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27/01/15

Giornata della memoria 2015. Hermann Goering a Norimberga.






Era seduto tra due estranei.  Fermi per convenzione, per obbligo, per divisa.  E forse pensava a qualcosa di inutile, a quel che aveva mangiato a colazione, forse a sua moglie o forse non pensava a niente. 

Come una furiosa cavalcata ebbra l'aveva portato fin lì. Con quegli uomini che - in una lingua straniera - gli chiedevano conto: lui un prigioniero, lui trattato come un miserabile, lui che in fondo non aveva fatto altro che il proprio dovere, lui che poi aveva anche capito prima di altri la follia del capo e aveva cercato anche di succedergli. 

Lui che messo ai margini dal capo - anche a causa della sua figura imbarazzante e del suo grasso superfluo (140 chili era arrivato a pesare) - s'era perfino preso la briga di compatire quei milioni che morivano nelle fosse e nei forni di Auschwitz.

Lui che ora era perfino magro, un altro uomo: con uno sguardo serio, fisso davanti a sé, appena un po' compiaciuto. 

Che domande gli sarebbero arrivate ora. Che altro gli avrebbero chiesto. Di cosa lo avrebbero accusato. Di essere un soldato, in fondo. Di aver fatto quello che bisognava

Forse sarà morto sognando la luna. Forse non avrà sognato nulla. Perché i vermi si erano impadroniti ormai anche dei suoi sogni. 

Fabrizio Falconi

Nella foto Hermann Goering al Processo di Norimberga nel 1946.  Processato dagli alleati, venne riconosciuto colpevole di «aver pianificato, iniziato e intrapreso guerre d'aggressione» e di aver commesso «crimini di guerra» e «crimini contro l'umanità». Udita la sentenza di morte per impiccagione, Göring chiese di essere fucilato; il tribunale respinse la richiesta. Poche ore prima che iniziassero le esecuzioni - attorno alla mezzanotte del 15 ottobre 1946 - si tolse la vita, inghiottendo una capsula di cianuro introdotta di nascosto nella sua cella, forse da un tenente dell'Esercito Americano, Jack "Tex" Wheelis, con il quale Goering intratteneva rapporti amichevoli.

01/07/14

Dieci grandi anime. 10. Roger Schutz (3./)




Dieci grandi anime. 10. Roger Schutz (3./)

Nella mia gioventù, scrisse negli anni della vecchiaia, io ero stupefatto nel vedere alcuni cristiani che, anche se si riferivano continuamente a un Dio d’amore, spendevano tanta energia per giustificare delle opposizioni. E mi dicevo: per comunicare il Cristo, c’è realtà più trasparente che una vita donata, dove giorno dopo giorno la riconciliazione si compia in concreto ? Allora io ho pensato che era essenziale creare una comunità dove gli uomini decidono di donare tutta la loro vita e qui cercano sempre di riconciliarsi.   
      Questo pensiero era già un assillo, anche se adesso l’urgenza principale era quella di mettere in salvo tanti derelitti – i cugini ebrei – in fuga dai campi di sterminio, e per non creare problemi era Geneviève a spiegare ai vari ospiti della casa che – per non turbare le diverse suscettibilità religiose – era meglio che ognuno pregasse nella sua stanza, da solo.

La situazione, però, in quel borgo a così pochi chilometri dal confine, cominciò presto a farsi molto pericolosa. I genitori di Roger e di Geneviève, venuti a conoscenza del rischio che i figli stavano correndo, chiesero a un vecchio amico di famiglia, un ufficiale in pensione, di vegliare su di loro, e quando, nell’autunno del 1942, arrivò la soffiata che i due fratelli Schutz erano stati scoperti dalla Gestapo, fu organizzata una tempestiva fuga che permise a Roger e Geneviève di riparare in Svizzera.

L’11 e il 12 novembre del 1942 la Francia è completamente occupata, e la polizia nazista perquisì due volte la casa, sperando di trovare i fuggiaschi, e gli ebrei che erano stati nascosti.  Ma la fuga è riuscita, e la casa viene trovata vuota.
      Furono due lunghi anni quelli che Roger fu costretto a trascorrere in Svizzera, aspettando il momento per poter ritornare in Borgogna.

Lo fece dopo la liberazione di Parigi, nel settembre del 1944, ma non da solo: a Roger si erano infatti già uniti i primi fratelli che aveva incontrato e con i quali aveva iniziato una vita in comune.  Difatti, mentre viveva nel paesino francese,  Roger aveva scritto un libretto,  intitolato Note explicative, in cui esponeva, in poche e chiare pagine, il suo ideale di vita. Pubblicato a Lione grazie all'interessamento dell'abbé Couturier,  questo piccolo volume era stato letto da due studenti, Pierre Souvairan e Max Thurian, che raggiunsero senza esitazione Roger a Ginevra per unirsi a lui, nella missione evangelica.

