13/07/12

Franz Werfel - "Una scrittura femminile azzurro pallido" . Qualche considerazione.





C'è qualcosa di convenzionale, ma anche di sottilmente perturbante nel celebrato romanzo Una scrittura femminile azzurro pallido,  scritto nel 1941 (e pubblicato per la prima volta soltanto 14 anni dopo, nel 1955) da Franz Werfel e diventato un piccolo grande caso editoriale in Italia da quando, parecchi anni fa fu pubblicato da Adelphi e continuamente ristampato. 

In una storia di 131 pagine quello che sta a cuore a Werfel, esule dopo l'Anschluss come molti altri intellettuali ebrei, è raccontare cosa succede - e cosa è successo - nell'anima dei volontari collaborazionisti, di gente normale che si lascia cadere a peso morto, proprio perché incapace di affrontare le proprie personali ombre, le proprie personali debolezze, le proprie eclatanti cadute. 

Ed è nella scena madre del romanzo, quella nella quale Leonida riaffronta il fantasma di Vera, la donna da lui vigliaccamente abbandonata sedici anni prima senza un motivo né una spiegazione, che Werfel inserisce quegli elementi simbolici così stringenti per il lettore.   Il salotto dell'albergo nel quale Leonida è costretto ad incontrare Vera è il contrario di quel che si aspettava: un luogo tetro - la stanza "piena zeppa di mobili pesantissimi che si innalzano come fortezze arcigne" - claustrofobico, mortuario. Sono mortuarie anche le rose tea che Leonida ha ingenuamente portato con sé e che alla fine dell'incontro lascia "nelle tenebre" della stanza proprio perché sono "fiori di morte."

La morte accompagna Leonida anche nella scena finale - l'ultimo capitolo si intitola Nel sonno ed è un presagio del sonno mortale che ormai lo attende, dopo che la sua anima è perduta per sempre - in quel Teatro dell'Opera, in quella platea dove ciascuno recita il suo ruolo, aus dem Leben der Marionetten, per dirla con Bergman, dove a ciascuno dei figuranti non resta che vivere un doloroso e inutile oblio, conseguente a una non voluta, forzata consapevolezza.

Leonida è accerchiato dal destino, che è il suo carattere e il suo fato. Da quando ha indossato quel frac lasciatogli dall'amico, suicida, le cose non potevano andare diversamente.  La sua carriera è stata spettacolare, ma tutto è servito alla fine, soltanto per ingannare se stesso.  

Il danno è questo.  Nessuna salvezza, da fuori, potrà venire. Perché l'unica salvezza, è sempre e soltanto nell'attraversamento consapevole del dolore. E Leonida, come molti altri, il dolore l'ha soltanto voluto sfiorare, e guardare negli altri. Come fosse, appunto, la semplice vita delle marionette.

Fabrizio Falconi - luglio 2012.



10/07/12

Gli Obelischi di Roma - 13. Obelisco di Dogali.




Ed eccoci arrivati all'ultimo capitolo del nostro viaggio attraverso i 13 obelischi egizi - nell'ordine di rierezione - attualmente esistenti a Roma (città che ne detiene di più  numerosi al mondo). Qui le precedenti puntate. Concludiamo con il piccolo - e misconosciuto - Obelisco di Dogali, oggi nei pressi della Stazione Termini.

13. Obelisco dei caduti di Dogali . 
anno di rierezione:  1887 – 

Geroglifici 

Originale Egizio appartenente all’epoca del regno di Ramses II, viene in luce, perfettamente conservato, nel luglio 1883 in uno scavo archeologico nella via del Beato Angelico, nel luogo dell’antico Iseum et Serapeum.


Eretto nel marzo 1887 nella Piazza della Stazione Termini, a memoria dell’eccidio dei 584 soldati italiani a Dogali, da Francesco Azzurri che decide di non utilizzare come basamento quello originale dell’ob. Sallustiano. 

Trasferito, durante i lavori per l’anno santo 1925, nella via delle Terme di Diocleziano, dove appare tutt’oggi, in posizione penalizzata. 

Al monumento nel 1936 fu abbinato il cosiddetto Leone di Giuda, giunto dall’Abissinia, poi sparito dopo l’ingresso a Roma delle truppe americane e resitituito al negus Hailè Selassiè.

09/07/12

Stephane Mallarmé e l'Eternità.





Essere già in abbandono e in desiderio, quello che si sarà domani, quello che si è sempre stati ! In modo tale che in noi stessi finalmente l'eternità ci cambi.

Stephane Mallarmé (1842 - 1898)

08/07/12

La Poesia della Domenica. "Io son nessuno!" di Emily Dickinson.






Io son nessuno! E tu ?
Nessuno pure tu ?
Allora siamo in due!
Ma non andare a dirlo in giro!

Che noia esser qualcuno!
E che volgarità ridire il proprio stato
come una rana in un perenne giugno
a uno stagno ammirato!



