Qualche volta le immagini valgono più di mille parole. Il ritorno, il comprendere, il perdonare.
10/05/11
Il perdono, il ritorno - Lantana.
Qualche volta le immagini valgono più di mille parole. Il ritorno, il comprendere, il perdonare.
Lessico dei Poeti 3 - 'Cuore'.
Cuore.
Scrive James Hillman, in Thought the Heart (pag. 24-33): “L’organo che percepisce il volto delle cose è il cuore. Il pensiero è fisiognomico. Per percepire deve immaginare. Deve vedere forme, figure, facce: angeli, demoni, creature di ogni genere e cose di ogni tipo; e con ciò stesso il pensiero del cuore personizza, infonde anima e anima il mondo. Questo nesso tra cuore e organi di senso non è semplicemente e meccanicamente sensistico, bensì estetico. A “salvare il mondo” non sono necessariamente la grazia o la fede o le teorie olistiche e neppure l’attività scientifica. I fenomeni sono salvati dall’anima mundi, dalla loro stessa anima e dal nostro ingenuo trattenere il fiato di fronte a tanta bellezza e meraviglia. “
E questo riconoscimento, ci dice Hillman, lo fa il ‘cuore’: è lì che localizziamo da sempre, da quando l’uomo è nato, quella capacità di andare oltre le semplici sembianze, di ‘riconoscere’ l’intimo volto delle cose, la sua natura più reale, proprio perché extra-sensoriale.
A esemplificazione del suo discorso, Hillman nel testo stesso, riporta i versi di un grande poeta, e non è un caso. Petrarca.
In selve impraticabili,
mentre credo d’esser più solo, gli stessi virgulti
o il tronco di un solitario leccio mi raffigurano il temuto volto,
oppure lo si vede emergere da una liquida fonte
o riluce sotto le nubi o nell’aria chiara
o sembra erompere, vivo, da una dura rupe.
Si tratta della traduzione dal latino delle Epistolae Metricae (IV, 145-50).
“Questi versi,” scrive Hillman, “ non sono per Laura, questa non è una lirica d’amore, bensì una descrizione di Laura, l’anima personalizzata, la raffigurazione impressa nel cuore mediante la quale procede la percezione estetica e che desta alla vita le cose come forme che parlano…”
Il cuore, insomma, sembra dirci Hillman, ci dà la descrizione dell’anima delle cose, riconosce quell’anima, la individua nelle forme in cui essa – anima – decide di manifestarsi.
Ed è perfino troppo ovvio che in questa capacità di discernimento del cuore, una via privilegiata la possiedano proprio i poeti. Sono loro a dare voce a quella voce del cuore, sin dalla notte dei tempi della tradizione.
Ma anche i poeti più vicini a noi, ovviamente. Seppure i loro testi non si trovano più – tranne in rari casi – nelle librerie-supermercato, essi continuano a parlare la lingua del cuore, se soltanto vi si concede ascolto.
Un poeta purtroppo legato al nostro doviziato scolastico, che non ne valorizza i toni moderni, così attuali, è Giovanni Pascoli. Nelle Myricae, l’occhio del cuore fa precipitare il poeta in un viaggio quasi allucinato:
Io vedo (come è questo giorno, oscuro!),
vedo nel cuore, vedo un camposanto
con un fosco cipresso alto sul muro.
E quel cipresso fumido si scaglia
allo scirocco: a ora a ora in pianto
sciogliesi l’infinita nuvolaglia.
O casa di mia gente, unica e mesta,
o casa di mio padre, unica e muta,
dove l’inonda e muove la tempesta;
E l’obiettivo di questo viaggio, non è soltanto dare voce alla memoria, è proprio ri-costruire quei volti, i loro veri volti, i volti del padre e della madre, i volti che il cuore ha conosciuto e quindi ha sentito come veri, reali, in grado di oltre-passare anche i territori della morte.
