03/09/14

L'arte di essere Festival - Lo spirito creativo - a Riva del Garda dal 17 al 19 ottobre.


parteciperò al Festival di L'arte di Essere a Riva del Garda.  Questa è la locandina e la sintesi degli appuntamenti. 

Dopo il successo della manifestazione “Artespirito” (svoltasi a giugno 2014 a San Marino), che ha riunito tanti artisti importanti come Franco Battiato, Alejandro Jodorosky, Gabriele La Porta, Silvano Agosti, Massimo Gramellini, Gianluca Magi e Franco Mussida, la rivista L’Arte di Essere si ripresenta con una nuova prestigiosa rassegna dedicata al rapporto tra creatività e spiritualità.

L’appuntamento è dal 17 al 19 ottobre 2014 nel suggestivo scenario di Riva del Garda. E’ qui che infatti si terrà il primo Arte di Essere festival, un evento che avrà per tema “Lo spirito creativo” e che vedrà la partecipazione di alcuni dei più importanti autori della rivista stessa (Igor Sibaldi, Gianluca Magi, Salvatore Brizzi, Lucia Giovannini, Silvano Agosti, Fabrizio Falconi, Gabriele La Porta, Giorgio Sangiorgio, e tantissimi altri). Un programma considerevole che si snoderà nelle tre sale e nel parco del Park Hotel Astoria, dove si alterneranno conferenze, incontri, e workshop.

Ricchissimo il programma della sala principale dove si avvicenderanno oltre 20 relatori. L’apertura ufficiale di venerdì è affidata alla voce di Lucia Giovannini con il suo intervento “Ricrea te stesso”. 

Altrettanto denso il calendario dei seminari che si concluderà domenica 19 con un doppio appuntamento inedito e imperdibile: “La domenica degli spiriti creativi”. Sul palco due dei più apprezzati autori e conferenzieri italiani del settore per presentare due nuovi seminari appositamente ideati per L’Arte di Essere Festival: Salvatore Brizzi, terrà alla mattina il workshop “L’intuizione – 
Come farsi canali della creatività”, e Igor Sibaldi, nel pomeriggio condurrà il workshop “I giorni della creazione – Istruzioni e consigli per chi vuole fare o rifare il proprio universo”.

Ma non mancando di certo anche nomi prestigiosi nella sezione video, che proporrà gli interventi di Massimo Gramellini e Anne Givaudan, e poi l’intervista di Franco Battiato. Tanti anche i momenti musicali, con interpreti e musicisti di qualità come Mario Mariani, Alessandra Bosco e Igor Ezendam. La direzione artistica del festival è di Riccardo Geminiani, il creatore e direttore editoriale de L’Arte di Essere.

Scopri il programma completo su www.artediessere.com. 

Per info e prenotazioni: eventi.artediessere@gmail.com - tel. 320.0146140 – Paola Ferraro, coordinatrice area Eventi Arte di Essere.

fonte: La Stampa 

02/09/14

Motus in fine velocior






Ne sono convinto, l'effetto Doppler vale anche per il tempo.

Inumidiscono i ricordi quando invecchiano, sono più secche le attese quando son giovani. Non c'è mai un solo tempo. 

Tutto vale per quello che si vive. 

Come una corda che vibra mano a mano che ci si avvicina alla fine.  Il vorticoso flusso che attira, l'orizzonte degli eventi possibili o probabili, che scompare e attira come dentro un buco nero. 

Nessuno sa cosa ci sia oltre e sarebbe stupido cercare di dirimere e asserir certezze.

Quanto fatui siete, esseri umani, a voler misurare il tempo. Come fosse un linguaggio, come fosse una distanza. 

Lente trascorrono le vostre ore quando siete all'inizio, rapide quando scorrono alla fine. 

Motus in fine velocior. 


Fabrizio Falconi

01/09/14

Meraviglie romane: la falsa cupola di Sant'Ignazio e il sepolcro di Kircher.




Una delle meraviglie romane è la Chiesa di Sant'Ignazio, nella piazza omonima tra Via del Corso, il Pantheon e il Collegio Romano. 

Ogni anno attrae visitatori da tutto il mondo, in primis per il prodigio pittorico realizzato dal pittore gesuita Andrea Pozzo: mago della prospettiva, realizzò una finta cupola, affrescata su una parete completamente piatta (a Sant'Ignazio per vari motivi, la Cupola progettata non fu mai costruita). 

Così chi entra nella Basilica, dal fondo della navata non si accorge di nulla, e viene illuso dalla esistenza di una Cupola che in realtà non c'è. 

Soltanto  avanzando e disponendosi sotto l'affresco si scopre l'inganno prospettico.

La Falsa Cupola fu realizzata da Andrea Pozzo nel 1685 cinque anni dopo la morte di Athanasius Kircher, il grande gesuita (scienziato, esploratore, vulcanologo, paleografo, enciclopedico, ecc..) alla ricerca del sepolcro del quale mi sono messo qualche anno fa. 

Durante questa lunga (e infruttuosa) ricerca (soltanto il cuore di Kircher è accertato trovarsi nel Santuario della Mentorella sui monti Prenestini), ebbi modo anche di esplorare i sotterranei di Sant'Ignazio. 

C'era infatti la possibilità che  la tomba di Kircher potesse trovarsi non al Gesù, come indicato dalle fonti (senza riscontro), ma alla Chiesa di Sant'Ignazio. Le due chiese in realtà sono distanti poche centinaia di metri. Un amico mi segnalò il fatto che a Sant'Ignazio vi era stato un recente ritrovamento di tombe antiche.