Tornato insieme ai due nuovi compagni a Taizè, Roger si trovò di fronte una situazione di totale desolazione.  La piccola comunità che si andava formando, cominciò con il dare accoglienza ai bambini e ai ragazzi rimasti orfani di guerra, poi l’ospitalità si allargò subito ai reduci di entrambi i fronti.  Poco distante da Taizè v’erano infatti due campi di soldati tedeschi fatti prigionieri dagli alleati.  Utilizzando uno speciale lasciapassare i tre (a cui nel frattempo si è aggiunto un  quarto, Daniel de Montmollin), ricevettero il permesso di ospitare quei prigionieri a casa loro la domenica, per offrirgli un pasto e un momento di preghiera.

Da quel giorno il numero dei fratelli, per fortuna, cominciò rapidamente. Nel 1948 la chiesa del paesino di Taizè, grazie ad una autorizzazione firmata dal nunzio a Parigi,  Angelo Giuseppe Roncalli – il futuro papa Giovanni XXIII – venne messa a disposizione per la preghiera della piccola comunità  e a Pasqua 1949, proprio in quella chiesa, i fratelli si impegnarono per sempre nel celibato, nella vita comune e nel perseguimento di una esistenza molto semplice, eleggendo nel contempo Frère Roger come priore.

Tre anni dopo, nel silenzio di un lungo ritiro, durante  l’inverno del 1952,  la regola di vita, divenuta universalmente nota come Regola di Taizé – o Fonti di Taizé come fu chiamata più tardi – fu definitivamente scritta dal Frère, in un breve testo di poche pagine,  che contiene i principi fondamentali spirituali a cui la Comunità fu chiamata ad ispirarsi e ancora oggi si ispira (2), esprimendo “l’essenziale che rende possibile la vita comune.”


In uno di questi stringati capitoli, Frère Roger espresse il senso della sua ricerca di Dio:  Nel profondo della condizione umana, è scritto nella Regola, esiste l’attesa di una presenza.    Sappi che il solo desiderio di Dio è già l’inizio della fede.  Ciò che conta all’inizio, non sono le vaste conoscenze. Esse hanno certo un grande valore, ma è solo con l’intuizione che riesci in primo luogo a penetrare il Mistero della Fede. Saprai sempre ricordare la folgorante realtà del Vangelo: “Non siamo noi, ma lui che ci ha amati per primo”?  Questa è luce per la tua vita. Per strano che sia, abbandonati a lui e non inquietarti se non giungi ad amarlo subito. (3)

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

2       Le Fonti di Taizè, di Frère Roger di Taizé (titolo originale Le sources di Taizé) sono pubblicate in Italia da Elledici, Torino, 1998, con traduzione a cura della stessa Comunità di Taizé.
3.      Le Fonti di Taizè,  Op.cit. pag.51/52

30/06/14

Dieci grandi anime. 10. Roger Schutz (2./)





Dieci grandi anime. 10. Roger Schutz (2./)


La  musica fra l’altro, ebbe, nella famiglia di Roger, un'importanza del tutto particolare:
una zia aveva studiato virtuosismo pianistico addirittura con Hans Von Bulow e  Franz Liszt.  E anche Geneviève, la sorella che condividerà con Roger l’avventura della fondazione della Comunità, prima di raggiungere il fratello a Taizè,  studiava musica pensando di diventare una concertista.  Questa familiarità con la musica spiega bene la scelta dei canti e della meditazione musicale, come mezzo privilegiato di comunione e condivisione, che verrà realizzato molti anni dopo a Taizé.

Il giovane Roger era cagionevole di salute: durante l'adolescenza si ammalò di tubercolsi polmonare e diverse ricadute fecero temere il peggio.  Una volta guarito però, contro la volontà del padre che lo voleva teologo, manifestò l’intenzione di iscriversi alla facoltà di Lettere per diventare scrittore.  Ma raggiunta Parigi, dove portò con sé un primo scritto – intitolato: Evoluzione di una giovinezza puritana – cambiò idea, finendo proprio per iscriversi alla facoltà di Teologia, prima a Losanna e  poi a Strasburgo. 

Al termine di questo, periodo, nel 1940, quando l’Europa bruciava ormai del conflitto mondiale, viaggiando in bicicletta,  Roger riuscì a raggiungere la Francia, che significava per lui un ritorno alle origini della sua famiglia materna: il giovane si sentiva chiamato a ripercorrere le orme della anziana nonna, Marie-Louise Marsauche-Delachaux, che durante il primo conflitto mondiale si era prodigata, nelle sue terre, per dare rifugio agli scampati dalla guerra. Rimasta vedova, all'inizio del primo conflitto mondiale, infatti,  viveva nella Francia del Nord, a pochi chilometri dal fronte, dove combattevano tre dei suoi figli. La sua casa, finché il pericolo non la costrinse a riparare in Svizzera, era divenuta rifugio per donne incinte, vecchi, bambini. Fu a quanto pare proprio la nonna, ad inculcare nel nipote l’importanza della riconciliazione tra  i cristiani d’Europa, per scongiurare conflitti così crudeli come quello a cui lei aveva assistito.  Da giovane, raccontò il Frère un giorno,  sono partito in bicicletta, per trovare una casa dove pregare, dove accogliere e dove ci sarebbe stata un giorno questa vita di comunità.  Idee già molto radicate e chiare, dunque.