E’ del resto lo stesso Pascoli a scriverlo quasi esplicitamente, nella prefazione con dedica al padre Ruggiero, del poema: chiudere gli occhi stanchi di contemplare, e riporre e raccogliere nell’anima la visione…
E’ così che nel linguaggio poetico la lingua del cuore potrebbe diventare, potrebbe essere intepretata come lingua universale, una specie di esperanto capace di ri-nominare ogni cosa, di interpretare ogni cosa non più e non soltanto attraverso i veridici nomi d’abitudine, non più e non solo attraverso i segnali di consuetudine che spargiamo nel nostro mondo razionale, ma invece mediante i lampi fulminanti delle intermittenze del nostro cuore. Il quale – come un radar, come una geo-sonda – è capace di dare fisionomia agli oggetti, e perfino alla memoria.
Lo descrive molto bene Camillo Sbarbaro, che negli anni del trasferimento a Genova, negli anni dell’amicizia con Montale (intorno al 1928), scrive nei versi di Liquidazione:
Se la memoria fosse del cuore,
non un nome svegliandoti
ti verrebbe alle labbra.
Nel riflettere sono tutte le tue possibilità di vita.
Sono le parole di un poeta perfettamente cosciente del fatto che: “La vita è disperazione perché non si lascia cogliere nel suo senso ultimo...” Quel senso ultimo che in nessun caso può provenire dalla contemplazione o dallo studio empirico-razionalistico. C’è sempre qualcosa che sfugge, e quel qualcosa è esattamente l’anima diffusa che ogni persona sparge nel suo tracciato esistenziale. E che si coglie, solo, mettendo in funzione il ‘cuore.’
Il linguaggio del cuore può diventare anche una condanna, per il poeta. Lo scrivono e lo testimoniano i percorsi tragici di molti testimoni dell’Ottocento e del Novecento che della loro smisurata sensibilità profetica hanno fatto un martirio. E’ la condanna di chi parla un linguaggio altro, di chi per esempio si sente obbligato a vivere una vita di corpi (e di sembianze) perché non può, non può più arrivare a quella via del cuore, incarnata dal modello insormontabile della propria genitrice. Così Pierpaolo Pasolini nella celebre Supplica a mia madre:
E’ difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
L’angoscia che non era altro, come scriveva lo stesso Pasolini che quel troppo grande amore /nel cuore/ per il mondo.
Fabrizio Falconi.
08/05/11
Lessico dei Poeti 2 - 'Fuoco'.
Fuoco.
Per molto tempo ancora la critica di tutto il mondo continuerà a speculare sui meravigliosi Four Quartets di Thomas Stearn Eliot ( 1888 – 1965 ), caposaldo della letteratura poetica di tutti i tempi. E a ragione, perché se è vero – con tutti i limiti delle semplificazioni – che Eliot è ritenuto il poeta metafisico per eccellenza, i suoi densi versi dei Quattro Quartetti, scritti a cavallo della seconda guerra mondiale, rappresentano un testo capitale anche per le infinite implicazioni che vi si possono riscontrare su questioni umane e filosofiche: il senso del tempo, la speranza e la fede, la terra e il cielo, memoria e oblio.
Una delle parole chiave dei Quattro Quartetti è, indubbiamente Fuoco. A questa parola, Eliot ritorna più e più volte con diversi accenti, a tratti con una specie di meditazione, o come una invocazione. E’ quel che accade negli ultimissimi versi del poema, l’epilogo di Little Gidding, il quarto quartetto:
Non dovremmo smettere di esplorare/ E alla fine delle nostre esplorazioni/ Arriveremo là donde partimmo/ Come a un luogo sconosciuto…. Dove le lingue di fiamma si attorcigliano/ Dentro il coronato nodo di fuoco / E il fuoco e la rosa sono la stessa cosa.
In Inglese, e in modo molto più suggestivo:
When the tongues of flame are in-folded
Into the crowned knot of fire
And the fire and the rose are one.
Molto si è scritto intorno a questa ‘unione’ quasi alchemica di fuoco e rosa. Due simboli così densi ed eloquenti. Non vi è dubbio che è la bellezza la meta ultima di questo viaggio a ritroso, la sintesi di apparenti antinomie, complementari. E il fuoco al quale ritorna spesso Eliot dovrebbe essere inteso appunto come il fuoco divino, che scaturisce, come scriveva Duns Scoto, il filosofo medievale irlandese, dal rapporto tra Dio e l’individualità delle cose.
