28/07/20

Libro del Giorno: "Padri e figli" di Ivan Turgenev





Padri e Figli, (in russo Отцы и дети) fu pubblicato nel 1862 da Ivan Turgenev che nel romanzo affronta l'emersione della mentalità rivoluzionaria nella Russia della seconda metà del XIX secolo e la conseguente crescente protesta contro il regime in atto e la mentalità conservatrice della società del tempo. 

Il titolo evoca quindi la nuova relazione della giovane generazione con quella dei suoi padri, la prima animata da ideali sovversivi e rivolta al progresso sociopolitico.

Il romanzo fu pubblicato per la prima volta in Le Messager Russe nel 1862. E fu proprio Turgenev il primo a rendere popolare il termine nichilismo, con il romanzo che suscitò accese polemiche nella Russia di Alessandro II, al punto che l'autore lavorò nel corso degli anni a sei nuove edizioni del suo capolavoro: nel 1862, 1865, 1869, 1874, 1880 e 1883. 

La storia si svolge attorno a un conflitto ideologico tra generazioni. 

Il romanzo inizia il 20 maggio 1859, quando Nikolaij Petrovic Kirsanov accoglie suo figlio Arcadij tornato dall'università,accompagnato dal personaggio centrale del romanzo, Evgenij Vassiliev Bazarov, che conosce e professa idee materialiste e anti-tradizionaliste. 

Nikolaij Petrovic vive con suo fratello Pavel, un personaggio dal carattere malinconico e orgoglioso e meno liberale di suo fratello. Nikolaj cerca di aprirsi alle idee moderne e vive pacificamente nel suo dominio terriero. 

Vedovo, la sua padrona è Fenecka, uno dei suoi contadini, di cui è il padre del bambino. 

Dopo un'accesa discussione con lo zio Pavel, i due giovani preferiscono andare in città con i genitori di Bazarov, che incarnano invece valori tradizionali della Russia. 

Incontrano Anna Sergeevna, una ricca vedova di 29 anni, che li invita a farle visita nella sua tenuta dove vive anche la sua giovane sorella Katja, piuttosto ritirata. 

Evgenij si innamora contro ogni sua previsione, di Anna e, nonostante i suoi principi rivoluzionari, dichiara il suo amore per lei, il che sconcerta la giovane donna. 

Arkadij, nel frattempo, si sente attratto da Katia. 

I due studenti tornano quindi dai genitori di Bazarov e poi nuovamente da Nicolaij Petrovic, dove si impegnano in nuove discussioni ed Evgenij in nuovi esperimenti scientifici. 

E' qui che una discussione con lo zio Pavel degenera in un duello tra i due uomini. Pavel viene colpito alla gamba. Arkadj dichiara il suo amore a Katia. 

La fine del romanzo è tragica e coinvolge Evgenij mentre gli altri personaggi vanno poi verso il loro destino: Arcadij sposa Katia, Pavel si traferisce all'estero, in Germania, Anna Sergeevna si sposa a Mosca. 

Un romanzo straordinario e perfetto, dove ogni pagina è una lezione di letteratura. 

Traduzione di Giuseppe Pochettino
Introduzione a cura di Franco Cordelli
2014 
ET Classici 
pp. 264 
€ 10,50 
ISBN 9788806224134

    27/07/20

    E' morta a 104 anni Olivia de Havilland



    Si è spenta ieri a Parigi, all'età di ben 104 anni, Olivia de Havilland, una delle più celebri attrici del Novecento. Pubblico qui il ricordo di Alessandra Baldini per Ansa:

    Addio all'ultima delle grandi dive dell'epoca d'oro di Hollywood e ultima sopravvissuta del cast principale di "Via col Vento": Olivia de Havilland e' morta nel sonno nella sua casa parigina. 

    L'indimenticabile Melania Wilkes della saga ideata da Margaret Mitchell e adattata da Hollywood in uno dei suoi primi film in Technicolor aveva da poco compiuto 104 anni e una foto (incerto quando fosse stata scattata) che la ritraeva su una bicicletta a tre ruote era per l'occasione diventata popolarissima su Twitter. 

    Dame Olivia viveva dal 1955 a Parigi, in un appartamento vicino al Bois de Boulogne

    L'attrice, il cui debutto risale al 1935 in "Sogno di Una Notte di Mezza Estate", non doveva aver preso di buon grado l'annuncio di qualche giorno fa che Hbo aveva sospeso dalla programmazione in streaming di "Via col Vento" sulla scia delle proteste del Black Lives Matter. 

    Il film, per cui De Havilland, rivale in amore della protagonista Rossella O'Hara, conquisto' una nomination ma non l'Oscar che ando' invece a Hattie McDaniel (la nera "Mamie"), e' stato poi riportato in circolo con una nuova introduzione che inquadra la saga ambientata al tempo della Guerra Civile nel contesto storico della piaga della schiavitu'. 

    Al contrario del personaggio della dolce (ma forte) Melania, De Havilland e' sempre stata una "tosta" e l'avanzare degli anni non le aveva tolto il gusto per le battaglie anche nelle aule dei tribunali. 

    Solo due anni fa Olivia aveva portato davanti al giudice "Feud: Bette and Joan", un docudramma del canale FX, sostenendo che il suo personaggio era stato inserito nel copione senza permesso, travisando per di piu' i suoi rapporti con le protagoniste, Bette Davis e Joan Crawford, e con la sorella Joan Fontaine

    L'attrice aveva perso la causa, arrivata l'anno scorso fino alla Corte Suprema. 

    Olivia De Havilland era diventata famosa negli anni Trenta al fianco di Errol Flynn in una serie di film "cappa e spada" come "Captain Blood" e "Le Avventure di Robin Hood": ruoli di "damigella in pericolo" in cui inevitabilmente finiva prigioniera per poi essere salvata dall'eroe di turno. 

    Se l'Oscar per "Via col Vento" le era sfuggito, la diva conquisto' comunque due Academy Awards: il primo nel 1946 per "A Ciascuno il Suo Destino" nella parte di una madre che cerca di riconquistare il figlio dato in adozione; il secondo per "L"Ereditiera": una donna controllata dal ricco padre e tradita da un amante avido ma che alla fine riesce a dire l'ultima parola.

     Politicamente Olivia era di sinistra, intollerante pero' degli estremismi di qualsiasi colore politico: nemica dei comunisti di Hollywood ma anche chiamata a deporre in Congresso negli anni del Maccartismo. Negli anni Ottanta era passata a lavorare con la televisione e aveva vinto un Golden Globe per "Anastasia: The Mystery of Anna". 

