25/01/21

E' morto Alberto Grimaldi, uno dei più grandi produttori del Cinema Italiano

Alberto Grimaldi con Marlon Brando ai tempi di Queimada, 1969


All’età di 95 anni è morto il produttore Alberto Grimaldi. Ritiratosi a Miami, era nato a Napoli nel 1925.

Fondatore della PEA, Grimaldi si affermò negli anni Sessanta con gli Spaghetti Western, realizzando quelli che ormai sono classici del genere come Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto, il cattivo (1966) di Sergio Leone, La resa dei conti (1966) e Faccia a faccia (1967) di Sergio Sollima.

Dalla fine degli anni Sessanta Grimaldi divenne uno dei principali produttori del cinema d’autore. Dal 1968, a partire dall’episodio Toby Dammit di Tre passi nel delirio, iniziò a lavorare con Federico Fellini, un sodalizio che proseguì con Fellini Satyricon (1969), Il Casanova di Federico Fellini (1976) e Ginger e Fred (1986). Fondamentale la collaborazione con Pier Paolo Pasolini, di cui Grimaldi produsse tutti i film da Il Decameron (1970) all’ultimo Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975).

Un capitolo a parte merita l’avventura con Bernardo Bertolucci. Con la United Artists, Grimaldi realizzò Ultimo tango a Parigi (1972) e fu coinvolto, insieme a Bertolucci, nella lunga e tormentata vicenda legale, dal sequestro della pellicola alla condanna fino al rocambolesco salvataggio di una copia. Nonostante lo scandalo internazionale, il film riuscì a incassare 36 milioni sul mercato americano e oltre 90 in tutto il mondo, ottenendo due nomination all’Oscar. Nel 1976 fu la volta del kolossal Novecento.

Grimaldi produsse anche Un tranquillo posto di campagna di Elio Petri (1969), Storie scellerate di Sergio Citti (1973), Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi (1976), Viaggio con Anita di Mario Monicelli (1979). L’ultimo suo grande progetto è Gangs of New York di Martin Scorsese (2002).

fonte: il cinematografo.it

Alberto Grimaldi con Federico Fellini 



22/01/21

Platone esoterico: le incredibili proprietà del numero 5040


Nei Dialoghi di Platone, diversi sono i brani in cui affiora una concezione pitagorica del numero. Il più celebre è quello del Timeo, che, in accordo con l’astronomia pitagorica, vede nella struttura del cosmo un’armonia retta da proporzioni matematiche.

Nel Libro V de Le Leggi, in cui Platone descrive la sua Città Ideale, viene indicato 5040 come numero di abitanti. E così egli giustifica la sua scelta:

“Adottiamo questo numero per le ragioni di convenienza ch’esso ci offre. Territorio e abitazioni siano del pari divisi nel medesimo numero di parti, in modo che ad ogni uomo corrisponda una parte di essi. L’intiero numero si divida dapprima in due parti, poi in tre: esso è divisibile anche per quattro, per cinque, e così di seguito fino a dieci. In fatto di numeri bisogna che ogni legislatore sappia per lo meno quale numero riesca maggiormente utile a tutti gli stati. Orbene questo numero è quello che contiene moltissimi divisori e soprattutto consecutivi. Il numero infinito è pienamente suscettibile di tutte le divisioni; il numero cinquemila e quaranta non può offrire, sia per la guerra sia per ogni sorta di convenzioni e commerci del tempo di pace, così per le contribuzioni come per le distribuzioni, più di cinquantanove divisori, di cui consecutivi quelli da uno fino a dieci.”

(cit. da Platone, Tutte le opere, trad. di G. Pugliese Carratelli, Sansoni, Firenze 1974, pag. 1249).

Il numero 5040 è pari a 7!, il prodotto dei numeri interi da 1 a 7, che poi è anche il numero delle permutazioni di 7 elementi. Platone ne apprezza la divisibilità per tutti i numeri da 1 a 10, che costituisce un grande vantaggio al fine della spartizione dei beni tra gli abitanti

Lo storico E.T. Bell va oltre nell’interpretazione del 5040, che egli chiama un “numero enciclopedico”. 

Egli sottolinea che esso comprende, fra i suoi divisori, il “7 super-sacro, per non parlare del femminile 2, del maschile 3, del giusto 4, dei 5 solidi regolari, e del perfetto 6.” I significati dei numeri sono tratti dal misticismo pitagorico. 

Bell rileva anche che 7 sono i colli che, secondo Platone, devono essere superati per giungere alla sapienza. Ed inoltre “Ogni numerologo cosmico osserverà che 5040 ha esattamente 60 divisori, mentre 60 ne ha esattamente 12, e 12 ne ha il numero perfetto di 6, e 6 ne ha il numero giusto di 4, mentre 4 ne ha esattamente 3, e 3 ne ha esattamente il numero femminile di 2, che ne ha esattamente 2, e così via, 2-2-2…”

Questa sequenza, piena di numeri cari ai Pitagorici, termina con una ripetizione infinita, una “eterna ricorrenza”: la circolarità del tempo, incarnata dal serpente che si morde la coda, apparteneva alla visione babilonese dell’universo, e venne ripresa da Platone. È anche significativo il fatto che la successione numerica descritta sopra si stabilizzi esattamente dopo il quarto passo, in corrispondenza, cioè, del simbolo della giustizia. Il numero 3 rappresenterebbe la Famiglia Ideale della Città Ideale, il 12 sarebbe un’esplicita allusione allo zodiaco.

Bell vuole vedere, inoltre, un riferimento al numero nuziale, che secondo alcuni è da identificare con 12.960.000, cioè la quarta potenza di 60, e di cui 5040 è un divisore. 

Quel numero, che figura anche nella matematica babilonese, possedeva un notevole valore cosmologico, in quanto divisibile per 360 (la durata in giorni dell’anno degli antichi) e per 36.000 (il numero di giorni di 10´10 anni, dove 10 è il sacro numero della tetractys). Secondo l’astronomia pitagorica (e forse già per l'astronomia babilonese), 36.000 anni era la durata dell’anno cosmico, ossia la durata di un ciclo completo di precessione degli equinozi.  

