderà a testate le pareti della prigione (come avviene nel finale di Toro Scatenato), pur di non dover ammettere con/a se stesso - che è stato, per molto tempo, forse per tutta la vita, il principale, inutile nemico di se stesso. 

Fabrizio Falconi



25/06/18

L'Età del Dubbio - 5 Antidoti alla nostra vita divorata dal dubbio. Michael Cunningham.



questa che riporto è una anticipazione del testo che sarà letto da Michael Cunningham alla Milanesiana, festival ideato e diretto da Elisabetta Sgarbi il 28 giugno alle 21 al Piccolo Teatro Grassi di Milano.


L’età del dubbio

Ho dei dubbi. Chi è che non li ha? Se il diciottesimo secolo è stato l’Età della Ragione, sembra assolutamente possibile che il nostro periodo, quello in cui stiamo vivendo oggi, verrà ricordato come l’Età del Dubbio. 

Persone terribili hanno un potere enorme su di noi. Com’è successo? I nostri telefoni ci stanno ascoltando, proprio mentre noi li ascoltiamo? Ci sarà un futuro? Quando dico che la nostra epoca verrà ricordata come l’Età del Dubbio, lo dico presupponendo che ci sarà un futuro. Pare che tutto quello che sappiamo con certezza è che abbiamo ragione di dubitare di quasi ogni cosa. 

E allora, non dovremmo pensare a qualunque antidoto contro il dubbio che riusciamo a escogitare? 

Perché, in fondo, dobbiamo pur vivere le nostre vite, persino in un’epoca in cui sembra fin troppo ragionevole rimanere dentro casa, con le persiane abbassate. 

Ho un mio, personale elenco di antidoti contro il dubbio. Spero che anche voi ne abbiate qualcuno. 

Uno. Ogni giorno mi concentro su qualunque cosa su cui non nutro alcun dubbio. La bellezza e la vitalità di mio figlio, di ventun anni. La luna quasi piena in una notte d’estate, mentre mi siedo su un tetto di New York City in compagnia di alcuni amici e di una bottiglia di vino. Il pino giapponese di cui mi sto prendendo cura nel balcone del mio appartamento. Le pere che stanno diventando mature sul davanzale della finestra. Ho paura per il futuro di mio figlio, il futuro dei miei amici e del pino. Ma non dubito della loro bellezza e del loro valore, nel presente

Due. Ho fiducia nel fatto che una specie in grado di realizzare Il Gattopardo, la Venere di Urbino e La Traviata – per non parlare del romanzo di George Saunders Lincoln nel Bardo, e l’arte di Mimmo Paladino – non permetterà che il mondo finisca prematuramente, per quanto alcune persone possano adoperarsi per fare esattamente questo. L’arte serve a darci fede, e più fede equivale a meno dubbio. 

Tre. Ogni giorno cerco di aiutare qualcuno, che sia uno sconosciuto bisognoso di soldi o un turista che ha l’aria di essersi perso. Si tratta di semplici azioni, di cui non ho alcun dubbio. Se le persone hanno bisogno di soldi e voi ne avete di più del necessario, gliene potete dare un po’. Non dovete domandarvi per cosa li spenderanno. Se chiedono dei soldi, allora ne hanno bisogno. Se alcune persone si sono perse, potete aiutarle a ritrovare la loro strada. Sebbene probabilmente riuscirebbero cavarsela anche da sole, è sempre possibile che si possano perdere al punto di vagare per il mondo, cacciati di casa, cercando continuamente di raggiungere le loro destinazioni proprio mentre si allontanano sempre di più da esse. Non dovete dubitare dell’onestà del vostro gesto di averle mandate nella direzione in cui dovevano andare

Quattro. Ogni giorno leggo un blog o guardo un notiziario in televisione, con le cui politiche sono fortemente in disaccordo. Credo di sentirmi meglio – o in ogni caso meno nervoso – se vedo il mostro rintanato sotto il letto, invece di sapere solamente che c’è qualcosa sotto il letto. Se si vede il mostro, si ha una consapevolezza maggiore di come combatterlo. È a questo punto che le cose si complicano. Nel guardare il mostro, è possibile che cominciamo a comprendere il suo dolore, la sua paura, i suoi bisogni. Ma in verità è meglio ignorare quell’impulso empatico, almeno finché il mondo non sarà tornato in sé e avrà smesso di cercare così assiduamente di distruggere se stesso.

Cinque. Amore. Ho tenuto l’antidoto migliore per ultimo. Amare gli altri, anche se amiamo una o due persone (benché mi auguri che tutti noi ne amiamo un po’ di più) è più efficace nello scacciare i dubbi di qualsiasi altra misura che conosca. C’è qualcuno nella stanza accanto, c’è qualcuno al telefono, c’è qualcuno che non solo ti conosce, ma sa dove sei e come stai, proprio come tu sai dov’è e come sta l’altra persona. Quando amiamo, quando diamo e riceviamo amore, non possiamo veramente farci del male, non possiamo venire colpiti al cuore, qualunque cosa possa succedere ai nostri corpi, alle nostre città. Alla nostra terra. 

Detto questo… Non possiamo abbandonare i nostri dubbi. Il mondo in pericolo ha bisogno di persone che dubitano. In fondo, ci sono poche persone più pericolose di quelle che non dubitano; che credono incontestabilmente in un sistema politico, in un’ideologia, una fede. E, allo stesso, tempo, dobbiamo vivere e, come specie, non riusciamo a crescere e a progredire veramente con una dieta a base di paura e incertezza. Brindiamo alle nostre vite, allora. Ai dubbi che animano il nostro mondo e a qualunque certezza che ci aiuta a vivere in esso. Brindiamo alla forza che tutti noi possediamo, alla forza che nasce dalla nostra umanità condivisa, alla nostra pura e semplice volontà di continuare a vivere, e affinché i nostri figli continuino a vivere, che per secoli è stata la nostra arma migliore. 

