02/02/15

Roma è un sogno concreto.


Roma per me è un sogno concreto. Non è questione di colori, o di storia. E’ la realizzazione di un sogno misterioso contenuto nell’anima di ciascuno. Provo a spiegarmi meglio: Roma esiste prima che nella sua materia, nella sua forma, nelle sue colonne, nei suoi tempi, nei suoi anfiteatri, nei suoi muri scrostati. Roma è secondo me prima di tutto, un’idea. 

L’idea dei progenitori, innanzitutto. Roma è stata fondata, e già dalle leggende relative alla fondazione, noi sappiamo che vi era l’idea di fondare una città perfetta, legata al favore degli dei, degli astri del cielo, e della natura. L’idea dei progenitori, poi, si è legata ad un sogno di perfezione e di centralità – legata già a quell’umbilicus urbis che riposa al centro del foro romano. 

 L’idea di perfezione e di centralità, a sua volta, ribadita dalla nuova fondazione cristiana della tomba di Pietro, si è deteriorata nel corso dei secoli, si è sgretolata, si è smaterializzata sotto i colpi e le onde di infinite stratificazioni che hanno come disperso il senso di quella centralità, senza mai cancellarlo del tutto. Anche oggi, Roma si presenta unica. Unica, perché l’idea che vive sotto le sue viscere continua ad essere viva, ed unica. E la si percepisce con forme mutate, in ogni angolo, in ogni pietra sopravvissuta. L’idea di Roma vive nelle catacombe e nei trionfi barocchi. 

Essa – quell’idea – è pervasa di sacro e profano, proprio perché fa parte dell’archetipo umano dell’imago urbis che mette d’accordo il favore degli dei con l’armonia della natura. Due millenni prima della città utopica rinascimentale, 

Roma è un progetto di armonia universale, continuamente decadente e decaduto, sepolto dalla polvere, e rinnovato dall’inquietudine umana. Ecco anche perché la sua decadenza è diverso da quello di altre città che furono ‘centrali’ come Heliopolis-Il Cairo o Istanbul-Costantinopoli. 

L’idea di Roma non è morta: essa appartiene all’anima di ciascuno, esattamente come duemila e cinquecento anni fa, e questa affermazione paradossale la si riscontra come vera negli occhi di chi si imbatte, e viene come viandante o pellegrino su una strada tracciata da migliaia di vite prima della sua. Proprio perché l’idea di Roma è l’idea della nostra vita-madre. Qualcosa alla quale non si può fare a meno di tornare, perché appartiene alla nostra origine.

01/02/15

Poesia della domenica- "Passa in me" di Paola d'Agnese.



Passa
in me
come avessi le ali

sorvolami

muovendo
l'acqua della riva.

Attraversami

camminami
dentro
come a un fiume
scalzo
nudo d'ogni altra
cosa.

Fermati
in me
alla cascata d'acqua
senso e riposo
giglio e turbamento

a toccarla
finalmente
la vita.


Paola d'Agnese, tratto da 58 secondi, Zona editore, Roma 2010, pag. 61.

31/01/15

Simone Weil e la verità.


Non bisognerebbe mai stancarsi di rileggere quel meraviglioso libro che è Lettere a un religioso, di Simone Weil.

In questo libro, Simone Weil (1908-1943) fornisce alcune illuminazioni che restano a lungo nella mente e nel cuore. 

A un certo punto, nelle sue opere, la Weil insiste quasi con accanimento, sulla necessità di un cristianesimo in cui la verità (e la veridicità) non siano subordinati all'adesione religiosa, ma siano essi stessi il principio normativo. Non c'è il punto di vista cristiano e gli altri, ma la verità e l'errore. Prosegue Non: ciò che non è cristiano è falso, ma: tutto ciò che è vero è cristiano (III, 401). 

 Pier Cesare Bori, analizzando questo passo della Weil fa notare come viene in mente un'opposizione - una delle tante, ma in questo caso non banale - tra Dostoevskij e Tolstoj. 

Dostoevskij afferma: Se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità e si potesse effettivamente constatare che la verità è fuori di Cristo, preferirei rimanere con Cristo, piuttosto che con la verità, e cioè starei con Cristo anche se avesse torto

Tolstoj, citando Coleridge, diceva invece: Chi comincia con l'amare il cristianesimo più della verità, amerà poi la sua setta o chiesa del cristianesimo e finirà con l'amare se stesso (la propria tranquillità) più di ogni altra cosa (si veda per esempio la sua Risposta al Sinodo ). 

Un testo che riporta a Platone, al famoso sono amico di Socrate, ma più ancora della verità che nella sua forma originaria si trova in Fedro 91B-C, Socrate dice: …io ricomincio il mio ragionamento. E se voi mi date retta, vi preoccuperete poco di Socrate e molto più della verità. E se vi sembrerà che io dica il vero, mi darete ragione, altrimenti dovrete opporvi con ogni vostro argomento

Nella sua Professione di Fede Simone Weil scriveva: V'è una realtà situata fuori del mondo, cioè fuori dello spazio e del tempo, fuori da ogni portata delle facoltà umane. A questa realtà corrisponde al centro del cuore dell'uomo questa esigenza di un bene assoluto che vi abita sempre e che non trova alcun oggetto in questo mondo. 


