18/02/23

Una buona serie per le vostre serate: "Le Combattenti ("Les Combattantes") dalla Francia, su Netflix


Non è male la serie Le Combattenti (per una volta rispettato l'originale Les Combattantes) visibile su Netflix.
TF1 ci ha investito una cifra astronomica, per una serie: 20 milioni di euro.
L'impegno produttivo si vede: ambientato durante la Prima Guerra Mondiale, è interamente ricostruita la cittadina di Saint-Paulin che si trova sulla strada attraverso la quale i tedeschi sperano di arrivare direttamente a Parigi, ricostruiti minuziosamente ambienti, costumi, battaglie con gran dispiego di comparse.
Per centrare il bersaglio, i produttori hanno richiamato le tre protagoniste della serie Le Bazar de la Charité (tradotto in italiano con l'orribile titolo: Destini in fiamme), uscita un paio d'anni fa, affiancandovi pezzi da novanta come Sandrine Bonnaire e l'inossidabile Tchéky Karyo.
Come la precedente, anch'essa in costume, Les Combattants mette in scena un melodramma nel quale si svolgono quattro destini femminili, nel furore della guerra, nelle malefatte di personaggi disgustosi che della guerra approfittano per qualche loro miserabile interesse.
La sceneggiatura è ben fatta, gli intrecci reggono e si vede piacevolmente fino alla fine, anche se non mancano incomprensibili cose stupide nella messinscena, come una delle quattro protagoniste che va in giro con una pettinatura bionda, mechata, che sembra uscita da un numero di Vanity Fair 2023, e non da un film di guerra ambientato nel 1915.
Sono anche fasulle le strizzate d'occhio scioviniste, e qualche espediente narrativo poco o pochissimo credibile.
Tra le attrici protagoniste la più brava è la rossa Audrey Fleurot, che a quasi 50 anni, sa fare tutto, essere sensuale, materna, melodrammatica, moderna.

Fabrizio Falconi - 2023

14/02/23

"Spare", il libro del Principe Harry: Non è un "libro di pettegolezzi", ma una autobiografia


Terminata la lettura di Spare, il libro del Principe Harry, caso editoriale dell'anno, ecco qualche piccola considerazione:

Allora, innanzitutto: non è un "libro di pettegolezzi", è una autobiografia, come tante altre e come quella che ciascuno di noi può scrivere sulla propria vita, ammesso che esista qualcuno interessato a leggerla.