L’ultima cosa che so con assoluta certezza… eccoci qui. 

Sono abbastanza sicuro delle nostre vite per scrivere questo, e voi siete abbastanza sicuri delle nostre vite per ascoltarlo. Eccoci qui, allora. Tutti noi. Eccoci qui, vivi, adesso. Non abbiamo nessuna ragione per dubitarne. Abbiamo tutte le ragioni per esserne lieti. 

Traduzione di Licia Vighi 

MICHAEL CUNNINGHAM

Fonte: Cinquantamila.it

13/03/18

Il Libro del Giorno: "Distacchi" di Judith Viorst


E' salutare, anche se duro leggere e meditare su questo libro, scritto dalla psicoanalista Judith Viorst nel lontano 1986, e divenuto con gli anni un long-seller in tutto l'Occidente. 

Uno studio che affronta il legame vitale tra ciò che si perde nella vita e ciò che si guadagna, e atutto ciò che si deve rinunciare per poter crescere. 

Viorst parte dalla constatazione che la vita umana è continuamente costellate di perdite, che si verificano lungo tutto il corso della vita e che sono necessarie allo sviluppo stesso della vita e alla crescita psicologica.

Sono, naturalmente, perdite dolorose, a partire dalla rinuncia del bambino alla madre, alle prime separazioni con la madre che l'ha generato, passando per tutte le nostre scelte adulte, cui corrispondono sempre a parziali o totali rinunce o compromessi. 

In 20 densi capitoli, Distacchi descrive la faticosa separazione del sé che avviene nell'io-bambino, la fine dell'infanzia, la difficile gestione dei rapporti di amicizia - che non possono essere sempre completi, ma limitati - la separazione e il lutto amoroso, il distacco - comprensivo di amore e odio - nel matrimonio, il distacco dalla propria immagine giovanile quando si comincia a invecchiare, fino all'ultima e più drammatica separazione rappresentata dalla morte.

Dal modo in cui affrontiamo queste separazioni necessarie - sostiene Viorst - dipende la qualità del nostro crescere come esseri adulti e consapevoli. Dalla comprensione che ogni rapporto umano è ambivalente - e quindi non perfetto - dipende  la nostra maturità e la nostra responsabilità.  Nell'abbandonare le nostre aspettative impossibili, scrive Viorst, "diventiamo un Sé che si lega affettivamente, rinunciando alle visioni ideali di un'amicizia, di un matrimonio, di figli, di una vita familiare perfetti per le dolci imperfezioni di relazioni tutte-troppo umane". 

Ci sono insomma tante cose che dobbiamo abbandonare per poter crescere.  Perché non possiamo amare qualcosa profondamente senza diventare vulnerabili una volta che lo perdiamo.  E non possiamo diventare persone separate, persone responsabili, "persone che stringono rapporti, persone che riflettono, senza perdere qualcosa, senza abbandonare, senza lasciare andare via".

Naturalmente ciascun essere umano sa quanto possa essere doloroso il distacco dalle cose che si amano, fuori e dentro di noi. 

Il libro di Viorst, pur partendo da assunti strettamente freudiani - e questo è il limite, non trascurabile di questo lavoro - non indora la pillola: alcuni capitoli, anzi, come quello sull'invecchiare, sulla morte, e sulla separazione dall'essere bambini, sono dolorosi, necessariamente dolorosi, e non offrono facili vie d'uscita. 

E' però un libro importante anche - e proprio - per questo, in tempi piuttosto vacui e inconsistenti. Ripartire dalla necessità della perdita e dalla consapevolezza lucida e faticosa del lutto - in tutte le nostre cose - può offrire un modo nuovo - e certamente più pieno e vero, di vivere le nostre esistenze. 

Fabrizio Falconi
2018 - riproduzione riservata




07/01/18

"Fanny e Alexander" - il discorso finale. Il Testamento spirituale di Ingmar Bergman.


Nel suo ultimo grande film pensato per il cinema,  Fanny e Alexander (1982), uno dei suoi più belli e completi, Ingmar Bergman ci ha lasciato una sorta di testamento spirituale
Ciò in cui credeva, ciò che credeva di aver capito, sul finire della sua meravigliosa parabola artistica e della sua vita, del mistero dell'esistenza.  
Alla fine del film, Bergman mette queste parole in bocca allo Zio Gustaf, il più epicureo e materialista della famiglia Ekdahl, il meno sovrastrutturato potremmo dire.  Sono appena nati due bambini, e alla festa per il battesimo, superata la tremenda crisi seguita alla morte di Oscar Ekdahl e al seguente matrimonio della vedova con il diabolico vescovo Vergerus, con conseguenti vessazioni dei due piccoli Fanny e Alexander da parte del patrigno, lo Zio Gustaf brinda alla pace ritrovata, all'unità della famiglia, nonostante tutto, alla speranza nel futuro, pur con la profonda consapevolezza delle profonde avversità - spaventose - che la vita può offrire. E' una lezione che anche per noi, oggi, resta memorabile. Questo il testo integrale del discorso. 

L’unico talento che io ho è quello di amare quel piccolo mondo racchiuso tra le spesse mura di questo edificio e soprattutto mi piacciono le persone che abitano qui in questo piccolo mondo. Fuori di qui c’è il mondo grande e qualche volta capita che il mondo piccolo riesca a rispecchiare il mondo grande tanto da farcelo capire un po’ meglio. In ogni modo riusciamo a dare a tutti quelli che vengono qui la possibilità, per qualche minuto, per qualche secondo, di dimenticare il duro mondo che è la fuori. Il nostro teatro è un piccolo spazio fatto di disciplina, di coscienza, di ordine e di amore.