Come osserva il Chambry, inoltre, 60 è il prodotto di 3, 4 e 5, cioè dei numeri della prima terna pitagorica. Come Platone asserisce nella Repubblica, l’altra sua opera a contenuto politico, questi tre numeri governerebbero, secondo un complesso calcolo aritmetico, i periodi favorevoli alla generazione dei figli

Un altro brano dello stesso dialogo descrive la struttura del cosmo, che Platone immagina formata da una serie di sfere cave, che si incastrano perfettamente l’una nell’altra, e rappresentano i cieli dei pianeti, secondo l’ordine stabilito da Pitagora: dall’esterno verso l’interno si trovano le stelle fisse, Saturno, Giove, Marte, Mercurio, Venere, il Sole, la Luna. 

Nel dialogo La Repubblica Platone insiste molto sull’importanza dell’apprendimento della matematica nella formazione della classe politica e militare dello stato ideale. Ecco cosa fa dire a Socrate:

“Sarà perciò conveniente, Glaucone, di rendere obbligatoria questa conoscenza, e persuadere quelli, che nella città dovranno coprire i più alti uffici, di dedicarsi al calcolo e studiarlo non superficialmente, ma fino a pervenire con la pura intelligenza a contemplare la natura dei numeri, non già come i commercianti e i bottegai per servirsene a comperare e vendere, ma in vista della guerra, e per facilitare all’anima stessa la possibilità di volgersi dal mondo sensibile alla verità ed all’essenza.”[…]

E Glaucone:

“Per quanto almeno si riferisce […] alle operazioni guerresche, è evidente che ci conviene, giacché e nel porre gli accampamenti e nell’occupare certe posizioni e nell’ammassare o spiegare le truppe, come in tutte le altre formazioni che può assumere un esercito in battaglia o in marcia, un generale esperto di geometria sarà in miglior condizione di chi la ignora.

Risponde Socrate:

“Veramente […] per questo basterebbe anche una cognizione elementare di geometria e di calcolo. Bisogna però esaminare se la parte maggiore e più alta di questa scienza non tenda in qualche modo a quest’altro fine: a permetterci, intendo, di scorgere più facilmente l’idea del bene. E, secondo me, tende a tal fine tutto ciò che costringe l’anima a volgere lo sguardo verso quel luogo ov’è l’essere tra tutti gli altri sovranamente felice, che l’anima deve contemplare ad ogni costo.”

(cit. da Platone, Repubblica, Libro VII (525-527) in: Tutte le opere, trad. di G. Pugliese Carratelli, Sansoni, Firenze 1974, pagg. 1025-1026)



21/01/21

L'incredibile foto di James Dean davanti alla tomba del bisnonno - Un macabro scherzo del caso



Il destino a volte, ama davvero giocare in modo tragico e beffardo.

In una sorta di macabra premonizione, nell'inverno del 1953 James Dean si fa fotografare, per un documentario davanti alla tomba del bisnonno Cal Dean

Meno di due anni dopo il protagonista de La Valle dell'Eden chiamato ad essere interpretato da James Dean si chiama proprio 'Cal'. 

Al termine delle riprese di quel film, l'unico uscito durante la vita dell'attore, Dean muore in un incidente stradale.

Ma non basta.

Il documentario realizzato su James Dean era firmato dallo sceneggiatore Stewart Stern e diretto da Robert Altman, proprio all'inizio della sua carriera, ed era una occasione per approfondire la vita, l'arte e la leggenda del giovane attore.

Rivisto oggi, il documentario appare piuttosto noioso, con un larghissimo uso di fotografie in bianco e nero. E con interviste di testimoni, amici o familiari di Dean, intervistati dallo stesso Altman e dal co-regista George W. George. 

Ma il pezzo migliore di quel documentario resta proprio il nastro della registrazione in cui Dean, durante un colloquio seduto al tavolino con i suoi interlocutori.

La foto con la lapide e il nome di Cal diventa immediatamente famosa, al punto che finisce anche in un videoclip di Morrissey per la sua canzone "Suedehead" , che è un omaggio all'attore che fonde con i suoi personaggi per divenire una entità terza, uno completamente cinematografico. 


19/01/21

C'è ancora qualcuno che dice "Non so" ? Eppure è questa la saggezza



Viviamo tempi nei quali, obnubilati dalle proprie convinzioni su tutto, che difendiamo a ogni costo e sempre anche quando esse poggiano sul nulla, nessuno sembra essere più capace di dire "Non so".  Eppure ammettere la propria ignoranza o indecisione su questioni non semplici è una vera e propria fonte di saggezza come insegna questo antichissimo Detto dei Padri del Deserto.


Non so.

Una volta giunsero dall'abate Antonio dei vecchi e con loro c'era l'abate Giuseppe. Volendo l'anziano metterli alla prova, propose loro un passo delle Scritture e cominciò a chiedere, dal più giovane, di quale luogo si trattasse. Ognuno rispondeva come poteva. Il vecchio replicava: "Non ci siamo." Alla fine chiese all'abate Giuseppe: "Che ne pensi ?" . Egli rispose "Non so".

Allora l'abate Antonio disse: "Sicuramente l'abate Giuseppe ha trovato la via, perchè ha detto 'Non so' ".

Detti dei padri del deserto, Antonio, 17 (scritto verso 290 d.C.)

18/01/21

Che cos'è la coscienza umana? Perché l'uomo ha coscienza di se stesso? Dove ha sede la coscienza? Un grande mistero




Il mistero della coscienza, del fatto che l'essere umano possieda una coscienza resta uno di quelli più grandi, forse il più grande in assoluto che riguardi la vita biologica.  

Decenni di studi scientifici e di nuove incredibili acquisizioni e conoscenze da parte delle neuroscienze non hanno spostato di un centimetro la questione e soprattutto la nostra assoluta ignoranza sull'argomento, su cioè cosa sia la coscienza umana e da dove essa derivi. 