E per fugare il dubbio che tra queste potesse trovarsi anche quella di Kircher un giorno ho chiesto il permesso di visitare il Sotterraneo della Chiesa. 

Esattamente sotto la Falsa Cupola, al centro della navata, vi è, incassata nel pavimento una pesante botola di marmo. Che si può sollevare mediante due grossi anelli di bronzo dorato (ci vuole un bel po' di forza..). 

Con una normale scala a pioli, inserita nella botola (in orario di chiusura della Chiesa), siamo scesi nel sotterraneo, dove non esiste illuminazione, e bisogna portare una lanterna elettrica, per orientarsi. 

In quella occasione ho potuto verificare l'esistenza di un centinaio di sepolture, ottimamente conservate e allineate con ordine, che corrono in diversi larghi ambienti sotto il pavimento della Basilica. I nomi dei morti sono perlopiù scritti direttamente sulla superficie di cemento che chiude i loculi, con nerofumo o carboncino. 

Per quanto riguarda Kircher, ricerca ebbe esito negativo: le sepolture risultarono essere quasi tutte posteriori al 1720-1730, e comunque non sono risultate traslazioni più antiche, né tanto meno quella di  Kircher. 

Una esperienza comunque notevole. Di questa ho scritto in Dieci luoghi dell'anima, pubblicato qualche anno fa.

Fabrizio Falconi

31/08/14

Lettura della domenica: "Ogni storia d'amore è potenzialmente una storia di sofferenza" (Julian Barnes).





Siamo creature destinate al piano orizzontale, a vivere coi piedi per terra, eppure - e perciò - aspiriamo a elevarci.

Da spettatori terragni quali siamo, qualche volta ci è dato di raggiungere gli dèi. Alcuni di noi lo fanno attraverso l'arte, altri con la religione; nove su dieci, con l'amore.

Ma se è vero che possiamo elevarci, allo stesso modo rischiamo di precipitare. Non sono molti gli atterraggi morbidi. Ci può succedere di rimbalzare sulla terra, trascinati da una violenza spaccaossa che abbatte lungo una linea ferroviaria straniera.

Ogni storia d'amore è potenzialmente una storia di sofferenza. Se non subito, in un secondo tempo. Se non per l'uno, per l'altro. Per tutti e due, qualche volta.

Ma allora perché non facciamo che ambire all'amore ? Perché l'amore è il punto di incontro fra verità e prodigio. Verità come nella fotografia; prodigio, come nel volo aerostatico.


Julian Barnes, Livelli di Vita, traduzione di Susanna Basso, Einaudi 2013, pag. 38 e 39. 

30/08/14

'Kafka e il digiunatore', un libro prezioso di Raoul Precht.





Sono davvero molti i modi nei quali, dagli anni successivi alla sua morte, gli scrittori - fino ai giorni nostri - si sono misurati col genio di Franz Kafka, quasi del tutto misconosciuto nel breve volgere della sua vita. 

Come ricorda Raoul Precht, in questo prezioso libretto - Kafka il digiunatore, appena uscito per Nutrimenti editore - tra il 1908 anno di pubblicazione del suo primo libro (all'editore di allora, Wolff ci vollero ben quindici anni per esaurirne la tiratura di sole ottocento copie !) e il 1924, quando uscì l'ultimo, proprio questo racconto, Il digiunatore, Kafka pubblicò appena sette volumetti di racconti, con una scarsissima eco di critica e pubblico, al quale il suo nome resta sostanzialmente sconosciuto. 

La gloria postuma di Kafka iniziò dunque soltanto dopo il 3 giugno del 1924, cioè dopo la morte di Kafka, avvenuta nel sanatorio di Kierling, nei pressi di Vienna, all'età di soli quarantuno anni. 

E iniziò grazie alle opere che furono salvati dal fuoco dall'amico Brod (Kafka aveva lasciato disposizioni molto severe che prevedevano la distruzione tra le fiamme di gran parte della sua produzione), tra questi anche uno degli ultimissimi racconti di Kafka, o forse l'ultimo in assoluto, questo Il digiunatore, che Raoul Precht traduce direttamente dal tedesco in una nuova edizione. 

Due testi accompagnano poi il racconto, nelle pagine del quale Kafka descrive le peripezie di uno di quei famosi digiunatori che nei primi anni del secolo si esibivano nelle piazze e nei circhi d'Europa e d'America, chiusi in gabbie ermetiche per dimostrare al pubblico (pagante) accorrente che riuscivano a fare completamente a meno del cibo per trenta o quaranta giorni. 

Non è un caso, sottolinea Precht, che Kafka, al termine della sua infelice vicenda terrestre, accudito dalla giovanissima compagna Dora, conosciuta un anno prima, abbia scelto proprio questo tema e questa figura, quella del digiunatore, colui che si ritira da tutto, che è schifato dal cibo - da quello che amano tutti gli altri - e che si lascia scivolare in un oblio dove anche la sua bizzarra, ambigua arte verrà del tutto dimenticata. 

Un finale amarissimo per un uomo e un artista che si era sentito sempre - anche orgogliosamente - fuori posto tra i (gusti dei) suoi conterranei e in definitiva anche nel (crogiolo di convenzioni e di cinismi del) mondo. 