Quella di Harry sono in tanti, perché la sua storia non è di quelle che capitano a tutti.
Ci sono state ovviamente già molte autobiografie o biografie di membri della casa reale inglese, ma questa è la prima di un membro che ha lasciato la casa madre e se n'è andato a vivere dall'altra parte del mondo, con moglie e figli, rinunciando alle cariche.
Diciamo subito che - pur essendoci dietro lo stesso zampino del geniale J.R. Moehringer, autore del fortunatissimo "Open", autobiografia di Andre Agassi - la qualità letteraria qui, rispetto a quello, è parecchio più bassa.
Si capisce anche perché. Basta rivolgersi alla nota dei ringraziamenti finali, lunga come un TIR, per capire che a questa del Principe Harry hanno messo le mani molte altre persone oltre a Moehringer, e non è difficile comprenderne il motivo.
Il libro comincia con la morte di Diana - Harry ha 13 anni e la notizia gli viene comunicata mentre a mezzanotte è nel suo letto nella dimora, dal padre l'attuale Re Carlo, in modo del tutto austero, come tutto quello che accade tra quelle mura: il ragazzino neo orfano di madre, non viene né abbracciato, né toccato, durante la comunicazione della notizia. Il padre gliela dà - senza piangere, ovvio, i reali non devono piangere - poi esce dalla stanza e lo lascia nel letto a continuare la sua notte.
E termina - avranno scritto l'ultimo capitolo a penna mentre il libro era in stampa - con la morte di Elizabeth II.
Leggendolo, ho pensato che i personaggi di André (Agassi) e quello di Harry sono in realtà molto vicini, come destini e caratteri, ed è forse questo che ha attratto Moehringer.
Entrambi, nascono e vengono heideggerianamente gettati in un mondo che odiano e al quale si sentono del tutto estranei: il padre di Agassi a 4 anni gli mette in mano una racchetta e lo mette a colpire milioni di pallette; Harry, dal canto suo, nasce in una famiglia di REALI, dove tutto quello che lui deve fare è obbedire, interpretare un ruolo, da quando è piccolissimo, da quando deve sparare alla volpe o a un cervo guardandolo negli occhi, per dimostrare il buon sangue blu.
Entrambi, con un padre pesantissimo, cercano rifugio nella madre. Ma quella di André è succube, quella di Harry muore nel tunnel dell'Alma inseguita dai paparazzi, che la fotografano anche cadavere dentro la macchina schiantata.
Entrambi cercano difesa e centratura in una figura maschile autorevole esterna, entrambi cercano vie di fuga nell'alcool e nell'uso di droghe, entrambi sono perseguitati dal rapporto con la stampa e i media. L'uno, il kid di Las Vegas per la sua rozzezza, volgarità, ecc.. l'altro semplicemente perché è il figlio tonto e minore, e cioè spare, la riserva. E forse poi... è pure un figlio illegittimo.
Entrambi, alla fine, cercano riscatto in una donna, una donna forte, che li aiuti a venir fuori da quel mondo che amano e odiano: Steffi per Andre, Megan per Harry.
Personalmente ho trovato interessante il libro, perché descrive un cammino verso la consapevolezza di sé in un ambiente di provenienza che vuole semplicemente che tu interpreti la tua parte, come un attore o un manichino. Un Truman Show dalle regole molto dispotiche, nel quale scorrono spazzatura e cinismo a fiumi.
Harry usa Spare fondamentalmente come arma contundente contro la stampa, che odia, e che ha virtualmente - ma neanche tanto - ammazzato sua madre. Questo j'accuse è eccessivo, ridondante, maniacale. Ma credo sia umanamente comprensibile, vista la sua storia.
Il Libro - e questo è il suo pregio - non colleziona pettegolezzi, ha un tono dignitoso, e consapevole dei propri limiti. Descrive quello che questo ragazzo ha vissuto, anche nei lunghi anni nell'esercito, prima in Iraq poi in Afghanistan. Ha sovente, quasi sempre, parole di affetto per il padre, che pure esce malissimo dalle circostanze di ciò che viene raccontato. Escono malissimo anche il fratello Willy (completamente integrato nel suo ruolo di erede) e della moglie Kate, perfettina e sempre al posto giusto. Malissimo, anzi peggio, l'intrigante Camilla, oggi Regina, che del resto, come ogni matrigna, non può essere mai simpatica.
Infelice la traduzione Mondadori, su cui ha lavorato un esercito di persone e che è brutta e costellata di gravi svarioni.

Fabrizio Falconi - 2023

13/02/23

Poesia del Giorno: "L'ape d'oro"




L’ape d’oro 


Non può entrare nessuno nel reticolo 
dei sensi, dove l’ape d’oro costruisce
il suo ricciolo di delizia e di pathos,
esci al mattino dimenticando gli stivali, 
crei disordine con le tue mani
mentre la pioggia è così silenziosa
così vera ed essenziale, 
e non deciderà di smettere finché
il sole non verrà deposto dalla sua 
culla misteriosa, torni a casa
bagnato con l’acqua nelle tasche
e i piedi imbalsamati, ascolti
qualcosa nel fango che gorgoglia:
non puoi dire che non c’è senso
solo perché non è il senso che vuoi tu.



Fabrizio Falconi - 2022

08/02/23

Un piccolo inno all'intelligenza e al cinema: "Motherless Brooklyn" di e con Edward Norton - Da non perdere