Noi non siamo venuti al mondo per scrutarlo a fondo, no davvero. Noi non siamo preparati, attrezzati, per questo tipo, per certe indagini. La cosa migliore è mandare all'inferno i grandi contesti. Noi vivremo in piccolo, nel piccolo mondo. E ci contenteremo di quello. Lo coltiveremo e lo useremo nel modo migliore. La morte colpisce all'improvviso e all'improvviso si spalanca l'abisso. All'improvviso infuria la tempesta e la catastrofe ci sovrasta. Noi tutto questo lo sappiamo, ma ci rifiutiamo di pensare a queste cose sgradevoli... Attori, attrici, abbiamo un grande bisogno di voi perché sarete voi che ci darete brividi di soprannaturale e soprattutto anche i nostri piaceri terreni. Il mondo è una tana di ladroni, e la notte sta per calare. Il male strappa le catene e vaga nel mondo come un cane impazzito, e tutti ne siamo contaminati: noi Ekdahl come qualsiasi altra persona. Nessuno vi sfugge. 
Per questo dobbiamo essere felici quando siamo felici ed essere gentili, generosi, teneri, buoni. Proprio per questo motivo è necessario e tutt'altro che vergognoso essere felici, gioire di questo piccolo mondo: della buona cucina, dei dolci sorrisi, degli alberi da frutta che sono in fiore, o anche di un valzer. Tengo in braccio una piccola, dolce imperatrice. E' una cosa tangibile eppure incommensurabile. Un giorno mi dimostrerà che ho avuto torto in tutto quello che ho detto ora. Dominerà non solo sul piccolo mondo, ma su ogni cosa. 

Qui sotto la sequenza del film nell'originale svedese con sottotitoli in inglese. 


17/11/17

Ho paura della morte - che succederà dopo ? Il dialogo di due fratelli che ancora debbono nascere.




Due fratelli, gemelli. Erano al nono mese, nel ventre della loro madre. 

Erano al buio, ma il buio non lo sentivano nemmeno visto che erano ciechi. Bastava loro quel tanto di luce che traspariva dalla pelle del ventre della loro madre. 

Ma loro non sapevano di essere dentro il ventre di qualcosa, e nemmeno di avere una madre. 

Semplicemente, erano autosufficienti e felici.  Avevano da mangiare sempre, un calore accogliente sempre, nessun particolare trauma, tranne qualche piccolo contraccolpo ogni tanto "da fuori". Normale, quando si vive. 

Un giorno però sentirono che qualcosa stava cambiando nel loro mondo. Scoppiarono improvvisi dolori, e qualcosa premeva forte perché la loro vita lì avesse fine. 

"Non voglio, non voglio, non voglio che finisca!" disse uno dei due fratelli all'altro, che sembrava più saggio e rassegnato:
"Perché ? Non puoi dire cosa ci sarà dopo, oltre." 
"Nulla ci sarà oltre!" rispose il fratello angosciato, "cosa vuoi che ci sia ? E' tutto finito, è la nostra fine. Fuori da qui ci sarà il nulla! Saremo nulla!" 
"Non puoi dirlo", rispose il fratello, "nessuno può dirlo, perché mai nessuno è tornato da fuori, qui." 
"E questo non ti dice niente ? Se non è tornato nessuno è perché lì fuori non c'è niente."
"Dici?"
"Hai qualche altra alternativa ?" chiese sempre più disperato il fratello angosciato. 
"Potrebbe esserci qualcosa che non conosciamo," rispose l'altro, "e che nemmeno ci immaginiamo."
"Come fai anche soltanto a sospettarlo?"
"Non lo so, ogni tanto qui sembrano arrivare dei segnali, da là. Hai notato ? Quando c'è pieno silenzio, sembra di sentire delle voci fuori, una presenza; eppoi vediamo anche qualche luce."
"E' la nostra aurora boreale, non è una luce che venga da fuori! E le voci sono nella tua testa, sono frutto di fantasticherie, immaginazione...Non c'è niente là fuori, ti dico." 

Non c'era più tempo per parlare.  Quella pressione forte, come una specie di violento terremoto, li spinse, tra mille dolori nel buio più fondo. 

"E' finita, prendimi per mano!" chiese il fratello angosciato. Il saggio, spaventato anche lui, gli strinse forte la mano. 

Uno alla volta, faticosamente varcarono la soglia.  La morte li colse in un bagliore assoluto, una luce violenta, violentissima.  Qualcuno o qualcosa che si spingeva avanti per accoglierli. Il rosso del sangue si tramutò in bianco e poi in azzurro. 

Non erano morti.  Il fratello angosciato sentì il cuore del suo fratello a fianco al suo. Erano vivi. Erano oltre, ma erano ancora vivi. 


 Fabrizio Falconi

18/09/17

Kamasi Washington - "Truth" (VIDEO) - La forza vitale.




Il grande jazzista d’avanguardia Kamasi Washington ha inserito questo brano “Truth” come sesto movimento da Harmony of Difference, un nuovo EP pubblicato da pochissimi giorni. . 

Ad accompagnare il nuovo brano di tredici minuti intitolato “Truth”, un film del celebre regista A.G. Rojas che potete vedere qui in testa.

Il brano di Kamasi Washington è una esperienza totale, come il video è un'esperienza totale. 

E' confortante che ancora l'espressività umana sia capace di questo, e tutti dovremmo rallegrarcene. 

Truth - elaborazione geniale di un motivo di Duke Ellington - è la sintesi della forza vitale, della forza interiore.  L'armonia della differenza alla quale si riferisce Kamasi è la ricchezza stessa della vita che si fa non solo e non tanto esperienza, sperimentazione, ma iniziazione. 