Il suo occhio scrutatore, per molti versi implacabile, non poteva non restare così attratto dal fenomeno parossistico e paradossale dei digiunatori dell'epoca, un mondo che Precht ricostruisce con alcune foto dell'epoca e molta, accurata ricerca bibliografica, nell'ultimo capitolo del suo libro: l'affresco di un'epoca per alcuni versi ingenua (anche se non innocente), ma giunta ormai alla fine, che sarebbe stata spazzata via dall'orrore azzerante dei totalitarismi europei e del secondo conflitto mondiale. 

Fabrizio Falconi

29/08/14

"Costruire una cattedrale", il senso della vita (Michelangelo Antonioni e Ingmar Bergman).




Il 30 luglio del 2007, sette anni fa, morirono proprio nello stesso giorno, per uno scherzo del caso, due dei più grandi cineasti del Novecento: Michelangelo Antonioni e Ingmar Bergman. 

In quei giorni i giornali si riempirono di commenti, vecchie interviste, dotti interventi critici. Molti si chiedevano: cosa questi due uomini, questi due indagatori, avevano capito più di noi del mistero della vita?

Si erano avvicinati, attraverso la loro arte, a una qualche verità definita ? Avevano percepito una maggiore chiarezza intorno alla tragica bellezza della vita ?

Io, che per anni - come molti - mi ero nutrito dei film di entrambi (specie di quelli di Bergman, che mi hanno accompagnato in ogni stagione della mia vita), sono rimasto colpito dalle parole del maestro svedese rilasciate tanto tempo fa a un giornalista, nella hall di un albergo, riesumate da un quotidiano nei giorni dopo la sua morte: 

Se mi chiede il fine generale dei miei film, rispondo che vorrei essere stato uno degli artisti che hanno creato la cattedrale di Chartres. Ma alludo, con questa idea, sopratttutto a una cattedrale che rappresenta per me la vita culturale, l'attività artistica. Ebbene io penso che ogni artista, soprattutto europeo, debba portare la sua piccola pietra per la costruzione della cattedrale. Si tratta solo di una piccola pietra, ma è molto importante. E' il nostro dovere, il nostro unico modo di vivere, di esistere, perfino di respirare. Costruire la cattedrale significa combattere contro le ipocrisie, contro le ingiustizie, contro le guerre, contro l'oppressione, contro la menzogna. E' una lotta difficile perchè se è vero che c'è chi vuole costruire, c'è anche chi vuole distruggere. E questa gente che vuole distruggere è tanta, ed è tenace. E' così facile distruggere, ed è così difficile creare.... Ma anche se la cattedrale una volta costruita, può essere demolita e non esistere più, noi dobbiamo edificarla. Solo così saremo migliori.

Ho meditato a lungo su queste parole. 

In fondo davvero la nostra vita, quella di tutti, non solo degli artisti non è altro che questo: costruzione. E costruire vuol dire evidentemente entrare in un disegno di armonia, in una ricerca di bellezza, di forme, di struttura, di senso. Costruire non si può, senza saper chiedere, perché nessuno di noi sa costruire qualcosa completamente da solo. 

Così è stato per Ingmar e Michelangelo che hanno fatto in virtù dei loro talenti, ma hanno fatto grazie al talento grande, normale e minimo di chi ha lavorato ogni giorno, insieme a loro. 

Detto molto semplicemente, è questo forse il senso ultimo della vita. 

Fabrizio Falconi - © riproduzione riservata. 


27/08/14

Erica Jong: "Ho detto tante cose terribili, ma ero giovane e cinica."



Al volante di un fuoristrada nero, Erica Jong aspetta davanti alla stazione di Westport, Connecticut. C’è una coperta sul sedile posteriore per evitare che, quando i cani saltano a bordo, lo coprano di peli. Poco dopo, Ken arriva puntuale in treno da Manhattan, con il Times, il Post e il Daily News sotto il braccio e, a tracolla, una borsa che gli curva la schiena. Lei gli cede il posto alla guida. Lui imposta il navigatore per trovare il ristorante Whelk. «Questa macchina è nuova, ci sta facendo impazzire» commenta Erica nell’elegante tubino nero e giallo.

Scene di una tranquilla vita di coppia in questa specie di colonia estiva dei newyorchesi. Ma quello che colpisce è quanto siano cambiate le cose da quando l’autrice di Paura di volare aprì il suo bestseller con la seguente massima: «Bigamia vuol dire un marito di troppo, monogamia pure».

Sono passati quarant’anni e, due settimane fa, Erica ha festeggiato le nozze d’argento. Venticinque anni con lo stesso uomo. «Non ci avrei creduto se me l’avessero detto» racconta infilzando i gamberetti fritti in salsa barbecue, inframmezzati da sedanini sottaceto.

Proprio lei che sentenziò che «anche se si ama il proprio marito, arriva inevitabilmente il momento in cui scopare con lui è come mangiare un formaggino alla panna: riempie, ingrassa perfino, ma niente sapori eccitanti… e quello che si vuole invece è un pezzo di camembert stagionato» — adesso spizzica dal piatto di Ken le vongole con bacon, anch’esse in salsa barbecue.

«Ho detto tante cose terribili sul matrimonio, ma ero giovane e cinica. Ora penso che la cosa più preziosa sia avere qualcuno che ti guarda le spalle». Lancia uno sguardo al marito, seduto al suo fianco sullo sfondo delle acque verdi e placide del Long Island Sound, il braccio di mare che separa Long Island dal Connecticut.
«Penso che il matrimonio sia molto importante… se è quello giusto» conclude. Ma Ken puntualizza: «È importante anche se non è quello giusto. È così che mi guadagno da vivere». Fa l’avvocato ed è specializzato in divorzi difficili (etero e gay).