Lo spiega come forse meglio non si potrebbe Arnaldo Benini (Ravenna, 1938), docente di neurochirurgia e neurologia all'Università di Zurigo e autorevole commentatore del Sole 24 Ore Domenicale, in queste poche righe: 

* La situazione molto semplicemente è questa: nel cervello non s'è trovato nessun organo con le caratteristiche che si attribuiscono all'Io, cioè alla coscienza. E dopo più di un secolo e mezzo di ricerche ci è rassegnati all'evidenza che l'autoreferenzialità della coscienza che indaga se stessa, non le consente di capirsi. Oggi è opinione largamente condivisa dai neuroscienziati che la natura della coscienza non è alla portata della scienza e ancora meno della filosofia della mente, che, secondo la neurobiologa e neurofilosofa Patricia S. Churchland, ha riempito biblioteche senza spiegare nulla. Ancora oggi è valido il limite conoscitivo della coscienza autoreferenziale (non sappiamo nulla di cosa sia la coscienza e più in generale di cosa sia la vita) che dal neurobiologo Emil du Bois Reymond fu sintetizzato con la parola: "Ignorabimus". *


17/01/21

La poesia della domenica: "Tutto si perde" di Angelo Maria Ripellino

 




Tutto si perde
  Tutto si perde in un vischioso, amorfo disperato brulichio di amebe, in un nauseante pantano di miele. Tutto s’ingolfa in un giallo, in un putrido magma di cisposa fanghiglia, naufraga nella morchia d’una gora, tra un funesto corale di gufi. Tutto il tuo fervore, la tua fretta d’incollare i frantumi della vita, tutto l’entusiasmo con cui edifichi in ore felici viadotti di immagini, teatrini di parole imbellettate, tutto è corroso dall’indifferenza, dalla pigrizia, dal cruccio di chi ti circonda. Tutto s’accartoccia e si deforma nello specchio ricurvo dell’accidia, tutto raggela in un abulico stupore, come una vecchia città spaventata. E intanto da ogni piega dello spazio ammicca, guercio e beffardo, il Burlesco, intanto squilla sempre più vicina la lunghissima tromba del Giudizio.


Angelo Maria Ripellino (Palermo, 4 dicembre 1923 – Roma, 21 aprile 1978)

15/01/21

Ma cos'era esattamente - e come era fatta - l'Arca dell'Alleanza?



Si continua a parlare, ovunque nei siti più o meno rigorosi sui temi di archeologia e misteri, della famosa Arca dell'Alleanza, sulla quale anche il cinema, dai tempi di Indiana Jones e anche prima, ha favoleggiato a lungo. 

Ma che cosa era esattamente l'Arca dell'Alleanza, in pochi veramente lo sanno. 

Sarà bene dunque ripassare: 

L'Arca dell'Alleanza (in ebraico ארון הברית, ʾĀrôn habbərît, pronuncia moderna /aˌʀon habˈʀit/), secondo la Bibbia, era una cassa di legno rivestita d'oro e riccamente decorata, la cui costruzione fu ordinata da Dio a Mosè, e che costituiva il segno visibile della presenza di Dio in mezzo al suo popolo.

L'Arca è descritta dettagliatamente nel libro dell'Esodo (25, 10-21; 37, 1-9): era una cassa di legno di acacia rivestita d'oro all'interno e all'esterno, di forma parallelepipeda, con un coperchio (propiziatorio) d'oro puro sul quale erano collocate due statue di cherubini anch'esse d'oro, con le ali spiegate (cherubini di tradizione ebraica, diversi da quelli di tradizione cristiana). 

Le dimensioni erano di due cubiti e mezzo di lunghezza, un cubito e mezzo di larghezza e altezza, ovvero circa 110×66×66 cm

Ai lati erano fissate con quattro anelli d'oro due stanghe di legno dorato, per le quali l'arca veniva sollevata quando la si trasportava

All'interno della cassa erano conservati un vaso d'oro contenente la manna, la verga di Aronne che era fiorita e le Tavole della Legge. (Ebrei 9:4;). 

Tuttavia, al momento dell'inaugurazione del Tempio di Salomone non conteneva altro che le Tavole della Legge (Deuteronomio 10, 1-5; 1 Re 8, 9; 2 Cronache 5, 2-10). 

Il compito di trasportare l'arca era riservato ai leviti: a chiunque altro era vietato toccarla

Quando Davide fece trasportare l'arca a Gerusalemme, durante il viaggio un uomo di nome Uzzà vi si appoggiò per sostenerla, ma cadde morto sul posto (2 Samuele 6, 1-8, 2 Cronache 13, 9-10). 

Secondo la tradizione l'arca veniva trasportata coperta da un telo di pelle di tasso coperto da un ulteriore telo di stoffa turchino (Num. 4:6) e, quando il popolo ebraico si fermava, veniva posta in una tenda specifica, definita "Tenda del Signore" o "Tenda del convegno" senza che venisse mai esposta al pubblico, se non in casi eccezionali. 

Inoltre la leggenda vuole che l'arca, in alcune situazioni, si adornasse di un alone di luce e che da essa scaturissero dei lampi di luce divini, delle folgori, capaci di incenerire chiunque ne fosse colpito e nel caso non avesse rispettato il divieto di avvicinarvisi; infine, tramite l'arca, Mosè era in grado addirittura di parlare con Dio che compariva seduto su un trono fra i due cherubini che ornavano il coperchio e che rappresentano l'angelo Metatron e l'angelo Sandalphon.

fonte: wikipedia

13/01/21

Recensione di "Nessun pensiero conosce l'amore" di Fabrizio Falconi (di Vernalda Di Tanna)




Nessun pensiero conosce lʼamore, Fabrizio Falconi (Interno Poesia, 2018)