E Roger trovò questo posto dove stabilirsi, proprio in Borgogna, vicino a Cluny, dove sorge una delle più antiche abbazie d’Europa, fondata nel 910 d.C. centro del monachesimo occidentale benedettino.

Un racconto riferito dallo stesso Frère, vuole che egli fu spinto a scegliere il piccolo villaggio di Taizè, poco distante da Cluny, proprio a seguito del calore con cui fu accolto dai suoi abitanti, e in particolare delle suppliche di una vecchia contadina, una certa Henriette Ponceblanc, che invitatolo a pranzo, gli disse: "Resti qui, siamo così soli".   Una frase che, come riferì più tardi, a Roger sembrò proferita dal Cristo stesso attraverso le parole di quella donna.  

Quella scelta fu davvero provvidenziale: Taizé sorgeva infatti vicinissima alla linea di confine che divideva in due la Francia, dopo l’invasione nazista, ed era il punto di passaggio ideale dei molti rifugiati che cercavano scampo al sud, sfuggendo all’occupazione dei tedeschi.

In condizioni molto precarie – con l’aiuto di un prestito e della sorella Geneviève accorsa dalla Svizzera -  Roger comprò una vecchia casa abbandonata, insieme a due casupole adibite a dimora dei contadini.   Si mise al lavoro e in breve tempo riuscì a rendere gli edifici abitabili. L’acqua era quella di un pozzo, si mangiava quel poco che si riusciva a comperare al mulino del paese. 


Eppure, in condizioni così povere, così modeste, Frère Roger cominciò a edificare le fondamenta della sua grande opera, decidendosi ad offrire rifugio a decine di ebrei in fuga dalla Francia occupata. In quei mesi drammatici, pregava da solo per tre volte al giorno  in un piccolo oratorio, come farà poi la futura comunità che aveva già in mente. 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

29/06/14

Dieci grandi anime. 10. Roger Schutz (1./)





Dieci grandi anime. 10. Roger Schutz (1./)

Il nome di Roger Louis Schutz, detto frère Roger fece il giro del mondo quel caldo giorno, il 16 agosto del 2005, quando la notizia che una donna squilibrata aveva accoltellato l’ottantenne fondatore della Comunità di Taizè, impressionò  gettando nello sconforto le centinaia  di migliaia di persone che nel corso dei decenni avevano soggiornato tra quelle colline della Borgogna, alla ricerca di un ristoro o di una rigenerazione spirituale.
Le circostanze della morte del frère, assai simili al martirio (seppure per mano di una persona non in possesso di tutte le facoltà mentali) contribuirono alla riconsiderazione della vicenda umana di un uomo dalla personalità unica, che con la sua opera dedicata agli altri ha attraversato gran parte del Novecento, un cammino che ha lasciato tracce ben visibili, e tutt’oggi importantissime.

Ogni settimana, a Taizè, continuano a riunirsi e a pregare, recitando i famosissimi canti della Comunità,   nella  Chiesa della Riconciliazione – costruita nel 1962 e ampliata con un grande avancorpo nel 1990 – migliaia di persone di almeno 70 nazionalità diverse.  Gli incontri intercontinentali organizzati dalla Comunità  riuniscono da 3000 a 6000 persone ogni settimana d’estate,  e da 500 a 1000  in primavera e in autunno.  La preghiera di ogni sabato sera – a Taizè ogni settimana è scandita sui tempi della Settimana Santa di Cristo -  è come una veglia di Pasqua, una festa della luce.   Ogni venerdì sera c’è la suggestiva adorazione della croce, che si prolunga per ore.  E ognuno è chiamato a prostrarsi, affidando al Legno le proprie pene personali. Le lettere di  Frèrè Roger continuano ad essere diffuse in 60 diverse lingue del mondo.  Alla fine di ogni anno Taizè organizza grandi incontri  di giovani – si arrivano a contare fino a centomila presenze – nelle grandi città europee e negli altri quattro continenti.  Al termine di questo pellegrinaggio di fiducia  sulla terra, ogni partecipante è chiamato a portare la pace e la riconciliazione  nelle loro città, nei luoghi di lavoro,  nelle università, tra le diverse generazioni.