Venticinque anni fa, li ha presentati un’amica comune a New York. «Ma la storia interessante — interviene l’avvocato, sollevando prontamente lo sguardo dai cavatelli al nero di calamari — è come abbiamo deciso di sposarci. Ci frequentavamo da un paio di mesi, ma non avevo mai incontrato i genitori di Erica. Anche loro avevano una casa per i weekend qui in Connecticut e così un sabato sono venuti a trovarci. Ho conosciuto suo padre, uomo incantevole, e ho conosciuto sua madre. Più tardi, in auto su Riverside Avenue, ho detto a Erica: “Ti ho amato dal momento in cui ti ho incontrata, ma non capivo perché. Adesso so che hai bisogno di me».




26/08/14

"Il lungo sguardo" di Elizabeth Jane Howard, un grande romanzo sull'interiorità.




E' davvero una gran bella sorpresa la pubblicazione italiana di Il lungo sguardo di Elizabeth Jane Howard, da Fazi Editore che con questo romanzo può ripetere il grande e imprevisto successo di Stoner, diventato per propagazione via passaparola, un caso editoriale.  

Elizabeth Jane Howard è infatti, come l'americano John Williams, un autore quasi del tutto sconosciuto in Italia, anche se a lei si debbono quindici romanzi di successo, offuscati da un profilo biografico seducente (era una donna molto bella) e disastroso.

Nata a Londra 1923 e morta da pochi mesi a  Bungay, la Howard  veniva da una famiglia benestante (suo padre era un mercante di legname e sua madre una ballerina russa) e da una infanzia infelicitata da molestie sessuali subite dal padre e da una depressione cronica della madre.

Prima di sposarsi giovanissima - a diciannove anni, una via di fuga dalla famiglia - studiò recitazione e fece anche l’indossatrice.

Ma anche il resto della vita della Howard non fu semplice: una figlia, due matrimoni, una terza unione ventennale con lo scrittore Kingsley Amis, il padre di Martin, uno dei più grandi scrittori inglesi contemporanei. 

Alla infelicità personale la Howard tentò di porre rimedio con una incessante attività di scrittore, culminata nella saga familiare The Cazalet Chronicles, che le guadagnò un enorme successo (oltre un milione di copie). 

L'eco della vita della Howard risuona fin troppo incessantemente in questo che viene considerato il suo capolavoro.  Il lungo sguardo (traduzione non proprio felice dell'originale The Long View), pubblicato nel 1956 è la cronaca di una infelicità: quella di coppia, dei coniugi Antonia e Conrad, Mrs. e Mr. Fleming, e quella personale di Antonia, alle cui radici si risale attraverso una narrazione - a ritroso - che comincia negli anni '50 e torna indietro fino al 1924.

Siamo di fronte ad una scrittura di alto livello. Sofisticata, sulla scia della lezione magistrale di Henry James, ma sempre concentrata su un punto focale della narrazione: l'interiorità.  Il mistero della vita interiore, delle ombre che la attraversano, delle ferite che restano, dei piaceri e delle consolazioni che esaltano ma non consolano. 

I personaggi maschili del romanzo della Howard sono tutti orribili.  Cinici come Mr. Fleming, perso nella sua presunzione di dirigere il mondo delle cose, distaccato ed efferato; patetici come il marinaio che viene a riscaldare brevemente la dispersione di vita di Antonia; terrificante come il Geoffrey che abusa della ingenuità e dell'incanto della diciannovenne (come all'epoca in cui si è sposata l'autrice) Antonia. 


Ma è il personaggio di Antonia quello che resta sempre al centro, in una sorta di sofferta e consapevole auto-biografia.
Una biografia costruita intorno ad un vuoto che niente e nessuno sembra capace di riempire veramente. Perché è la vita, la vita vera - e in definitiva l'amore, che della vita è la massima e la più efficace espressione - che manca, anche in una vita esteriormente, apparentemente, superficialmente, inutilmente scintillante come quella di Antonia. ...O di Elizabeth ?


Elizabeth Jane Howard negli anni '50.


25/08/14

Le cose non sono mai come sembrano (e nemmeno come sono).





Non solo le cose non sono mai come sembrano, ma non sono nemmeno come sono.

Sembra inevitabile e rassicurante dare un nome alle cose, definirle. Farle essere come sostanza.

Ma, come sappiamo bene da qualche decennio, ogni cosa è più cose. E più cose tutte insieme. Lo è in natura e lo è in ogni essere umano.

Nello stesso senso della percezione che ne avevano avuto i padri greci, tutto è molteplice.

Il desiderio di imprigionare le cose nasce dalla paura di perdersi, di confondersi, di non trovare più approcci saldi, sicuri, di smemorarsi nella stessa infinitezza del mondo.

Ma c'è una sincerità più profonda.

Quella di abbandonare la pretesa di ordinare il mondo e di accettarne la straripante bellezza, quella evidente e quella nascosta.

Se si accetta, si crede.  Non ascoltare più soltanto il suono monotono della nostra mente (isolata dal mondo, nostalgica di questo isolamento, malata).

Si scopre così che la maggior parte delle cose che si credono (di qualunque natura) si credono sulla base di un principio volitivo (convinzioni, pregiudizi,consuetudini, ragionamenti, motivazioni) e solo in minima parte sulla base di quel che si sente (istinto, cuore, interiorità).

Ma il cuore ha conoscenze che attingono ad una fonte più profonda. E ignota.

Ascoltarla, bisogna.



Fabrizio Falconi - © riproduzione riservata. 