29/01/15

Eusebio, il calcio e 'Cieli come questo'.


Per chi ha amato Eusebio da Silva Ferreira, la Perla nera, splendido attaccante che il Portogallo scovò nella sua colonia di Mozambico, sapere il Benfica di nuovo in una finale di Coppe europee dopo 23 anni è una gioia. I portoghesi non ne vincono una dal ’62. Erano all’epoca una potenza del calcio internazionale, Eusebio una stella in ascesa. Quattro anni dopo il Portogallo avrebbe eliminato il Brasile ai Mondiali d’Inghilterra, a lui era già stato assegnato il Pallone d’oro. Oggi si fa fatica a crederlo, ma i giornali dell’epoca – non senza ragioni – si chiedevano chi fosse il più forte calciatore del mondo: Eusebio o Pelé.  Fabrizio Falconi, giornalista e scrittore, ne ha parlato nel suo romanzo del 2002 Cieli come questo. La pagina è questa. Per chi ha amato Eusebio, per chi vuole cominciare a farlo ora.

Come quella volta in cui, mentre guidavi, ho fatto caso a quel gagliardetto rosso che penzolava dallo specchietto retrovisore. Lo scudetto era quello di una squadra di calcio portoghese, il Benfica. Sfondo rosso, un aquilotto che stringe i suoi artigli su un cartiglio con la dicitura E Pluribus Unum, poi i rami di alloro che incorniciano un pallone con la sigla SLB, e un’altra scritta, questa in bianco: GLORIOSO, FUNDADO EM 1904

“Perché questo scudetto?”.
“E’ di Lisbona, il Benfica”.
“Lisbona. Ci sei stato?”.
“Sì, una sola volta, purtroppo”.
“E te ne sei innamorato?”.
“Sicuramente. Ci sono stato durante i lavori che fecero per l’Expo del 1998. Cantieri ovunque, strade dissestate, caos…”.
“Eppure…”.
“Eppure… Che città, e poi è la città del Benfica. L’arte del football”.
“Io non ci capisco niente di football”.
“Non conosci Eusebio?”.
“Eusebio chi?”.
“Il più grande calciatore del mondo”.
“Non ne so niente. Ma non era Pelé?”
“Pelé? No, Eusebio era un’altra cosa (…) Che ne so, la maglietta amaranto con le bande verdi, a me quelli del Portogallo mi sono sempre piaciuti, e il Benfica, poi, con tutto quel rosso”.

[Fabrizio Falconi, Cieli come questo, ed. Fazi 2002]



27/01/15

Giornata della memoria 2015. Hermann Goering a Norimberga.






Era seduto tra due estranei.  Fermi per convenzione, per obbligo, per divisa.  E forse pensava a qualcosa di inutile, a quel che aveva mangiato a colazione, forse a sua moglie o forse non pensava a niente. 

Come una furiosa cavalcata ebbra l'aveva portato fin lì. Con quegli uomini che - in una lingua straniera - gli chiedevano conto: lui un prigioniero, lui trattato come un miserabile, lui che in fondo non aveva fatto altro che il proprio dovere, lui che poi aveva anche capito prima di altri la follia del capo e aveva cercato anche di succedergli. 

Lui che messo ai margini dal capo - anche a causa della sua figura imbarazzante e del suo grasso superfluo (140 chili era arrivato a pesare) - s'era perfino preso la briga di compatire quei milioni che morivano nelle fosse e nei forni di Auschwitz.

Lui che ora era perfino magro, un altro uomo: con uno sguardo serio, fisso davanti a sé, appena un po' compiaciuto. 

Che domande gli sarebbero arrivate ora. Che altro gli avrebbero chiesto. Di cosa lo avrebbero accusato. Di essere un soldato, in fondo. Di aver fatto quello che bisognava

Forse sarà morto sognando la luna. Forse non avrà sognato nulla. Perché i vermi si erano impadroniti ormai anche dei suoi sogni. 

Fabrizio Falconi

Nella foto Hermann Goering al Processo di Norimberga nel 1946.  Processato dagli alleati, venne riconosciuto colpevole di «aver pianificato, iniziato e intrapreso guerre d'aggressione» e di aver commesso «crimini di guerra» e «crimini contro l'umanità». Udita la sentenza di morte per impiccagione, Göring chiese di essere fucilato; il tribunale respinse la richiesta. Poche ore prima che iniziassero le esecuzioni - attorno alla mezzanotte del 15 ottobre 1946 - si tolse la vita, inghiottendo una capsula di cianuro introdotta di nascosto nella sua cella, forse da un tenente dell'Esercito Americano, Jack "Tex" Wheelis, con il quale Goering intratteneva rapporti amichevoli.