Taizè, nel corso degli anni, è divenuta quella sorgente che il suo fondatore sognava.  I fratelli – delle diverse confessioni cristiane -  non sono lì per accettare doni o regali. Svolgono, invece, quel ruolo che la fede, secondo Frère Roger è chiamata sempre di più ad assolvere nel convulso mondo moderno:  Quando la Chiesa ascolta, guarisce, riconcilia, essa diventa ciò che di più trasparente  ha in se stessa: il limpido riflesso di un amore. (1)

Un sogno, quello della pace e della riconciliazione – prima di tutto tra i diversi fratelli che si riconoscono in Cristo e che sono da secoli divisi – inseguito da Frère Roger sin dall’infanzia, e tenacemente portato avanti – con una forza che assomiglia molto alla santità -  attraverso molti e radicali ostacoli.


Roger Schutz - il nome completo è Roger Louis Schutz-Marsauche -  nato a Provence, un paese di trecento anime, nel cantone svizzero del Vaud, il 12 maggio del 1915, proveniva, ultimo di nove figli,  da una famiglia protestante.   Il padre, Karl Ulrich Schütz era il pastore della parrocchia di Provence, sua madre  Amélie Henriette Schütz-Marsauche aveva invece origini francesi, della Borgogna, ed era una appassionata di musica che, prima di sposarsi, aveva studiato canto a Parigi con l’ambizione di diventare un giorno una cantante solista.


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

1.      Così  Frère Roger in Olivier Clément, Taizè-un senso alla vita, edizioni Paoline, Milano 1998, pag. 84.

22/05/14

Dieci grandi anime. 9 . Etty Hillesum (4./)



Dieci grandi anime. 9 . Etty Hillesum (4./)

Cos’è che spinge una persona in questa condizione - nella condizione di vittima designata di un sistema folle che opera per distruggere e cancellare dalla faccia della terra una intera genia di innocenti -  a prendere le parti di Dio, a proporre addirittura di aiutarlo, anziché protestare contro di lui, inveire contro la Sua ingiustizia profonda, il suo silenzio complice, il suo assistere impassibile alla rovina e all’abominio che si consuma ?

Per spiegarlo dobbiamo capire il senso della teologia personale di Etty, il cui disegno coraggioso appare chiaro – pur con tutte le sofferenze e le lacerazioni  - nel dipanarsi febbrile delle pagine del diario e delle lettere  scritte negli ultimi mesi prima della sua morte.

L’atteggiamento della Hillesum di fronte agli spaventosi eventi della modernità è radicalmente diverso da quello della maggioranza delle intelligenze ebraiche che angosciosamente si interrogano sul silenzio di Dio. Pensiamo ad esempio ad esempio ad Elie Wiesel  per il quale questo silenzio rappresenta la fine della fede o almeno di quella fede tradizionale. Se l'Eterno ci sta mandando tutta questa manna senza poter far nulla – scrive Wiesel -  o questo Eterno è impotente o talmente sadico che nessun disegno Provvidenziale e Imperscrutabile potrà giustificarlo (agli occhi di un uomo e soprattutto di un uomo disperato che vive l'esperienza del campo) (11).

Di fronte a questo umanissimo pensiero, Etty offre invece una prospettiva del tutto rovesciata:  Sono pronta in ogni situazione e nella morte a testimoniare che questa vita è bella e piena di significato, e che non è colpa di Dio, ma nostra, se le cose sono così ora… dentro di me c’è una fiducia in Dio  che in un primo tempo quasi mi spaventava per la sua crescita veloce, ma che sempre più diventa parte di me..   

Questa fiducia, questo abbandono non sono, per la Hillesum gratuiti, non scaturiscono dal cuore in modo immotivato: sono piuttosto il prezzo di una presa di consapevolezza, di una umanità raggiunta al prezzo di un coraggio personale introspettivo che non cerca infingimenti o facili consolazioni e nemmeno mai cerca scorciatoie liquidatorieIl misticismo deve  fondarsi su una onestà cristallina, scrive,  quindi prima bisogna aver ridotto le cose alla loro nuda realtà, cioè come è stato fatto notare recentemente da una studiosa del pensiero di Etty, “ sempre dentro lo spessore del contraddittorio e difficile. Di lì si è rimandati all’Oltre, all’Inafferrabile vicino che sollecita aperture inattese, e crescite impensate, itinerari sconosciuti (12).”

Esempi di questa fede contraddittoria e difficile ma sempre vissuta fino in fondo, sempre vissuta senza sconti e visceralmente, nel senso che oggi si definirebbe più autentico, sono disseminati lungo il diario, nel racconto personale di Etty che si segue come lo svolgimento di un romanzo: l’esperienza dell’aborto, vissuta con determinazione lucida e dolorosa (ho giurato che nel mio grembo non nascerà mai un essere altrettanto infelice, scrive dopo aver assistito all’ennesima scenata del labile fratello Mischa, che viene portato in una casa di cura); quella del darsi a uomini diversi (solo dodici ore fa ero tra le braccia di un altro uomo e gli volevo e gli voglio bene)  quella della totale mancanza di autostima (Etty, mi disgusti, così egocentrica e meschina)  sono stazioni di una via crucis personale, che hanno come epilogo la partenza del vagone dalla stazione di Westerbork e l’annientamento nel campo polacco.