Collezioniamo vite fatte di ricordi ed esperienze sensoriali, ma non sappiamo organizzarle, né valorizzarle. Tutto resta ad un livello epidermico e svanisce in fretta nel nulla. 

Invece, soltanto quello che va e resta nel profondo ha senso e fa crescere. 

La nostra vita vale la pena di essere vissuta soltanto per questo: perché è scoperta che resta: tutto quello che resta fa evolvere verso strati di maggiore consapevolezza, e la consapevolezza porta vera gioia interiore. La gioia - non soltanto di essere al mondo, ché tutti ne sono capaci dai girasoli ai maiali nel cortile - ma di sentire (non di pensare) su se stessi il cambiamento evolutivo, la ricchezza raggiunta, il cambiamento profondo del proprio essere. 

Fabrizio Falconi

04/08/17

L'Euforia della distruzione, l'Umiltà della costruzione.





Sembra la cosa più difficile del mondo, essere - come scrive Ezra Pound nell'ultimo verso dei Cantos - uomini, non distruttori

Gli esseri umani, da sempre, provano una euforia profonda nel distruggere.  

Distruggere esaudisce un desiderio di potenza che l'uomo tenta ad ogni passo di decretare nel breve corso della sua esistenza, schiacciata da grandezze incommensurabili (la Terra, l'Universo, l'Infinito). 

Essere capaci di distruggere è la massima espressione della individualità umana, che appaga la certezza di essere al mondo e quindi di poterne essere arbitro della sua esistenza (del mondo), anche se di una piccolissima porzione di mondo. Si potrebbe dire: distruggo quindi sono.

Oltretutto distruggere è enormemente più facile e breve (e quindi gratificante) che costruire. Grazie a questo, distruggere procura anche una consistente euforia, che è quella ribelle, iconoclasta e soddisfatta di Dioniso:

ci vogliono decenni e secoli interi per costruire il centro di una città - le sue difficili armonie architettoniche, le sue delicate strutture;  ma bastano i pochi secondi del fischio delle bombe sganciate da un B52 per mettere fine a tutto, e fare tabula rasa;

ci vogliono anni, lustri e decenni per costruire relazioni umane - amicizia, amore - fondate sulla fiducia, sulla comprensione, sulla cura; ma bastano due sole parole pronunciate o scritte per distruggerle definitivamente; 

ci vogliono mesi e anni per costruire pazientemente un mandala, l'umiltà di stare chini per ore e ore in piena concentrazione per disporre la sabbia - l'elemento più volatile che esista - in un ordine armonico pieno;  ma bastano 15 secondi per distruggerlo, raccogliere la polvere, metterle in un'urna e gettarla nel mare. 

L'Euforia del distruttore è potenzialmente molto più energetica della pazienza o dell'umiltà del costruttore, e anche riferita al destino complessivo della razza umana - sembra destinato a prevalere, proprio perché fa parte dell'essenza più intima e in-guaribile dell'animale umano.

Fabrizio Falconi





20/04/17

La fine di ogni prospettiva ultramondana - La vita come "gara" individuale.




Qualcosa è successo, nel breve volgere di decenni, alla vita.

Eliminata, tolta di mezzo ogni prospettiva ultramondana (Dio è morto) - anche se dal punto di vista delle pure acquisizioni scientifiche nulla conforta per ora questa ipotesi, ma gli uomini hanno deciso o sentono comunque, che è la stessa cosa, così - gli esseri umani sono rimasti soli con la loro terrestritudine

Se la vita è un orizzonte finito, circoscritto dalla pura morte biologica, l'unico possibile senso dell'esistenza è allora il godimento, cioè l'appagamento dei desideri, quelli del corpo e quelli psichici, che non sempre coincidono, fin tanto che si è in vita. 

Perché se è vero che la vita occupa una porzione di tempo finito - e forse a maggior ragione - è sperabile riempire questo tempo di sensazioni ed esperienze positive, confortanti, soddisfacenti piuttosto che spenderla in fatiche o sacrifici, i quali per definizione estendono il loro significato, il loro senso, in una prospettiva futura

Ecco allora che la vita contemporanea sembra esser diventata una gara individuale - giacché l'ottica dei consumi ci vuole sostanzialmente individuali e individualisti - ad accumulare godimenti personali, i quali oggi possono essere assicurati dal progresso tecnologico, dalla libertà dei costumi, dal principio di autodeterminazione, solennemente sancito da ogni carta dei diritti evoluta. 

Il contrappasso di questo possibile eden, è però sotto gli occhi di tutti: la gara a cui ciascuno di noi è chiamato, non è una gara aperta a tutti. I meccanismi economici, le sperequazioni tra parti di mondo ricche e parti di mondo povere (spesso convivono queste porzioni braccio a braccio, porta a porta, in microrealtà urbane e non urbane), non rendono la gara uguale per tutti

Anzi, mano a mano che il progresso si espande e che le promesse degli slogan blandiscono i sogni di tutti, le condizioni diventano sempre più diseguali

Per godere dei beni terreni, per appagare i desideri, occorrono condizioni che non tutti hanno e che non tutti hanno nello stesso modo.  

La maggior parte delle persone, nel mondo della terrestritudine, sostanzialmente guarda gli altri, guarda qualcun altro godere.  Cercando di accontentarsi di ciò che può riservargli la sua scala di valori. 

Ma il confronto, in un mondo dove tutto è (sempre) in mostra, è sempre meno sopportabile.

Per questo la cifra contemporanea più eloquente sembra essere quella della frustrazione.

La frustrazione infatti è un desiderio non esaudito. Che non può essere esaudito perché mancano le condizioni oggettive e soggettive per farlo. 

Il mondo della terrestritudine appare sempre di più come un popolo di frustrati (chiamati ad esibire piccoli godimenti che non possono stare al passo con la concorrenza alta e con l'asticella continuamente alzata dalle necessità dei consumi). 