Emily Dickinson (1830-1886), da Buongiorno Notte, a cura di Nicola Gardini, Crocetti Editore.

(foto di Bruce Chatwin, da Winding Paths)

06/07/12

Le Dolomiti celebrano Dino Buzzati.



A quarant'anni dalla scomparsa del grande scrittore, i territori delle province di Belluno e Trento onorano con un evento uno dei piu' celebri cantori delle alte cime. 

''Ricordando Dino Buzzati 1972-2012'' e' la manifestazione, promossa da Circolo Cultura e Stampa Bellunese e da Ideas Communication, insieme con l'Associazione Internazionale Dino Buzzati, che si svolgerà dal 23 al 29 luglio. 

Sette giorni di spettacoli, reading, conferenze dibattiti con protagonisti del mondo culturale italiano sul palcoscenico delle vette piu' amate da Buzzati: lo Schiara, il Civetta, le Pale di San Martino solo per citarne alcune. 

''Sara' un itinerario attraverso i luoghi del cuore e della memoria - raccontano gli organizzatori - con due grandi obiettivi: onorare Dino Buzzati, indimenticabile voce delle Dolomiti e del Novecento Italiano, e fare delle sue celebrazioni l'evento clou dell'estate dolomitica''. 

Sono coinvolte due Regioni (Veneto e Trentino), due Provincie (Belluno e Trento), la Fondazione Universita' ed Alta Cultura della provincia di Belluno e sette Comuni (Belluno, Limana, Feltre, Siror, Tonadico, Sagron Mis, Alleghe, Auronzo). 

E la partecipazione attiva di Giardino Buzzati, associazione culturale presieduta dalla nipote di Buzzati Valentina Morassutti. 

Le proposte sono state selezionate sulla base della qualita' e del rispetto scientifico dell'opera e del pensiero buzzatiani. ''Il nostro auspicio - spiega l'ideatore dell'iniziativa Ivano Pocchiesa - e' di promuovere ad ampio raggio la conoscenza dell'uomo Buzzati e della sua opera, facendone rivivere atmosfere e contenuti con l'ausilio di tutte le arti da lui amate e attraverso la testimonianza di chi lo ha conosciuto. Per questo nel calendario sono stati inseriti spettacoli teatrali, un concerto, dibattiti, mostre, reading, tavole rotonde. Un omaggio a tutto tondo all'uomo e all'artista che sara' occasione per apprezzare anche la bellezza e la ricchezza delle terre che lui ha tanto amato''. 

05/07/12

Julian Barnes: "Il senso di una fine" - Recensione.





Ho letto il miglior romanzo degli ultimi cinque anni. 

E' Il senso di una fine di Julian Barnes, vincitore del Man Booker Prize 2012, appena pubblicato in Italia da Einaudi.

Non capita spesso di scoprire un così raro gioiello di sintesi e perfezione non solo formale. Il senso di una fine è uno di quei romanzi che provoca nel lettore una sorta di spiacevole languore mentre lo si sfoglia: dispiace veder passare le pagine, sapere che ci si sta avvicinando alla fine.

La fine è poi la vera protagonista di questo libro.  La fine nel senso di morte e di distacco. La fine di ogni esistenza che costringe inevitabilmente a fare ordine negli accadimenti della nostra vita a trovare un posto alle cose più ingombranti e anche a quelle apparentemente meno importanti. Ciascun frammento contribuisce a chiederci e a restituirci - se soltanto sappiamo interrogarci nel modo giusto e a comprendere (altro tema fondamentale del libro) - il senso dell'essere qui. 

Barnes costruisce una storia molto semplice.  E il romanzo è quasi brutalmente spezzato in due. 

E' nella seconda parte che Tony Webster , un uomo musilianamente senza qualità,  deve affrontare l'incombenza di una lettera con cui un avvocato gli annuncia il lascito di cinquecento sterline e di un diario proveniente dal passato. 

Tony scoprire perché è stato scelto proprio lui, e quale segreto rabbiosamente custodito quel diario potrebbe rivelare. 

La chiave per la risoluzione del mistero è nella prima parte del libro, nella giovinezza di Tony, nella sua educazione sentimentale e sessuale - nel pieno della liberazione degli anni '60 (che c'era però "non per tutti e non dappertutto" come non si stanca di sottolineare il protagonista), nelle vicende che lo hanno accostato al  geniale amico dei tempi del liceo, Adrian Finn: come ha potuto la ragazza di allora, Veronica Ford, preferirgli l'amico raffinato e brillante, Adrian? Ci sono solo Camus e Wittgenstein dietro l'estrema decisione di Adrian? Da che cosa ha voluto metterlo in guardia tanti anni prima la madre della ragazza? Perché a distanza di quarant'anni Veronica ritorna nella sua vita con un bagaglio di silenzi e il rifiuto di dargli ciò che è suo? 