Se avete perso questo film, cercate di recuperarlo, è un consiglio franco. Ora potete farlo, noleggiandolo per 3.99 euro su Amazon prime video.
Motherless Brooklyn - che i soliti titolisti italiani hanno pensato bene di corredare di un'aggiunta, "I segreti di una città", che non c'entra nulla - è un gran bel film diretto da Edward Norton, alla sua seconda prova di regia dopo "Tentazioni d'amore" (altro titolo italiano ridicolo, in originale Keeping the Faith), del 2000.
Siccome credo che l'intelligenza sia attualmente in lenta via d'estinzione, questo film è particolarmente raccomandabile perché è intelligente ed è opera di un attore/regista assai intelligente, Edward Norton. Ed è tratto dal romanzo di uno dei più brillanti scrittori americani viventi, Jonathan Lethem.
Racconta la storia di un gruppo di detective negli anni '50 a New York, che si trova ad indagare sulla morte del loro capo, implicato in una serie di ricatti e corruzioni, dentro all'amministrazione cittadina, il cui assessore all'edilizia vuole sbancare quartieri poveri e neri di Brooklyn per i suoi affari.
Il più brillante di questi detective è per l'appunto Lionel "Brooklyn" Essrog, intepretato da Norton, che è affetto dalla sindrome di Tourette, il che lo rende geniale, ma continuamente sottoposto a tic incontrollati che producono effetti esilaranti.
La vicenda sarà risolta proprio da "Brooklyn" che come gli altri compagni è cresciuto in un orfanotrofio. Ironia, romanticismo, strizzate d'occhio al cinema americano di quel decennio, tutto in questo film sprizza intelligenza.
Il cast è di grande livello: Bruce Willis è il capo, Alec Baldwin il cattivo, Willem Defoe il suo fratello diseredato, la bellissima Gugu Mbata-Raw la paladina che si batte per la sua gente nera, Bobby Cannavale il collega detective di Brooklyn.
Il film ha avuto molte vicissitudini durante la produzioni, che ne hanno ritardato l'uscita nelle sale, nel 2019.
Le musiche, bellissime, sono di Daniel Pemberton, il più geniale musicista sulla scena americana, autore anche di quelle di "Amsterdam" di David O. Russell uscito recentemente.
Non perdetelo.

06/02/23

Henry James: "L'ultimo dei Valeri", uno splendido racconto tutto ambientato a Roma

Henry James

Ho recuperato un racconto di Henry James che finora non avevo mai letto, "L'ultimo dei Valeri" (The Last of Valerii), scritto nel 1874, quando James aveva 31 anni.

Com'è noto, la produzione di Henry James, tra romanzi, racconti, romanzi brevi, è veramente sterminata. Ma ovunque si trovano gemme del suo talento sconfinato.
"L'ultimo dei Valeri" è ambientato a Roma e racconta la semplice vicenda di un pittore, la cui figlioccia, Martha, venuta in Italia, si innamora del conte Valerio, discendente della nobilissima gens Valeria, risalente alla Roma Repubblicana, che ha ricoperto per ben 74 volte la carica di Console (seconda sola ai Cornelii).
Il pittore-narratore si trova di fronte questo bellissimo italiano, che sembra uscito da un bassorilievo antico, con i capelli ricci e folti come quelli di Marco Aurelio, dal fisico massiccio e di carattere ombroso.
La narrazione prende il via quando, dopo il matrimonio, il Conte decide di esaudire il desiderio di Martha e di portarla a vivere nella sua grande villa di famiglia, da parecchio tempo lasciata andare in rovina.
Il Conte - che si chiama Camillo - fa restaurare la villa, e accoglie anche l'idea di riprendere gli scavi nei giardini, che si dice, custodiscano enormi tesori del passato.
Così è: dal primo sondaggio di scavo, emerge una meravigliosa e antica Venere (o Giunone) che sembra essere stata appena sepolta.
Con la gioia per il ritrovamento del prezioso reperto, sale però, insieme, l'improvvisa freddezza del Conte, che comincia misteriosamente a ignorare la moglie.
Il pittore ne scopre il perché: Camillo è letteralmente soggiogato dalla statua che è stata scoperta. Giunge a prostrarsi di fronte a lei, di notte, come un pagano invasato dal suo culto.
La forza del passato, del mito; i fantasmi dei morti e dell'ombra sono anche qui, come in molta della sua opera, al centro del racconto di James.
E la descrizione della Roma dell'epoca - c'è una sublime scena notturna al Pantheon - vale da sola la lettura.
Si tratta di un James ancora acerbo, non quello sontuoso della vecchiaia. Ma il suo spirito di osservazione, unico, c'è già tutto.
E sentite come disegna in due righe il tratto di questo "italiano" di così nobili discendenze:
"La mia figlioccia viveva in una felicità idilliaca ed era completamente innamorata. Ero costretto ad ammettere che anche delle regole rigide hanno le loro eccezioni e che, in qualche caso, un conte italiano è una persona onesta."
Formidabile.