03/08/14

La poesia della domenica - "Gente, il sesso non è mai stato", di Gregory Corso.




Gente, il sesso non è mai stato
altro che una miscela
di corpi che fanno l'uno
per l'altro
ciò che piace
a loro e all'evoluzione
fare
per desiderio
o disperazione
o necessità
Non hanno alcun scopo
se non l'amore
e lo scopo della vita
I sessualisti
sono prodotti del sesso
Siamo fatti del sesso
Il sesso ha fatto l'Esercito della salvezza
Siamo sesso
Non c'è nulla di Oscuro
intorno a questa magia
E quelle fitte di desiderio
che vi fanno star male
Quei sogni impensabili
che vi riempiono di dubbi
- finché gioie selvaggie sgorgano
da uno spirito entusiastico
mangiate la polvere! GRIDATE!
Grazie a Dio i pensieri
eccitano quanto la carne
Grazie a Dio c'è un posto
in tutto questo lui e lei
e lui e lei
e lei e lui
per un me e me -.

Folks, sex has never been
more than a blend
of bodies doing for one
another
that which pleases
them and evolution
to do
either in desire
or in desperation
or in necessity
It serves no purpose
other than love
and life’s purpose Sexualists
are a product of sex
We are made by sex
Sex made the Salvation Army
We are sex
There is nothing dark
about this magic
And those pangs of lust
which make you sick
Those unthinkable dreams
which fill you with doubt
- as long as wild joys emit
from an enthusiastic spirit
eat the dust! shout!
Thank God there’s a place
in all this he and she
and he and he
and she and she
for a me and me –

Gregory Nunzio Corso - (1930-2001)

La Tomba di Gregory Corso al Cimitero Acattolico di Roma (foto di Fabrizio Falconi). 

02/08/14

Il Castello Miramare a Trieste e la leggenda nera (Monumenti esoterici d'Italia)





Il Barone Bernard Cyril Freyberg è uno di quei personaggi che hanno attraversato pagine cruciali della storia da protagonisti, ma senza lasciare, per strani motivi, tracce memorabili. Pochi sanno che fu proprio questo generale, neozelandese, a guidare le operazioni,  dopo aver partecipato alle campagne di Creta e del Nord Africa, del controverso bombardamento dell’Abbazia di Montecassino, insieme al generale Clark,  nel febbraio del 1944. Il parziale fallimento di quella operazione – l’Abbazia non nascondeva truppe tedesche come si credeva – non compromise l’avanzata delle truppe alleate e la progressiva conquista dell’Italia da sud a nord.

I primi giorni di maggio del 1945, le truppe neozelandesi sono in Friuli. Passano il Tagliamento, poi all’alba del 2 maggio l’Isonzo, trovandosi di fronte le truppe dei partigiani jugoslavi del generale Tito, che provenendo da nord, sono già entrate a Trieste.  I neozelandesi formano due colonne, l’una prende la via interna attraversando il Carso, l’altra segue la strada costiera e raggiunge il Castello di Miramare a mezzogiorno.

Alle quattro del pomeriggio, anche le truppe neozelandesi sono a Trieste, accolte in strada dalla popolazione. I tedeschi si arrendono. A loro penseranno gli jugoslavi, con esecuzioni sommarie nelle famigerate foibe. Il comando neozelandese si installa all’Hotel de Ville, in pieno centro.  Ma, dopo aver parlato con il comandante jugoslavo Vodopivez, il generale Freyberg, che comanda le truppe neozelandesi, fa ritorno al Castello Miramare: in quel luogo, di cui ha sentito così tanto parlare, ha deciso di porre il suo quartiere generale. 

Quando però, la mattina dopo, gli attendenti jugoslavi lo vengono a cercare, per comunicargli che Vodopivez ha assunto il comando generale della città di Trieste, si trovano di fronte la scena del Barone Freyberg che anziché accogliergli nelle sale del Castello, li riceve fuori da una rudimentale tenda da campo, allestita nei giardini.

Dopo molti giorni di cammino e di battaglie, è piuttosto strano vedere questo generale, di alto lignaggio e di nobili natali, approdato in una residenza principesca, dormire in una tenda da campo.

Sarà lo stesso Freyberg a spiegare la scelta ai suoi luogotenenti: quel bellissimo luogo, il Castello Miramare, dice, ha una fama sinistra. Chiunque vi abiti, spiega il Barone, è destinato a morire prematuramente e in terra straniera.

E’ il motivo per cui, lui che tiene molto a tornare sano e salvo alla fine della guerra dalla sua famiglia che lo aspetta agli antipodi in Nuova Zelanda, preferisce evitare di soggiornare all’interno delle mura del Castello.

Ma come poteva, un generale neozelandese, nel pieno della guerra, essere al corrente di una storia come quella, così distante, così lontana nello spazio e nel tempo ?

Evidentemente, il Castello Miramare di Trieste aveva già molto fatto parlare di sé e non doveva essere estraneo a questo comportamento del generale Freyberg, il fatto che egli fosse un veterano della rivoluzione messicana. Era probabilmente proprio lì, in Messico, che aveva sentito nominare per la prima volta il Castello Miramare, la residenza fatta costruire dall’Imperatore Massimiliano d’Asburgo, che proprio al di là dell’Oceano, in Messico aveva trovato il suo Regno e la sua ignominiosa fine, fucilato come un qualsiasi traditore o rivoltoso, il 19 giugno del 1867 a Santiago de Querétaro.