Eppure, in questo cammino  così controverso e difficile, Etty riesce a non perdere di vista l’essenziale.  Sa che Dio non le scapperà di mano, se lei non lo lascerà scappare.  Lo insegue, lo ricerca, lo ascolta, lo accoglie.  E una specie di grazia salvifica sembra scendere a proteggerla, a illuminarla, feconda di nuove scoperte:  ieri sera, scrive in una domenica mattina del 1941, subito prima di andare a letto, mi sono trovata improvvisamente in ginocchio nel bel mezzo di questa grande stanza, tra le sedie di acciaio sulla stuoia chiara. Un gesto spontaneo: spinta a terra da qualcosa più forte di me.

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata.   

      
11.     E. Hillesum, Diario, Op.cit. pag. 169.
12. Così Elie Wiesel in quello che è considerato il suo capolavoro-autobiografia, il romanzo La notte, edito in Italia da La Giuntina, 1992.

03/01/14

La rinascita di Etty Hillesum - di Giorgio Montefoschi.




La rinascita di Etty Hillesum

La maggior parte delle Lettere che Etty Hillesum scrisse dal lager di Westerbork, pubblicate oggi da Adelphi in edizione integrale (traduzione di Chiara Passanti, Tina Montone, Ada Vigliani, pp. 269, e 22), sono del 1943 e praticamente cominciano quando smette di scrivere il suo lungo Diario, pubblicato anch’esso da Adelphi. 

In entrambi i casi — il Diario e le Lettere — quello che colpisce chi si avvicina a questi due testi sconvolgenti, rivelatori di una delle grandi anime del Novecento, è l’estrema velocità dei due mutamenti spirituali che segnano la breve vita di Etty Hillesum. 

Una velocità che, insieme all’incalzare drammatico della storia, mostra l’intervento della mano divina. Nel Diario , scritto dal 1941 al 1943, la Hillesum — nata un secolo fa nel gennaio 1914, figlia di un professore di scuola ebreo e di una ebrea russa malata di nervi e dotata di un pessimo carattere, sorella di due fratelli a loro volta fragili e instabili — è la tipica ragazza borghese irrisolta, preda delle sue inquietudini sentimentali, animata da un desiderio tanto nobile quanto confuso di elevarsi. Avendo cattivi rapporti con i genitori, vive in casa di un uomo molto più vecchio di lei, Hendrik Wegerif (Etty lo chiama Pa Han), un ex contabile di cui è l’amante. 

Va in bicicletta lungo i canali dell’incredibile Amsterdam ancora «quieta», benché sull’orlo della catastrofe del 1940; divora i libri (da Dostoevskij a Jung, da Rilke alla Bibbia); ma è confusa, e dentro se stessa sente come di avere una sorgente impedita, una sorgente che non riesce a zampillare. 

In una pagina del Diario può scrivere: «A volte vorrei essere nella cella di un convento, con la saggezza dei secoli sublimata sugli scaffali lungo i muri, e con la vista che spazia sui campi di grano». 

E poche righe più in là: «Le mie idee pendono dal mio corpo come vestiti troppo larghi nei quali devo crescere... Idee vaghe di ogni tipo reclamano ogni tanto una espressione concreta». 

Nella buona sostanza, sa e capisce che l’unico e vero compito della sua vita è quello di portare ordine e armonia nel caos che regna nel suo cuore. Intanto, ha conosciuto un uomo che si rivelerà fondamentale per la sua evoluzione spirituale. 

Costui è uno psicochirologo ebreo tedesco allievo di Jung, Julius Spier — anch’egli più anziano di lei di oltre venti anni —, che ha lasciato la famiglia per riparare in Olanda. Spier, che ad Amsterdam ha raggiunto una certa fama, studia la mano e sottopone i suoi pazienti a una bizzarra terapia: vale a dire, la lotta. Il medico e il paziente si avvinghiano, combattono, si rotolano per terra, in modo che le forze oscure della psiche nascoste nel nostro corpo possano sciogliersi, liberarsi e armonizzarsi con quelle del corpo. 

Etty è presto attratta da quest’uomo che, oltre alla lotta fisica, le propone letture e argomenti di meditazione profondi, così come Spier è attratto da lei. E non ha molta importanza il fatto che fra i due si stabilisca una relazione sentimentale. Spier è una vera e pietra imprescindibile nel percorso di Etty. Dio pone molte pietre lungo il nostro cammino. A volte, queste pietre sono inciampi, ostacoli che possiamo superare (e il Salmo ci dice che, se glielo chiediamo, Dio ordina ai suoi angeli di sostenerci in modo che possiamo evitarli). 