Fabrizio Falconi - 2023

01/02/23

Il Film del Giorno (su Amazon Prime Video): "Viaggio in Inghilterra" di Richard Attenborough, sulla vicenda umana del grande C. S. Lewis



Mi sono incuriosito leggendolo più volte citato in un luogo inaspettato, ovvero il libro di memorie di Andre Agassi, "Open".
Sono andato allora alla ricerca di questo film uscito nell'ormai lontano 1993 e diretto da "Sir" Richard Attenborough.
In Italiano fu chiamato (inspiegabilmente) "Viaggio in Inghilterra", mentre il titolo in inglese era molto evocativo: Shadowlands (Le Terre dell'Ombra).
Si tratta della vera vicenda di Clive Staples Lewis, uno dei più grandi scrittori e intellettuali del XX secolo britannico, autore della saga di Narnia, e di una quantità di saggi e altri romanzi e testi, quasi tutti pubblicati in Italia da Adelphi.
Lewis lo conosco molto bene: lui era uno dei dieci autori che ho scelto per "Cercare Dio", il saggio che ho pubblicato con Castelvecchi nel 2018.
Perciò temevo un po' la ricostruzione della storia della sua vita e in particolare del suo tragico amore con l'americana Joy Gresham, che cambiò del tutto la sua vita, regalandogli una felicità insperata, totale, purtroppo stroncata quasi subito dalla malattia che portò Joy alla morte nel giro di pochi anni.
Il film è molto bello, nel suo classicismo. Lo nobilitano le interpretazioni di Anthony Hopkins e di Debra Winger, nei panni di Joy che per questo film fu candidata all'Oscar.
Certo Hopkins è molto più bello e fascinoso di quanto fosse nella vita il vero Lewis. Ma lui riesce a essere altamente credibile anche in questo ruolo.
Il film ha una emozionante luce invernale, tipicamente inglese, dura più di due ore, tocca profondamente e rende il giusto tributo a un regista, Attenborough, che bisognerebbe rivalutare.

29/01/23

Un film di puro godimento per le vostre serate: "Amsterdam" di David O. Russell


Ci sono stati pochi film che ultimamente mi hanno dato un godimento assoluto, come "Amsterdam", firmato dal genio di David O. Russell (regista di American Hustle nel 2013, dieci nominations agli Oscar e nessuna statuetta, credo cosa mai successa) e uscito quest'anno.
Godimento perché più che la vicenda raccontata - poco più di una fiaba, la storia di tre amici, due reduci della Prima Guerra e una infermiera che si trovano coinvolti, negli anni '30 in una cospirazione per insediare anche negli Stati Uniti una dittatura simil fascista - conta il piacere della messinscena, dalla quale ci si lascia incantare.
Tutto in questo film è intelligente. I dialoghi sono tra i più brillanti visti ultimamente, non c'è una pausa, sono carichi di ironia e a volte si aprono al gusto per la massima, per la sentenza morale.
I tre protagonisti, incarnati da Christian Bale (per il quale sono finiti gli aggettivi), Margot Robbie e David Washington (figlio di Denzel), fanno a gara di bravura, rimpallandosi le battute e soprattutto i tempi tra esse.
Perfetta la ricostruzione dell'epoca, la fotografia, il gioco sottile delle citazioni al cinema di quegli anni, la bellissima musica, scritta da quel geniaccio di Daniel Pemberton. Mi ero augurato che i premi Academy non sottovalutassero questo lavoro è infatti è arrivata la strameritata candidatura all'Oscar per la migliore canzone a Time, che ne fa parte.
C'è una lunga scena, circa a metà del film, nella quale sono contemporaneamente, tutti insieme, 5 attori: i tre suddetti più Rami Malek e Anya Taylor-Joy (la protagonista de La regina degli scacchi). 5 attori di così alto livello è difficile vederli tutti insieme nella stessa (lunga) scena, ed è veramente uno spettacolo.
Il film si fa amare anche (e forse proprio) per la sua imperfezione, giacché è un film imperfetto, costruito sul gusto personale e sullo stile di Russell.
Robert De Niro giganteggia da par suo (senza gigioneggiare) nella seconda parte del film.
E fra i "comprimari" figurano gente come Taylor Swift (che vende milioni di dischi ed è brava anche come attrice) e l'abbagliante Zoe Saldana (protagonista di Avatar).
Insomma, fregatevene degli orrendi "aggregatori", del tipo di Rotten Tomatoes e dei suoi numerini del cacchio, e concedetevi il lusso di una gran bella serata.

Fabrizio Falconi - 2023

 

28/01/23

L'intervista a RadioUno: Le Basiliche di Roma, Il nuovo libro di Fabrizio Falconi




Un viaggio avventuroso nella storia bimillenaria delle meravigliose Basiliche di Roma. Dalle Basiliche antiche del Foro Romano, ancora superstiti, alle quattro patriarcali, alle tre minori, alle oltre venti paleocristiane, piene di storia.