26/01/15

In fuga dall'Isola.






Una volta abitavamo, insieme, sul Continente. Il Continente era fatto di terra odorosa e solida. Il Continente è da dove veniamo. Sul Continente abbiamo imparato – a prezzo di guerre e catastrofi – a convivere. Il Continente è la nostra storia, la nostra maledizione e il nostro rimpianto. I greci, sul Continente, hanno prodotto idee. I romani strade. I cristiani una fede.  E per molto molto tempo questo è bastato. Poi, tutto questo non è bastato più. 

Il Continente divenne, senza che quasi ce ne accorgessimo, inabitabile. I nostri padri ci abbandonarono. Molti di loro morirono ammazzati, altri, molti, si disinteressarono di noi. Venti contrari e siccità, una intollerabile promiscuità ci convinse che era l’ora di abbandonare il continente, e andare per mare. 

Qualcuno di noi, per primo, trovò l’Arcipelago. Ora viviamo qui, e la situazione nuova ci mette a disagio. La luce è abbagliante, e ci costringe a tenere gli occhi socchiusi. Il silenzio è abitato da un rumore di fondo indistinto, il rumore del mare, che rende pazzi. Ciascuno di noi è solo. 

 Per comunicare con gli altri di noi, che sono sulle altre isole, abbiamo bisogno di mezzi meccanici. Non sempre funzionano. Ma hanno il vantaggio di illuderci. 

E l’illusione è sempre meglio della realtà, così almeno ci illudiamo che sia. Vivendo sull’isola non sappiamo più bene chi siamo. 

Il tempo è indistinto. Sull’isola, ogni giorno vale come un altro. Sull’isola, non abbiamo punti di riferimento. 

Al punto tale che anche l’isola potrebbe muoversi, nella corrente, senza che ce ne accorgiamo. 

Un barlume di orientamento potrebbe venire soltanto dal cielo, di notte, quando brillano le stelle. Ma alla sera, siamo troppo stanchi per alzare gli occhi al cielo. 

Sull’isola, poi, tutto è relativo: non esistono bello e brutto, perché ci sono soltanto io qui, a giudicare. E ciò che sulla mia isola è bello, non lo sarà sulla tua. Non esiste giusto o ingiusto perché sono io il promulgatore della giustizia dell’isola e non pretendo di amministrarla su un’altra isola. Le isole sono collegate da canali. E’ difficile attraversarli, ma non impossibile. 

Ogni tanto mi assale una feroce nostalgia del Continente. Ma so già che non potrei mai tornarvi. Lo troverei cambiato per sempre, preda della giungla e degli animali feroci. Sull’isola, scavo ogni giorno un pezzetto di terra, e vi deposito qualcosa di me: unghie, denti che cadono, capelli. Fecondo la terra, ma so che nessuna terra può essere fecondata in mezzo alle tempeste del mare. Di notte imbastisco una preghiera. Qualcosa che ricordo di aver imparato da bambino. Poi mi perdo le parole, e devo ricominciare daccapo. 

Lo so, impazzirò se le cose continueranno così. Nessun colore di frutto o di foresta, di corallo o di mare, nessuna visione potrà salvarmi. La mia salvezza è la fuga dall’Isola. E’ quel che farò. Come un folle, mi lascerò portare alla deriva su qualche letto di canne. Sono sicuro che il mondo non è sparito, oltre queste isole. Ne sento, anzi, il soffio in lontananza. Ne sono sicuro. 

Oggi, nel mio taccuino rilegato in pelle scura ho scritto queste parole. Le ho ricopiate, le ha scritte quaranta anni fa un uomo che è morto, quattro mesi dopo averle scritte, in un incidente aereo, in Congo: 

Io non so chi – o che cosa – abbia posto la domanda. Non so quando essa sia stata posta. Non so neppure se le ho dato una risposta. Ma una volta ho risposto sì a qualcuno – o a qualcosa. Da quel momento è nata la certezza che l’esistenza ha un senso e che perciò, sottomettendosi, la mia vita ha uno scopo. Da quel momento ho saputo cosa significhi non guardare dietro a sé, non preoccuparsi del giorno seguente. Guidato attraverso il labirinto della vita dal filo d’Arianna della risposta, ho raggiunto un tempo e un luogo, in cui venni a sapere che il cammino porta a un trionfo, e che il crollo a cui esso conduce è il trionfo; venni a sapere che il premio per l’impegno nella vita è l’oltraggio, e che l’umiliazione più profonda costituisce l’esaltazione massima che all’uomo sia possibile. Da allora la parola coraggio ha perduto il suo senso, in quanto nulla poteva venirmi tolto.  

Queste parole mi hanno dato speranza. E mi sono ricordato che la speranza era la qualità di mio padre, e prima di lui di mio nonno, e dei padri dei miei padri. Ho preso il largo, di sera, e non temevo la notte.