A volte sono messe lì, proprio dentro noi stessi, per far sì che le riconosciamo come parte di noi stessi, come una nostra pietra che blocca una nostra sorgente, e in uno sforzo sovrumano le solleviamo, lasciando zampillare la sorgente. È quanto accade, miracolosamente, a Etty Hillesum: che un giorno cade in ginocchio e si colma dell’amore di Dio. 

Ora, però, la situazione per gli ebrei olandesi e di tutta Europa sta precipitando. Etty, benché malatissima, si fa internare nel campo di smistamento di Westerbork, dal quale uscirà per andare a morire ad Auschwitz. 

Questo è il secondo definitivo gradino della sua elevazione: corrispondente al suo sacrificio. Etty sa che l’amore per Dio e per il prossimo rimane lettera vuota, se non si fa carne. 

Le Lettere dal campo di Westerbork non sono soltanto la testimonianza dell’orrore e dell’abisso che l’uomo non avrebbe mai potuto immaginare di raggiungere. Sono la più pura testimonianza dell’agape cristiana. La condivisione del dolore.   

18/06/13

La leggenda di Jung antisemita.



Siccome si torna a discutere ancora oggi di un presunto antisemitismo di Carl Gustav Jung (mi è capitato anche di recente di leggere nel libro di memorie Prima di andarsene Saul Bellow una definizione di Jung come "antisemita pazzo" ), pubblico questo articolo definitivo di Paolo Ferliga sul sito di Claudio Risé che ricostruisce punto per punto la vicenda e chiarisce una volta per tutte la questione.  

Capita ancora oggi di leggere che Carl Gustav Jung (psichiatra e psicologo svizzero vissuto tra il 1875 e il 1961, fondatore della Psicologia Analitica), sarebbe stato antisemita e nei primi anni Trenta avrebbe addirittura simpatizzato per il nazismo. 

 Queste accuse, particolarmente pesanti nei confronti di un uomo che ha dedicato tutta la sua vita allo studio ed alla cura della psiche, sono del tutto infondate, smentite dagli scritti, dai comportamenti e dai numerosi pazienti e collaboratori ebrei di Jung. 

Per quanto riguarda gli scritti l’accusa si riferisce ad alcuni articoli degli anni 1933/34 in cui Jung parla di psicologia semitica o ebraica e di psicologia ariana o germanica. (1) L’uso di questa terminologia sarebbe una prova del razzismo intrinseco al pensiero di Jung. Per chi conosca il dibattito interno al movimento psicoanalitico l’uso di tali termini però non sorprende. Lo stesso Freud infatti riconosce più volte una differenza tra “anima ebraica” e “anima ariana”. Nel 1908, ad esempio, parla della sua “parentela razziale” con l’ebreo Abraham e di come “i nostri compagni ariani” siano indispensabili per sottrarre la psicoanalisi alla morsa dell’antisemitismo. (2) 

Nel ‘26 inoltre scrive che, pur non essendo credente, si sente attratto in modo irresistibile dall’ebraismo e dagli ebrei, mosso da “molte oscure potenze del sentimento” e dalla “familiarità che nasce dalla medesima costruzione psichica”. (3) Anche Freud riconosce quindi una specificità psichica connessa all’appartenenza “razziale”. Il termine razza, in quegli anni, non ha ancora assunto quell’alone semantico negativo e terribile che gli verrà conferito dal nazismo. Mentre Freud però non affronta questo problema a livello teorico, Jung si propone di indagare le “oscure potenze del sentimento” che spingono il singolo a sentirsi attratto dall’appartenenza al proprio popolo ed alla sua tradizione e di verificare se esista una “medesima costruzione psichica” correlata alle differenze etniche tra gli uomini.

In questa indagine Jung scopre che la psiche di una persona non è condizionata soltanto dalla sua storia individuale e familiare, ma anche dalla storia collettiva, dall’appartenenza ad una comunità e dalla relazione con la terra in cui la comunità vive.

Nell’inconscio collettivo infatti si depositano i miti, i simboli, le tradizioni di un popolo. Per questa ragione Jung parla anche di un carattere etnico della psiche e quindi di una differenza tra psiche ebraica e psiche germanica. Proprio la scoperta dell’inconscio collettivo e degli archetipi, che ne costituiscono la struttura, permette a Jung di intuire già nel 1918 il potenziale distruttivo dell’anima germanica. Nello scritto Sull’inconscio sostiene infatti che con il venir meno dell’autorità del cristianesimo “la bestia bionda …minaccerà di erompere con effetti devastanti”. (4)

Jung pensa però che l’inconscio dei tedeschi contenga non solo un elemento anticristiano e barbarico potenzialmente distruttivo, ma anche il suo opposto, un’energia in grado di promuovere un rinnovamento culturale e spirituale. Questa convinzione continuerà ad operare in Jung fino al 1933/34, quando ancora si illude che la terra di Goethe, di Beethoven e di Hegel, “uno dei paesi civilizzati più evoluti del mondo” (5), non si consegnerà mani e piedi alla barbarie nazista

I dubbi che Jung condivideva con molti intellettuali della sua epoca lo porteranno così a sottovalutare, in quegli anni, gli “effetti devastanti” del nazismo da lui stesso lucidamente previsti nel 1918. Forse per questa sottovalutazione Jung non si rende conto che i concetti di psicologia ebraica e germanica, negli anni in cui il nazismo utilizza il concetto di “razza ebraica” per giustificare la persecuzione e lo sterminio degli ebrei, si prestano a pesanti fraintendimenti e strumentalizzazioni. Di qui le accuse di antisemitismo e addirittura di simpatia per il nazismo di cui abbiamo parlato all’inizio. 