Questo è Le Basiliche di Roma di Fabrizio Falconi, appena uscito in tutte le librerie. 

E ordinabile su Amazon e su tutte le librerie online.

Del Libro e delle Basiliche di Roma ho parlato nella intervista a Alessandra Rauti di Radio Rai nella intervista andata in onda a Incontri d'Autore su RadioUno domenica 23 gennaio 2023.

L'intervista è ascoltabile su Rayplaysound:

CLICCA QUI

22/01/23

La forza di un racconto: "Open" di Andre Agassi

 


Ci è voluto "Open" il libro autobiografico di Andre Agassi, che ho letto soltanto ora, per sentirmi per una volta del tutto d'accordo con una affermazione di Baricco.

Il quale scrive a proposito di questo libro: "Se parti, non scendi più fino all'ultima pagina."

Ha pienamente ragione. "Open" è più avvincente di un romanzo, specie di una gran parte di quelli che oggi vengono sfornati.

Il merito è della vicenda personale di Agassi, certo, della sua vita piena di cose curiose e memorabili da raccontare, ma soprattutto delle capacità di scrittore di J.R. Moehringer (di famiglia italiana, nonostante il suo cognome), che ha materialmente scritto il libro, "montando" letterariamente ore e ore di registrazione.

Moerhinger del resto, dopo aver vinto il Pulitzer per il giornalismo, ha scritto un romanzo, Il Bar delle Grandi Speranze, che ha vinto molti premi importanti e che è stato ottimamente portato sullo schermo da George Clooney con il titolo di The Tender Bar (2021), protagonista Ben Affleck.

La forza di Open - che può essere tranquillamente letto anche da chi non capisce un'acca di tennis - è nella descrizione di un "processo di individuazione", come direbbe Jung. Quel percorso, cioè, attraverso il quale ciascuno conosce (dovrebbe cercare di conoscere) se stesso, che è poi lo scopo per cui si sta al mondo.

Agassi a cinque anni si ritrova con una racchetta da tennis in mano, ferocemente in mano a un padre pazzo, esule armeno trapiantato nel deserto di Las Vegas. Il padre pazzo ha deciso per lui il suo destino. Sarà, costi quel che costi, un tennista. Ma non uno qualsiasi, un campione.

La "vocazione" di Agassi non è la "sua" vocazione dunque, ma la vocazione che qualcun altro gli ha messo indosso e che lui, per molti motivi che sono l'ossatura del libro, non può fare a meno di non indossare.

Ciò gli provoca un costante sentimento di scissione: amore-odio per il tennis, amore-odio per (quel)la vita, che durerà fino al giorno in cui - dopo aver conquistato ben otto titoli slam - deciderà di smettere.

E' quindi una vicenda che parla a tutti. Perché tutti, più o meno, nella incertezza del nostro destino, ci siamo trovati a dover scegliere tra quello che gli altri o un altro pensavano fosse il giusto per noi e quello che noi, confusamente o no, sentivamo invece che fosse "più" giusto.

La confessione di Agassi è bella, dolorosa e sa di autentico (è questa la bravura di Moeringher). Quando un libro autobiografico di 500 pagine, scritto tutto in prima persona, senza pause, e al tempo presente, ti tiene inchiodato - anche se tu sai già tutto di cosa accadrà perché quel tennista lo hai visto decine e centinaia di volte in televisione per tutti gli anni '90 e anche dopo) - vuol dire che il libro è più che ottimo.

La trasformazione del "Kid di Las Vegas", ranocchio che si veste con orrende tute fucsia e ha al posto dei capelli un parrucchino biondo leopardato (un boro, lo si sarebbe definito a Roma), in un principe della racchetta, gentleman, marito romantico e benefattore con una evolutissima scuola di formazione per bambini disagiati, è oggettivamente ben scritta e soprattutto credibile.

Agassi, dopo aver tanto sofferto, si è anche trovato. Ed è questa la cosa più bella. Ha avuto la capacità di aiutarsi e di farsi aiutare. Ha capito che non sapeva chi era perché non gli era stato permesso né di conoscere le cose del mondo, né di conseguenza, se stesso.

E' una bella parabola di vita, un inno al sacrificio (parola che oggi suscita allergia), un racconto vero, come devono essere i racconti. 