La bellezza è il prodotto della fusione tra l’individualità umana e la potenza divina. Il fuoco è il motore di questo prodotto. Un fuoco miracoloso, che costa sofferenza. Anche il poeta vi partecipa, partecipa a questa sofferenza. Anche il poeta, i poeti, debbono consumare la propria voce nel fuoco divino della poesia. E’ per questo, forse, che la parola e il sentimento del fuoco ricorrono così spesso nelle lingue dei poeti, e dei poeti italiani.
Sei comparsa al portone
In un vestito rosso
Per dirmi che sei fuoco
Che consuma e riaccende
Giuseppe Ungaretti scrive questa poesia – 12 Settembre 1966 - al termine della sua lunghissima parabola artistica. Questo fuoco che “ consuma e riaccende “ non è solo il fuoco di una passione femminile venuta a rallegrare i giorni di un vecchio che ha molto vissuto e molto sofferto, ma anche un fuoco al quale arde il senso stesso della vita. Come nella poesia di qualche anno prima ( Canto a due voci, 1959 ) , in quei due meravigliosi primi versi:
Il cuore mi è crudele:
Ama né altrove troveresti fuoco
E’ così, dunque, amare è il fuoco che divora, e che ‘eliotianamente’ porta chi lo vive, in un ‘luogo ‘sconosciuto’, in prossimità di quella bellezza che per gli umani è perenne chimera.
Con toni simili, altri poeti hanno raccontato questa ansia di sciogliersi nel fuoco che brucia e trasforma. Come Sergio Solmi ( 1899 – 1981 ) che in Preghiera alla vita ( in Poesia, meditazione e ricordi, 1983) scrive:
Perché più bruci, per meglio sentirti,
perché sempre il cuor mi divida
…….
Perché più bruci, per meglio sentire
Questo tuo bacio che torce e scolora,
ogni fibra consuma al tuo fuoco,
ogni pensiero soggioga ed annulla,
ogni tuo dolce, la pace e la gioia,
negami ancora.
L’invocazione, qui, è in un senso di appropriazione totale della vita, che brucia al suo sacro fuoco l’essere, avvicinandolo al trascendente, una forma di consunzione che è condiviso da religioni diametralmente opposte, e che rimanda, eccome, ad echi orientali.
Ancora più chiaramente, e curiosamente negli stessi anni di Solmi, Biagio Marin ( 1891 – 1985 ) intitola una sua poesia ( Bruciare ! Bruciare ! E farsi solo fiamma ) contenuta in La vita xe fiama, Torino, 1982. E qui, Marin assolutizza il fuoco della vita in una specie di grande rogo cosmico:
Tutto il mondo è un fuoco
Che crea e dissolve i soli e le galassie,
la fiamma sola genera le grazie
e le frescure e i fiori d’ogni luogo.
Come non ricordarci subito del fuoco e della rosa di Eliot ? La fiamma genera il fiore. La fiamma e il fiore, come dice Eliot, e conferma Marin, sono la stessa cosa. E ancora:
Non temere di bruciare e consumarti,
di sparire nei silenzi dell’Eterno,
che la gloria di Dio si faccia inferno
quando l’albe s’annuncian delicate.
Lasciamo da parte le implicazioni metafisiche che su questi versi, pure, si potrebbero esercitare, con la ‘gloria di Dio che si fa inferno’ e giungiamo fino a Roberto Mussapi, uno dei migliori poeti di questa nostra generazione che al fuoco, e alla polvere ha dedicato una intera raccolta (La polvere e il fuoco, 1997 ). In uno dei componimenti, Lo sguardo del poeta, Mussapi spiega cosa è il mestiere di poeta: ascoltare, farsi tramite di quella voce che brucia e consuma e trasforma.
Lì, ascoltami, cadde lo sguardo,
ma non fu a caso, nulla accade per nulla,
fu la tua voce, la voce che sale dalle sponde abitate,
questo è il nostro unico margine,
confine e fuoco,
questa è la direzione dello sguardo.
07/05/11
Lessico dei Poeti 1 - 'Ospitalità'
Ospitalità.