L’isola si allontanava, ma era dentro di me. Io ero l’isola. E la nuova terra, la nuova fertile terra, sarebbe stata l’anima vivente di tante nuove isole, senza più mare a confonderle, a perderle. Pensavo, mentre nuotavo, alla solita domanda insistente: To be or not to be ? E' stato allora che di fronte alla disperazione di Amleto:  the time is out of joint (il mondo è fuori dei cardini), mi sono ricordato della risposta giusta del Bardo: born to set it right (nato per rimetterlo in sesto). E sono arrivato al termine del mare. 


 Fabrizio Falconi - (C) riproduzione riservata) - 2009

25/01/15

Poesia della domenica - 'La buia stanza obliqua del mio cuore' di Hannah Arendt





Vieni e abita
nella buia stanza obliqua del mio cuore,
che la vastità delle onde ancora
si chiude allo spazio.
Vieni e cadi
nei fondi colorati del mio sonno,
che ha paura del ripido
abisso del nostro mondo.
Vieni e vola
nella lontana curva della mia nostalgia,
che l’incendio divampi
all’altezza di una fiamma.
Stai e resta.


Hannah Arendt

24/01/15

Goethe collezionista di autografi. (Una grande mostra a Weimar).



Oltre a essere un genio universale, scrittore, poeta, scienziato e umanista, Johann Wolfgang von Goethe era un appassionato collezionista, non solo di arte, ma anche di manoscritti di grandi del suo tempo. 

Una mostra a Weimar, organizzata dall'Archivio Goethe e Schiller, espone alcuni di questi preziosi documenti, mai mostrati al pubblico prima, fra cui testimonianze di Mozart e Napoleone. 

Nella maturità Goethe (1749-1832) aveva sviluppato una accesa passione per gli autografi di grandi personaggi contemporanei o anche gia' scomparsi da tempo. Amici e conoscenti lo aiutavano a nutrire la sua collezione. 

"Negli ultimi 25 anni della sua vita Goethe ha raccolto attorno ai 2.000 documenti di circa 1.500 personalità", ha detto la curatrice, Evelyn Liepsch. 

Una piccola selezione (14 manoscritti) e' esposta nella mostra, che si e' aperta oggi a Weimar e chiude il 28 giugno: "Da Mozart a Napoleone" il titolo. 

Goethe raccoglieva lettere, appunti, disegni, certificati, alberi genealogici, pagine di spartiti o semplici autografi di artisti, studiosi, politici e sovrani. Fra di essi, esposta ora a Weimar, anche la copia di una firma di Napoleone, che peraltro conobbe in vita. 

L'Archivio possiede anche una piccola lettera scritta a Goethe dall'imperatore francese che pero' non e' esposta: "noi non siamo un museo ", ha spiegato la curatrice alludendo alla scelta e al numero limitato dei documenti selezionati. 

Altra testimonianza preziosa e' un frammento di una partitura di Mozart inviato a Goethe da una amica di Vienna con cui corrispondeva. Si tratta di una pagina manoscritta della Fantasia per pianoforte in do minore, ultimata dall'amico del grande compositore, il clarinettista Anton Stadler. 

Altro documento significativo, una lettera dal lascito di Moses Mendelsohn (1729-1786). Il celebre filosofo tedesco proveniva da una illustre famiglia della borghesia ebrea che ha prodotto anche il grande compositore romantico, Felix Mendelsohn Bartholdy (1809-1847), nipote del filosofo. 

La morte precoce del poeta e amico Friedrich Schiller nel 1805, ha contribuito ad alimentare la passione di Goethe per gli autografi di "persone eccezionali, notevoli, capaci", egli stesso si vedeva sempre piu' attraverso il filtro storico, ha spiegato la curatrice Liepsch. Goethe teneva molto alla sua collezione, da lui meticolosamente archiviata, e usava spesso sfogliare e rimirare gli oggetti raccolti, come i manoscritti di partiture. 

Arricchiva il suo tesoro durante viaggi, attraverso scambi, o anche grazie all'aiuto di amici che sapevano della sua passione. Accanto al piacere di possedere degli originali,  Goethe amava il contatto con questi documenti "per poter evocare e richiamare attorno a se' - come scrisse egli stesso nelle lettere - gli spiriti delle persone allontanatesi o scomparse" .

23/01/15

L'Ammirazione: la prima di tutte le passioni. (Descartes)


Quando il primo incontro con un qualche oggetto (o soggetto ndr) ci sorprende, e lo giudichiamo nuovo o molto differente da quel che ne conoscevamo prima oppure da quel che noi supponevamo che dovesse essere, ciò fa sì che noi l'ammiriamo e che ne restiamo stupiti.

E siccome ciò può capitare prima che noi conosciamo per niente se quest'oggetto (o soggetto ndr) ci sia o no conveniente, mi sembra che l'ammirazione sia la prima di tutte le passioni.

Essa non ha il suo contrario, perché, se l'oggetto che si presenta non ha in sé niente per sorprenderci, non non se siamo per niente commossi e lo consideriamo senza passione (...)