    26/07/20

    Poesia della Domenica: "Alhambra" di Fabrizio Falconi






    Alhambra


    arriva il culmine in cui sei stanco
    hai valicato e sei disceso
    in pianura ma le gambe
    non ti reggono.

    Alhambra vorresti per rinfrescare
    le membra, un laccio rosso
    per abbandonare i tuoi sensi
    non pensarci più
    promuovere l'onda
    del tuo dissesto
    nei passi che restano
    all'ombra di te relitto
    senza più lamentazioni
    risentire il soffio di primavera
    almeno una volta
    all'ombra
    perdere la testa
    sotto le fronde
    dell'olmo
    riposare gli occhi 
    senza domande, senza questioni
    senza tranelli da scartare
    senza pretese assillanti
    o margini,
    solo il ronzio delle api
    che finirà al tramonto
    prima della caduta
    notturna.






    25/07/20

    Libro del Giorno: "Armance" di Stendhal


    Armance (pubblicato senza il nome dell'autore, nel 1827 ) è il primo romanzo di Stendhal . 

    La trama è ambientata ai  tempi della Restaurazione: Octave de Malivert, un giovane brillante ma introverso appena uscito dal Polytechnique, ama Armance de Zohiloff, che condivide i suoi sentimenti. 

    Ma Octave nasconde un pesante segreto: “Sì cara amica”, le disse, guardandola infine, “Ti adoro, non dubiti del mio amore; ma chi è l'uomo che ti adora? è un mostro. " 

    Octave è in preda a una profonda confusione interiore, e il suo silenzio illustra il male del secolo dei romantici. 

    Octave tuttavia sposa Armance. Il loro matrimonio sembra felice. Ma, una settimana dopo il  matrimonio, Octave decide di andare in Grecia, dove decide di avvelenarsi volontariamente con una miscela di oppio e digitale durante il viaggio in nave.  

    “Il sorriso era sulle sue labbra e la sua rara bellezza colpiva anche i marinai incaricati di seppellirlo." 

    Con note scritte a margine delle pagine della sua copia personale di Armance , Stendhal ha riassunto l'argomento del suo lavoro come segue: “Il protagonista è confuso e infuriato perché si sente impotente, cosa di cui si è assicurato andando alla signora Auguste con i suoi amici, poi da solo, ecc. La sua sventura lo priva della ragione proprio nei momenti in cui è in grado di vedere più da vicino le grazie femminili.  1) Si vede disprezzato dall'unica persona a cui parla sinceramente di tutto. 2) Cerca di riguadagnare questa stima; questa circostanza è assolutamente necessaria per poter prendere l'amore e ispirarlo senza sospettare. Condizione sine qua non poiché è un uomo onesto. 3) Gli dice che ama. 4) Vuole parlare. 5) Un duello e lesioni lo impediscono. 6) Credendosi pronto a morire, confessa il suo amore. 7) Il caso lo serve; la sua padrona gli fa promettere di non chiederla mai in matrimonio. 8) Lei scende a compromessi per lui in modo da essere disonorato se non la sposa. 9) Decide di ammetterle di avere un difetto fisico come Luigi XVIII, M. de Maurepas, M. de Tournelles. 10) È deviato da questo dovere da una lettera. 11) La sposa e si uccide. 

    Stendhal dunque esordì con un romanzo e con una trama destinata a far molto rumore: egli  sapeva molto discretamente come infondere il segreto senza mai parlarne apertamente e infatti per tutta la narrazione il vero problema di Octave non viene mai rivelato esplicitamente.

    André Gide considerava questo romanzo il più bello dei romanzi di Stendhal, a cui era grato di aver creato un amante impotente, anche se lo rimproverava di aver schivato il destino di questo amore: "Non sono convinto che Armance [sarebbe] venuto a patti con esso"

    Stendhal descrive, in parole segrete, un omosessuale, in un momento in cui la censura della stampa proibiva di discutere chiaramente di questo argomento. 

    E già in questo primo romanzo si rivela l'arte narrativa, sublime, di Stendhal destinata poi a eternarsi ne La Certosa di Parma e Il Rosso e il Nero.

    La presente edizione, nei Grandi Libri Garzanti, soffre di una incomprensibile sciatteria, con mille refusi sparsi per il testo e incomprensibili passaggi nella traduzione, che pure è firmata da Franco Cordelli. 




    24/07/20

    Svelato il mistero del "Mostro Marino" disegnato da Leonardo da Vinci: era un fossile di cetaceo


    fossile di Balaena Montalionis, conservato al Museo di Calci

    Non un mostro marino, ma un fossile di cetaceo: svelato il mistero della misteriosa creatura disegnata da Leonardo da Vinci sul Codice Arundel, una raccolta di scritti e disegni conservata a Londra alla British Library. 

    E' quanto rivela uno studio di ricercatori dell'Universita' di Pisa e dell'Universita' di San Diego (USA). 

    Lo studio, pubblicato nella rivista internazionale Historical Biology, e' firmato da Alberto Collareta, Marco Collareta e Giovanni Bianucci dell'Universita' di Pisa e da Annalisa Berta dell'Universita' di San Diego. "Uno dei fogli che costituiscono il Codex Arundel - spiega Alberto Collareta, paleontologo del Dipartimento di scienze della terra - contiene la descrizione delle spoglie di un poderoso mostro marino, che e' stata a lungo interpretata come divagazione fantastica o metaforica del giovane Leonardo, se non come vera e propria rielaborazione poetica di presunte letture classiche del Genio". 

     "Esistono tuttavia molte indicazioni - continua Collareta - che suggeriscono che il giovane Leonardo abbia davvero osservato una balena fossile. Un censimento dei rinvenimenti di cetacei fossili toscani dimostra come, nel corso degli ultimi due secoli, almeno otto localita' toscane nelle vicinanze di Vinci (Firenze) abbiano restituito resti fossili significativi di grandi balene". La prima a ipotizzare che il mostro marino fosse una balena fossile era stata la biologa marina statunitense Kay Etheridge nel 2014. Il nuovo studio italo-americano conferma ora la sua teoria. 

    08/07/20

    Cartier-Bresson a Venezia . Una mostra imperdibile a Palazzo Grassi, la prima Post-Covid



    Cinque sguardi d'autore sul lavoro del piu' celebre fotografo del Novecento, per costruire una mostra che e' cinque mostre, senza pero' perdere un'idea di unita'. 