Quando morì Edmund Jabès, il 2 gennaio del 1991, si disse subito: uno dei massimi poeti contemporanei. Ma non solo, perché Jabès, l’esule egiziano trapiantato a Parigi, lasciando un corpus di riflessioni e testi filosofici, ha anche esplorato – sempre in modo poetico – alcuni temi capitali della contemporaneità. Uno di questi è il tema dell’accoglienza, dell’essere straniero, dell’ospitalità che sembra, mai come in questi tempi, cruciale per le sorti del mondo. All’ospitalità Jabès dedicò un libro ( in Italia: Il libro dell’Ospitalità – Edmund Jabès, Raffaello Cortina Editore, 1991 ). E l’ospitalità di cui parla Jabès è quella che permette a due estranei di incontrarsi e di (ri)conoscersi. E’ l’incontro, lo svelamento reciproco:
Posso rivelare il mio nome soltanto a colui che non mi conosce.
Colui che conosce il mio nome, lo rivela a me.
E’ dunque solo l’altro, colui attraverso il quale io posso imparare il mio nome. E’ grazie alla sua accoglienza/ospitalità che io posso identificarmi. Ed è l’attesa di/per qualcuno che genera la sua presenza, le concede significato:
Tu esisti perché io ti attendo.
Anche attendere non è quindi un’operazione passiva, ma creativa. La parola ospite, infatti ha in lingua italiana, una doppia valenza, attiva e passiva: colui che ospita, e colui che è ospitato.
L’ospitalità, dice Jabès, è crocevia di cammini.
Il cammino di colui che arriva, e di colui che attende, dunque. I passi dei quali risuonano nei canti accorati di Antonia Pozzi ( 1912-1940), la poetessa del silenzio, dell’abbandono, dei paesaggi alpini incantati, ma anche dell’incontro, come in “Certezza”, del 9 gennaio 1938 (Parole – Antonia Pozzi, Garzanti, 1989):
Tu sei l’erba e la terra, il senso
Quando uno cammina a piedi scalzi
Per un campo arato.
….
So che un giorno
-il mezzogiorno sciamerà coi gridi
dei suoi fringuelli-
sgorgherà il tuo volto
nello specchio sereno, accanto al mio.
L’apparizione del volto di colui che si attende, dell’ospite amato, di colui che viene a sgorgare nello specchio, abituato a riflettere solo una immagine. E l’ospite è appunto colui che arriva così, a piedi scalzi, muovendo il paesaggio delle cose usuali, consuete, scontate. L’apparizione dalla quale proviene il cambiamento fruttifero, che consente anche a me, ospite che ospita, di vedere come se fosse nuovo, il mio viso.
Ma perché l’ospitalità sia piena, occorrono altri ingredienti: rispetto, distanza, lontananza. Due esseri non potranno mai essere uno. E il mistero dell’altro va pienamente osservato.
Velarsi sarà l’essenza dello slancio di ogni apparire ?
Scrive Toti Scialoja, grande pittore e grande poeta ( 1914- ), che intendeva anche l’arte pittorica, della luce e dell’ombra, come un gioco d’incontro, di mistero e di svelamento:
Allo schiudersi è necessario il suo mantenersi velato
Quel che viene visto la prima volta è il meno visibile
L’ospitalità è allora, interpretando queste parole di Scialoja ( Le costellazioni, Marsilio, 1997 ), un mantenersi velato, per permettere, appunto lo schiudersi, naturale, spontaneo, non traumatico. Quel che viene visto la prima volta è il meno visibile: l’ospitalità è pazienza, è cura dell’altro, è attenzione.
L’ospitalità è attesa, abbiamo detto, è pazienza. Ma è anche ricerca. Ricerca determinata dall’amore, potremmo dire, come sembrerebbero suggerire questi versi di Claudio Damiani (1957), tratti da “Eroi” ( Fazi Editore, 2000):
Perché tu a un certo punto mi hai cercato,
hai detto: dove è il mio amore ?
dove è colui che mi ha amato ?
colui che mi ha risvegliato
mentre dormivo nell’erba.
Io dormivo sotto la terra
e lui mi ha richiamato.
ero nel suono della fonte
e lui mi ha ascoltato.
Mi ha cercato, è venuto sulle mie tracce,
e mi ha catturato.
Io camminavo e non lo sentivo
ma lui era dietro di me
che mi seguiva.
Ospitalità dunque è anche, soprattutto, cercarsi, seguirsi da lontano, sulle tracce, ascoltarsi, richiamarsi. E siamo di nuovo a Jabès, al suo svelamento reciproco. Ri-chiamare è infatti anche chiamare di nuovo, ri-nominare. Lui mi ha richiamato, ha consentito che io possa essere nuovamente chiamato per nome, in modo ancora una volta nuovo, originale, autentico.