In realtà la fama sfortunata del Castello non era legata soltanto a Massimiliano, ma anche ad altri principi che transitarono successivamente per quei luoghi.  

(segue) 

Tratto da Fabrizio Falconi, Monumenti esoterici d'Italia, Newton Compton, 2013

01/08/14

Cioran: "La vita non è possibile che grazie alla dimenticanza" (Luoghi ritrovati).




In un prezioso (e introvabile) libretto, pubblicato da I Quaderni del Battello Ebbro nel 1995, Luoghi ritrovati a cura di Fulvio Del Fabbro, era riportato il contenuto di una intervista, tratta da un filmato realizzato nel 1991 tra Parigi e Bucarest a due grandi personalità della cultura rumena: Emil Cioran e Petre Tutea. 

Il primo, notissimo in Occidente, e residente in Francia dal 1937, rievoca l'infanzia in Romania e gli anni trascorsi a Parigi da eterno studente, con il rinnegamento delle sue radici fino al rifiuto di usare la lingua madre. 

Il libro è pieno di meravigliose illuminazioni che Cioran dispensa nel suo tipico stile apparentemente trasandato

Eppure ogni parola, ogni virgola di Cioran, riletta anche dopo molti anni, ha il dono della essenzialità e della esattezza, come capita molto raramente, sempre più raramente di incontrare oggi. 

Riporto un paio di brani. 

Prima di conoscere l'insonnia, dice Cioran, ero una persona quasi normale.  Per me è stata una rivelazione... quando ho perduto il sonno mi sono reso conto di come esso sia una cosa straordinaria. 

Perché la vita è sopportabile solo grazie al sonno.  Ogni mattina inizi una nuova avventura o la stessa avventura, ma con una interruzione.  L'insonnia è una rivelazione straordinaria perché sopprime l'incoscienza. Passi ventiquattro ore al giorno in uno stato di lucidità, cosa che eccede la capacità di sopportazione dell'essere umano.

E' una sorta di atto eroico, perché ogni giorno è una lotta perduta in partenza.  La vita non è possibile che grazie alla dimenticanza.

Non puoi prepararti a una veglia senza fine. E' una sensazione di flatterie, come se non facessi più parte dell'umanità.

**

In tutte le persone disturbate che ho conosciuto nella mia vita, e ne ho conosciute molte, ho osservato senza eccezioni una coscienza molto più viva di tutte le altre. 

E' un individuo uscito in qualche modo dal suo quadro naturale. Questo non è vero per i folli, ma per gli uomini con un pizzico di demenza  lo è. Così ho sempre creduto e credo ancora che ci sia una grande differenza tra chi è derangé e chi non lo è. Cioè uno che funziona a metà, per dirla così, può darsi faccia una esperienza metafisica molto più profonda di un normale filosofo.

Perché nella vita quello che è importante è quello che ha compreso direttamente, con la tua propria esperienza. Non dai libri.


Fabrizio Falconi


30/07/14

L'incredibile proprietà dei "numeri amici". La matematica come archetipo.






C'è da perdere la testa intorno al mistero dei numeri . Uno dei più grandi enigmi dell'avventura umana, tuttora irrisolto, infatti è se i numeri siano stati inventati o siano stati scoperti.

E nel caso siano stati scoperti non si finisce mai di meravigliarsi di questa scoperta. 

Una vera stupefazione inducono anche nel principiante, le proprietà dei cosiddetti numeri amici.

Due numeri sono definiti amici dalla matematica, se ciascuno è uguale alla somma dei divisori dell'altro. 

Sembra difficile, ma tutti possono comprenderlo subito. 

Tutto nasce da un aneddoto, che non si sa se sia vero:  Qualcuno chiese un giorno a Pitagora se avesse un amico. Lui rispose "Ne ho due".   E nominò i numeri amici 284 e 220. 

Questi due numeri sono amici perché i numeri interi per cui 220 può essere diviso senza resto (1,2,4,5,10,11,20,22,44,55 e 110) danno la somma di 284; mentre i numeri interi per cui 284 può essere diviso senza resto (1,2,4,71 e 142) danno la somma di 220. 

I numeri amici possono essere solo un altro appassionante paragrafo della matematica, o avere qualche impiego utile. Per ora, nessuno lo sa. 

"Non è affatto un'impresa facile trovare tutte le coppie possibili di numeri amici, " scrisse Wolfgang Pauli, affascinato dall'enigma, negli anni '50.

Difatti solo poche centinaia di numeri amici furono note fino alla metà del Novecento. Con l'aiuto dei computer ad alta velocità siamo oggi arrivati alla decina di milioni di numeri amici conosciuti

La scoperta di questa coppia da parte di Pitagora è abbastanza stupefacente. Bisogna figurarsi una grande quantità di duro lavoro, culminato in un'ultima, geniale intuizione.

La coppia di numeri amici 284 e 220 è nota da molto tempo.

Nel Medioevo talismani con incisi quei numeri erano portati dagli innamorati a significare il reciproco attaccamento.

Nella Genesi, Giacobbe dà 220 capre a Esaù perché il numero, in quanto preso da una coppia di numeri amici, testimonia l'affetto di Giacobbe per Esaù.   

Cultori arabi della numerologia citano l'usanza di scrivere 220 sulla buccia di un frutto e 284 su quella di un altro, poi cibarsi di uno dei due e offrire l'altro all'amante: una sorta di afrodisiaco matematico. 

I numeri amici, in definitiva, con la loro perfezione simmetrica rappresentano un altro argomento a favore di chi ritiene che i numeri siano indubbiamente degli archetipi, qualcosa cioè che appartiene ad una realtà  simbolica profonda,  preesistente e prescindente dalla intelligenza individuale umana. 