Gli indizi conducono, dopo lunghe e ostinate reticenze a un prodigioso colpo di scena finale - sviluppato in appena mezza pagina - che lascia il lettore senza fiato, e con la necessità immediata di ri-leggere, alla luce di quanto ha scoperto insieme al protagonista, la storia precedente, reinterpretandone il senso. 

Il senso della fine è un romanzo che de-scrive il tempo, l'impossibilità di definirlo - nella nostra esistenza - come qualcosa di concluso, l'obbligo di considerarlo come puro elemento dinamico che continuamente ci allontana e ci avvicina a quella che noi abbiamo bisogno di considerare come verità

Barnes è riuscito nella impresa di costruire in sole 140 pagine una storia che svuota ogni pretesa di riconoscimento e di identità su cui si basa ogni fittizia costruzione della personalità umana.  Il dilemma interiore di Tony (ci) insegna che la consapevolezza di ciascuno cresce soltanto nell'attraversamento delle proprie zone oscure dimenticate o rimosse e nella attenzione - vera e concreta - alla vita degli altri nei quali, attraverso i quali - unicamente - passa la nostra identità. 

Fabrizio Falconi -2012






04/07/12

The Killing - Una grande serie tv.



Lo sostengo da tempo, la creatività visiva e narrativa contemporanea - che sembra essersi impigrita al cinema - vive un  momento di nuovo fulgore in diverse serie televisive in produzione in diverse parti del mondo.

Un esempio è The Killing, serie televisiva statunitense poliziesca prodotta dalla Fox Television Studios e dalla Fuse Entertainment per la rete televisiva via cavo AMC, che l'ha trasmessa a partire dal 3 aprile 2011 e la cui ultima puntata - della seconda serie - è andata in onda qualche giorno fa praticamente in contemporanea in USA e in Italia.

The Killing è il remake della serie televisiva danese Forbrydelsen, considerata un capolavoro e detentrice di ogni record di ascolto nella televisione di quel paese.

La serie americana, come quella danese, è incentrata sulle vicende che ruotano attorno l'omicidio di una giovane ragazza e la conseguente indagine della polizia.

Nella versione statunitense è nella nordica Seattle che una giovane ragazza, Rosie Larsen, viene trovata uccisa, chiusa nel bagagliaio di una macchina affondata in un laghetto.

La trama intreccia tre aspetti connessi all'omicidio: le indagini della detective Sarah Lindendetective del dipartimento di polizia di Seattle, silenziosa e acuta osservatrice, conduce una vita solitaria con il figlio Jack -  affiancata dal collega Stephen Holderex detective della narcotici che ha ottenuto la promozione alla squadra omicidi;  il dolore che colpisce la famiglia della vittima; e un gruppo di politici locali che rischia di vedersi compromessa la campagna elettorale. Con la prosecuzione della storia, diventa chiaro che non ci sono casualità e ognuno dei personaggi coinvolti si porta dietro un segreto che gli impedisce di poter voltare pagina. 


Sono diversi e numerosi i motivi di interesse di questa serie: la precipitazione in un gorgo progressivo che sembra ingoiare ogni barlume di umanità (di senso umano) dei personaggi coinvolti;  la pioggia battente che scende per 24 giorni consecutivi su Seattle (la capitale della cultura grunge) e l'acqua - elemento onnipresente in tutte le puntate - nella quale sembra immersa la realtà intera rappresentata (e anche il corpo della vittima);  la solitudine dei due detective, la solidarietà progressiva che si stabilisce, il faticoso rapporto di fiducia, la protezione che offre Holder (anche se per alcune puntate si è indotti a credere che anche lui sia marcio, sia dall'altra parte) alla sperduta Linden; l'assenza di erotismo (seppure sempre sottinteso), la ricerca continua del senso ultimo e minimo delle cose, dalle quali ripartire (la certezza non esiste, va ricercata nell'humus più putrescente, va ritrovata - perché esiste - nel cancellato e nel negato);  la volontà - più forte di tutto - di mantenere la barra dritta nel gorgo, nell'abisso frequentato da spettri e mistificatori; l'estrema linearità del racconto che mantiene unità narrativa e precisione di scopi (senza voli pindarici, senza sotterfugi o strizzate d'occhio allo spettatore):  insomma un gran bel lavoro che parla a noi, e proprio a noi, oggi e ci spiega (anche) da dove si può e si deve ripartire.


Fabrizio Falconi 

03/07/12

Gli Obelischi di Roma - 12. Obelisco Aureliano al Pincio.



Nel nostro cammino intorno ai 13 obelischi autentici egizi presenti a Roma (qui le precedenti puntate), tocca oggi al penultimo, l'Obelisco Aureliano al Pincio, l'unico con geroglifici egizi che furono però scolpiti a Roma.  Ecco la scheda.

12. Obelisco aureliano in piazza del Pincio. 

anno di rierezione: 1822 

altezza: – m. 9,24 ( m.17,2 con basamento)
Geroglifici. 