Lʼultima raccolta poetica di Fabrizio Falconi, Nessun pensiero conosce lʼamore (Interno Poesia, 2018), si scinde in quattro sezioni (In rotta; I nomi, le cose; Profezia dal colle esoterico; Luce di passaggio). Questa raccolta è una ubbidiente cronaca della storia/ dellʼistante, storia in cui il tempo collassa perché si sono rotti i tre orologi/ si è fermato il tempo/ […] è finita lʼarte di attendere. Lʼattesa si dilata tra il pensiero e l’amore.
Ogni pagina di questo libro profuma di mistero, a cominciare dallʼuso dei latinismi. Lʼautore spinge il lettore a rimuginare su ogni singola parola attraverso versi sinestètici e simbolici (sole nero, pioggia azzurra, sorriso rosso), nei quali risplende una costellazione semantica di natura esoterica. Immagini ricorrenti e dense che riproducono unʼatmosfera incognita sono quelle relative alle salite e alle discese, alle foreste, allʼilluminazione e allʼoscurità, alla morte e ad una rinascita non solo in termini esoterici ma anche filosofici, nietzscheani (NellʼAde dovʼero stato tradotto/ nessuno parlava la mia lingua/ ero perduto nello stato libero incosciente/ mescolato al resto, indefinito e inesistente/ […] ero una scintilla senza attese// poi nacqui// e invano cercavo Proserpina/ in quest’altro Ade dovʼero adesso/ senza poter risalire; Pethos, la dea della persuasione/ mi venne incontro/ sotto l’aspetto irresistibile di una madre/ incoraggiandomi ad essere,/ nel suo abito mi accolse/ e in una forma nuova ero perduto/ di nuovo e per sempre/ imparando che quel dolore dal quale/ ero stato formato, creato/ un giorno sarebbe diventato un’altra nascita/ ancora/ nel ritorno eterno/ di ogni passaggio).
Il filo conduttore, almeno nella prima sezione (In rotta), probabile metafora di un viaggio interiore, iniziatico (la trappola muta della caduta/ verticale che lo aspettava), sotto la guida di Orione, sembra legarsi alla sfera marina (mare, vele, porto, ecc…). Salta allʼocchio il numero tre, in particolare, che ricorre anche ne i tre archi, una poesia che richiama alla memoria in qualche maniera lʼarco di Costantino. Nella sezione Profezia dal colle esoterico, preghiera poesia e profezia coincidono, anche quando il cervello e il cuore sembrano scollegati sia dal punto di vista sentimentale che da quello religioso e razionale.
Cʼè tutto un percorso tra la vita e la morte, nel quale sʼinserisce un ulteriore percorso, quello della rinascita. Ciò che conta di più è proprio la rinascita, non la morte (ma non mi interessa sapere/ quante volte sei morto. mi interessa/ sapere quante volte sei rinato). Il corpo morto è come una cosa che si rompe/ e succede, ma come direbbe Leonard Cohen: in ogni cosa c’è una crepa ed è da lì che entra la luce. Lʼio si dilata nelle cose, sembra disciogliersi tra gli elementi e poi ricomporsi in maniera sempre rinnovata, tende alla luce. In questa direzione, cioè verso la luce ed il biancore, si volge la poesia Nur. Un titolo – che è anche un nome – enigmatico: significa luce e racchiude in sé un concetto chiave del Sufismo; cioè, in termini spirituali, Nur è ciò che unisce lʼessenza alla conoscenza.
Se, però, lʼimmobilità conquista il pensiero, allora nessun pensiero comprende lʼamore/ […] lʼamore si sconta nelle ore insonni/ nel vento muto che agita il dolore/ nello spazio disciolto dove cerchiamo lʼuno e siamo/ molteplici. Il cuore è anarchico, in una sede vacante (un cuore, un cuore soltanto/ conosce tutto, e non c’è verso).
Infine, Fabrizio Falconi ci ricorda cosa sono la fragilità e la resistenza dellʼamore, nonché la loro importanza sia per il sé che per lʼaltro da séperdere se stessi/ è molto più facile/ che perdere chi si ama.
 

12/01/21

Libro del Giorno: "La società della stanchezza" di Byung-Chul Han

 


Uno dei saggi più conosciuti di Byung-Chul Han, nato a Seul, e considerato uno dei piú interessanti filosofi contemporanei, docente di Filosofia e Studi Culturali alla Universität der Künste di Berlino, che ha pubblicato con Nottetempo amche Eros in agonia (2013, 2019), La società della trasparenza (2014), Nello sciame (2015), Psicopolitica (2016), L’espulsione dell’Altro (2017), Filosofia del buddhismo zen (2018), La salvezza del bello (2019) e Che cos’è il potere? (2019).

In questo suo testo, di grande lucidità, Byung-Chul Han analizza il disagio dell’individuo tardo-moderno nelle odierne società della prestazione e della competizione. 

Rivisitando alcune categorie classiche del pensiero novecentesco, l’autore osserva come l’ossessione dell’iperattività e del multitasking produca disturbi di natura depressiva e nevrotica, e interpreta questo malessere come un’incapacità a gestire la negatività dell’esperienza, in un mondo caratterizzato dall’eccesso produttivo e dalla disponibilità universale di merci e persone. 

Una denuncia dell’odierna “società della stanchezza”, in cui ogni reazione al modello sociale dominante rischia di essere inibita da un senso d’impotenza.

Riporto qui di seguito, l'affascinante incipit del testo (che risulta anche quanto mai attuale. Han ha scritto nel 2013,    quando era ancora difficile immaginare lo sviluppo di una pandemia come quella attuale):

La violenza neuronale 

Ogni epoca ha le sue malattie. Cosí, c’è stata un’epoca batterica, finita poi con l’invenzione degli antibiotici. Nonostante l’immensa paura di una pandemia influenzale, oggi non viviamo in un’epoca virale. L’abbiamo superata grazie alla tecnica immunologica. Sul piano delle possibili patologie, il XXI secolo appena cominciato non è caratterizzabile in senso batterico o virale, quanto piuttosto in senso neuronale. Malattie neuronali come la depressione, la sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD)2, il disturbo borderline di personalità (BPD) o la sindrome da burnout (BD) connotano il panorama delle patologie tipiche di questo secolo. Non si tratta di infezioni, piuttosto di infarti che non sono causati dalla negatività di ciò che è immunologicamente altro, ma sono determinati da un eccesso di positività. Queste sindromi si sottraggono a qualsiasi tecnica immunologica che miri a respingere la negatività dell’Estraneo.