Jung risponderà a queste accuse in modo organico in tre scritti: Dopo la catastrofe, Commenti sulla storia contemporanea (1945) e Contributi ai “Saggi di storia contemporanea” (1946), (6) in cui presenta gli sviluppi del suo pensiero e un’analisi del nazismo come psicosi di massa. Ma già nel 1936 il saggio Wotan (7) suona come critica spietata del nazismo, analisi precisa e forse non ancora sufficientemente compresa delle sue cause profonde. 

Paolo Ferliga 
Docente di Filosofia Psicologo analista 

19/06/12

E' morta Gitta Sereny.




La scrittrice e giornalista britannica Gitta Sereny, che ha dedicato gran parte della sua vita di autrice all'analisi di cio' che accadde al popolo tedesco durante il nazismo, e' morta all'Addenbrooke's Hospital di Cambridge all'eta' di 91 anni dopo una lunga malattia. 

L'annuncio della scomparsa, che risale a giovedi' scorso, e' stato dato oggi dalla famiglia alla stampa londinese.

 Autrice di libri a cavallo tra storia e cronaca, in cui racconta fatti di cui e' stata spesso testimone, Sereny ha pubblicato "In quelle tenebre" (Adelphi, 1994), biografia di Franz Stangl, il boia nazista di Treblinka, frutto di lunga serie di colloqui nel 1971 nel carcere di Dusseldorf; "In lotta con la verita"' (Rizzoli, 1995), biografia dell'ex ministro nazista Albert Speer che aveva conosciuto nel 1945 assistendo al processo di Norimberga diventando poi amica dell'architetto di Hitler che intervisto' a lungo; "Germania il trauma di una nazione.Riflessioni 1938-2001" (Rizzoli, 2002), dove parte da alcuni episodi autobiografici per collegarsi a momenti chiave dell'ascesa e della disfatta del Terzo Reich e alla fase successiva di chiarificazione e sanzione legale, con l'intervista alla regista Reni Riefenstahl, il resoconto del processo israeliano a John Demjanjuk e il caso della pesante eredita' dei "figli della svastica" (a partire da Martin Bormann junior). 



31/05/10

L'attacco ai Pacifisti a Gaza : una meditazione attuale di Carlo Maria Martini.


Leggendo oggi le spaventose notizie giunte da Israele con l'attacco assurdo alla flottiglia dei pacifisti, che ha lasciato per terra 19 morti (!) mi sono tornate alla mente queste parole del Cardinale Carlo Maria Martini, sulle quali forse oggi più che mai è importante meditare.

Il Cardinale Carlo Maria Martini, tornando da Gerusalemme

Torno da Gerusalemme avendo ancora negli orecchi il suono sinistro delle sirene della polizia e delle ambulanze dopo il terribile attentato di martedì 19 agosto. Ma ciò che sempre più ascolto dentro di me non è soltanto il dolore, lo sdegno, la riprovazione, che si estende a tutti gli atti di violenza, da qualunque parte provengano. È una parola più profonda e radicale, che abita nel cuore di ogni uomo e donna di questo mondo: non fabbricarti idoli! Questa parola risuona nella Bibbia a partire dalle prime parole del Decalogo e la percorre tutta quanta, dalla Genesi all'Apocalisse.

È dunque un comandamento che tocca profondamente il cuore di ebrei e cristiani e segna un principio irrinunciabile di vita e di azione. Ed è un comandamento anche molto caro all'Islam, che ne fa uno dei pilastri della sua concezione religiosa: c'è un Dio solo, potente e misericordioso, e nulla è comparabile a lui. Ma è anche un precetto segreto che risuona nel cuore di ogni persona umana: chi adora o serve in ogni modo un idolo ha una coscienza almeno vaga di voler «usare» la divinità o comunque un principio assoluto per i propri scopi, sente che sta strumentalizzando e sottoponendo ai propri interessi un sistema di valori a cui occorre invece rendere onore. Per questo chiunque adora un idolo intuisce che in qualche modo si degrada, sta facendo il proprio male e sta preparandosi a fare del male agli altri.