Provenienza egizia ignota, proveniente dall’area dell’Iseo Campense. 

Geroglifici scolpiti a Roma (decifrati nel 1917). 

Eretto dall’imperatore Adriano di fronte alla sua tomba (nella zona di Via Labicana ), in memoria del diletto Antinoo perito nel 130 d.C. nelle acque del Nilo. 

Spostato da Elagabalo (218-222) per utilizzarlo nel proprio circo ( fuori dell’attuale Porta Maggiore ). 


Abbattuto da Totila nel 547, ricordato da Antonio da Sangallo e da Andrea Fulvio, viene in luce nel terreno dei fratelli Saccoccia che secondo una lapide (attualmente ancora visibile in un’arcata dell’acquedotto) non veritiera l’avrebbero rieretto nel loro podere, dopo vari progetti di sistemazione ( tra i quali uno nei giardini della Villa Barberini) .


Papa Pio VII nella completa riorganizzazione del Pincio, lo fa erigere nel piazzaletto dove si trova tuttora da Giuseppe Marini nell’agosto 1822. 

29/06/12

Pietro e Paolo: la separazione sulla Via Ostiense, una antica memoria.



Secondo un’antica e consolidata memoria in Via Ostiense, tra gli odierni numeri civici 106 e 108 e a circa trecento metri dalla Basilica di S. Paolo fuori le mura, avvenne l’ultimo fraterno saluto tra Pietro e Paolo, separati, per essere avviati al martirio.

Questo ultimo addio avvenne tra il 64 e il 67 d.C. - più probabilmente intorno ai primi mesi del 64. 

Nel punto dove la tradizione orale - che a Roma era e fu fortissima per secoli e particolarmente precisa, come dimostrano tutte le recenti scoperte archeologiche di età tardo-antiche - racconta che questo addio avvenne, fu, in seguito, eretta una cappella, poi una chiesetta, detta della “Separazione”, purtroppo andata distrutta durante l’allargamento della via Ostiense, avvenuto fra il 1908 e il 1911; 

Oggi, sul luogo, esiste una lapide posata nel corso dell’Anno Santo 1975 che contiene in pochissime parole il ricordo dell’avvenimento: “Nei pressi di questo sito / una devota cappellina / in onore del Santissimo Crocifisso / demolita agli albori del secolo XX / per l’allargamento della Via Ostiense / segnava il luogo / dove secondo una pia tradizione / i Principi degli Apostoli Pietro e Paolo vennero separati nell’avvio / al glorioso martirio” 

A coronamento di questa lapide un semplice bassorilievo rammenta i due Apostoli nell’atto dell’estremo abbraccio. 

Il luogo non è casuale. Anche se le fonti apocrife sono molte e diverse, vi è il dato concorde secondo cui Pietro, all'inizio della persecuzione cristiana a Roma nel 64 d.C., pensò di sottrarsi alla cattura, fuggendo con altri compagni verso sud.   

Di questa fuga - seguita da un ripensamento, che portò l'Apostolo a fare marcia indietro e a tornare in città - c'è memoria storica e orale anche nel sito della chiesetta del Domine Quo Vadis,  sulla Via Appia, non molto distante in linea d'aria dal luogo dell'ultima separazione dei due apostoli. 

Dopo il ritorno in città, Pietro seguì la sorte di Paolo ed entrambi furono rinchiusi nel Carcere Mamertino, ai piedi del Campidoglio, dove - secondo la leggenda - Pietro riuscì a convertire i suoi carcerieri e li battezzò, ma non essendovi acqua in quell’ambiente ipogeo, batté sul terreno e sgorgò una fontanella, che esiste ancora. 

San Paolo invece venne condotto ad aquas salvias, nell’attuale zona delle Tre Fontane, sulla Via Laurentina, per essere decapitato; egli era infatti - come è noto - un cittadino romano e come tale fu portato fino al luogo del martirio.

La credenza delle comunità protocristiane tramandò che la sua testa avrebbe battuto tre volte al suolo facendo scaturire, ad ogni caduta, una fonte miracolosa; l’episodio assegnò il nome al luogo e alla chiesa sorta in onore dell’Apostolo. 

In realtà, anche se il fatto del martirio è un dato storico inoppugnabile, ed è inoltre storicamente garantito che esso avvenne a Roma durante la persecuzione neroniana, è incerto non solo il giorno, ma persino l'anno della morte dei due apostoli. Mentre infatti per S. Paolo vi è una certa concordanza di testimonianze antiche per l'anno 67, per S. Pietro vi sono pareri discordi, e gli studiosi sembrano preferire ora il 64, l'anno in cui, come attesta anche lo storico pagano Tacito, un'ingente moltitudine di cristiani perì nella persecuzione seguita all'incendio di Roma. 