La stima o il disprezzo sono congiunti all'ammirazione, a seconda che ammiriamo la grandezza o la piccolezza di un oggetto. Possiamo anche disprezzare noi stessi; di qui vengono le possiani e poi le abitudini della Magnanimità e dell'Orgoglio, dell'Umiltà e della Bassezza.

R. Decartes, Passione sive effectus animae II, 53-54.

Per Cartesio, insomma, l'ammirazione è uno dei pochi (sei, insieme a amore, odio, desiderio, gioia e tristezza), stati originari dell'uomo.



22/01/15

Il nostro incontro non era in agenda.




Il nostro incontro non era in agenda.  Come spesso accade nella vita, abbiamo lasciato fare al caso. Quest'onda increspata che a tratti ci accarezza e a tratti ci sommerge. 

Ma non è così l'anima delle cose.  Questa nebbia indistinta, questo mal di capo, questa debolezza lascia il posto alla furente voglia di cercare il dritto e il compiuto,  la passione delle forti istanze, le meteore che attraversano come un lampo la notte della savana. 

Il nostro incontro non era in agenda.  E tu, anima lo sapevi. 
Hai aspettato paziente e non ti sei sottomessa. 
Come un animale selvatico sei sparita per un po' e poi sei tornata.  Sulle medesime tracce lasciate ai tempi della neve. 
Le riconosci.
Anche io, che son cacciatore, le riconosco.
Anch'io son paziente. 
Ci siamo guardati da lontano e abbiamo lasciato fare.  All'odor di fragole, alle malie del sottobosco, al lampo del tuono prima della pioggia, al rimbombo lontano dei massi caduti. 

Il nostro incontro non era in agenda. Tu ed io potevamo sfiorarci nei percorsi di tutti i giorni e non incontrarci mai.  
Poi venne quel giorno, e l'attenzione fece il resto.
Da quando si è attenti, nulla è più come prima.
Il mondo cambia, tutto il resto cambia. Nell'ingranaggio del motore dell'universo creato o increato, due cose trovano posto, si sovrappongono come nel tempo dell'eclissi. Combaciando perfettamente. E tutti gli animali, tutto il regno si inchina, tira il fiato, ne tiene il conto.



Fabrizio Falconi (Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata).

20/01/15

'A sud del confine, a ovest del sole', di Murakami Haruki - (Recensione)

Ci sono tutti gli ingredienti che hanno fatto la fortuna di Murakami Haruki in A sud del confine, a ovest del sole, uno dei suoi primi romanzi, scritto nel 1992, dopo il grande successo di Norvegian Wood: lo stile piano, quasi elementare, le frasi brevi, i protagonisti maschili e femminili tagliati con tratti immediatamente riconoscibili, il gusto cool per la musica jazz, l'iniziazione della maturità, i perturbamenti, le scene di sesso descritte con chiurgica precisione e occhio strizzato al porno, le donne misteriose (bambole inquiete depositarie di misteri), quella vaga incertezza di direzione così post-post moderna, che affascina il lettore di oggi. 

Murakami qui descrive la storia di Hajime, un uomo come tanti, figlio unico che si sente gemellato con la bella e menomata Shimamoto, suo coetanea.  Un breve innamoramento a dodici anni, le prime condivisioni insieme - l'ascolto dei dischi in vinile a casa di lei - poi la perdita di vista, Hajime che si fidanza all'università con Izumi, le prime vere esperienze, il lavoro come gestore (fortunato) di locali,  il matrimonio con Yukiko, la due bambine, una famiglia come tante, finché l'ombra di Shimamoto - guarita dalla sua menomazione alla gamba - torna a farsi viva, inaspettatamente e a risvegliare l'ombra interiore di Hajime.

Risucchiato dal mistero di quella donna, alla quale l'anima è rimasta sempre legata, Hajime arriva fino alla soglia del precipizio e oltre: mette in discussione tutta la sua vita, distrugge il suo legame, si perde e (forse?) si ritrova in un finale aperto che lascia spazio ad ogni possibile soluzione. 

La storia d'amore, che è protagonista di questo romanzo, è sufficientemente stravolgente: per Hajime  e per il lettore.  La consapevolezza di essere portati fuori da sé, di essere agiti dall'amore, cioè da una forza trascendente che non si può controllare e che non vuole essere capita, ma vuole essere soltanto ciò che è, è la parte più convincente del libro, il cui laborioso titolo si riferisce all'insieme dei titoli di due famosi standard jazz. 

La perdizione di Hajime è in quello strettissimo confine tra morte e amore, tra amore romantico e perdizione, che è stata definitivamente indagata dal celebre L'amore e l'occidente di Denis de Rougemont

In questo senso la storia di Murakami aggiunge poco. Ma coltiva il dono della leggibilità e della possibile identificazione di ciascuno nel sentimento interdetto di Hajime che vive e si guarda vivere, come accade ad ognuno di noi, in un punto cruciale della vita. 