Fabrizio Falconi - 2023

19/01/23

"The Pale Blue Eyes" non vincerà l'Oscar, ma è un bellissimo film


The Pale Blue Eyes
è un gran bel film, che purtroppo non vincerà gli Oscar di cui farà razzia The Fabelmans, già solo per il fatto di essere uscito il 23 dicembre, quindi troppo alla fine dell'anno - e troppo tardi per suscitare le attenzioni dei membri Academy.

Il piacere di vederlo è stato nel mio caso rovinato da un vergognoso articolo online di una "rivista" di cinema, che al 3o rigo, senza nessun pudore, fa esplicito spoiler, svelando tranquillamente tutto il finale e quindi, diciamo, il colpevole.
Io purtroppo, in cerca di informazioni sul film, avevo letto l'articolo qualche giorno prima.
Ciò non toglie che il film di Scott Cooper sia magnifico. Non ho letto il romanzo da cui è tratto, ma il pretesto della trama è noto: un episodio reale della vita di Edgar Allan Poe - la sua esperienza come cadetto nella sperduta Accademia Militare di West Point- inserito in una trama di fiction all'altezza.
L'ambientazione, la messinscena, la regia, sono di livello. La fotografia straordinaria (quasi tutti gli interni sono girati al lume naturale di candele).
Ma la cosa più preziosa è il cast. Protagonista a parte, Christian Bale, per il quale sono finiti da tempo gli aggettivi, Cooper è riuscito a radunare nello stesso film Gillian Anderson, Charlotte Gainsbourg, Lucy Boynton (una delle attrici più interessanti e talentuose tra le nuove leve inglesi), Toby Jones, Herry Melling (su cui tornerò tra poco) e addirittura il leggendario Robert Duvall, che ha 94 anni (!) ma che ancora è in grado di recitare, alla grande, una piccola ma importante parte di un film.
Melling è il coprotagonista - interpreta la parte di Poe - e il confronto con Bale/Landor regge tutto il film.
Francamente finora conoscevo poco l'attore londinese - Melling - che deve essere una vecchia conoscenza dei fans di Harry Potter (io non ho mai visto nessun film della saga). Lo ricordo solo nel recente La regina degli scacchi (serie) e in Waiting for the Barbarians, di Ciro Guerra (film) tratto dal romanzo di Coetzee.
Melling però mi ha fatto una impressione straordinaria. Se gli Oscar avessero un senso, dovrebbe stravincere la statuetta come miglior attore maschile protagonista o coprotagonista, per questo film.
Nella migliore tradizione della recitazione britannica, Melling interpreta questo ruolo molto difficile, duettando in bravura con Bale. Interpretare Poe sarebbe dura per chiunque, e con un concreto rischio di essere ridicolo (in Italia la parte di Poe finirebbe sicuramente a Castellitto). Melling supera la prova, "reiventando" Poe senza tradirlo, facendone un essere lunare, spiritato, naif ma intensissimo. Senza gigionamenti. Semplicemente inventando, con l'arte della recitazione.
Insomma, chi può, non lo perda. Merita di essere visto anche solo per queste prove d'attore.
E' bello pensare che in tempi come questi, escano ancora prodotti così ben fatti, di alta qualità.

Fabrizio Falconi - 2023

15/01/23

Poesia della domenica - "Amore e amicizia" di Emily Bronte



Amore e amicizia 


Amore è come una rosacanina,
amicizia è un agrifoglio.
E' bruno l'agrifoglio quando la rosa è in boccio
ma chi dei due verdeggerà più a lungo?
La rosa selvaggia è dolce in primavera,
i suoi fiori profumano l'estate,
ma aspetta che l'inverno ricompaia
e chi loderà la bellezza del rovo?
Sdegna la fatua corona di rose
e vestiti di lucido agrifoglio,
perché Dicembre che sfiora la tua fronte
ti lasci ancora una verde ghirlanda.


---

Love and friendship


Love is like the wild rose-briar,
Friendship like the holly-tree
The holly is dark when the rose-briar blooms
But which will bloom most constantly?
The wild-rose briar is sweet in the spring,
Its summer blossoms scent the air;
Yet wait till winter comes again
And who will call the wild-briar fair?
Then scorn the silly rose-wreath now
And deck thee with the holly's sheen,
That when December blights thy brow
He may still leave thy garland green.



tratta da: EMILY BRONTE - POESIE - a cura di Ginevra Bompiani - Einaudi Poesia, 1971 


14/01/23

"The Fabelmans" di Steven Spielberg, il fascino di un film non riuscito


The Fabelmans
nonostante tutti i premi che ovviamente ha vinto e vincerà, non è un film riuscito.