La festa, o più esattamente la solennità, dei SS. Pietro e Paolo è una delle più antiche e più solenni dell'anno liturgico. Essa venne inserita nel Santorale (solennità proprie dei santi) ben prima della festa del Natale e vi era già nel secolo IV la costumanza di celebrare in questo giorno tre S. Messe: la prima nella basilica di S. Pietro in Vaticano, la seconda a S. Paolo fuori le Mura e la terza nelle catacombe di S. Sebastiano, dove le reliquie dei due apostoli dovettero essere nascoste per qualche tempo per sottrarle alle profanazioni.


Fabrizio Falconi   - per approfondimenti qui.

28/06/12

'Il ponte di San Luis Rey' di Thornton Wilder, un romanzo che parla a ciascuno di noi.



Ho appena finito di leggere un grande romanzo: Il Ponte di San Luis Rey, scritto da Thornton Wilder nel 1927, con il quale il famoso drammaturgo americano vinse il Premio Pulitzer.

E' un romanzo molto strano.  Che tocca i nostri temi.  Wilder imbastisce una storia ambientata in Perù, nel 1700.  Dopo molti secoli che se ne sta lì tranquillo al suo posto, crolla il vecchio ponte di San Luis Rey, costruito dai Maya.   Quel ponte, dice Wilder, è una istituzione per tutti gli abitanti di Lima.

Intere generazioni, per secoli e secoli sono transitate su quel ponte, unico mezzo di comunicazione per attraversare un profondo burrone. Fino al giorno fatidico, in cui il ponte crolla.

E in quel giorno fatidico muoiono 5 persone. 5 persone tra le migliaia, i milioni di persone che nei secoli hanno attraversato quel ponte.

Wilder immagina che un frate francescano, fratel Ginepro, non dandosi pace del perchè proprio a quelle 5 persone sia toccato in sorte di transitare sul ponte al momento del crollo, decide di ricostruire le loro vite, alla ricerca di un elemento comune, di una traccia che giustifichi il loro coinvolgimento nella sciagura.

L'intelligenza di questo romanzo sta proprio nell'aver toccato uno dei punti cruciali di fronte al quale, tutte le religioni del mondo, si trovano come impotenti.

Se infatti, quando c'è di mezzo una morte individuale, si può andare alla ricerca di una motivazione, di una logica che giustifichi l'intervento divino,  quasi impossibile è fare altrettanto quando in una tragedia collettiva - pensiamo a un aereo che cade, o alle Torri Gemelle, tanto per restare vicini a noi - perdono la vita contemporaneamente persone diversissime, il buono al fianco del cattivo, l'innocente, il bambino, il solitario, il ladro e l'assassino.

Questo tipo di eventi è stato per ogni religione, sempre, motivo di scandalo.

Ed è stato, da sempre, un motivo a favore di tutti coloro che interpretano la vita come una pura successione di eventi casuali, spinti dalla fortuna o dalla sfortuna (alla Woody Allen insomma).

Il Ponte di San Luis Rey è grande, in questo:  Il povero Fratel Ginepro, nella disperata ricerca di un senso, arriva a compilare una tabella per le persone coinvolte, assegnando un punteggio da 1 a 10 e da -1 a -10 per tre diverse categorie: bontà, devozione, utilità (alla società).   


A Ciascun morto Ginepro assegna un punteggio, in base alle testimonianze degli amici, dei conoscenti, dei famigliari, degli estranei.


Non voglio rivelare troppo del romanzo, fatto sta che Ginepro si trova ad un certo punto a gettare nel mare le sue carte statistiche, allorquando si rende conto che: sono proprio i più meritevoli, i più buoni, i più utili alla causa umana, quelli che sono morti.

Non è proprio questo quello che la saggezza popolare (cristiana) tramanda da tanti secoli: e cioè che - detto in soldoni - se ne vanno sempre i migliori ? E che invece le persone malvagie, quelle rancorose, quelle che odiano e fanno guai, godono di lunga e durevole salute, morendo spesso di morte naturale, in tardissima età ?

Come si spiega questo mysterium iniquitatis ?


Fabrizio Falconi


27/06/12

"Il matrimonio ucciso dal sesso." Un articolo di Keith Botsford.



Non mi capita spesso, debbo dire, di vedere Montaigne, uno degli uomini più saggi e spassionati, citati sui giornali. Eppure eccolo lì, su Le Figaro del 13 agosto: “il matrimonio è un legame religioso e devoto; perciò il piacere che ne traiamo dovrebbe essere un piacere limitato, serio, e in qualche misura anche severo. Dovrebbe essere una voluttà prudente e coscienziosa." 

Ho letto queste parole e, come era successo allo scrittore francese Pascal Bruckner che le citava, mi hanno dato da pensare. Perché questa non è certo la descrizione delle unioni del nostro tempo. Oggi il matrimonio – quando esiste, o per quanto dura – raramente è religioso e ancor più raramente è devoto e il piacere che ne deriva è la stessa gratificazione istantanea disponibile anche al di fuori del matrimonio. Vale a dire, pura libidine. Ed essendo solo quello, appassisce col tempo. 