Fabrizio Falconi
27/04/11
La Resurrezione ha per teatro dei dormienti ?
Esiste la teologia (indagine di Dio) delle immagini. Sicuramente uno dei casi più limpidi è quello del celebre affresco dipinto da Piero della Francesca tra il 1450 e il 1463 e conservato nel Museo Civico di San Sepolcro (per celebrare il nome stesso di quel Borgo). Una immagine nota nel mondo – secondo Aldous Huxley “il più bel dipinto del mondo” - enigmatica e complessa seppure apparentemente elementare nella sua raffigurazione. La Resurrezione di Piero offre anche a noi – specie in questo tempo Pasquale – molti motivi di riflessione e meditazione.
Innanzitutto in questa che è a tutti gli effetti una icona – cioè espressione grafica del messaggio cristiano affermato nel Vangelo – viene celebrata la Resurrezione di Gesù. Ma come noi sappiamo bene,questa scena, la scena cioè in cui Gesù si solleva dal sepolcro mortale e lo lascia, è assente nei Vangeli.
In nessuno dei quattro racconti dei Vangeli c’è descritta la scena della Resurrezione, per il semplice fatto che la scena avviene, come si direbbe oggi, senza testimoni.
Il racconto che viene fatto della Resurrezione è ‘a posteriori’: noi conosciamo la storia dal dopo, da quando cioè la Maddalena prima e i discepoli poi, recatisi al sepolcro per omaggiare il Cristo sepolto, si trovano di fronte una verità inaudita e razionalmente inaccettabile. Al punto tale che la Resurrezione del Maestro porterà, nei loro cuori oltre allo stupore, anche confusione e sconcerto.
Piero dunque immagina e descrive una scena che ‘nessuno ha mai visto’. E ciò è particolarmente simbolico anche per noi. Il Gesù che per certi versi appare trionfante, uscire dal sarcofago – il gesto del braccio sul ginocchio, il vessillo impugnato nell’altra mano, lo sguardo fisso sull’osservatore – riemerge dalla morte nel silenzio e, sembrerebbe di poter dire, nella desolazione (il panorama circostante) e nella indifferenza: i quattro soldati di guardia al sepolcro dormono infatti pesantemente. Uno, addirittura usa il marmo del sepolcro come poggiatesta (e diversi critici sostengono si tratti dell’autoritratto di Piero). Non vedono e non odono. Gli uomini sono addormentati. La terra è addormentata e oscura.
In questa ‘Terra desolata’ (Eliot), umanamente e naturalmente, prorompe l’evento misterioso e stupefacente della Resurrezione: il Cristo – vivo più che mai, il sangue ancora fuoriesce dalla ferita al costato, le guance sono di porpora – torna ad affermarsi presente nel mondo, torna come prima e diverso da prima.
Torna potremmo dire come torna ogni ricorrenza pasquale, eppure torna senza che gli uomini avvertano la sua presenza. In fondo sembra realizzarsi la profetica domanda – retorica – che il Maestro stesso aveva fatto ai discepoli poco prima di morire: “Ma quando il Figlio dell’uomo tornerà troverà ancora fede sulla terra?” (Lc. 18,8).
Ed è piuttosto simbolico che i discepoli dormano profondamente sia nell’ultimo atto della vita terrestre di Gesù in mezzo al loro - nell’Orto di Getsemani quando Egli chiede di vegliare e loro non riescono a farlo nemmeno per un ora – sia nel primo atto della nuova vita di Gesù.
La sorte di Gesù, così come la sua venuta rivoluzionaria nella nuova veste nella quale dovrà venire per quel tempo in cui “saranno giudicati i vivi e i morti (e dunque ogni ingiustizia sarà appianata) e il suo Regno non avrà fine” ha come testimoni uomini che non hanno saputo fare di meglio che addormentarsi.