    Palazzo Grassi, per la riapertura dopo l'emergenza Covid, presenta la grande esposizione "Henri Cartier-Bresson. Le Grand Jeu": partendo dalla selezione delle 385 immagini che il fotografo ha scelto nel 1973 come le sue piu' significative, il curatore Mathieu Humery ha chiesto al collezionista Francois Pinault, alla fotografa Annie Leibovitz, allo scrittore Javier Cercas, al regista Wim Wenders e alla conservatrice Sylvie Aubenas di selezionare a loro volta le immagini per loro piu' significative di Cartier Bresson. 

    "Invece di avere ancora un punto di vista singolo - ha spiegato Humery ad askanews - l'idea e' di averne cinque diversi, e ciascuno e' molto personale, perche' siamo tutti esseri umani diversi. Quindi volevamo qualcosa di molto individuale, ma al tempo stesso volevamo un punto di vista specifico, che fosse in grado di definire qualcosa di assai preciso che il pubblico fosse in grado di riconoscere". 

    Ogni curatore ha scelto sia le immagini sia l'allestimento, e cosi' all'interno del palazzo veneziano si alternano, oltre agli sguardi, anche le luci, i colori alle pareti, i momenti psicologici associati a un certo tipo di fotografie piuttosto che ad altre. 

    E qui, in questa liberta' apparentemente disomogenea, si trova invece l'unita' della mostra, che e' metodologica e che, ovviamente, ruota intorno all'idea di un Grande Gioco. 

    "Ogni curatore - ha aggiunto Humery - ha scelto una cinquantina di foto, senza sapere quali gli altri avrebbero selezionato. Questo e' piuttosto interessante, perche' si possono avere immagini ripetute due, tre o quattro volte. Io non ho dato alcuna indicazione, ho solo voluto discutere con loro per provare a capire cio' che avevano in mente per poi tradurlo in un modo per esporlo". 

    Le fotografie di Cartier-Bresson sono notissime, ma qui, nella peculiarita' degli accostamenti, nelle, per cosi' dire, affinita' elettive che i curatori hanno individuato, sembrano assumere una luce diversa, piu' ricca e rotonda. In sostanza passano da icone singole a tessere di un piu' ampio mosaico, fatto di storia, cultura, vita quotidiana. 

    Intrecciate in maniera profonda e, per usare un aggettivo caro al fotografo francese, decisiva. 

    "Qui si scoprono diversi significati del lavoro di Cartier-Bresson - ha concluso Mathieu Humery - ma anche qualcosa di molto piu' personale: si usano le immagini di qualcun altro per descrivere la propria personalita'". E anche lo spettatore e' chiamato a giocare, immaginando, alla fine della visita, quale avrebbe potuto essere la propria selezione di immagini. Il proprio ritratto attraverso lo sguardo di Cartier-Bresson. 



    07/07/20

    La storia della mano di Ennio Morricone voluta dal Maestro e realizzata dal più bravo cesellatore di Roma

    La mano di Morricone realizzata da Dante Mortet



    "So Morricone. Ma sta mano la famo o no?". Dante Mortet, artigiano e dunque artista con bottega a Piazza Navona, dall'altra parte del telefono per poco non cade dal motorino

    "Era un giorno di novembre di 4 anni fa. Il maestro aveva saputo che facevo sculture di mani, si era recuperato il telefono e mi aveva contattato. Ero su Ponte Cavour e in quel momento ho incontrato una persona immensa", dice Dante, oggi commosso per il passato e per il presente. 

    Mortet immortala la mano di Morricone in una scultura in bronzo, "una mano che il maestro teneva in mostra a casa sua, poi io ne feci un'altra copia la notte che vinse l'Oscar, la feci inginocchiato mentre lo premiavano". 

    "Andai a fare il calco a casa sua. Mise subito le cose in chiaro: 'deve essere la mia mano che scrive la musica, insomma con la penna ma quale bacchetta'", ricorda Dante, una famiglia di cesellatori da 5 secoli.

    E quella mano in effetti viene alla luce nell'atto piu' concreto della creazione musicale, quella in cui le note fluiscono nell'inchiostro e prendono sostanza nello spartito. Insomma quell'atto semplice e potente in cui il mestiere diventa arte. 

    "'Io la musica la scrivo' mi diceva il Maestro -spiega Dante- e a suggellare questo mi regalo' lo spartito in cui aveva scritto il brano che colsi nel calco: era il motivo principale del Il buono, il brutto e il cattivo, insomma si' L'ululato del coyote". 

    Un vero gesto di stima "considerando che Morricone, mi disse poi un suo collaboratore, i suoi spartiti se li riportava sempre via e non ne lasciava mai nessuno in giro". 

    Il calco, fatto in un pomeriggio tra tante chiacchiere romane, "il caffe' della signora Maria e un video girato col telefonino 'che fa il film', come diceva il Maestro", poi si trasforma in una scultura in bronzo. 

    "Il materiale lo abbiamo scelto insieme -dice Dante- perche' e' il materiale di Roma, anche il Marc'Aurelio e' in bronzo. E Morricone e' un monumento di questa citta', anzi di questo mondo"

    Da quella mano, solida e bella che tiene la penna e sembra strappata ad un affresco michelangiolesco, la vita artistica e umana di Dante cambia. "Te porta fortuna, vedrai", mi disse Morricone. 

    Da li' Dante, bottegaio col dono dell'arte, fa le mani di Robert De Niro, Kirk Douglas, dell'intero cast del film di Tarantino 'The Hateful Eight', fa persino il calco dei piedi di Pele'. 

    Ora sogna di immortalare nella materia le mani del grande fotoreporter Sebastiao Salgado, il fotografo del lavoro impastato di fatica nel bellissimo libro di 350 scatti "La Mano dell'uomo". Ma il legame di Dante con Roma resta ed e' fortissimo tanto che e' suo il logo del premio Roma Best Practice Award che quest'anno, per volere dell'organizzatore Paolo Masini, sara' dedicato a Ennio Morricone. 

     Da stamattina Dante tra le sue mani, belle e potenti come quelle del maestro, rigira quello spartito che Morricone gli ha regalato. "E' un pezzo mondiale", gli disse Morricone finendo di vergare le ultime note. "Io me lo tengo qui, nella scatola delle cose piu' belle, qui ci sono ancora le sue mani", dice Dante stringendo le note d'inchiostro e musica, le mani immortali del Maestro. 