La nostra cultura tradizionale, ci ricorda Bruckner, riconosceva la fragilità dell’erotismo. Per questo occorreva qualcos’altro per garantire la durata del matrimonio – la “prudenza e coscienziosità” di Montaigne. Noi invece abbiamo imboccato la strada opposta: siamo imprudenti e trascurati. Appena consumata una unione, passiamo a un’altra e a un’altra ancora. Di fatto la situazione è ancora peggiore di quanto ammetta Bruckner, perché il nostro eros oggigiorno cerca il suo oggetto senza nessuna considerazione per la durata o la continuità. E lo cerca in se stesso; nell’informe e nell’androgino; nei bambini; negli animali; nel senso della comunità, o in tutte quelle fantasie perverse che, a lungo sepolte nell’inconscio, sono ora venute alla luce sotto forma di pornografia, che illumina la coppia moderna o l’onanista solitario. 

Nulla è più peculiare del nostro tempo di questa continua ricerca di novità, di conoscenza di una funzione biologica, di “liberazione” da quei vincoli che hanno fatto dell’amoreggiare un atto umano anziché animalesco. Nel corso della mia vita – anzi, nella mia stessa vita – ho assistito a questa trasformazione chiamata eufemisticamente “liberazione”. 

Questa liberazione, osserveranno probabilmente gli storici del futuro, non è soltanto delle donne – non concepire (contraccezione), non far nascere (aborto) e non sposarsi (divorzio) – ma anche dei loro potenziali partner che ora, affrancati dal rischio e dalla responsabilità della relazione erotica (procreazione e/o matrimonio) possono andare a briglia sciolta con l’immaginazione. E lo fanno. 

I risultati, come li elenca Bruckner, dovrebbero far riflettere chiunque. Avendo la società rinunciato (con un libero voto !) a porre vincoli, nessuno è implicato nella relazione di due adulti. La prima conseguenza è abbastanza terribile: significa che “se l’unione fallisce, uno può biasimare solo se stesso. “ Ma in che cosa consiste questo fallimento ? 

25/06/12

50.000 per il Blog.





Questo post semplicemente per ringraziare davvero i lettori che hanno permesso di raggiungere molto velocemente la 'bella cifra' di 50.000 visualizzazioni per questo Blog. 

Grazie ! 

24/06/12

La poesia della Domenica - "L'alpino" di Marco Guzzi




L'alpino

C'è sempre chi minaccia la tua spinta
dei carri al valico
dove s'insella la catena
montuosa, e lascia un varco
per le scorrerie.

C'è sempre chi ti dice che non c'è
niente di là, che non c'è varco
anzi, e la salita
culmina nel vuoto.
                        Bivacca
qui ti dice, e non sognare
che ogni stella porti un nome
che ti riguardi, né sperare
che ti propizi il viaggio
qualche sorella astrale.
                                  Solo
sei tu questa falsa
erta,  e la tua vista
avida di cime, come una svista
può esserti letale.

Allora ti rannicchi sulla cenere
dei tuoi falò, l'alta montagna
si fa filosofia.
                          Oppure dici no
con la piccozza, pianti
i tuoi rampini su quel volto
di ghiaccio, gli pianti in faccia
i tuoi scarponi.
                          E sali
più cieco del cielo, esatto.
Perché la guida oltre il celeste si concede
allo spericolato
proprio quando meno se lo aspetta:
quando cade.



Marco Guzzi, da Preparativi alla vita terrena, Passigli 2002, pag.66

23/06/12

Aung San Suu Kyi torna ad Oford 25 anni dopo: è il giorno dell'emozione.



E' stato il giorno dell'emozione per Aung San Suu Kyi, tornata nella Oxford in cui studio' e crebbe i figli Alexander and Kim insieme con il marito Michael Aris.

Il tradizionale abito lungo sotto il vestito accademico, i capelli sotto il copricapo nero da cui spuntava un fiore bianco, il leader dell'opposizione birmana ha sfoggiato tutta la propria eleganza e un sorriso gentile quando il rettore dell'Universita, Chris Patten, le ha consegnato quella laurea honoris causa della quale fu insignita nel 1993 ma che, al pari del premio Nobel, solo oggi San Suu Kyi ha potuto ricevere.

"Quello di oggi", ha esordito la donna pronunciando un discorso nello scenario settecentesco dello Sheldonian Theater, "e' stato un giorno molto commovente, in questi anni difficili passati agli arresti domiciliari i miei ricordi di Oxford sono stati di conforto nelle sfide alle quali ero chiamata".

Le due parole non potevano non suscitare una standing ovation, tributatale dai piu' di 1.000 studenti della setta Universita' in cui San Suu Kyi studio' scienze politiche, economia e filosofia nella meta' degli anni Sessanta.