Nel gioco delle perle di vetro del soddisfacimento individuale è sempre più ardua la scelta dell'unica via di fuga che garantirebbe orizzonti diversi: l'autocentratura, il rifiuto della gara, l'estraneamento, la ricerca di nuovi e più profondi e ancestrali godimenti, che sono quelli della vita vera, del contatto con la natura (biofilia), del riconoscimento delle sofferenze autentiche (e non delle nevrosi), della priorità dei rapporti, dell'ascolto di se stessi (in funzione anche di multi-dimensionalità, oggi del tutto aborrite). 

Fabrizio Falconi

09/11/16

Il Monaco e la Pietra. Un illuminante racconto zen.




per riflettere sul senso autentico del dono. 



Una volta, un monaco mentre era in viaggio trovò una pietra preziosa e la prese con sé.
Un giorno incontrò un viaggiatore e, quando aprì la borsa per condividere con lui le sue provviste, il viaggiatore vide la pietra e gliela chiese. 
Il monaco gliela diede immediatamente. 
Il viaggiatore partì, pieno di gioia per l'inaspettato dono della pietra preziosa che sarebbe stata sufficiente a garantirgli il benessere e la sicurezza per il resto della vita. 
Ma pochi giorni dopo tornò indietro alla ricerca del monaco e, trovatolo, gli restituì la pietra dicendogli: "ora dammi qualcosa di più prezioso di questa pietra, qualcosa di pari valore. Dammi ciò che ti ha reso capace di donarmela."

19/10/16

I mille alibi per non fare nulla.




Viviamo nell'epoca del no, della negazione, della delegittimazione. 

Nel mondo caotico sarebbe bello se gli uomini dedicassero le energie di tutti i giorni anziché per criticare, smentire, delegittimare, negare gli altri (spesso aprioristicamente e sulla base di fragilissimi pregiudizi inconsistenti), per migliorare se stessi. 

Purtroppo migliorare se stessi è un'operazione lunga e faticosa. Mentre spargere un po' di odio a destra e manca e insultare un (presunto) avversario non costa niente, ed è anche abbastanza liberatorio, in modo primitivo, come esperire una funzione fisiologica. 

Migliorare se stessi vuol dire conoscersi. E poi anche dare spazio alla propria creatività. 

E' spesso proprio la repressione di questo istinto creativo - che tutti in misura maggiore o minore hanno - a generare i mostri peggiori. 

Ma per evitare di confrontarsi con se stessi e di raggiungere gli spazi creativi interiori, siamo tutti bravi a crearci alibi di ogni sorta: primo fra tutti  la mancanza di tempo, la mancanza di tranquillità.

Dedicato a tutti coloro che pensano che per esprimere la propria creatività - qualunque essa sia - bisogna rifugiarsi in un eremo, stare tranquilli, trovare il tempo, isolarsi da tutto e da tutti: Ludwig Wittgenstein cominciò a scrivere la prima pagina del suo diario, nel 1914, appena entrato in trincea. 

Lo terminò alla fine della guerra. 

Era il Tractatus logico-philosophicus, l'opera filosofica più importante del Novecento. 

Nel dicembre del 1914, imbarcato su un cargo militare, egli annotò: "di notte i cannoni hanno fatto fuoco talmente vicino a noi, che la nave traballava. Ho lavorato molto e con successo." 

Forza ragazzi, un po' di coraggio.. Noi le bombe non ce le abbiamo, ma ogni giorno ci carichiamo di mille alibi per non fare nulla.

Fabrizio Falconi 

24/04/16

"L'indicibile tenerezza - in cammino con Simone Weil" di Eugenio Borgna (RECENSIONE).



Eugenio Borgna, il decano degli psichiatri italiani, torna su Simone Weil, che così fortemente ha influenzato il suo lavoro e i suoi libri. 

Lo fa con un volume che sin dal titolo, L'indicibile tenerezza, mostra l'intenzione di rivolgersi a quel connotato profondamente umano che ha caratterizzato la breve esistenza di Simone, morta ad appena 34 anni a Londra, lasciandosi probabilmente morire di fame, il 24 agosto del 1943, per l'incapacità di sopportare l'inferno di morte e distruzione che la Seconda Guerra Mondiale stava scatenando sull'Europa, e in particolare sulla amata Francia. 

Borgna nel suo libro (ogni capitolo è preceduto da una stupenda poesia di Paul Celan)  riannoda i temi della vita di Simone Weil, dall'infanzia nella colta borghesia ebraica parigina, alla vicinanza con alcuni grandi irregolari della cultura di quel tempo, dall'esperienza traumatica e traumatizzante del lavoro in fabbrica volontario, in condizioni completamente disumane, all'arruolamento come volontario nella guerra civile spagnola, dalla compilazione delle opere più celebri e complesse, fino agli ultimi messi di malattia  e di inedia, nella capitale britannica dove si è spenta. 

La vicenda di Simone Weil è esemplare sotto molti versi: Borgna sostiene che vi è una grande vicinanza tra la disumana coercizione del lavoro in fabbrica negli anni '20 e la realtà concentrazionaria degli ospedali psichiatrici, dove Borgna ha lavorato per vent'anni. 

Anche nelle condizioni più estreme e - anzi - PROPRIO nelle condizioni più estreme, Simone Weil ha saputo alimentare il fuoco della speranza, dell'amicizia, dell'anima femminile come contrapposizione all'orrore, Nelle lettere alle allieve, nelle poesie, nei trattati filosofici, nelle pagine dei quaderni, nell'unica tragedia scritta, Venezia Salva, mostra i contorni di un'anima veramente eccezionale e grande, capace di illuminare, senza rifiutare l'attraversamento dell'abisso più oscuro. 