    06/07/20

    Ennio Morricone e Gillo Pontecorvo, l'amicizia di una vita

    Gillo Pontecorvo e Ennio Morricone 



    Sono moltissimi i registi che non sarebbero gli stessi se Ennio Morricone non avesse messo a loro disposizione le sue musiche, le sue intuizioni, la sua professionalita'. 

    Solo alcuni pero' divennero amici veri, frequentati dentro e fuori dalla sala d'incisione. 

    Uno di questi, forse tra i piu' intimi, e' stato Gillo Pontecorvo per cui Morricone scrisse le colonne sonore di "La battaglia di Algeri", "Queimada", "Ogro"

    Considerata la leggendaria ritrosia del regista ad impegnarsi su un progetto (solo 5 film in tutta la carriera), si tratta del legame di una intera vita professionale visto che duro' dal 1966 (l'anno del Leone d'oro per "La battaglia di Algeri") fino all'ultimo film di Gillo, presentato sempre a Venezia nel 1979

    Dopo di allora c'e' una storia privata, fatta di cene a casa, scherzi goliardici, intimita' tra le consorti (la moglie di Gillo viene da una grande famiglia di musicisti, i Ziino, e lei stessa e' stata una colonna della Filarmonica Romana) che non si e' mai interrotta. 

    Tutto pero' comincio' proprio nel '66 quando Pontecorvo, che tornava alla regia sette anni dopo "Kapo'", cerco' Morricone che in quel momento collaborava con Pasolini ("Uccellacci e uccellini") e Carlo Lizzani (sodale all'Anac e amico a sua volta). 

    Fu un avvio tempestoso perché il regista, grande appassionato di musica e autodidatta, aveva gia' firmato insieme a Carlo Rustichelli le musiche del suo film precedente e sapeva che emozioni voleva suscitare attraverso le note

    Dopo un mese di lavoro non si trovava un punto d'incontro finché Pontecorvo una sera non sali' le scale di casa Morricone fischiettando la melodia che secondo lui andava bene. 

    Il maestro Morricone aveva capito con chi aveva a che fare e lo accolse suonando al piano la stessa melodia sostenendo di averne avuto l'intuizione la notte prima. 

    "Rimase basito - racconto' il musicista anni dopo - io gli dissi, con una calma olimpica, che dopo un mese passato a discutere di quel tema, evidentemente eravamo sulla stessa lunghezza d'onda."

    04/07/20

    Spuntano dai fondali di Ventotene resti di una nave romana del VI secolo avanti Cristo




    Nel mese di giugno 2020, a largo dell'isola di Ventotene, a seguito di una segnalazione effettuata da un esperto subacqueo del posto circa la possibile presenza di evidenze archeologiche su quel fondale marino, i militari del Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale (TPC) di Roma e del Nucleo Carabinieri Subacquei di Roma, hanno individuato ad una profondita' di circa 40 metri, un'ancora in pietra di forma ovale (lunghezza 60 cm) proveniente da una nave risalente al periodo compreso tra il VI e il IV sec. a.C.; un ceppo di ancora in piombo (lunghezza 65 cm) e una contromarra in piombo (lunghezza 47 cm), gia' facenti parte della medesima ancora in legno non conservatasi, verosimilmente appartenente ad una nave romana risalente al periodo compreso tra il III sec. a.C. ed il I-II sec. d.C.; un ceppo di ancora in piombo (lunghezza 51 cm) interessato da processi di ossidazione e corrosione, saldato ad un'ancora di "tipo ammiragliato" in ferro con barra mobile (lunghezza 1,5 m) ed un'ancora di minori dimensioni, tutte verosimilmente appartenenti al medesimo relitto di nave romana di epoca imperiale (I-II sec. d.C.).

    E poi un'ancora di "tipo ammiragliato" in ferro (lunghezza 4 m) proveniente da relitto moderno; un'ancora di "tipo rampino" (lunghezza 3 m) proveniente da relitto moderno; un'ancora in pietra di forma ovale (lunghezza 60 cm) proveniente da una nave risalente al periodo compreso tra il VI e il IV sec. a.C. 

    Un ceppo di ancora in piombo (lunghezza 65 cm) e contromarra in piombo (lunghezza 47 cm), gia' facenti parte della medesima ancora in legno non conservatasi, verosimilmente appartenente ad una nave romana risalente al periodo compreso tra il III sec. a.C. ed il I-II sec. d.C.. E infine un'ancora "tipo rampino" in ferro (lunghezza 3 m) proveniente da relitto moderno. 

    La Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le province di Frosinone Latina e Rieti, attraverso il suo Servizio di tutela subacquea, ha stabilito di valorizzare il contesto archeologico in situ, secondo le recenti indicazioni UNESCO in merito al patrimonio culturale subacqueo 



    03/07/20

    La Nuova Mostra di Justin Bradshaw a Sutri a Palazzo Doebbing, fino al 17 gennaio



    A Sutri, nel bellissimo Palazzo Doebbing, la nuova mostra di Justin Bradshaw, nell'ambito di Incontro a Sutri - da Giotto a Pasolini, l'allestimento curato da Vittorio Sgarbi dal 26 giugno al 17 gennaio 2021

    Dal catalogo, il testo di Fabio Galadini:

    La narrazione pittorica di Bradshaw evoca il sofisticato manierismo italiano e il realismo fiammingo. 

    La tecnica sorprendente conquistata in anni di capillare ricerca, conduce l’artista ad una padronanza assoluta della gestione del colore e della luce, attualizzando la tecnica della velatura ad olio su supporti metallici (rame e zinco). 


    Questa magistrale dimestichezza della “pittura a velo” consente a Bradshaw di esplorare le forme del realismo in chiave contemporanea, declinando la narrazione verso un iperrealismo che può tranquillamente confrontarsi con i maggiori maestri contemporanei di questa corrente, da Paul Cadden a Ralph Goings. 

    E proprio guardando Goings, il realismo di Bradshaw traduce l’intima narrazione del vissuto indecifrabile “degli altri” in una dimensione pop, in una condizione in cui gli oggetti, i corpi, assumono valenza per quello che sono, non si allontana da esse, narra la loro condizione fuori da un ipotetico vissuto individuale. 


    Esse appaiono, e ciò che ci restituiscono è solo il loro esserci in una dimensione epica senza nasconderne l’inadeguatezza. 

    Qui gli oggetti e i personaggi ritratti mostrano la loro essenza. Essi sono senza storia e funzione, sono “i tubetti di colore consumati e le chiavi, rimaste appese in casa inutilizzate, per serrature che forse non ci sono più”. 