29/07/14

Essere "equilibrati" non è tutto.



Foto di John Dominis per LIFE — Una acrobata salta la corda su Chicago, 1955 (John Dominis—Time & Life Pictures/Getty Images)



Tutti sono sempre e solo alla ricerca dell'equilibrio. L'equilibrio mondiale, l'equilibrio economico, l'equilibrio di coppia, dei matrimoni, l'equilibrio dei figli. 

Eppure, l'equilibrio di per sé non dice nulla. Molti equilibri sono fondati sulla più ripugnante sperequazione, sui compromessi, sull'ipocrisia, sul far finta di nulla, su due patologie che si compensano.. 

Non è l'equilibrio che andrebbe perseguito (che è un valore neutro), ma l'armonia. 

La Sonata n.3 bwv 1029 di Johann Sebastian Bach non è meravigliosa (solo) perché è equilibrata, ma perché è armonica. Una persona non è bella (solo) perché è equilibrata e tiene a bada come può i suoi conflitti interiori, ma se è armonica, se le parti di sé sono risolte, aperte e dialogano tra di loro.


Fabrizio Falconi

28/07/14

Doppio Sogno di Schnitzler ... e Kubrick.



Doppio Sogno nelle edizioni Adelphi


Merita sempre di riprendere in mano questo straordinario libro. 

Fatelo, questa estate. 

Sollecita le corde più profonde del nostro inconscio la storia immaginata (sognata?) dallo scrittore (e medico) viennese nel 1926 con il titolo di Traumnovelle: Fridolin e Albertine, "tranquilla" coppia borghese con figlia vivono una crisi coniugale.
Arthur Schnitzler

Lui trascorre una intera notte attraversando esperienze misteriose senza peraltro tradire materialmente la moglie): l'incontro con la figlia di un vecchio appena defunto, quello con una prostituta, la partecipazione ad una festa con molte donne nude e mascherate, la peregrinazione nel laboratorio di un costumista dove si aggirano strane figure.

Lei attraverso un complicato sogno, durante il quale prima tradisce il marito con un giovane danese conosciuto diversi anni prima, e poi assiste soddisfatta alla morte per crocefissione del marito. 

Verità, finzione, tradimento e realtà, inganni, comprensione come unica via - forse - per mettere un freno alle tenebre e ai fantasmi dell'inquietudine.

Il problema è che ciò che si comprende, passa per forza di cose dalla soggettività. E nessuno, a quanto pare può aiutarci.

Non è un caso che questa storia abbia ispirato a tal punto Stanley Kubrick da farne l'epitaffio simbolico della sua straordinaria carriera di film maker, con Eyes Wide Shut  (film imperfetto, esteticamente sublime, pieno di simboli oscuri), uscito nelle sale nel 1999 e che il grande regista non riuscì nemmeno a veder terminato)

Per quanto sia vasta l'oscurità, dobbiamo procurarci da soli la nostra luce, era il motto preferito di Kubrick. Un motto che anche Alfred Schnitzler avrebbe sottoscritto... a occhi (ben) chiusi.


Eyes wide shut

Fabrizio Falconi

27/07/14

La poesia della domenica - 'Pioggia' di Federico Garcia Lorca.




Pioggia


La pioggia ha un vago segreto di tenerezza
una sonnolenza rassegnata e amabile,
una musica umile si sveglia con lei
e fa vibrare l'anima addormentata del paesaggio.

È un bacio azzurro che riceve la Terra,
il mito primitivo che si rinnova.
Il freddo contatto di cielo e terra vecchi
con una pace da lunghe sere.

È l'aurora del frutto. Quella che ci porta i fiori
e ci unge con lo spirito santo dei mari.
Quella che sparge la vita sui seminati
e nell'anima tristezza di ciò che non sappiamo.

La nostalgia terribile di una vita perduta,
il fatale sentimento di esser nati tardi,
o l'illusione inquieta di un domani impossibile
con l'inquietudine vicina del color della carne.

L'amore si sveglia nel grigio del suo ritmo,
il nostro cielo interiore ha un trionfo di sangue,
ma il nostro ottimismo si muta in tristezza
nel contemplare le gocce morte sui vetri.

E son le gocce: occhi d'infinito che guardano
il bianco infinito che le generò.

Ogni goccia di pioggia trema sul vetro sporco
e vi lascia divine ferite di diamante.
Sono poeti dell'acqua che hanno visto e meditano
ciò che la folla dei fiumi ignora.

O pioggia silenziosa; senza burrasca, senza vento,
pioggia tranquilla e serena di campani e di dolce luce,
pioggia buona e pacifica, vera pioggia,
quando amorosa e triste cadi sopra le cose!

O pioggia francescana che porti in ogni goccia
anime di fonti chiare e di umili sorgenti!
Quando scendi sui campi lentamente
le rose del mio petto apri con i tuoi suoni.

Il canto primitivo che dici al silenzio
e la storia sonora che racconti ai rami
il mio cuore deserto li commenta
in un nero e profondo pentagramma senza chiave.

La mia anima ha la tristezza della pioggia serena,
tristezza rassegnata di cosa irrealizzabile,
ho all'orizzonte una stella accesa
e il cuore mi impedisce di contemplarla.

O pioggia silenziosa che gli alberi amano
e sei al piano dolcezza emozionante:
da' all'anima le stesse nebbie e risonanze
che lasci nell'anima addormentata del paesaggio!