Byung-Chul Han 

La società della stanchezza 

traduzione: Federica Buongiorno 

pagine: 130 Euro 14 

Data Pubblicazione: 01/02/2012 

11/01/21

Libro del Giorno: "Benedizione" di Kent Haruf

 


In fondo nella storia della letteratura moderna - quella che per intenderci parte dalla grande cesura tra fine Ottocento e primi del Novecento - è possibile distinguere due grandi filoni stilistici: il primo - che può farsi risalire a Proust e seguentemente a Joyce, Henry James, ecc.. -  nel quale è preponderante la descrizione e lo studio della psicologia umana, dei sentimenti umani, dei pensieri umani; il secondo - che può trovare la sua radice in Cechov e seguentemente in una parte rilevante della letteratura americana, da Hemingway a John Fante a Carver - nel quale invece è prevalente la descrizione dei caratteri e delle cose umane, di quello cioè che succede e che viene narrato.  Di questa seconda grande categoria sono eredi oggi scrittori dalla narrativa limpida ma estremamente distillata, che quasi mai si dilungano in descrizioni dei sentimenti o delle emozioni, ma che lasciano che questi emergano dal racconto più o meno particolareggiato, dalla osservazione nuda delle cose e di minimi effetti narrativi.  

Per far ciò, è chiaro, bisogna essere grandi narratori.  E' relativamente più facile dedicare venti o trenta pagine alla descrizione di un sentimento o di una serie di sentimenti dei protagonisti, che far emergere questi, cioè il mondo interiore dei personaggi dal semplice racconto, "nudo e crudo" di quel che succede loro. 

Nel caso di Haruf, come scrive bene l'ottimo traduttore Fabio Cremonesi, nella pagina della nota finale, tutto si gioca tra semplicità ed esattezza.

Normalmente si pensa che semplicità ed esattezza vadano difficilmente d'accordo, presumendo che per una descrizione accurata occorrano molte parole, molte frasi, molti pensieri. E che, di converso, una narrazione piana e scarna possa essere evocativa, ma non esatta. 

Ad Haruf riesce invece il miracolo di una narrazione scarnificata, ridotta all'essenziale, con parole centellinate e frasi di poche o pochissime parole e dialoghi perfino non virgolettati, e però estremamente esatta. 

Cosa che rende ancora più difficile la sfida del traduttore. 

Haruf, scomparso nel 2014, è diventato negli ultimi anni uno scrittore di culto, anche in Italia, specialmente con la cosiddetta Trilogia della Pianura, di cui Benedizione è il primo capitolo. 

Nella Trilogia, ma anche negli altri romanzi di Haruf, vengono raccontate storie relative a persone qualunque, ambientate in una immaginaria cittadina del Colorado, Holt, ritagliata sul modello della cittadina nella quale lo scrittore ha vissuto a lungo. 

In questa profonda provincia americana, tra il nulla e le montagne, accadono le vicende ordinarie di uomini e donne, vecchi e bambini, ordinari:  Dad, il vecchio gestore del ferramenta del paese sta morendo di cancro. Sua moglie, Mary, lo accudisce amorevolmente fino alla fine, senza staccarsi da lui.  Anche la figlia Lorraine accorre al capezzale e si rende utile. Il figlio Frank invece no: dopo aver scoperto la sua omosessualità si è allontanato dal padre dopo un duro conflitto e non ha mai fatto ritorno a casa.   Intorno a loro si muovono le esistenze di altri personaggi: l'anziana Willie con la figlia Aline, il pastore Lyle con la moglie e il figlio, che prende alla lettera gli insegnamenti del Vangelo e manda su tutte le furie la comunità della cittadina, i vicini di casa, premurosi e dolenti come gli altri attori di questo racconto: ciascuno con la sua croce, con le sue speranze, con la sua voce umile ma viva. 

Ed è forse questo il più grande pregio dei libri di Haruf: la capacità di raccontare la vita vera. Senza orpelli, compiacimenti, giochi letterari, con un realismo minimo ma profondamente intenso perché vero. E soprattutto con un tono di speranza che si accende inaspettato dietro il grigiore che sembra pervadere tutto: la capacità di cercare la luce nella tenebra. Questo è quello che fanno gli indimenticabili personaggi di Haruf. Forse è proprio quello che succede anche nelle nostre vite.

Kent Haruf

Benedizione 

Traduzione di Fabio Cremonesi

NNE Edizioni

pp.275 Euro 17,00 

08/01/21

Il DNA degli antichi romani ricostruito: si è modificato nel tempo seguendo le fasi storiche di ROMA


Il DNA dei romani si è modificato nel tempo seguendo l’evoluzione delle fasi storiche che hanno segnato la vita e la crescita della città
che al suo culmine ha raggiunto per prima al mondo la popolazione di un milione di abitanti come capitale di un Impero che univa tra loro tre continenti

Lo rivela uno studio genetico, unico nel suo genere pubblicato sulla prestigiosa rivista Science.

Allo studio hanno partecipato un gruppo misto di ricercatori di diverse università tra le quali Harvard, La Sapienza e l’Università di Vienna. 

La ricerca ha analizzato campioni di DNA umano provenienti da 29 siti archeologici presenti nell’area intorno a Roma (Lazio e, in un caso anche Abruzzo) e che coprono un arco temporale che va dal Paleolitico all’Era Moderna (in tutto un arco temporale di circa 12 mila anni) appartenenti a 129 individui. 

“Si è trattato - ha detto all’agenzia Agi Alfredo Coppa, docente di Antropologia fisica alla Sapienza che ha partecipato allo studio - di un lavoro unico nel suo genere perché ha focalizzato l’evoluzione nel tempo del DNA di una città che ha avuto un ruolo molto importante nella storia globale”.

I risultati raccolti hanno così permesso di intrecciare il variare del mix genetico presente negli individui che hanno vissuto a Roma e nei suoi immediati dintorni con l’evoluzione dell’organizzazione urbana del territorio e, dopo la fondazione di Roma, anche con il variare della sua funzione, prima a carattere squisitamente regionale, poi italica, imperiale e globale e fino alla crisi dell’Impero e al successivo medioevo. 