    F. Galadini 


     In mostra: 

    PETALA AUREA Petali d’oro. Lamine di ambito bizantino e longobardo dalla Fondazione Luigi Rovati 
    • GIOTTO Il grande Crocifisso dalla Collezione Sgarbossa 
     PIER PAOLO PASOLINI Fotografie degli ultimi sguardi del grande intellettuale 
    • TADEUSZ KANTOR Dipinti e disegni dalla Collezione Dario e Stefania Piga che testimoniano l’immortale genialità di Kantor con le sue metafore visive e teatrali 
    • CESARE INZERILLO La nuova scultura “Ora d’aria, 2020” per riflettere sulla fragilità umana in epoca di Corona Virus 
    • LA DISTRAZIONE DEL MONDO Dipinti dalla Fondazione Franz Ludwig Catel di Roma 
    • SCARTI, GIOCHI E RIMANDI Le sculture di Livio Scarpella 
     JUSTIN BRADSHAW Ritratti e nature morte eseguiti a olio su rame 
    • KORAI Le sculture in gesso e resina di Alessio Deli 
    • LE STORIE DI CARAVAGGIO L’appassionante vita di Michelangelo Merisi dipinta da Guido Venanzoni in una serie di grandi teleri 
    • COME ALLO SPECCHIO Fotografie di Chiara Caselli 
    • METAFORICA NATURALITÀ Sculture di Mirna Manni • LUOGHI REALI dipinti di Massimo Rossetti.



    01/07/20

    I meravigliosi Sotterranei di Napoli - Un tesoro da scoprire



    I sotterranei di Napoli 


    Esiste come è noto una vasta mitologia, antica e moderna, legata ai sotterranei di Napoli. Una delle città più affascinanti del mondo, oggi divenuta tentacolare, dallo sviluppo urbanistico e edilizio spaventoso, ormai giunto ad aggredire anche lo stesso minaccioso nume che la domina – il Vesuvio – nasconde nelle sue viscere un’altra città altrettanto caotica ed estesa: un vero e proprio labirinto di profondissime gallerie, cunicoli, grotte, ipogei che costellano gran parte del territorio e che ne costituiscono una specie di tessuto invisibile, propizio per la generazione di leggende, miti, tradizioni legate alla magia bianca e nera, in una città del resto già secolarmente predisposta al culto della superstizione e del soprannaturale.

    Questa Napoli sotterranea ha in realtà origini antichissime, che sono quasi del tutto coeve con i primi insediamenti umani: le datazioni al radiocarbonio degli archeologi hanno permesso di stabilire che alcune prime cavità furono scavate cinque o sei millenni prima di Cristo, in epoca preistorica. 

    Non sappiamo bene che cosa spinse quegli uomini, originariamente a proiettarsi nelle profondità di quel territorio. Sicuramente uno dei motivi che favorì questa attività fu la relativa permeabilità del suolo, la sua natura lavica o tufacea, che permetteva piuttosto facilmente di penetrarla. 

    C’era sicuramente, all’origine, insieme alle pratiche di inumazione delle popolazioni preistoriche, la necessità di preservare i corpi dei familiari morti. E di venerarli post-mortem. Insieme a questa prima funzione cultuale, però, cominciò ben presto anche la pratica estrattiva: già nel III e nel II secolo a.C. i greci cominciarono a scavare nel sottosuolo per ricavare i grandi blocchi di tufo necessari alla fondazione della loro colonia, Neapolis, che prese il posto della cumana Partenope, fondata addirittura nell’viii secolo a.C. 

    Ma il vero massiccio lavoro di scavo dei cunicoli della Napoli sotterranea fu sostenuto dai romani, i quali anche in questa occasione dimostrarono la loro incredibile perizia ingegneristica, soprattutto per quanto concerne l’approvigionamento idrico.  

    Alcuni degli ipogei che oggi sono visitabili – come la grotta di Seiano o la grotta di Cocceio – testimoniano di una attività inesauribile, sempre alla ricerca di risorse idriche – come quelle del fiume Serino – che venivano convogliate e utilizzate a uso e consumo degli abitanti della ricca colonia romana. 

    La manifestazione più alta di questa capacità ingegneristica è costituita proprio dalla cosiddetta Piscina mirabilis, un’enorme vasca costruita a Miseno che con i suoi imponenti quarantotto pilastri cruciformi, garantiva la riserva d’acqua – ben 13.000 metri cubi – per le navi della flotta romana che scandagliavano in lungo e in largo il Mediterraneo. 

    Ma l’attività di perforazione del sottosuolo napoletano proseguì incessantemente, nei secoli, trasformandosi in un’opera immane di scavo che aggiunse agli originari scopi di approvvigionamento idrico, altre e più complesse funzioni, fino a realizzare un mostruoso reticolo di condotti – alcuni dei quali sufficiente a malapena per far  passare un uomo – che si ritiene abbia circa due milioni di metri quadri. Una percezione di questa opera – sedimentata in strati diversi, l’uno sull’altro – si ha visitando per esempio gli scavi della basilica di San Paolo Maggiore, uno dei monumenti più insigni di Napoli, costruita sui resti di una agorà greca nella odierna piazza San Gaetano. 

    Lì, scendendo ben quaranta metri sotto il livello stradale attuale, in una lunga teoria di gradini e rampe, si possono toccare con mano i diversi livelli di reticoli sotterranei – diversi anche nella realizzazione e nelle tipologie – che conducono fino ai cunicoli d’epoca romana, culminanti nei magnifici resti del teatro romano di Neapolis. 

    È soltanto una piccolissima porzione di quel mondo nascosto che volenterose associazioni di speleologi locali sta ancora tentando di esplorare compiutamente e di mappare: non è semplice, visto che è stata appurata l’esistenza di cunicoli lunghi chilometri in grado di mettere in comunicazione punti molto distanti della città. 

    Per capire come fu possibile questo dobbiamo appunto procedere in avanti con la storia e comprendere come, alla funzione relativa prima alla sepoltura e poi all’ingegneria idraulica, se ne aggiunsero presto altre: le cavità sotterranee di Napoli, ad esempio, svolsero un ruolo importante nella spaventosa epidemia di peste, che nel 1656 si abbatté sul capoluogo campano e sul Regno di Napoli, mietendo, soltanto nella città, qualcosa come 200.000 vittime in pochi mesi. 