Ma non ci sono soltanto gli idoli visibili. Più radicati e potenti, duri a morire, sono gli idoli invisibili, quelli che rimangono anche quando sembra escluso ogni riferimento religioso. Tra essi vi sono gli idoli della violenza, della vendetta, del potere ( politico, militare, economico...) sentito come risorsa definitiva e ultima. E' l'idolo del volere stravincere in tutto, del non voler cedere in nulla, del non accettare nessuna di quelle soluzioni in cui ciascuno sia disposto a perdere qualche cosa in vista di un bene complessivo. Questi idoli, anche se si presentano con le vesti rispettabili della giustizia e del diritto, sono in realtà assetati di sangue umano.

Essi hanno una duplice caratteristica: schiavizzano e accecano. Infatti, come dice tante volte la Bibbia, chi adora gli idoli diviene schiavo degli idoli, anche di quelli invisibili: non può più sottrarsi ad esempio alla spirale perversa della vendetta e della ritorsione. E chi è schiavo dell'idolo diventa cieco riguardo al volto umano dell'altro. Ricordo la frase con cui alcuni giovani ex - terroristi degli anni '80 cercavano di descrivere come avessero potuto sparare e uccidere: "non vedevamo più il volto degli altri".

Le violenze che si scatenano oggi in tante parti del mondo sono il segno che c'è un'adorazione di questi idoli e che essi ripagano con la loro moneta distruttrice chiunque renda loro omaggio. Chi ha fiducia solo nella violenza e nel potere prima o poi tende a eliminare e distruggere l'altro e alla fine distrugge se stesso. Già san Paolo ammoniva: "se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!". E ancora: "Non vi fate illusioni: non ci si può prendere gioco di Dio. Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato" (Lettera ai Galati 5,15 e 6,7).

Siamo nel vortice di una crisi di umanità che intacca il vincolo di solidarietà fra tutto quanto ha un volto umano. Nell'adorazione dell'idolo della potenza e del successo totale ad ogni costo è l'idea stessa di uomo, di umanità che viene offesa, è l'immagine stessa di Dio che viene sfigurata nell'immagine sfigurata dell'uomo. Ma proprio da questa situazione, dalla presa di coscienza di trovarsi in un tragico vicolo cieco di violenza - a cui ha fatto più volte allusione il Papa Giovanni Paolo II - può scaturire un grido di allarme salutare e urgente, più forte dell'idolatria del potere e della violenza.

È un grido che si traduce concretamente nel proclamare che non vi sono alternative al dialogo e alla pace. Lo sta da tempo ripetendo in tanti modi Giovanni Paolo II. Ma esso è un grido che precede le dichiarazioni pubbliche, per quanto accorate. Risuona infatti nel cuore di ogni uomo o donna di questo mondo che si ponga il problema della sopravvivenza umana. Di alternativo alla pace oggi vi è solo il terrore, comunque espresso. Quando la sola alternativa è il male assoluto, il dialogo non è solo una delle possibili vie di uscita, ma una necessità ineludibile. Per questo i leader di tutte le parti tra loro contrastanti debbono rischiare senza esitazioni il dialogo della pace.

Tutto ciò fa emergere ancora più chiaramente le responsabilità della comunità internazionale, quelle dell'Onu e quelle dell'Europa, quelle degli Stati Uniti, della Russia e dei paesi arabi. È necessario che tutti aiutino il processo di pace che si era appena iniziato, con una pressione forte e convinta a favore della Road Map e anche con la prontezza a fornire un sostegno politico e finanziario alle comunità che hanno il coraggio di rischiare la pace. Alla costruzione di muri di cemento e di pietra per dividere le parti contrastanti è preferibile un ponte di uomini che, pur garantendo la sicurezza di entrambe le parti, consenta alle due comunità di comunicare e di intendersi sempre più sulle cose essenziali e su quelle quotidiane.

Certamente l'odio che si è accumulato è grande e grava sui cuori. Vi sono persone e gruppi che se ne nutrono come di un veleno che mentre tiene in vita insieme uccide. Per superare l'idolo dell'odio e della violenza è molto importante imparare a guardare al dolore dell'altro. La memoria delle sofferenze accumulate in tanti anni alimenta l'odio quando essa è memoria soltanto di se stessi, quando è riferita esclusivamente a sé, al proprio gruppo, alla propria giusta causa. Se ciascun popolo guarderà solo al proprio dolore, allora prevarrà sempre la ragione del risentimento, della rappresaglia, della vendetta.

Ma se la memoria del dolore sarà anche memoria della sofferenza dell'altro, dell'estraneo e persino del nemico, allora essa può rappresentare l'inizio di un processo di comprensione. Dare voce al dolore altrui è premessa di ogni futura politica di pace. Non fabbricarti idoli: idolo è anche porre se stesso e i propri interessi al disopra di tutto, dimenticando l'altro, le sue sofferenze, i suoi problemi. Il superamento della schiavitù dell'idolo consiste nel mettere l'altro al centro, così da creare quella base di comprensione che permette di continuare il dialogo e le trattative.