26/07/14

Goebbels, Goering e .. Jung.


Il celebre aforisma: Quando sento qualcuno parlare di cultura, metto mano alla pistola (terribilmente attuale anche nel mondo analfabetizzato di oggi) è da sempre erroneamente attribuito (e anche oggi, nel mare magnum inconsapevole della rete) a Goebbels (il quale, però, come riferiscono le cronache storiche era fin troppo sofisticato per pensare e pronunciare una cosa simile). 

La frase, come si sa, fu invece pronunciata da Hermann Goering (un gerarca molto più rozzo e concreto del cerchio magico che contornò Adolf Hitler durante gli undici anni della sua dittatura), e originariamente recitava: Quando sento qualcuno parlare di cultura, la mano mi corre al revolver

Pare in effetti che Göring amasse ripetere questa frase, la quale tuttavia origina da una battuta di un dramma molto in voga in quegli anni e ispirato alla figura di Albert Leo Schlageter (una specie di "martire nazista"), nel cui testo un personaggio si rivolge all'omonimo protagonista esclamando Quando sento parlare di cultura [...] tolgo la sicura alla mia Browning! ( in lingua originale: Wenn ich Kultur Höre ... entsichere ich meinen Browning (Atto 1, scena 1).

Tornando a Goebbels, quella in testa è - a quanto mi risulta l'unica foto esistente che ritrae il Ministro della Propaganda nazista mentre sorride.

Fa parte di una celebre serie realizzata dal fotografo tedesco, naturalizzato americano (ebreo) Alfred Eisenstaedt e pubblicata da Life che ritrae Joseph Goebbels durante la sua partecipazione al Convegno della Società delle Nazioni a Ginevra nel settembre del 1933, e alla quale appartiene anche l'altra celebre foto recentemente colorizzata, nella quale Goebbels guarda minaccioso nell'obiettivo.  





Questa foto è giustamente famosa nel mondo e citata per la sua capacità di cogliere l'attimo dello scatto che rivela la ferocia del Ministro della Propaganda nascosta sotto l'apparenza delle buone maniere, allorquando Goebbels, poco prima dello scatto (o nel momento stesso) viene informato che colui che lo sta fotografando è un ebreo.   

E sempre a proposito di Goebbels, esiste un racconto (non confermato), proprio di questo periodo,  che viene riferito anche dallo studioso inglese Arthur I. Miller, nel suo libro L'equazione dell'Anima,  (Rizzoli, 2009), un saggio costruito intorno alle figure, alla corrispondenza e ai rapporti tra il fisico Wolfgang Pauli e Carl Gustav Jung.

Secondo questo racconto Joseph Goebbels, nel 1934, convocò  C.G.Jung (la vicenda non trovò mai una conferma ufficiale, ma fu riferita da uno scrittore amico di un paziente di lungo corso di Jung), a Berlino perché assistesse ad alcune cerimonie in cui erano presenti Hitler, il comandante dell'aviazione tedesca Hermann Goering e il capo delle temute SS Heinrich Himmler. Il compito affidato a Jung (all'epoca residente in Svizzera a Zurigo e già ritenuto un nume tutelare della psichiatria) era di stabilire se quegli uomini fossero pazzi e riferire le sue impressioni su quel manipolo di personaggi perché in tal caso "con una operazione segreta, sarebbero stati uccisi. e organizzato un colpo di Stato."  

Stando al racconto, Jung andò e ci mise molto poco per convincersi che in effetti erano tutti pazzi. Ma, temendo per la propria vita,  "si guardò bene dal riferirlo a Goebbels, perché non si fidava di lui e lo riteneva il più pazzo e il più pericoloso di tutti."

Chissà se l'episodio risponde al vero. In caso affermativo resterebbe la curiosità di sapere come si sarebbero svolti gli avvenimenti successivi nel caso di un responso esplicito di Jung.  Una delle tante sliding doors della storia, di cui non conosceremo mai gli  esiti alternativi. 

Fabrizio Falconi - © riproduzione riservata. 

25/07/14

1979: Poeti a Sperlonga (Fabrizio Falconi)

La copertina di Poeti a Sperlonga

Nell'ormai lontanissimo 1979, era il Primo Festival Nazionale della Poesia Città di Sperlonga, nato per iniziativa di Enzo Giannelli.  
Come si legge nella prefazione di Marisa Conte fu una iniziativa quasi del tutto spontanea, com'era d'uso quegli anni, sulla scia di CastelPorziano, che si era svolto appena quattro mesi prima
Una rassegna  e non un premio. Una esibizione e non un confronto, un tentativo - oggi sembra perfino naive - di poesia lasciata libera dovunque essa penserà di nascere o andare; per le strade, sui palchi (come a Sperlonga), nelle case, nelle scuole (Marisa Conte): da questa esperienza nacque un libro-documento, ormai introvabile di cui pubblico la copertina in testa.
Per la cronaca, gli undici poeti che si esibirono in quei giorni - 29 e 30 dicembre 1979 nel palazzo del Comune dell'antica città, furono Leone D'Ambrosio, Enzo Giannelli, Luigi Gulino, Angelo Pizzuto, Marcella Salvemini,  Angelo Schiavo, Paolo Sorgi, Giovanni Trani, Aldo Zanecchia, Marisa Conte e Fabrizio Falconi, all'epoca appena ventenne, il cui ritratto è qui sotto, tra le pieghe di quel polveroso libro-documento.



Fabrizio Falconi con Enzo Giannelli, Sperlonga, 1979