    Tra le ragioni che scatenarono il rapidissimo diffondersi del morbo vi fu anche e soprattutto la sovrappopolazione della città e le pessime condizioni igieniche. Nel 1631 un’improvvisa e terribile eruzione del Vesuvio – che aveva ricordato a quelle popolazioni il ricordo ancestrale del disastro di Pompei – aveva causato la fuga di migliaia di persone che si erano rifugiate in città, credendo di trovare un sicuro riparo. 

    Le risorse idriche risultarono ben presto insufficienti e i moti che instaurarono la Repubblica napoletana nel 1647 diedero il colpo di grazia, favorendo la diffusione della malattia, forse introdotta da alcune navi che provenivano dalla Sardegna. Nell’anno della peste, i cunicoli sotterranei di Napoli svolsero un ruolo molto importante: dapprima in esso prese a rifugiarsi parte di quella popolazione sfollata a causa della eruzione del Vesuvio. In seguito alla diffusione della epidemia, in molti credettero di poter scampare al morbo, resistendo al chiuso dei cunicoli e delle grotte sotterranee. 

    Ma la peste si diffuse presto anche lì e gli stessi cubicoli finirono per diventare ossari dove venivano deposti i corpi degli appestati, cosparsi da uno strato di calce. Un esempio di questa funzione è la cosiddetta, leggendaria grotta degli sportiglioni cioè “dei pipistrelli”, ubicata al di sotto della odierna chiesa di Santa Maria del Pianto, nucleo originale del cimitero di Poggioreale

    La grotta, che non è stata ancora localizzata nonostante le molte ricerche degli anni passati, è il classico esempio del diverso utilizzo delle cavità sotterranee di Napoli, dapprima usata per la ricerca di risorse idriche, poi come ricovero o nascondiglio (fu anche usata dalle truppe francesi del capitano Lautrec nel 1528), infine come ossario e sepoltura degli appestati partenopei.


    Fabrizio Falconi

    Il racconto continua su:


    29/06/20

    29 giugno 2000 - 20 anni senza "Il Mattatore" - Ricordo di Vittorio Gassman






    Ha scelto il giorno di San Pietro e Paolo, patroni di Roma, per andarsene nel sonno, giusto 20 anni fa il 29 giugno. 

    Non era romano Vittorio Gassman, figlio di un ingegnere tedesco, passato per una breve stagione a Palmi, cresciuto a Roma e rivelatosi a Milano; non era romano, ma sapeva esserlo piu' di tanti suoi concittadini, capace pero' di mimetizzarsi in ogni regione per la sua maniacale precisione nel ripetere tutte le inflessioni dialettali e regionali. 

    Ma alla fine e' stato tanto romano da meritarsi (come solo Anna Magnani e Marcello Mastroianni) una doppia targa stradale nelle vie della sua citta' adottiva

    Del "mattatore", appellativo che lo ha sempre accompagnato dal 1959 quando ebbe grande successo televisivo in uno spettacolo dallo stesso titolo che poi trasloco' nella riuscita commedia di Dino Risi, non e' facile dare una sola definizione: gli riusciva tutto e apparentemente senza sforzo

    Ma quando decise di mettersi a nudo, prima come attore e poi come uomo e svelo' nella sua autobiografia i tarli dell'anima, si scopri' la fatica della perfezione, l'infaticabile ricerca del dettaglio, la necessita' di superarsi ogni volta con precisione maniacale.

    Si e' detto che aveva personalita' bipolare e si descrisse malato di depressione, nausea di vivere, fatica di convivere con la propria immagine pubblica. 

    Eppure era felicemente ammalato di vita, sprizzava giovialita', fisicita', intelligenza e per questo fu sempre compagno e complice dei migliori registi, mai semplice esecutore

    Aveva fin da giovane la presenza scenica del prim'attore, ereditava il piglio roboante della generazione di Renzo Ricci (padre della prima moglie di Vittorio), usava il corpo come strumento della sua arte. 

    Prestante e bello, da ragazzo era arrivato a disputarsi lo scudetto del basket universitario con la societa' sportiva Parioli, ma il teatro ebbe presto la meglio, visto che gia' svettava tra i compagni di corso all'Accademia d'arte drammatica. 

    In piena guerra, nel '43, debutto' a Milano con Alda Borelli nella "Nemica" di Niccodemi, ma fu all'Eliseo di Roma, in compagnia di Tino Carraro ed Ernesto Calindri che si fece notare svariando con naturalezza dal repertorio classico a quello contemporaneo

    Se sul palcoscenico non ha mai avuto difficolta' a imporsi (tra i primi a riconoscere il talento ci furono Luchino Visconti, il compagno d'Accademia Luigi Squarzina e piu' tardi Giorgio Strehler), al cinema dovette passare per piccoli ruoli fino a costruirsi una certa fama da "villain" e seduttore pericoloso come in "Riso amaro" di Giuseppe De Santis nel 1949

    Ma nel decennio successivo fu il teatro a mantenere alta la sua popolarita': fra il '52 e il '56 la sua lettura di Shakespeare (prima "Amleto" e poi "Otello") fecero storia cosi' come l'"Orestiade" di Eschilo con la regia di Pasolini. 

    Gassman sembrava un dio greco, l'incarnazione del teatro, svettava in un'Italia ancora piegata sotto le conseguenze della guerra persa. 

    Ma il cinema, nella persona di Mario Monicelli, gli offri' l'occasione di essere "altro". Ne "I soliti ignoti" (1958) incontro' il successo nel modo meno atteso: con Peppe "er Pantera", pugile suonato, dalla parlata incerta, ladro per caso, indosso' una maschera comica che lo avrebbe accompagnato per anni. 

    Fu l'inizio di un'escalation inarrestabile che lo consegna alla storia della commedia all'italiana, uno dei "quattro colonnelli" della risata insieme a Sordi, Tognazzi, Manfredi

    Questo nuovo registro espressivo lo rese complice di autori come Dino Risi, Luciano Salce, Luigio Zampa, Ettore Scola, con Monicelli in testa

    Fu lui a disegnare il suo Brancaleone sul "Miles Gloriosus" plautino, cosi' come Risi gli offri' lo spaccone disperato de "Il sorpasso", mentre Scola fu suo complice in tutto l'itinerario della maturita' da "C'eravamo tanto amati" a "La famiglia"

    Meno nota, ma non meno intensa e' la carriera internazionale di Vittorio Gassman: da sempre, grazie alla conoscenza delle lingue, lo cercano le produzioni internazionali e, dopo la rivelazione in "Guerra e Pace" (1956), dagli anni '70 in poi avra' i migliori registi: Robert Altman, Paul Mazursky, Alain Resnais, Andre' Delvaux, Jaime Camino, Barry Levinson. 