Le considerazioni di Borgna funzionano più che altro come raccordo, punteggiatura, delle moltissime citazioni folgoranti della Weil contenute nel libro, e affiancate a quelle di altre grandi anime, da Etty Hillesum (che della Weil appare una sorta di gemella spirituale) a Dietrich Bonhoeffer, da Rainer Maria Rilke a Giacomo Leopardi a Freidrich Nietzsche. 

Tutti questi grandi uomini hanno attraversato la propria ombra, hanno assunto su di loro il dolore e la sofferenza della condizione umana, e del male gratuito. 

Simone non si stanca di fare appello alla attenzione, perché "Ogni  errore umano, poetico, spirituale, non è,  in essenza, se non disattenzione" (pag. 153).

Non si stanca mai di rinnovare la speranza, di infondere luce sullo scenario scarno e livido a volte dell'esistenza: "Dopo mesi di tenebre interiori, all'improvviso e per sempre ho avuto la certezza che qualsiasi essere umano, anche se le sue qualità naturali sono quasi nulle, penetra nel regno della verità riservata solo al genio, se solo desidera la verità e fa un perpetuo sforzo d'attenzione per attingerla. Così diventa anch'egli un genio, benché per mancanza di talento questo genio non traspaia all'esterno." (p.125). 

Insomma è un libro che fa bene leggere, anche quando attraversa crudelmente le zone più buie dell'esistenza. 





10/12/15

Ignoro chi mi ha messo al mondo e cosa sia il mondo, e cosa io stesso. (Pascal - La condizione terrestre)




Così sintetizza in una pagina la condizione terrestre Blaise Pascal nel celebre n. 398 dei suoi Pensieri ( introduzione, prefazione, traduzione e note di Bruno Nacci, Garzanti, 1994).  

Non so chi mi abbia messo al mondo, né che cosa sia il mondo, né che cosa io stesso. Sono in un'ignoranza spaventosa di tutto

Non so che cosa siano il mio corpo, i miei sensi, la mia anima e questa stessa parte di me che pensa quel che dico, che medita sopra di tutto e sopra se stessa, e non conosce sé meglio del resto

Vedo quegli spaventosi spazi dell'universo, che mi rinchiudono; e mi trovo confinato in un angolo di questa immensa distesa, senza sapere perché sono collocato qui piuttosto che altrove, né perché questo po' di tempo che mi è dato da vivere mi sia assegnato in questo momento piuttosto che in un altro di tutta l'eternità che mi ha preceduto e di tutta quella che mi seguirà

Da ogni parte vedo soltanto infiniti, che mi assorbono come un atomo e come un'ombra che dura un'istante, e scompare poi per sempre. Tutto quel che so è che debbo presto morire; ma quel che ignoro di più è, appunto, questa stessa morte, che non posso evitare.

Così come non so da dove vengo, non so dove vado, so solo che uscendo da questo mondo cadrò per sempre nel nulla o nelle mani di un Dio incollerito, senza conoscere quale di queste due condizioni sarà la mia sorte eterna. 
Ecco la mia condizione, piena di debolezza e incertezza. 
Da tutto ciò deduco che devo dunque passare ogni giorno della mia vita senza pensare a ciò che mi capiterà.  

Forse potrei trovare qualche chiarimento ai miei dubbi, ma non voglio preoccuparmene, né fare un solo passo per cercare; anzi, disprezzando quelli che si macereranno in questa preoccupazione, andrò incontro, incurante e senza paura, a questo grande avvenimento, mi lascerò docilmente condurre alla morte, incerto sull'eternità della mia condizione futura. 

Pascal, considerandola ai suoi tempi una condizione "folle", chiosava: 

Chi si augurerebbe di avere per amico un uomo che parla in questo modo ? Chi lo sceglierebbe per confidargli i propri problemi ? Chi ricorrerebbe a lui nei momenti difficili ? 

E invece questo "sentire", previsto con così tanto anticipo e precisione da Pascal, è diventato molto comune e forse perfino prevalente. 

25/10/15

Oltre la Mente - L'attesa è il tempo della gioia.




L'attesa non è soltanto il tempo del tormento e dell'ansia. 

L'attesa, la vigilia, l'avvento (in termini religiosi/cristiani) è (anche) il tempo della gioia.

In psicologia, solo colui che aspetta (qualcosa o qualcuno) è realmente vivo. Quando non si aspetta più nulla o nessuno, si è semplicemente rassegnati o cinici (e in termini psichici formalmente morti).  

Anche chi pratica le discipline orientali (e occidentali) del distacco dalle cose materiali e dagli attaccamenti terrestri, non rinuncia mai ad attendere. Anche soltanto ad attendere ciò che arriva - e ad accettarlo incondizionatamente - dalla vita.

Attendibile è la verità che ci scuote, che dirime il dubbio. 

L'attesa è il tempo in cui la spada resta nell'elsa.  Il tempo nel quale il chicco di grano matura sotto le coltri di neve, in attesa della prossima primavere.  L'attesa è il tempo nel quale un feto si forma completamente nel ventre della madre. La madre che aspetta un figlio. 

L'attesa è carica di promesse.  E in fondo la nostra mente non fa che - continuamente - predisporsi all'attesa.  La nostra giornata è questo: disponiamo di un ordine mentale che ci fa aspettare la prossima cosa, il prossimo impegno, il prossimo svago, quella cosa che prima o poi arriverà e ci farà sentire un po' meglio. 

Quando non si desidera e non si aspetta più nulla, si dice clinicamente che si è inclini alla depressione. 

E non importa, generalmente, che le promesse dell'attesa si concretizzino o meno.  La fiducia o la speranza è più importante.  Soltanto una fede in quel che accadrà determina lo scenario futuro abitabile per la nostra mente. 