 Ad ogni mutazione di questi assetti, corrispondono mutazioni nel mix di discendenti che caratterizzano il profilo genetico degli antichi romani. Così accade che il profilo genetico dei più antichi abitanti del territorio che diventerà poi Roma, intorno a 6 mila anni prima di Cristo, evidenzia la presenza di antenati di origine anatolica, e sorprendentemente anche iraniani

Successivamente, tra 5 mila e 3 mila anni fa, i DNA analizzati restituiscono l’arrivo di popolazioni dalla steppa ucraina. Con la nascita di Roma e il costituirsi dell’Impero Romano, la variabilità genetica cambia e incrementa ulteriormente. Per questo momento, il DNA “legge” arrivi dai diversi territori dell’impero, con una predominanza dalle aree mediterranee orientali e soprattutto dal Vicino Oriente. Gli eventi storici segnati dalla scissione dell’Impero prima e dalla nascita del Sacro Romano Impero comportano un afflusso di ascendenza dall'Europa centrale e settentrionale

“Non ci aspettavamo di trovare una così ampia diversità genetica già al tempo delle origini di Roma, con individui aventi antenati provenienti dal Nord Africa, dal Vicino Oriente e dalle regioni del Mediterraneo europeo", sottolinea Ron Pinhasi, che insegna Antropologia evolutiva all'Università di Vienna nonché uno dei senior authors dello studio, insieme a Jonathan Pritchard, docente di Genetica e Biologia all’Università di Stanford e ad Alfredo Coppa, docente di Antropologia fisica alla Sapienza. 

Per gli autori la parte più interessante doveva ancora venire. Sebbene Roma fosse iniziata come una semplice città-stato, in una manciata di secoli conquistò il controllo di un impero che si estendeva fino al nord con la Gran Bretagna, a sud nel Nord Africa e ad est in Siria, Giordania e Iraq. L'espansione dell'impero facilitò il movimento e l'interazione delle persone attraverso reti commerciali, nuove infrastrutture stradali, campagne militari e schiavitù. Le fonti e le testimonianze archeologiche indicano la presenza di stretti collegamenti tra Roma e tutte le altre parti dell'impero. Roma, infatti, basava la sua prosperità su beni commerciali provenienti da ogni angolo del mondo allora conosciuto. I ricercatori hanno scoperto che la genetica non solo conferma il quadro storico-archeologico, ma lo rende più complesso e articolato.

Nel periodo imperiale, si assiste ad un enorme cambiamento nell’ascendenza dei Romani: prevale l’incidenza di antenati che provenivano dal Vicino Oriente, probabilmente a causa della presenza in quei luoghi di popolazioni più numerose, rispetto a quelle dei confini occidentali dell'Impero romano. 

 "L'analisi del DNA ha rivelato che, mentre l'Impero Romano si espandeva nel Mar Mediterraneo, immigranti dal Vicino Oriente, Europa e Nord Africa si sono stabiliti a Roma, cambiando sensibilmente il volto di una delle prime grandi città del mondo antico”, riporta Pritchard, membro di Stanford Bio-X. I secoli successivi sono caratterizzati da eventi tumultuosi come il trasferimento della capitale a Costantinopoli, la scissione dell'Impero, le malattie che decimarono la popolazione di Roma e infine la serie di invasioni, tra cui il saccheggio di Roma da parte dei Visigoti nel 410 d.C. Tutti questi eventi hanno lasciato il segno sull’ascendenza della città, che si è spostata dal Mediterraneo orientale verso l'Europa occidentale. Allo stesso modo, l'ascesa del Sacro Romano Impero comporta un afflusso di ascendenza dall'Europa centrale e settentrionale

"Per la prima volta uno studio di così grande portata è applicato alla capitale di uno dei i più grandi imperi dell'antichità, Roma, svelando aspetti sconosciuti di una grande civiltà classica", dichiara Alfredo Coppa. "Assistiamo al coronamento di 30 anni di ricerche del Museo delle Civiltà sull'antropologia dei Romani e un nuovo tassello si è aggiunto alla comprensione di quella società così complessa ma per molti versi ancora così misteriosa" aggiungono Alessandra Sperduti e Luca Bondioli del Museo delle Civiltà di Roma. 

Lo studio su Roma è stato affrontato con le più moderne tecnologie per il DNA antico che questo gruppo di ricerca utilizza da oltre un decennio, allo scopo di chiarire dettagli non leggibili nel record storico, ha affermato Pritchard. "I documenti storici e archeologici ci raccontano molto sulla storia politica e sui contatti di vario genere con luoghi diversi – ad esempio commercio e schiavitù – ma quei documenti forniscono informazioni limitate sulla composizione genetica della popolazione". “I dati sul DNA antico costituiscono una nuova fonte di informazioni che rispecchia molto bene la storia sociale di individui di Roma nel tempo", afferma Ron Pinhasi. "Nel nostro studio ci siamo avvalsi della collaborazione e del supporto di un gran numero di archeologi e antropologi che, aprendo per noi i loro archivi, ci hanno permesso di inquadrare e interpretare meglio i risultati ", conclude Alfredo Coppa. 

07/01/21

L'incredibile assalto al Congresso Americano: la profezia di Gore Vidal




Lo sconcerto provocato dalle immagini televisive che ieri sera hanno raccontato l'inedita e scioccante scena dell'assalto violento al Congresso Americano da parte dei sostenitori di Donald Trump, fa tornare in mente le parole profetiche scritte da uno dei più feroci critici del sistema americano, Gore Vidal, il quale nel suo Il declino e la caduta dell'Impero americano, uscito nel 1992, scriveva: 

Ogni quattro anni la metà ingenua che vota è incoraggiata a credere che se possiamo eleggere un presidente o una donna veramente simpatici, tutto andrà bene. 

Ma non lo sarà. 

Qualsiasi individuo che sia in grado di raccogliere $ 25 milioni per essere considerato papabile alla presidenza non sarà molto utile per la gente in generale

Rappresenterà il petrolio, l'aerospaziale, le banche o qualsiasi altra entità finanziaria che stia pagando per lui.

Certamente non rappresenterà mai la gente del paese, e loro lo sanno

Quindi, il senso di disperazione in tutto il paese quando i redditi diminuiscono, le imprese falliscono e non ci sono rimedi

Man mano che le società diventano decadenti, anche la lingua diventa decadente.

Le parole sono usate per mascherare, non per illuminare, l'azione: si libera una città distruggendola. Le parole devono confondere, in modo che al momento delle elezioni le persone voteranno solennemente contro i propri interessi.