Fabrizio Falconi




12/01/15

Facciamo pace con il caso - Un bellissimo articolo di Donatella Di Cesare (La lettura, 11 gennaio 2015)





Un bellissimo articolo di Donatella Di Cesare su La Lettura di ieri


Circa due terzi dei tumori non sarebbero riconducibili né alle predisposizioni ereditarie né ai fattori ambientali né, tanto meno, allo stile di vita. 

Lo sostengono, sulla prestigiosa rivista «Science», il genetista Bert Vogelstein e il matematico Cristian Tomasetti.

Il risultato della ricerca, condotta sulla base di modelli molto complessi, culmina in due parole relativamente ordinarie: bad luck, cattiva sorte. 

Il cancro sarebbe, dunque, in gran parte questione di sfortuna. La notizia ha suscitato sconcerto e persino sdegno.

A irritare non è solo lo scarto tra la complessità dei mezzi impiegati e l’apparente banalità dell’esito. Piuttosto è lo spazio che in tal modo la ricerca scientifica concede a un concetto nebuloso come il «caso». Che la guerra contro il cancro debba subire una battuta d’arresto? E per di più sotto i colpi del caso? Non ne viene allora minata la nostra fede incrollabile nella scienza? Dovremmo ammettere di esserci sbagliati confidando, per il nostro futuro, nei calcoli e nelle previsioni della medicina?

Negli ultimi decenni siamo stati portati a considerare normali quei progressi straordinari che hanno modificato, più di quanto non si immagini, il nostro rapporto con la vita. I limiti sono saltati, le frontiere sono state spostate o addirittura rimosse. Sono cambiati genesi, qualità, durata ed esito della vita.
Le aspirazioni più recondite, i desideri più inesaudibili sono diventati realtà: avere figli quando prima non era possibile, guarire da malattie congenite, sconfiggere morbi virulenti. Il prolungamento della vita ha modificato la comprensione che ciascuno ha di sé. Siamo stati presi dall’euforia vertiginosa dell’illimitato. Quel che prima era dettato dalle dure leggi della necessità, o inscritto nella imperscrutabile volontà di Dio, è divenuto risultato di una scelta. In breve: siamo stati educati alla cultura dell’antidestino.

Come potremmo accettare allora che il cancro dipenda in gran parte dal «caso»? E che cosa significa questo termine, che ci si attenderebbe semmai da un filosofo, non da uno scienziato?

Caso, connesso con il verbo cadere, è quel che cade, o meglio, quel che accade — è un evento che sopraggiunge, senza che ci sia una causa evidente, prevista o prevedibile, a provocarlo. L’uso del termine deriva dal gioco dei dadi.

Il caso è la sorte che tocca a ognuno nel grande gioco della vita. 

Ma sono stati gli antichi Greci a riflettere sul concetto — non solo nell’ambito della filosofia. Proprio i primi medici si sono interrogati sulla possibilità di ricorrere alla parola túche, sorte. In uno scritto attribuito a Ippocrate, il fondatore della medicina scientifica, è detto che «caso è un mero nome, non ha sostanza, non significa nulla».

Se la malattia è vista sin dall’inizio come un caso, che disturba il normale fluire della salute, e si manifesta attraverso i sintomi, la medicina prende tuttavia le distanze da un termine che appare sospetto.

Che cosa sarebbe il caso altro che un concetto-limite? Che cosa indicherebbe, se non l’ammissione della propria ignoranza? Non conoscere le cause della malattia, non saperne fornire una spiegazione, non autorizza, per i medici greci, a parlare di «caso».

Bad luck, la formula usata dai ricercatori americani, verrebbe dunque bollata probabilmente dai medici greci come non scientifica. I filosofi sono stati ben più indulgenti. Pur interpretando il caso in modi diversi, lo hanno accolto come parte integrante della vita. Non lo hanno respinto al limite, come quell’ignoto che resta ancora da spiegare. 

Hanno discusso intorno alle differenze tra sorte, fortuna, provvidenza, a seconda delle loro convinzioni e del loro credo, ma non hanno mai smesso di interrogarsi sul ruolo che il caso può svolgere non solo per la felicità umana, ma anche nelle alterne vicende della storia.

Questo non vuol dire diventare fatalisti. «Nessun vincitore crede al caso», scrive Friedrich Nietzsche. E poi che ne sarebbe della libertà? E della responsabilità? Non si può, dunque, pretendere di eliminare, dalla vita umana e dalla storia, l’imprevisto e l’imprevedibile.

Cogliere il momento giusto, assecondare il caso, rimettersi all’incalcolabile, in un difficile equilibrio tra agire e attendere, costituisce la saggezza del vivere. Perciò i filosofi, anche nei tempi più recenti, hanno lanciato un monito contro il ricorso ai calcoli razionali che non di rado si rivelano ingannevoli. Il monito è rivolto anche agli scienziati, sebbene nella scienza le cose stiano diversamente.