Parlar male di Steven Spielberg è come parlar male del papà o della mamma, per chi ama il cinema. E' qualcuno che ci ha regalato in 40 anni di carriera, talmente tanto, che non si può che essere eternamente grati.

Ma qui non si tratta, ovviamente, di parlar male. Perché The Fabelmans è un film che può essere amato anche per i suoi difetti.

Ciò non toglie che espressivamente, artisticamente, sia non riuscito.

Forse troppo emotivamente coinvolto dal contenuto del film - la ricostruzione di una dolorosa vicenda biografica - Spielberg ha realizzato un'opera troppo drasticamente divisa in due livelli (di contenuto, di tono, di scelta stilistica) : quello della storia familiare - il più convincente e riuscito; e quello della propria vocazione personale artistica, che trasformò un bambino sognatore in un grande e acclamato regista internazionale - enfatico, superficiale.

Il primo livello è materia dolorosa e compatta. I personaggi si avvertono come veri, si soffre, si empatizza, si condivide: il film raggiunge pienezza. Soprattutto nella lunga e bellissima scena nella quale il ragazzo, Sam, scopre, del tutto casualmente, il segreto inconfessabile della famiglia.

Il secondo livello, quello della scoperta e della realizzazione della vocazione artistica è invece sfrangiato, di tono quasi sempre farsesco, i personaggi sono appiattiti, bidimensionali, figurine inconsistenti, che sembrano uscite da un film disney degli anni '60.

In questo secondo binario tutto è convenzionale e già visto e non aiutano gli attori che - compreso anche il protagonista, cioè Spielberg ragazzo - hanno facce e pose banali, in situazioni più da soap che da film d'autore.

Paul Dano è il migliore nella prova d'attore, perché interiorizza il suo personaggio e lo rende vero. Michelle Williams è invece sempre un po' sopra i toni, e nello stile si apparenta più a una Doris Day che a una Meryl Streep.

E' ovvio che comunque si tratta di un film che è un vero e proprio atto d'amore nei confronti del cinema.

E che vale la pena di essere visto anche solo per i 10 minuti finali in cui un grande e scarnificato David Lynch presta la sua faccia e la sua barba ispida al grande John Ford, con tanto di benda sull'occhio.

Fabrizio Falconi - 2023 

06/01/23

Cinema: Un film per una bella serata, "The Forgiven" con Ralph Fiennes e Jessica Chastain


Uscito in sordina in piena estate del 2022 - quella dei 45 gradi - e penalizzato già durante le riprese che furono interrotte per 6 mesi, causa pandemia, "The Forgiven", diretto da John Michael McDonagh meriterebbe una seconda chance.
Se non altro per la coppia di protagonisti, che sono Ralph Fiennes e Jessica Chastain, coppia britannica in viaggio in Marocco per raggiungere il resort in mezzo al deserto, dove un loro amico ha organizzato una festa.
Il film è in realtà tratto fedelmente dal romanzo di un notevole scrittore londinese (in Italia interamente edito da Adelphi), Lawrence Osborne, che si intitola per l'appunto "The Forgiven" e chissà perché in Italia è stato tradotto col titolo "Nella polvere".
Come gli altri romanzi di Osborne, tra cui "Cacciatori nel buio" uscito nel 2015 e finora il suo più grande successo, anche "The Forgiven" è ambientato in luoghi esotici (in "Cacciatori nel buio" era l'Indocina, dove Osborne vive), dove le vicende di viaggiatori o avventurieri occidentali si scontrano con mondi lontani, e ambiguamente ostili.
In realtà a Osborne, come a McDonagh, sta a cuore maggiormente lo smarrimento, le meschinità e il senso di colpa che anima questi transfughi occidentali alla ricerca di paradisi perduti da tempo, spesso proprio per diretta responsabilità dell'uomo bianco.
Qui la vicenda è molto lineare, semplice e parte da un incidente stradale notturno, che crea conseguenze assai pesanti per David Henniger (Fiennes, il protagonista). Tutto ruota intorno al perdono, come dice il titolo, alla capacità di perdonare, alla vendetta, al bisogno di autopunizione.
Si sta dentro atmosfere che ricordano da vicino Il Té nel deserto di Bertolucci (tratto da Bowles) o Professione Reporter, ma ovviamente McDonagh non è né Bertolucci né Antonioni.
Il film, però, specie nel panorama attuale, si fa apprezzare per coerenza di scrittura, temi indagati, interpreti, messa in scena.