Verrà probabilmente un tempo nuovo anche per loro. E forse, quella chiamata nuova che comincia dal prodigio della Resurrezione e che scuote i discepoli a “darsi finalmente da fare” si trasmetterà ad ogni uomo. E’ il nostro compito anche oggi, sembrerebbe di poterlo dire: svegliarci da questo sonno profondo, prendere finalmente coscienza di una presenza viva, chiederci cosa vuole realmente da noi, cosa ci chiama a fare, non a sognare. Il tempo del sonno non è quello della nuova vita.
Fabrizio Falconi
20/04/11
La vita convulsa e il centro perduto.
Sì, siamo impegnati a scrivere quella che sarebbe una calorosa mail a un nostro caro amico lontano, ma nel frattempo squilla il cellulare e c’è una telefonata che non possiamo mandare indietro; lampeggia un flash sul computer e il download della canzone che amiamo da I-Tunes è terminato, dobbiamo ricordarci di accendere la tv per sapere che tempo farà domani; ma nel frattempo un sms ci ricorda che non abbiamo rinnovato l’assicurazione e passiamo mezz’ora al call-center in cerca di un operatore che ci ascolti.
‘Troppe informazioni mi rendono pazzo’, cantava un celebre ritornello di Sting e soci.
Più che pazzi, poi – nel senso comunque di dissociati – sembrerebbe che la frammentazione inarrestabile delle vite porti ad un senso di infelicità latente. Se faccio mille cose, ma nessuna di queste mettendoci dentro TUTTO me stesso, come farò ad essere felice?
Non è che la ‘vita liquida’ scivola via dalle dita senza lasciarci nulla di solido in mano?
Eppure, quando ci succede qualcosa di inaspettato e brutale – un lutto, una perdita di lavoro, la fine di un rapporto – improvvisamente ci rendiamo conto che così non va, non può andare.
Ci ricordiamo che la nostra vita è (sarebbe) ancorata a un Centro. Il nostro Centro ha un suono solenne, come il sax di Jan Garbarek che svaria sulle voci del coro dell’Hilliard Ensemble. Il nostro Centro è come il galleggiante di una lenza. Le acque turbinose lo sbattono di qua e di là, ma non appena le onde si placano, il galleggiante si riposiziona nella sua posizione naturale. In quello che è e che dovrebbe essere il Centro. La vita random può anche andare bene. Ma sarà difficile, in una vita random, ascoltare un giorno il sussurro del Centro che palpita in ognuno di noi.
Fabrizio Falconi
18/04/11
QUANDO PIETRO DOMANDO’: “DOMINE, QUO VADIS?” – UN LUOGO DIMENTICATO.
15/04/11
Restiamo Umani - l'addio a Vittorio Arrigoni.
09/04/11
IN HOC VINCES - Nuovo libro in uscita.
07/04/11
06/04/11
Quel che può fare la poesia ai nostri cuori e ai nostri corpi - Cecco Angiolieri "batte" Dante nel produrre emozioni sui bimbi autistici.
27/03/11
Il discorso del Re - La forza morale di un popolo.
22/03/11
L'enigma millenario del Quadrato Magico.
18/03/11
Tempo di Quaresima: distacco e unione, Jean Guitton.
13/03/11
La poesia della Domenica - Arsenij Tarkovskij, poesie da 'Lo Specchio''
3.
Nei presentimenti non credo,
e i presagi non temo.
Non fuggo la calunnia né il veleno,
non esiste la morte:
immortali siamo tutti, e tutto è immortale.
Non si deve temere la morte,
né a diciassette né a settant'anni.
Esistono solo realtà e luce:
le tenebre e la morte non esistono.
Siamo tutti ormai del mare su la riva,
e io sono tra quelli che traggono le reti,
mentre l'immortalità passa di sghembo.
Se nella casa vivrete,
la casa non crollerà.
Un secolo qualsiasi richiamerò,
e una casa vi costruirò.
Ecco perché, con me, i vostri figli
e le vostre donne siederanno
alla stessa tavola
la stessa per l'avo ed il nipote.
Si compie ora, il futuro.
E se io una mano levo
i suoi cinque raggi rimarranno a voi.
Del passato ogni giorno,
come una fortezza,
io con le spalle ho retto.
Da agrimensore ho misurato il tempo,
e attraversato io l'ho
come gli Urali.
Il mio secolo l'ho scelto a mia misura.
Andavamo a Sud,
sostenendo la polvere della steppa,
il fumo delle erbacce.