Contro questa determinazione vivente - la volontà naturale che si impone e trova sempre i mezzi per avverarsi - si oppone il realismo pessimistico di Schopenhauer e di diversi altri: la speranza è una vana illusione.  Bisogna vivere - dice S. - come se si fosse dentro una colonia penale. E gli altri non sono altro che i nostri compagni di prigionia. 

Ma perfino Schopenhauer concorderebbe sul fatto che anche un coscritto in un campo di prigionia attende qualcosa:  la fine della pena o una fuga, una evasione dalla colonia penale. 

In fondo ciò che possiamo fare di meglio in questa vita - che è essa stessa una attesa - è abitare lo stato/gli stati di attesa e viverli con la maggiore pienezza possibile. 

Pre-gustando, immaginando, interloquendo con i nostri sogni e aspettative, confrontandoli con il principio di realtà. Non rinunciando mai ad assaporare quel che di meglio la vita ha da offrirci e quello che di meglio noi abbiamo da offrire a lei. Il compimento (felice e consapevole) di una attesa.

Fabrizio Falconi (C) -2014 riproduzione riservata.
foto in testa dell'autore: particolare dell'Ares Ludovisi a Palazzo Altemps


06/10/15

Il ritorno dell'anima - di Fabrizio Falconi.





Il ritorno dell’anima



“Guidami, anima mia.”
“ Eccomi.”
“ Dunque, ci sei ?”
“ Io ci sono sempre, lo sai.  Anche quando pensi di avermi dimenticato o confinato, o peggio ancora, segregandomi, ritieni di potermi controllare. Sei sempre così ossessionato tu dal controllo. Pensi sempre che niente ti sfugga, la vita non ti ha insegnato che le cose migliori accadono quando abbandoni  la tua smania di considerare tutto, di controllare tutto ? Non ti sei accorto che è propizio lasciare andare ?”
“ Sì, lo so anima mia, ma non ci riesco.”
“ Ti aiuterò”.
“Solo con te, in effetti posso farcela. Il mondo mi appare confuso. Io stesso sono confuso. Non so più chi sono, anzi non l’ho mai saputo. Un momento mi sembra di desiderare una cosa, il momento seguente non la desidero più.  Desidero ciò che non voglio, voglio ciò che non desidero. Tutto mi appare privo di senso.”
“ Lo so. Ma vuoi lasciarti andare alla deriva come fanno tutti ? Vuoi solo lasciarti trasportare dalla corrente come un relitto ?”
“No. Non lo vorrei.  Non penso di essere venuto al mondo solo per questo.”
“Certo che no. Per questo devi sforzarti di essere, prima di tutto. Di avvicinarti al centro. Te ne sei troppo allontanato. Ti ha sovrastato il fragore inutile.  Dovresti fare silenzio.”
“Silenzio per cosa, anima mia ?”
“Il silenzio è il presupposto di ogni cosa.  In mezzo al fragore non puoi pensare di poter percepire un sussurro. Dirai che non esiste. Ma il sussurro c’è. Sei tu che non puoi ascoltarlo perché c’è troppo rumore.”
“Un sussurro ?”
“Sì. Tutte le cose nuove nascono con un sussurro.”
“Insegnami, anima mia.”
“Non ho nulla da insegnarti. Posso solo camminare insieme a te.”
“E’ quel che vorrei fare. Con te mi sento meno solo. Ho scoperto che sognare mi serve a poco.”
“Certo, se si sogna da soli. Ma noi sogneremo in due. Ed è per questo che il sogno diventerà reale.”
“Sono pronto, anima mia. Dove andremo?”
“Andremo dentro una storia di luoghi. Perciò cammineremo. E camminando, parleremo.  Sarà un bel dialogo, vedrai. Scopriremo molte cose insieme. Alcune le troveremo, altre le ri-troveremo.  E vedrai, ritrovare sarà ancora meglio che trovare.” 
“Eccomi anima mia, sono già innamorato di te.”
“Ascolta, anche l’amore nasce con un sussurro.  Non dire più niente, seguimi.”
“Da dove cominceremo ?”
“Cominceremo dalla morte.”
“La morte, anima mia ?”
“Sì.”
“Ne ho paura.”
“Ma è necessario, la morte è la fine di tutto, noi pensiamo, data la nostra mortalità. Tutto finisce. Ma la morte è inizio. E noi cominceremo dalla morte e finiremo con la morte.  Vedrai, sarà un viaggio tutt’altro che mortifero.”
“Dalla morte alla morte?”
“Sì, ma sono due tipi diversi di morte, l’inizio e la fine.  Cominceremo da Roma e finiremo il nostro viaggio in un luogo chiamato Finisterre. Saremo stanchi, la terra sarà finita, e noi potremo riposare.”
“Potremo anche amarci allora, anima mia ?”
“Lo faremo anche prima, vedrai.”
“Conducimi dunque. Perché Roma?”
“Perché da qui inizia la nostra storia. Tutti i luoghi che visiteremo sono magici.  Hanno il segno dell’umano, di chi li ha costruiti, ma rimandano continuamente a qualcosa di altro e di oltre. Per questo sono magici. Perché chi li ha costruiti e chi li ha concepiti è stato soltanto il tramite di un discorso che proveniva da molto lontano.”
“Roma è una città molto grande. Rischio di perdermi.”
“Vieni. C’è un luogo molto particolare, che in pochi conoscono.  Dobbiamo risalire indietro nel tempo, alla metà del 1600 quando c’era, in questa città, una famiglia molto importante. Venivano dalla Toscana e avevano un brutto nome addosso, il nome di un insetto molto fastidioso: il tafano. Un insetto che punge e succhia il sangue.  Forse questo era già il loro destino visto che la Storia oggi li ricorda come quelli che saccheggiarono i tesori di Roma.”