    Si provera' anche come regista in proprio, riversando una buona dose di autobiografia in tentativi ambiziosi come "Kean" o "Senzafamiglia, nullatenenti cercano affetto" in coppia con Paolo Villaggio.

    Chiudera' la carriera la' dove l'aveva iniziata, in palcoscenico, tra l'intensa recitazione di pagine poetiche, una memorabile edizione della "Divina Commedia" e lo spettacolo "Ulisse e la balena bianca" che e' una sorta di testamento artistico ed esistenziale. 

    Nato nel 1922, sognava di morire in scena e per poco non ci e' riuscito. 

    Spirito irregolare e controcorrente, ha dato scandalo nella vita privata con tre mogli e tre compagne, tutte molto amate, da cui ha avuto quattro figli, tre dei quali ne hanno seguito le orme.

    Spirito inquieto, paradossalmente e' stato il meno "italiano" dei nostri grandi attori e forse per questo, pur tra tanti premi, non ha avuto quella gloria che, oggi lo scopriamo, meritava. 

    Sognava un suo teatro ma solo dopo morto il Quirino di Roma gli e' stato intitolato; meritava l'Oscar ma lo prese Al Pacino al posto suo per il remake di "Profumo di donna" e si dovette accontentare di un premio a Cannes (per lo stesso film)

    La Mostra di Venezia gli ha dato il Leone d'oro alla carriera nel 1996, ma poteva accorgersi di lui ben prima

    E' stato un gigante solo e forse proprio questo enorme vuoto che lasciava ogni volta che usciva di scena lo rapiva e terrorizzava insieme. Di certo e' il sentimento che lascia nel cinema e nel teatro italiano anche oggi. Sulla sua lapide sta scritto: "Non fu mai impallato". 




    26/06/20

    Quando Fellini ingaggiò la donna più alta del mondo per "Casanova" - L'incredibile storia di Sandy Allen

    Sandy Allen con Federico Fellini nell'estate del 1975 a Cinecittà

    Per il suo Casanova, che ebbe vicissitudini produttive infinite, girato interamente a Cinecittà, Federico Fellini ingaggiò anche la gigantessa americana Sandy Allen, che il Guinness dei Primati riconosceva come la donna più alta del pianeta, misurando in altezza 2.31 metri (qui sopra in una rarissima foto durante le riprese). 

    Sandy Allen interpretò il ruolo appunto di Angelina, la Gigantessa che Casanova/Donald Sutherland incontra a Londra.

    La Allen - nome completo Sandra Elaine Allen era nata il 18 giugno 1955 e la sua incredibile altezza era dovuta a un tumore nella sua ghiandola pituitaria che gli aveva causato il rilascio incontrollato dell'ormone della crescita . All'età di ventidue anni aveva subito un intervento chirurgico, senza il quale la donna avrebbe continuato a crescere e soffrire di ulteriori problemi medici associati al gigantismo. 

    Scoperta durante uno dei suoi casting leggendari, Fellini chiese subito di poterla avere nel cast e nell'estate del 1975 (le riprese iniziarono il 21 luglio a Cinecittà) la Allen arrivò a Roma con un volo speciale fatto venire dagli USA. 

    Sandy Allen con Federico Fellini sul set di Casanova (agosto 1975)

    Appena dopo il ritorno della Allen in America, intorno a Ferragosto un'altra sciagura si abbatté sulla lavorazione del film: la gran parte dei negativi già girati infatti vennero rubati dagli stabilimenti Technicolor di Cinecittà, insieme a delle pizze di Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini e Un genio, due compari, un pollo di Damiano Damiani.

    Fellini si disse "rovinato" dal furto anche per la ragione pratica che le scene già girate e trafugate comprendevano i negativi girati con la gigantessa americana, per la quale un ulteriore ritorno in Italia avrebbe causato non pochi problemi organizzativi, visto che già la prima volta si era resto necessario lo smontaggio e l'adattamento dei sedili dell'aereo di linea. 

    Fellini decise di proseguire comunque con il resto del film, riservandosi eventualmente di tagliare - con grandissimo dispiacere - le scene che riguardavano Angelina/Sandy Allen. 

    Sandy Allen accompagnata sul set vestita da "Angelina", nell'estate del 1975 a Cinecittà

    Le riprese, che da contratto sarebbero dovute durare 26 settimane, si interruppero bruscamente il 16 dicembre 1975 quando la produzione sospese le riprese licenziando il 21 tutta la troupe. 

    Per il produttore Grimaldi la decisione era motivata dal fatto che il film invece di essere già stato completato con una spesa di 4,2 miliardi di lire, era già costato 4,8 miliardi e completato solo al 60%.

    A quel punto Grimaldi si disse disposto ad investire un ulteriore miliardo a patto di ridurre i costi.

    Fellini dal canto suo si sentì diffamato dal produttore e sostenne che l'accordo era di terminare le riprese il 21 gennaio 1976, ricordando che quattro settimane di lavoro erano sfumate a causa di scioperi, di una malattia del protagonista e di deficienze attribuibili alla produzione.

    Quanto ai costi dell'opera Fellini in qualità di autore, e non di produttore associato, si dichiarò estraneo.

    La querelle investì i media, che ovviamente ci andarono a nozze, e trovò soluzione solo quando Fellini si decise a trascinare Grimaldi in tribunale. 

    Il 28 gennaio 1976 fu trovato l'accordo: Grimaldi avrebbe investito ulteriori 1,2 miliardi di Lire e gli attori sarebbero stati riconvocati a fine febbraio per terminare la lavorazione del film entro otto/nove settimane.

    Il film venne ripreso dunque il 23 marzo. Quando tutte le riprese si erano ormai concluse e Fellini si era ormai rassegnato a fare a meno della parte relativa ad Angelina la Gigantessa, nel maggio 1976,  tutto il materiale trafugato fu ritrovato a Cinecittà, misteriosamente. 

    Fellini ovviamente accolse la cosa con gioia, recuperando le scene perdute e potendo così procedere al montaggio completo del film.

    Casanova uscì nelle sale a dicembre di quello stesso anno.

    Ma che ne fu di Sandy Allen?

    Sandy Allen

    Colpita da improvvisa e provvisoria notorietà dopo la parte in Casanova, la Allen comparve sporadicamente in alcuni documentari.

    Non si sposò mai. Con il passare degli anni, anzi, le sue condizioni di salute peggiorarono, essendo costretta ad usare una sedia a rotelle perché le gambe e la schiena non potevano sostenere la sua alta statura in posizione eretta. Infine, relegata a letto a causa di una malattia, per l'atrofia completa dei muscoli. 