"Mai piegata campionessa di liberta'", ha detto rivolgendosi solennemente alla donna il rettore, "che ha dato al nostro popolo e al mondo intero un esempio di coraggio e tenacia, le consegno la laurea onoraria in diritto civile".

Aung San Suu Kyi lascio' Londra nel 1988, per andare a visitare la madre morente in Birmania, ma non immaginava che sarebbe rientrata in terra britannica soltanto un quarto di secolo dopo.

Fu lo stesso marito a insistere con lei perche' restasse in Asia a proseguire la lotta per la democrazia.

Di conseguenza, a partire dal 1988 Aung San Suu Kyi vide il marito e figli, lasciati che erano neanche adolescenti, solo in rare occasioni, finche' nel 1999 il professor Aris mori' di cancro.

Intervistata dai media britannici, la donna ha parlato delle "sofferenze" della sua famiglia e ha riconosciuto che la sua "scelta di vita" e' stato un sacrificio pesante, tanto per il marito che per figli.

"Soprattutto per i ragazzi, perche' mio marito era adulto, ma loro erano bambini ed era importante per loro avere entrambi i genitori vicini. Non e' stato facile, ma d'altra parte penso - ha aggiunto - che alla fine si fanno delle scelte in base alle priorita' di ciascuno e poi si vive con quella decisione".

Oggi Aung San Suu Kyi e' pronta a guidare la Birmania. "La strada che abbiamo davanti non e' facile", ha detto allo Sheldonian, "ma Oxford si aspetta il meglio da me e da questo luogo, al quale adesso appartengo, esco rafforzata nelle sfide che dovro' affrontare".

Poi, con lo sguardo rivolto a John Le Carre', accanto al quale si e' seduta dopo il discorso: "Quando ero agli arresti domiciliari, i libri di Le Carre' mi hanno aiutata a viaggiare nel mondo e nelle idee". I popoli, pero', sono persone in carne e ossa. E' pronta a guidare quello del suo Paese, le ha chiesto la Bbc. ""Si'", ha risposto, "credo di poterli guidare nel modo appropriato".

fonte AGI

22/06/12

La Madonna dei Palafrenieri di Caravaggio - una esegesi.



La Madonna dei Palafrenieri esposta nella collezione permanente della Galleria Borghese a Roma, fu dipinta da Michelangelo Merisi, il Caravaggio, alla fine del suo lungo periodo romano durato undici anni, dal 1595 al 1606, e più precisamente tra il 1605 al 1606

Ricapitolo ciò che stava succedendo in quei 12 mesi nella turbolenta vita del più geniale pittore della sua epoca, e forse di tutti i tempi. 

Alla fine del 1605 Caravaggio era stato costretto a fuggire a Genova per circa tre settimane, dopo aver ferito gravemente a Roma un notaio, Pasqualone d'Accumulo, a causa di una donna: Lena, l'amante di Caravaggio. 

L'intervento dei protettori dell'artista riuscì ad insabbiare l'accaduto anche se, al ritorno a Roma, il pittore venne querelato da Prudenzia Bruni, sua padrona di casa, per non aver pagato l'affitto; per ripicca, Merisi prese nottetempo a sassate la sua finestra.

Il fatto più grave però si svolse a Campo Marzio, la sera del 28 maggio 1606: l'artista si macchiò  dell'omicidio di Ranuccio Tommasoni da Terni. 

A causa di una discussione causata da un fallo nel gioco della pallacorda, il pittore venne ferito e, a sua volta,ferì mortalmente il rivale, con il quale aveva avuto già delle discussioni in precedenza spesso sfociate in risse. Anche questa volta c'era di mezzo una donna, Fillide Melandroni, le cui grazie erano contese da entrambi. 

Probabilmente dietro l'assassinio di Ranuccio c'erano anche questioni economiche, forse qualche debito di gioco non pagato dal pittore, o addirittura politiche: la famiglia Tommasoni infatti era notoriamente filo-spagnola, mentre Michelangelo Merisi era un protetto dell'ambasciatore di Francia.

Il verdetto del processo per il delitto di Campo Marzio, fu severissimo: Caravaggio venne condannato alla decapitazione, che poteva esser eseguita da chiunque lo avesse riconosciuto per la strada. 

In seguito alla condanna, nei dipinti dell'artista lombardo cominciarono ossessivamente a comparire personaggi giustiziati con la testa mozzata, dove il suo macabro autoritratto prendeva spesso il posto del condannato. 

La permanenza nella città eterna non era più possibile: ad aiutare Caravaggio a fuggire da Roma fu il principe Filippo Colonna, che gli offrì asilo all'interno di uno dei suoi feudi laziali di Palestrina e Zagarolo. 

Il nobile romano mise in atto una serie di depistaggi, grazie anche agli altri componenti della sua famiglia che testimoniarono la presenza del pittore in altre città italiane, facendo così perdere le tracce del famoso artista.  