Scherzavano i grilli
sfiorando i ferri dei cavalli con le loro antenne,
come monaci profeti di sventura.
Ma il mio destino fissato avevo alla mia sella,
e ancora adesso,
nei tempi futuri,
come un fanciullo sulle staffe
io mi sollevo.
La mia immortalità mi basta,
ché da secolo in secolo scorre
il mio sangue...
Per un angolo sicuro di tepore
darei la vita di mia volontà
qualora la sua cruna alata
non mi svolgesse più,
come un filo,
per le strade del mondo.
Arsenij Tarkovskij (Elisavetgrad,25 giugno 1907 – Mosca, 27 maggio 1989) 'Poesie da 'Lo Specchio'.
02/03/11
Umberto Galimberti e Marco Guzzi - Il più inquietante degli ospiti: il Nichilismo - parte 2.
ecco dunque il secondo capitolo del Dialogo tra Marco Guzzi e Umberto Galimberti.
A partire da QUI potete poi ricostruire tutti gli altri capitoli del confronto, dall'uno - che abbiamo pubblicato ieri - fino al capitolo n.12, conclusivo.
Buon ascolto.
01/03/11
Umberto Galimberti e Marco Guzzi - Il più inquietante degli ospiti: il Nichilismo - parte 1.
27/02/11
Il cielo della Memoria - di Marcel Proust.
Qualcuno l'ha definita la poesia più bella che sia mai stata scritta. E certamente non è così difficile convenirne, nella magnifica traduzione qui sotto.
Tutto cancella il tempo come l’onda cancella
i giochi dei fanciulli sulla sabbia spianata.
Dimenticheremo le vaghe, le precise parole
che schermavano, tutte, un poco d’infinito.
Tutto il tempo cancella, ma non offusca gli occhi,
sia chiari come l’acqua o d’opale o di stella.
Belli come nel cielo o dentro un lapidario,
brilleranno per noi d’un fuoco triste e gaio.
Gli uni, a un vivente scrigno trafugati gioielli,
duri raggi di pietra mi getteranno in cuore,
come quando nella palpebra conflitti, sigillati,
lucevano d’un raro, illusorio splendore.
Ad altri dolci fuochi da Prometeo rapiti
la scintilla d’amore che in esso palpitava
per soave tormento abbiam portato via,
gioie troppo preziose o luci troppo pure.
Il cielo della mia memoria costellate in eterno,
inestinguibili occhi delle donne che ho amate !
Sognate come morti, brillate come glorie,
scintillerà il mio cuore come a maggio la notte.
Simile a una nebbia d’oblio cancella i volti,
i gesti che altra volta adorammo al divino,
che ci resero folli, che ci resero saggi,
grazie di perdizione, e simboli di fede.
Tutto cancella il tempo, le sere confidenti,
le mani ch’io posavo sul suo collo di neve,
i suoi sguardi che l’arpa dei miei nervi sfioravano,
la primavera che su noi scuoteva i suoi turiboli.
Altri occhi, pur essendo d’una donna gioiosa,
al pari dei rimorsi erano vasti e neri,
spavento delle notti, mistero delle sere.
Fra le sue belle ciglia c’era l’anima intera,
e come un gaio sguardo era vano il suo cuore.
Altri, simili al mare così dolce e cangiante,
ci smarrivano all’anima che in essi è prigioniera
come incalza l’ignoto nelle sere marine.
Solcammo, mar degli occhi, i tuoi limpidi flutti.
Gonfiava il desiderio le rattoppate vele;
delle antiche tempeste dimentichi, andavamo
sull’onda degli sguardi a scoprire altri cuori.
Tanti sguardi diversi, così simili i cuori !
Vecchi, delusi ostaggi degli occhi,
dovevamo restarcene a dormire sotto le fronde… Ma anche
sapendo tutto voi vi sareste imbarcati
per avere quegli occhi gravidi di promesse
come un mare che a sera fantastica del sole.
In inutili imprese vi siete prodigati
per giungere al paese del sogno che, vermiglio,
si lamentava d’estasi oltre le acque vere,
sotto la santa arca d’una nube, profeta
crudele. Ma è pur dolce avere per un sogno
queste piaghe, e festoso brilla il vostro ricordo.
Traduzione di Giovanni Raboni - Gallimard, 1982.