    Trascorse i suoi ultimi anni a Shelbyville, nell'Indiana.

    Morì il 13 agosto 2008 a cinquantatré anni e da allora una borsa di studio è stata dedicata a suo nome alla Shelbyville High School.

    Fabrizio Falconi 
    tutti i diritti riservati - 2020


    25/06/20

    La drammatica storia d'amore tra John Cazale e Meryl Streep


    E' stata una fortissima, drammatica storia d'amore quella tra due dei più talentuosi attori di Hollywood in assoluto, a cavallo degli anni '70.

    Una storia che soltanto lentamente e recentemente - proprio per il grande riserbo che la grande attrice americana ha sempre riservato alle sue vicende private - è venuta fuori nei suoi particolari. 

    La riassumiamo qui brevemente.

    Subito dopo la laurea a Yale nel 1975, la Streep si iscrisse e studiò alla Eugene O'Neill Theater Center's National Playwrights Conference, dove apparve in cinque recite teatrali nel giro di sei settimane, visto il grande successo che da subito la accompagnò.

    All'epoca aveva 26 anni. 

    Lo stesso anno si trasferì a New York e qui apparve nelle più impegnative rappresentazioni teatrali del New York Shakespeare Festival: Enrico V, La bisbetica domata con Raúl Juliá e Misura per misura accanto a Sam Waterston e John Cazale.

    Fu proprio durante quest'ultimo spettacolo, che la Streep incontrò Cazale, anche lui una delle promesse più importanti, all'epoca, dello spettacolo americano, con cui avrà una relazione fino alla sua prematura morte nel 1978. 

    Nel 1976 la visione del film Taxi Driver ed in particolare la performance di Robert De Niro ebbe un profondo impatto sull'attrice, che fino a quel punto era stata piuttosto disinteressata all'industria cinematografica. 

    La Streep iniziò quindi a fare audizioni per diversi film, tra cui quella per il ruolo da protagonista per King Kong di Dino De Laurentiis, il quale, davanti alla Streep e rivolgendosi al figlio in italiano commentò "Che brutta! Perché me l'hai portata?". 

    Streep, capendo l'italiano, rispose: "Mi dispiace non essere bella abbastanza per il tuo film, ma la tua è solo un'opinione tra tante ed ora vado a trovarne una più gentile".

    La Streep tornò così a teatro, a Broadway dove fu protagonista nei drammi di Tennessee Williams, 27 Wagons Full of Cotton, e di Arthur Miller, A Memory of Two Mondays, per cui ricevette una candidatura al Tony Award come miglior attrice non protagonista in un'opera teatrale nel 1976.

    L'esordio al cinema di Meryl Streep avvenne nel 1977 con il bellissimo Giulia di Fred Zinnemann, dove interpreta un personaggio minore sebbene significativo per la trama.

    Ma è l'anno successivo che si impone all'attenzione generale, recitando per la prima volta accanto a Robert De Niro, Christopher Walken e al fidanzato John Cazale ne Il cacciatore di Michael Cimino: un lavoro che Meryl Streep aveva deciso di accettare - pur non entusiasta della storia e del suo ruolo - per guadagnare i soldi necessari ad aiutare il compagno, Cazale che si era già gravemente ammalato, di un aggressivo cancro ai polmoni.  Quando Cazale si presentò sul set, lo stesso De Niro si spaventò per le sue condizioni di salute, che erano già peggiorate e che quasi non gli permettevano di rimanere in piedi. Benché cpsì sofferente, Cazale continuò a lavorare per poter terminare quello che sarebbe stato il suo ultimo film, Il cacciatore, e a fianco della sua compagna Meryl Streep. 

    Furono la stessa Streep, Robert De Niro e il regista Michael Cimino a convincere i dirigenti della  Universal Studios a consentire a Cazale di continuare a lavorare fino alla fine della produzione. E grazie ad alcune modifiche del piano di lavorazione del film fatte da Cimino, l'attore fu in grado di terminare tutte le sue scene, ma non vide mai il film finito.

    Al suo secondo film in assoluto, intanto la Streep ottenne subito la sua prima candidatura all'Oscar come migliore attrice non protagonista.

    L'anno dopo, nel 1978 l'attrice fu chiamata per interpretare Inga Helms Weiss, una donna tedesca sposata con un artista ebreo nell'era nazista della Germania, nella miniserie televisiva Olocausto. 

    Le riprese della serie si dovevano tenere in Germania ed in Austria, con Cazale costretto a rimanere a New York per curarsi.

    Al corrente del peggioramento della malattia del compagno, il cui cancro si era propagato alle ossa,  l'attrice fece immediatamente ritorno e gli restò accanto fino alla sua morte avvenuta il 12 marzo 1978.

    Nel frattempo, la serie, con un pubblico stimato di 109 milioni, ebbe un notevole successo e la Streep venne ricompensata con un Emmy come miglior attrice protagonista in una miniserie.

    Per cercare di superare lo shock della morte del compagno, la Streep accettò il ruolo in un film minore,  La seduzione del potere e poi in un piccolo ruolo in Manhattan di Woody Allen, nel ruolo di Jill.

    Nel film seguente, Kramer contro Kramer, la Streep recitò accanto a Dustin Hoffman nel ruolo di donna infelice che abbandona marito ed affronta una crisi coniugale che sfocia in una pesante battaglia giudiziaria per l'affidamento del figlio (all'inizio l'attrice non approvò il ruolo perché ritraeva le donne come "troppo perfide" e non le rappresentava in modo reale. Gli autori, d'accordo con lei, revisionarono la sceneggiatura. Riscrisse lei stessa alcuni dialoghi nelle scene chiave del film e frequentò l'Upper East Side, dove sarebbe stato grato il film, per osservare le interazioni tra madri e figli del quartiere).

    Per Kramer contro Kramer, la Streep vinse sia il Golden Globe che l'Oscar alla miglior attrice non protagonista, che come è noto, dimenticò nel bagno subito dopo aver fatto il discorso.

    Kramer contro Kramer e Il cacciatore furono dei successi al botteghino ed entrambi vinsero l'Oscar al miglior film.  

    John Cazale detiene ancora oggi un singolare record: tutti i lungometraggi nei quali sia comparso come interprete nel corso della sua breve carriera, inclusi quelli usciti postumi, sono stati candidati al premio Oscar al miglior film



    fonte: Wikipedia