Gore Vidal (1925-2012)


06/01/21

La statua di Lord Byron a Villa Borghese e una decapitazione a Piazza del Popolo

 

La statua di Lord Byron a Villa Borghese

7. La statua di Lord Byron a Villa Borghese e i fantasmi

 

Figlio di un padre che non conobbe mai e di una madre che lo asfissiò, ossessionandolo sia fisicamente che psicologicamente, George Gordon Noel Byron, più conosciuto come Lord Byron, nato a Londra nel 1788, divenne come è noto il più celebre poeta dei suoi tempi. Non solo: la sua vita faticò molto a dividersi dalla sua arte: Byron anzi fu in un certo senso il vero, perfetto dandy.  Chiacchieratissimo da vivo per i suoi scandali e per le continue eccentricità (come quando si fece rinchiudere nella Cella del Tasso, a Ferrara o come quando attraversò a nuoto lo stretto dei Dardanelli), Byron morì nel 1825 in Grecia, a Missolungi, in seguito a una febbre reumatica contratta a Cefalonia, che degenerò in meningite delirante. E proprio come accade per le rockstars di oggi, la sua morte divenne un evento, lasciando inconsolabili fans a lamentarne la dipartita.

Poco tempo dopo la morte, alcuni amici si misero insieme raccogliendo la somma di mille sterline per commissionare una statua dello scrittore. Tra i vari scultori pretendenti fu scelto il danese Bertel Thorvaldsen, il quale si trovava in quel periodo in Italia.

La scelta non fu casuale: lo scultore aveva già ritratto Byron vivo nel brevissimo e intenso soggiorno romano del poeta a Roma, nel suo studio di piazza Barberini, per incarico di John Cam Hobhouse, che del poeta era compagno di viaggio e studio. Con tanto di lodi sull’artista da parte dello stesso Byron, il quale l’aveva definito nei suoi diari «Il migliore dopo Canova, al quale anzi alcuni lo preferiscono».

Il busto, dopo varie peregrinazioni, era finito a Londra nella sede della casa editrice di John Murray, e fu dunque utilizzato come modello per la nuova e più grande opera.

La statua fu iniziata dallo scultore nel 1829 ma Thorvaldsen impiegò molto tempo per completarla poiché, proprio a causa della fama scandalosa che avvolgeva ancora la figura di Byron, fu rifiutata da tutte le istituzioni che avrebbero dovuto ospitarla: il British Museum, la Cattedrale di Saint Paul, l’Abbazia di Westminster e la National Gallery, trovando finalmente la sua collocazione nel 1834 nella biblioteca del Trinity College di Cambridge. Thorvaldsen contraddisse, non si sa quanto consciamente, la volontà di Byron, che in vita, proprio avendo a cuore la promozione della sua immagine, aveva chiesto agli artisti che lo effigiavano (erano numerosissimi: il merchandising intorno a Byron aveva prodotto ritratti, bassorilievi su medaglioni di marmo e perfino anelli con la sua immagine) di ritrarlo non come un poeta, e cioè con il libro e la penna in mano, ma come un “uomo d’azione”. Thorvaldsen, invece, raffigurò Byron proprio nella posa classica dei poeti, seduto su di uno scranno di marmo, con un libro aperto nella mano sinistra, la penna nella destra, poggiata sul mento.

La statua comunque, dopo le difficoltà iniziali, ebbe grande successo e vi fu una produzione numerosa di copie, nel corso degli anni, una in ogni città dove Byron aveva soggiornato: una fu realizzata anche a Roma, inaugurata nel 1959, e si può ammirare nel cuore di Villa Borghese, in via della Pineta.

Sul piedistallo della copia romana, sono incisi brani tratti dal poema di Byron, Childe  Harold Pilgrimage, dedicati all’Italia:

 

 

of the world, the home

                       Of all Art yields, and Nature can decree,

         Even in thy Fair Italy!

                       Thou art the garden desert, what is like to thee?

                       Thy very weeds are beautiful, thy waste

                       More rich than other climes’ fertility;

                       Thy wreck a glory, and thy ruin graced

                       With an immaculate charm which cannot be defac’d

 

Sullo scranno di marmo poi, dalla parte sinistra sono raffigurati alcuni simboli esoterici: un teschio, un gufo e due lettere greche, l’alfa e l’omega.

Il perché di questa simbologia si spiega con l’enorme fascinazione di Byron per il mistero, che a Roma, in quei ventidue giorni trascorsi nella capitale, aveva trovato terreno assai fertile.

A Roma Byron arrivò nella primavera del 1817, interrompendo un gaio soggiorno veneziano, proprio per realizzare il sogno di vedere da vicino quella città che lo aveva sempre – da lontano – ammaliato. Un medico infatti prescrisse al poeta di allontanarsi dall’umidità veneziana, per guarire da un “mal di petto”. Byron  non se lo fece ripetere e colse l’occasione per realizzare il suo sogno, attraversando l’Italia con il suo corteo al seguito, una carrozza con i sedili reclinabili e una quantità enorme di bagagli.

Giunto nella capitale, andò abitare nella centralissima piazza di Spagna, al numero 66. E non aspettò nemmeno un minuto per cominciare a esplorare la città in sella al suo cavallo. L’impressione che ne ricavò fu immediata e stordente: «Sono incantato da Roma come lo sarei da una cappelliera di pizzi», scrisse al suo editore John Murray, «e di Roma non vi dirò nulla: è indescrivibile. La guida qui vale più di ogni altro libro. Ho passato tutta la giornata a cavallo» (3).

Le sue peregrinazioni lo portarono al Colosseo, al Pantheon, a San Pietro, sul Palatino e perfino fuori Roma, a Frascati, Albano e Ariccia.

Byron sentì le rovine e i monumenti come muti testimoni di una tragedia immane, popolati di presenze ancora vive. Nel Pellegrinaggio di Aroldo rievoca – come in una visione – l’episodio del gladiatore agonizzante nell’arena:

 

Stavo tra le mura del Colosseo,

In mezzo ai grandi resti della potente Roma.

Gli alberi che crescevano lungo gli archi spezzati

Oscillavano oscuramente nell’azzurro cupo della notte,

E le stelle splendevano tra gli squarci delle rovine;

Un cane da guardia latrava oltre il Tevere;

E più vicino, dal palazzo dei Cesari, veniva

Il lungo lamento del gufo e, a tratti,

Il canto inquieto di lontane sentinelle

Sorgeva e si smorzava sul vento leggero[U2] .