Perché il caso viene visto come un singolo fenomeno che devia dalla legge e ne richiede una correzione. Per gli scienziati il caso, che emerge nell’applicazione pratica, rappresenta il compito ulteriore della loro ricerca, quel limite che devono ambire a superare.

Sta qui il progresso della scienza: nella sua costante capacità di rettifica che ne incrementa la attendibilità. Si capisce allora perché, quando si imbatte nell’inatteso, il ricercatore miri non solo a ricondurlo ai canoni scientifici, ma anche a prevederlo. Gioca insomma d’anticipo, con statistiche e calcoli della probabilità. Dopo gli eventi traumatici che il genere umano ha sperimentato negli ultimi decenni, la previsione sembra ormai far parte della responsabilità che il ricercatore si assume verso il mondo.

Che cosa non si tenta oggi di prevedere? Dagli eventi atmosferici all’andamento della Borsa valori, dagli sviluppi demografici ai sondaggi d’opinione. L’uso smodato di misurazioni e calcoli è tuttavia la spia di un atteggiamento che, dalla scienza, si è andato pericolosamente diffondendo nella vita. Il che ha non solo reso sempre più difficile accettare l’imprevisto, ma ha danneggiato il nostro rapporto con il futuro.

Nell’ambito della medicina la questione è ancor più complessa. Come ha scritto il filosofo Hans Jonas, «la medicina è una scienza, ma la professione medica è l’esercizio di un’arte». Si tratta di un’arte che non produce nulla e contribuisce piuttosto a guarire, cioè a ristabilire l’equilibrio del paziente — non senza la partecipazione di quest’ultimo, chiamato alla cura attiva di sé.



11/01/15

Poesia della domenica - 'Un appunto' di Wislawa Szymborska.




Un appunto 

La vita – è il solo modo per coprirsi di foglie,
prendere fiato sulla sabbia,
sollevarsi sulle ali;
essere un cane,
o carezzarlo sul suo pelo caldo;
distinguere il dolore
da tutto ciò che dolore non è;
stare dentro gli eventi,
dileguarsi nelle vedute,
cercare il più piccolo errore.
Un’occasione eccezionale
per ricordare per un attimo
di che si è parlato a luce spenta;
e almeno per una volta
inciampare in una pietra,
bagnarsi in qualche pioggia,
perdere le chiavi tra l’erba;
e seguire con gli occhi una scintilla di vento;
e persistere nel non sapere
qualcosa d’importante.



Wislawa Szymborska, da "Un attimo", 2002

10/01/15

Charlie Hebdo - una riflessione.


Il mondo è come sei, recita un vecchio motto sapienziale. 

Se c'è verità in questo, alla luce di quanto successo nelle ultime 72 ore a Parigi, non stiamo messi bene.  Non servivano certo le nefaste imprese dei fratelli Kouachi e dell'altro terrorista, Amedy Coulibaly, asserragliato con ostaggi nel negozio Kosher, per capire come siamo ridotti. 

E' certamente vero che il sonno della ragione genera mostri,  come scrisse Francisco de Goya e rappresentò in una sua celebre grafica (qui sopra). 

Quando la ragione dorme - laddove per ragione si intende ragionamento, tradizione, principi fondamentali, cultura, dialogo - si levano in volo gli uccelli più oscuri.  I mostri sono liberi di agire, nessuno più li ferma. 

E' per questo che la tragedia di Charlie Hebdo riguarda tutti. L'enfasi non aiuta a comprendere, il dividere tutto - come sempre - in torti e ragioni, giustificazioni e accuse, libertà e oppressioni, complotti, cause economiche, conflitti sociali, traffici d'armi, guerre sante.

Tutto vero, tutto giusto.  Ma come nell'epoca più buia del Novecento (i primi anni '30), si ha l'impressione che per il mondo si aggiri uno spaventoso morbo, che sulla pretesa della sopraffazione (di tutto e di tutti, quindi soprattutto di chi pensa ed è diverso) costruisce il suo trionfo epidemico. 

Come allora, le coscienze pensanti erano poche, le voci flebili.  Ciascuno si sentiva rintanato nel suo piccolo mondo, illusoriamente al sicuro. Ciascuno combatteva contro i propri fantasmi, sicuro che si trattasse di roba propria, e che alla fine il mondo se la sarebbe risolta da sola, la questione. 

Ma niente si risolve da solo.  Tutti siamo dentro, proprio tutti. Anche quelli che continuano a coprirsi la testa e a sonnecchiare mentre nella penombra svolazzano le creature di Goya. 

Fabrizio Falconi

09/01/15

La presentazione alla Torretta de 'Il respiro di oggi' (15 luglio 2009).




Questa foto è stata scattata mercoledì 15 Luglio del 2009, alle ore 21, alla Torretta di Ponte Milvio.