Fabrizio Falconi - 2023

03/01/23

La Morte di Papa Ratzinger - Benedetto XVI - Riflessioni di un Vaticanista


E' morto Papa Benedetto XVI, papa Ratzinger.
E stavolta, non vale nemmeno il cinico detto millenario del popolo di Roma - "morto un Papa, se ne fa un altro" - perché un altro Papa c'è già. Francesco.
Il giudizio su Ratzinger e sul suo pontificato sarà, come sempre, deciso dalla storia e tutto quello che si dice ora, lascerà il tempo che trova.
Ha preso in mano il Vaticano in uno dei suoi momenti più bui (e buio anche per la Chiesa, in crisi comatosa (almeno in Occidente) di fede e di conversioni), avendolo ricevuto da Giovanni Paolo II, Wojtyla, che è stato per molti versi un gigante e il cui pontificato è stato il 3o più lungo della storia del Vaticano e della Chiesa, istituzione che dura da 2000 anni ed è quella umana più longeva esistente nella storia.
Come giornalista vaticanista, ho seguito il pontificato di Ratzinger dal giorno in cui fu eletto nel Conclave (rapidissimo) fino al giorno delle sue clamorose dimissioni, accompagnandolo in viaggi che non dimentico: sulle orme del suo predecessore in Polonia, nella sua terra e nei luoghi dove è nato, bambino sotto il nazismo, la Baviera, Ratisbona e la Turchia dove accadde l'incidente diplomatico che ebbe conseguenze notevoli.
Ratzinger era un uomo di fede, ma soprattutto di cultura. Un intellettuale, potremmo dire, quindi piuttosto inadatto a fare il Papa, a stare in mezzo alla gente.
La sua scelta fu un ripiego pavido dei Cardinali, che erano terrorizzati dal vuoto lasciato da Wojtyla e lo preferirono al Cardinale Carlo Maria Martini che sarebbe stato sicuramente un papa più "empatico" e gradito (anche se già malato).
Ratzinger era fondamentalmente un timido, un introverso. Il suo sguardo era sostanzialmente rivolto ai misteri, alla filosofia, alla teologia. I veleni e i disastri della Curia che si svolgevano a poca distanza di lui, cercava di disdegnarli, non era certamente adatto per affrontarli e sconfiggerli.
Quando se ne rese conto, si dimise con un gesto inaudito, che in 2000 anni era accaduto una sola volta.
Lo fece, dimostrando coraggio (salvando da mali più grossi il papato, il Vaticano e la chiesa) e lasciando libero il campo a Bergoglio, più attrezzato, più innovativo, molto più diretto di lui.
Capace di parlare a tutti, capace di compiere piccole rivoluzioni - attese dai fedeli - nei gesti, nelle forme e nelle formalità, nella sostanza del governo interno della chiesa, lacerato da corruzione e meschinità.
Ratzinger è anche incappato nel periodo peggiore della Chiesa dal punto di vista delle migliaia di casi di pedofilia scoppiati e resi noti in ogni angolo del pianeta, da parte di ecclesiastici e religiosi.
Su questo terreno non è riuscito ad arginare lo scandalo, né tantomeno ad affrontarlo in modo reciso, anche se il cambio notevole di atteggiamento sul dolorosissimo tema, si deve a lui.
Ha vissuto per dieci anni nell'ombra e nel silenzio e ora, forse, riposa in pace. Ha molto vissuto, ha molto sbagliato - come fanno quasi tutti gli uomini - ha cercato probabilmente di fare il meglio che ha saputo.
Molti vivi ricordi rimangono, per me. Il più impressionante ad Auschwitz, in cui arrivammo in un giorno in cui si era scatenata la furia degli elementi. All'arrivo del Papa il cielo improvvisamente, in pochissimi minuti, si apri tutto di azzurro e comparve uno straordinario arcobaleno, da sempre simbolo di riconciliazione tra Dio e gli uomini.

Fabrizio Falconi - 2023

In postazione per il collegamento audio video, Auschwitz, 28 maggio 2006.