 

Un brano talmente straziante che Stendhal, anche lui in quei giorni di passaggio a Roma, riprende nelle sue Passeggiate Romane, animandolo in una notte di suggestiva luce lunare. (4)

E nell’arco di quei ventidue intensissimi giorni, il dandy pallido e fascinoso ebbe modo anche di scoprire il lato tragico contemporaneo di Roma. In un’altra lettera del 30 maggio di quell’anno, sempre indirizzata a Murray, Byron descrive minuziosamente l’esecuzione capitale cui gli accadde di assistere: riguardava tre ladri (erano, come risulta dal puntiglioso diario di Mastro Titta, il boia: Giovan Francesco Trani, Felice Rocchi e Felice De Simoni) decapitati nella piazza del Popolo con l’accusa di “omicidi e grassazioni”.  Byron racconta il macabro spettacolo: i preti con la maschera, i carnefici mezzi nudi, i criminali bendati, il Cristo nero e il suo stendardo, il patibolo, le truppe, la lenta processione, il rapido rumore secco e il pesante cadere della lama, lo schizzare del sangue e l’apparizione spettrale delle teste esposte. Tutto questo, scrive Byron, «è nel suo insieme più impressionante del volgare rozzo e sudicio new drop e dell’agonia da cani inflitta alle vittime delle sentenze». (5)

Forse fu proprio l’aver assistito a questo spettacolo cruento uno dei motivi che spinsero Byron ad interrompere presto il suo soggiorno a Roma: dopo ventidue giorni e notti di ruderi e cavalcate, di frequentazioni dell’alta società romana e di soste al Caffè Greco, il poeta decise di far ritorno al Nord, portandosi dietro i fantasmi di Roma che ritornarono a farsi vivi nei suoi poemi.

 Tratto da: Fabrizio Falconi, Roma Segreta e Misteriosa, Newton Compton, Roma, 2015

1. Il primo a parlare di una corrispondenza tra il profilo della Villa Strohl Fern e l’Isola dei morti di Boecklin fu Gianni Rodari in Quel pasticciaccio di Villa Strohl-Fern. La bistrattata isola di verde sopra Piazzale Flaminio, «Paese Sera», 23 settembre 1975.

2. A. Trombadori, Villa Strohl Fern, «Strenna dei Romanisti», 21 aprile 1982.

3. Vedi  G. Scaraffia, Quella Roma di Lord Byron, «Il Messaggero», 27 luglio 2015.

4. Vedi  C. Rendina, Le notti di luna di Byron sospeso sui misteri di Roma, «la Repubblica», 24 luglio 2007.

5. Vedi  C. Rendina, ibidem.

 

 

03/01/21

Il misterioso segnale radio proveniente da Proxima Centauri. Potrebbero essere alieni? Il parere dell'astronomo


Ha fatto in poco tempo il giro del mondo, eccitando gli animi di scienziati e appassionati di astronomia, la notizia di un segnale radio di possibile origine artificiale proveniente da Proxima Centauri, la stella piu' vicina al Sole, distante "appena" 4,2 anni luce

La scoperta, anticipata dal britannico the Guardian, e' stata fatta con il radiotelescopio Parkes, in Australia, dai ricercatori del progetto Breakthrough Listen, attivo dal 2015, che, come i colleghi del Seti (Search for extraterrestrial intelligence), scandagliano il Cosmo in cerca di segnali di potenziali civilta' aliene

Ma di cosa si tratta esattamente? Per saperne di piu' askanews ha intervistato l'astrofisica dell'Inaf, Marta Burgay, ricercatrice presso l'osservatorio di Cagliari. 

"Al contrario dei segnali di origine naturale, provenienti dalle stelle, dalle galassie e dalle polveri interstellari che vengono emessi normalmente in un'ampia gamma di frequenze nelle onde radio - ha spiegato - questo segnale viene emesso a un'unica frequenza, nella fattispecie a 982 MHz. 

Questa caratteristica fa si' che lo si possa interpretare come un segnale di origine artificiale e non naturale"

Artificiale pero' non vuol dire necessariamente alieno. Potrebbe essere, per esempio, l'interferenza di una stazione radio o il segnale di un satellite. 

"A 982 MHz non conosciamo nessuna stazione radio terrestre - ha aggiunto la scienziata italiana - ma probabilmente ci potrebbero essere dei satelliti che potrebbero emettere a quelle frequenze. La ricerca e' ancora in corso; si sta cercando di comprendere quale apparecchiatura terrestre potrebbe aver emesso questo segnale, ma nel frattempo la ricerca prosegue anche nella direzione di Proxima centauri. Il radio telescopio di Parkes, un'antenna da 64 metri di diametro, sta continuando a osservare nella direzione di Proxima centauri per cercare di captare nuovamente questo segnale. Fino ad ora non c'e' stata nessuna ripetizione di questo segnale, il che rafforza l'ipotesi che si tratti di un segnale di origine terrestre". 

Insomma, piano con gli entusiasmi, potrebbe solo essere un nuovo "segnale wow" ma, in attesa di sviluppi, sognare resta lecito

"Segnali di questo genere vengono captati dai radiotelescopi utilizzati dal progetto Breakthrough Listen in continuazione - ha concluso Marta Burgay - la maggior parte vengono pero' scartati automaticamente o a una seconda revisione perche' viene individuata l'apparecchiatura terrestre che ha emesso quel segnale. In questo caso, questa individuazione non e' stata ancora fatta ma il lavoro prosegue in questa direzione. Un altro elemento che rende poco plausibile il fatto che si tratti di un segnale di origine aliena e' il fatto che proviene dalla stella piu' vicina a noi. Se esistesse, oltre a quella umana, un'altra civilta' aliena, le probabilita' che questa civilta' aliena fosse proprio dietro l'angolo sarebbero bassissime. Se in questo piccolo angolo d'universo esistono ben 2 civilta' intelligenti capaci di emettere onde radio, questo significherebbe che di civilta' intelligenti capaci di mettere onde radio potrebbero essercene nella nostra galassia fino a un miliardo e questo statisticamente e' abbastanza improbabile".