Bene, in questo periodo di così stretta vicinanza con il male e con la Morte, Caravaggio dipinge questa Madonna dei Palafrenieri, commissionata dalla Confraternita dei Palafrenieri, la cui Chiesa si trovava e si trova, all'interno delle Mura Vaticane, Sant'Anna dei Palafrenieri. Caravaggio realizza un altro capolavoro, come gli altri avanti di qualche secolo ai gusti dei suoi committenti, che si scandalizzano per la nudità del bambino - ritenuto troppo grande per essere mostrato nudo - rifiutano il dipinto. 

Lo acquista il lungimirante Cardinale Scipione Borghese per 100 scudi, e la mette in bella mostra nella sua splendida Galleria Borghese, dove è ammirabile per fortuna anche oggi. 

Qual è il mistero di questo quadro ? Qual è il senso spirituale che trasmette ? Questa tela raffigura come e forse meglio di un trattato di teologia, il problema del Male nella nostra vita. La scena è immersa in un buio pressoché totale (la nostra esistenza qui, ora ?), squarciato solo da una botola di luce in alto (una possibilità di salvezza ? che è in alto ?).

21/06/12

'Coral Glynn' di Peter Cameron - RECENSIONE.




La giovane Coral Glynn, orfana e sola al mondo arriva in una lussuosa e decadente villa nel Leicestershire, in Inghilterra, nel pieno degli anni '50. Specialista infermiera, deve occuparsi dell'anziana e moribonda Mrs. Hart.

Nella vetusta dimora riceve le attenzioni del figlio di lei, il "maggiore" Clement Hart che, reduce di guerra, ha metà del corpo ustionato. 

Cupo e malinconico, dopo la morte della madre, il maggiore trova il coraggio per chiedere a Coral di sposarlo. Il matrimonio però, appena celebrato, va in fumo: Coral si ritrova coinvolta nell'agghiacciante vicenda di una bambina trovata impiccata nel bosco vicino alla villa.  Costretta a fuggire, su sollecitazione di Clement, Coral si rifugia a Londra dove finisce in sposa a Laszlo, l'aitante figlio unico di una affittacamere polacca.  

Nell'epilogo, che descrive le vicende di 15 anni dopo, Coral si ritrova in viaggio insieme al marito a transitare proprio dalle parti di Villa Hart. Scopre che il maggiore si è infine sposato con Dolly, la ex moglie del suo migliore e unico amico (nonché ex amante) Robin. 

Cameron inventa una favola nera che a tratti sconfina nel gotico, di sapore diverso - e complessivamente meno convincente - dei precedenti due romanzi, Quella sera dorata e Un giorno questo dolore ti sarà utile, in particolare il primo che resta il suo migliore.

Qui la cosa migliore è il personaggio di Coral che da innocente verginea (si scoprirà poi che non è proprio così) vediamo raggiungere insperabili  traguardi di avvedutezza al limite del cinismo, lasciando al personaggio del maggiore il carattere della integrità (seppure minata da impotenza e debolezza). 

La narrazione e questo è il difetto principale, indugia compiaciuta (in particolare i dettagli delle scene erotiche, l'omosessualità vera e latente, le ossessioni noir) e sembra spesso girare a vuoto con una scrittura non sempre misurata, cifra che pure sembrava finora tipica dello stile di Cameron. 

Peter Cameron, Coral Glynn, Adelphi, 2012 (traduz. di Giuseppina Oneto) 


19/06/12

E' morta Gitta Sereny.




La scrittrice e giornalista britannica Gitta Sereny, che ha dedicato gran parte della sua vita di autrice all'analisi di cio' che accadde al popolo tedesco durante il nazismo, e' morta all'Addenbrooke's Hospital di Cambridge all'eta' di 91 anni dopo una lunga malattia. 

L'annuncio della scomparsa, che risale a giovedi' scorso, e' stato dato oggi dalla famiglia alla stampa londinese.

 Autrice di libri a cavallo tra storia e cronaca, in cui racconta fatti di cui e' stata spesso testimone, Sereny ha pubblicato "In quelle tenebre" (Adelphi, 1994), biografia di Franz Stangl, il boia nazista di Treblinka, frutto di lunga serie di colloqui nel 1971 nel carcere di Dusseldorf; "In lotta con la verita"' (Rizzoli, 1995), biografia dell'ex ministro nazista Albert Speer che aveva conosciuto nel 1945 assistendo al processo di Norimberga diventando poi amica dell'architetto di Hitler che intervisto' a lungo; "Germania il trauma di una nazione.Riflessioni 1938-2001" (Rizzoli, 2002), dove parte da alcuni episodi autobiografici per collegarsi a momenti chiave dell'ascesa e della disfatta del Terzo Reich e alla fase successiva di chiarificazione e sanzione legale, con l'intervista alla regista Reni Riefenstahl, il resoconto del processo israeliano a John Demjanjuk e il caso della pesante eredita' dei "figli della svastica" (a partire da Martin Bormann junior).