Quella fu una bella serata.  Con letture e good vibrations

Tra le foto di Piero Leonardi (Butterflies),  esposte nelle sale (Piero aveva realizzato anche la foto della copertina del volume), fu presentato Il respiro di oggi, edito da Terre Sommerse, nel quale avevo riunito nuove poesie, alcune già tradotte in America, e le raccolte Zodiac e Petrology realizzate - per le rispettive mostre a Tuscania, e al Chiostro del Bramante in Roma - insieme a Justin Bradshaw.

nella foto in testa: Giulia Alberico, Fabrizio Falconi, Ugo Barbara



08/01/15

Tempo di semina - quando tutto muore, tutto segretamente rinasce.







Il tempo della semina del grano è l'autunno

Nella stagione dove tutto muore, qualcosa segretamente nasce.  

Il contadino ha già arato il campo, l'erpice lo ha spianato, tutto sembra ormai brullo e finito, come in ogni anno.  Ma tutto quello che verrà poi, che rinascerà, viene piantato in questo tempo cupo, durante il quale il cielo si annerisce, il vento spazza via ogni foglia, i rami restano impietriti, la pioggia copre come pietra tombale la vita, prima della benedizione silenziosa della neve. 

Il grano seminato dorme, al buio. Si prepara nell'infimo del terreno, tra i vermi. 
Nell'umile non visto e non udito. 

Anche l'energia vitale, il rinnovamento, la rinascita personale, l'amore, funzionano così. Come il lussureggiante campo che esploderà al sole di luglio. 
Nessuna di queste cose può arrivare se essa viene condizionata o ordinata a crescere. 

La crescita è un fenomeno spontaneo, che sgorga dalla pazienza dell'era nascosta, non controllabile, non artificiosa, non voluta. 
La speranza è nel seme.  La crescita è nella sapienza della terra. Di ciò che già la terra, contiene. 

Scriveva Rainer Maria Rilke nel Testamento:

come sono stanco di predisporre tutte queste contromosse per difendermi dalle prevaricazioni dell'amore - ; dove sarà il cuore che non mi 'commissioni' una precisa, egoistica felicità, ma mi conceda di predisporgli ciò che da me sgorga inesauribilmente ? 

Fabrizio Falconi


04/01/15

I 10 brani musicali che hanno cambiato la tua vita.




E' sempre interessante riavvolgere il nastro della memoria e mettere a fuoco quello che nella nostra vita è stato importante. 

La musica per me e per molti lo è stato.

Così, invitandovi a fare altrettanto, metto per iscritto - con tutta l'imperfezione del caso e l'inevitabile implacabile selezione -  i dieci brani musicali che "hanno cambiato la mia vita".  

Nel titolo di ogni canzone o brano musicale il link che rimanda al video youtube. 


1. Whiter shade of pale - Procol Harum

2. Let it be - Beatles

3. Ouverture da Semiramide - Gioacchino Rossini

4. An der schönen blauen Donau - Johann Strauss

5. Atom Heart Mother - Pink Floyd

6. I giardini di marzo - Lucio Battisti

7. The circle game - Joni Mitchell

8. Koln concert - Keith Jarrett

9. Vanity -  Sarah Vaughan

10. Hallelujah - Leonard Cohen (esecuz. John Cale).


A voi la palla.

Fabrizio Falconi

La poesia della domenica - "Anna Snegina" di Sergej Esenin.



Ed eccomi di nuovo in viaggio
nella notturna bruma di giugno.
Garrulo come il carro
non forte non piano, come una volta.
La strada è abbastanza buona,
placido è il tinnire della pianura.
La luna di nevischio dorato
ha cosparso la lontananza dei villaggi.
Balenano cappelle, pozzo,
recinti e siepi.
E il cuore batte come un tempo
come batteva nei giorni lontani.

Di nuovo sono al mulino...
L'abetaia
è cosparsa di candele di lucciole.

...
"Ora con molto piacere
ti consegnerò un dono"
"Un dono?"
"No...
semplicemente una letterina.
Ma non avere fretta, caro!
Quasi due mesi e più
l'ho portata con me dalla posta."
...
"Anch'io come lei sono viva.
Così spesso sogno il recinto,
il cancelletto e le sue parole.
Ora sono lontano da lei..
In Russia ora è l'aprile.
E di lanugine blu
la betulla è coperta e l'abete.

Con la pelliccia di montone
vado come un tempo al mio fienile.
Vado per il giardino lussureggiante,
il vaso sfiora il lillà.
Così cara ai miei sguardi accesi
la siepe incurvata.
Un tempo a quel cancelletto
avevo sedici anni.
E una fanciulla in bianca mantellina
mi disse dolcemente: "No!".

Lontani cari anni!...
Quell'immagine in me non s'è spenta.

Tutti noi in quegli anni abbiamo amato,
ma, certo,
hanno amato anche noi.


Sergej Esenin, estratto da Anna Snegina, gennaio 1925 Batùm, edizioni Einaudi collezione di poesia, Torino 1976, traduzione di Iginio De Luca.