“Nefasti come Tafani ? Cosa abbiamo da imparare da loro ?”
“No, ogni cosa, lo sai non è bianca o nera. Ogni cosa contiene tutte le sfumature dei colori possibili. Ogni cuore umano dispone di tutto. I Barberini, così presero a chiamarsi per cancellare quell’onta di un cognome non proprio nobile,  cambiarono anche il loro simbolo araldico e scelsero le api.  Ce ne sono molte scolpite sui muri di Roma anche oggi, che li ricordano.”
“Sì, ma cosa hanno da insegnarci ?”
“Tutto. Le api sono insetti immensamente utili e produttivi.  Così furono anche i Barberini. Nel 1623 un’ape Barberiniana divenne anche Papa con il nome di Urbano VIII.”
“E cosa fece ?”
“Molte insigni opere, che ancora abbelliscono la città. Ma quella che interessa ora a noi qui è una piccola Chiesa che oggi si trova alla fine di Via Veneto, chiamata Santa Maria dell’Immacolata, che però viene chiamata Chiesa dei Cappuccini.”
“In onore dei Frati ? Ho sempre nutrito interesse per questi strani camminanti, anima mia.  So che hanno cercato il bene e spesso l’hanno sparso per il mondo, partendo dall’umile, dal basso, dal più piccolo.”
“Sì. Seguivano le orme di uno dei più grandi illuminati, San Francesco d’Assisi, che lo ricorderai bene, era anche lui bianco e nero, visto che spese parte della sua vita tra i piaceri mondani, le feste, la fatuità, prima di accorgersi quanto tutto questo non gli bastasse.”
“E perché questa Chiesa, dunque?”
“Ti ho detto che mi interessava la morte. Questo edificio, voluto dai  Barberini per proteggere e dare una casa ai Cappuccini, qualche decennio dopo la sua costruzione divenne una specie di grandioso e spaventoso monumento alla morte. Vi sono contenute le ossa di più di quattromila frati – di uomini che vissero su questa terra – accumulate nei secoli, provenienti da altri conventi e qualcuno, non sappiamo bene chi, si divertì (non credo sia il termine giusto, ma forse sì…) ad allestire cinque cappelle, nella cripta della Chiesa, utilizzando i più disparati frammenti degli scheletri di quegli uomini (ossa del bacino, vertebre, scapole, clavicole, costole, omeri, femori) per realizzare composizioni di tutti i tipi: fiori, rosoni, bilance, clessidre, simboli legati al tempo, figure geometriche, perfino.. lampadari.”
“Qualcosa di macabro.”
“Sì, c’è chi ha visto solo il macabro di questo luogo. Visitatori illustri come il Marchese De Sade o Nathaniel Hawthorne (che vi ambientò il suo romanzo più gotico, Il Fauno di Marmo), rimasero soggiogati dall’elemento sulfureo. Ma se cammini al mio fianco e vedi questa nuda terra che fa da pavimento alle cripte (i francescani la portarono direttamente dalla Terra Santa, di cui erano e sono custodi), potrai ascoltare le voci. Senti niente ? Lo senti ? Come una specie di richiamo.”
“Aspetta… sì.. mi sembra di sentire un sottofondo lontano, come un coro..”
“Sì.”
“Chi sono?”
“Parlano ciascuno con la propria voce, ma insieme compongono una armonia quasi impercettibile. Sono i morti.”
“Cosa dicono?”
“Sono tristi per aver dovuto interrompere il cammino, ma se ascolti bene il loro canto, sono anche molto felici perché vivono ora in una nuova sostanza.”
“E’ il vecchio sogno di noi umani.  Che esista una dimensione dopo la morte. Dunque è così ?”
“Silenzio… non correre. Non è il tempo delle risposte. E’ soltanto il tempo delle domande.  Ed è così importante che le nostre domande siano quelle giuste. E’ così difficile comprenderlo. Dipende soltanto da quello.  Quante domande sbagliate, insulse, inutili ci ripetiamo oggi…”
“E qual è la domanda giusta?”
“La domanda giusta è quella che ci suggeriscono loro. Prova ad ascoltare…”
“…Ascolto… E’ come se indicassero qualcosa… Non capisco bene.. Dicono di cercare, di camminare.”
“ E’ la stessa cosa, camminare e cercare sono la stessa cosa.”
“E’ vero, anima mia, ora che ci penso.”
“Chi non cerca, è fermo. Non ha bisogno di andare da nessuna parte.”
“Dunque, dobbiamo metterci in cammino ?”
“Sì, è necessario.  E guarda, c’è anche qualcuno che ci indica la direzione..”
“Intendi quello scheletro ?”
“Sì… Vedi, sono due piccoli scheletri. Probabilmente di bambini. Quello di sinistra mostra con la destra, chiaramente, un’asta o una freccia che indica una direzione e da quello strumento pende una lamina dove è scritto:                  

LEGI
TIME
DENO
TAT.”

“Si.. vedo. Cosa significa ?”
“E’ abbastanza misterioso.  Legitime denotat.  Significa qualcosa come: Distingue ciò che è legittimo,  oppure Indica a dovere. Ma non sappiamo a chi o a cosa si riferisca. E’ l’enigma che ci accompagnerà nel nostro cammino. Forse il suo contenuto sarà più chiaro, alla fine del viaggio. Ma deve essere legato alla direzione. E la direzione è chiara, come vedi: indica l’Occidente.”
“E’ lì che dovremo andare anima mia ?”
“Sì, è la direzione giusta: è dove il sole va a morire.  E forse noi dovremo scoprire cosa c’è in quella terra dove anche il sole va a morire. Vuoi andare ?”
“Non temo nulla, se tu sei con me.”
“Andiamo allora.”

Fabrizio Falconi -   (C) - 2014 riproduzione riservata
(foto in testa dell'autore).