05/10/22
Libri: Arriva in Italia "Hitler, la manipolazione, il consenso, il potere"
04/10/22
Keanu Reeves, uno dei più interessanti attori di Hollywood, e l'ombra di Jennifer Syme, la compagna perduta
03/10/22
"Il Maestro e Margherita" vive: anche se la Casa di Bulgakov, ritrovo dei satanisti russi, è stata dipinta di bianco
30/09/22
La Rovina del Gioco (o Ludopatia) - Dostoevskij e Puskin
Interrompere l’illusione, fermarsi in tempo,
ragionare, essere prudenti: virtù sconosciute agli amanti del rischio del
gioco. Sicuri lasciapassare per la rovina.
«Domani,
domani tutto finirà», è il mantra che ripete Aleksej Ivanovic il
giovane precettore protagonista de Il
giocatore (1866). Nel teatro popolato da ludopatici seriali messo in scena da Dostoevskij il domani è
l’opzione, la vera scommessa.
Aristocratici e poveri, inebriati dalla fede
nel dèmone del Caso, credono di poterne cavalcare la soma imbizzarrita. Perdere è oggi. Vincere è domani. C’è un
domani in cui si vincerà, e tutto finirà.
E anche se si vincesse oggi, c’è ancora un altro domani da sfidare.
Il virus è contagioso e quasi mai si
guarisce.
Lo spirito russo, così profondamente
incardinato sull’eterna sfida alla minaccia incombente del Destino e del Caso
aveva già trovato un analogo eroe ne La
dama di picche di Puskin (1834), con l’apparentemente imperturbabile protagonista Hermann, giovane ufficiale che si
sente immune – per pura fede nella volontà, essendone infatti potentemente
attratto – dal vizio del gioco e che finisce per diventarne succube nel modo
più imprevedibile: un commilitone gli rivela infatti che una nobildonna, sua
nonna, conosce il segreto per vincere infallibilmente al gioco delle tre carte
(arcano trasmessole nientemeno che dal Conte di Saint-Germain in persona).
Hermann viene introdotto con il favore della
dama di compagnia nell’appartamento della duchessa, ma questa spaventata
dall’irruzione, dalle insistenze e dalle minacce, muore sul colpo prima di rivelare il mistero.
Sarebbe la salvezza di Hermann, se non fosse
che la rovina si ripresenta sotto forma di sogno prima e di un fantasma poi:
sotto queste sembianze la nobildonna promette al giovane di svelargli la
combinazione vincente – tre, sette e asso – ad una condizione: che esso sposi
la sua prediletta dama di compagnia.
L’ossessione è irresistibile. Hermann vi
soggiace.
Si decide finalmente a vincere la prudenza
del raziocinio e sfida la sorte, ma senza ottemperare alla richiesta del
matrimonio preventivo. E se il sette e il tre si confermano vincenti, al posto
dell’asso, il mazzo sfodera la donna di picche, sotto l’effige della quale si
riconoscono i lineamenti beffardi della vecchia contessa. La rovina ingoia così
anche il povero Hermann, che diventa pazzo.
Tratto da: Fabrizio Falconi, Le Rovine e l'Ombra, Castelvecchi editore, Roma, 2017
29/09/22
Quando furono costruiti i Muraglioni del Tevere ? La disastrosa piena del 1598
La natura alluvionale del Tevere è ben nota dall’antichità, ed ha accompagnato la storia del fiume e della città per molti secoli, a partire dalla sua fondazione, se è vero che scaturisce proprio da una piena del fiume la nascita della leggenda di Romolo e Remo, i due fratelli trasportati da una cesta fino all’argine ai piedi del colle Palatino.
Gli allagamenti del Tevere, dunque, sono testimoniati
dall’età più antica (almeno sin dalla fine del V secolo a.C.) e anche nella Roma
Imperiale la cura del fiume e il problema delle inondazioni, impegnarono non
poco prefetti, consoli e senatori, tutti coloro che dovevano amministrare la
cosa pubblica.
Con una certa regolarità, dunque, più o meno ogni
venticinque anni, con periodi più intensi e altri meno, i disastri provocati da
piene del Tevere furono protagonisti della vita cittadina, aggravati da due
fattori, la minima pendenza dell’alveo del fiume, che in alcuni punti della
città è appena dodici metri più in alto rispetto al livello del mare, e la
costruzione dei ponti, in particolare di Ponte Milvio e di Ponte Sant’Angelo
che hanno creato barriere artificiali al libero scorrimento delle acque.
La memoria storica romana si è dunque formata sul
ricordo di questi eventi eccezionali, che sono testimoniati da lapide e
iscrizioni (le cosiddette manine) su
molti degli edifici del centro storico e che ancora oggi è possibile notare,
per esempio sulla fiancata destra della chiesa di Santa Maria Sopra Minerva.
Perché una piena fosse davvero
eccezionale e particolarmente catastrofica, il livello delle acque, misurato
dagli idrometri, in particolare quello del Porto di Ripetta, doveva superare il
livello di sedici metri. Questo evento,
dall’anno 1000 all’anno 1870 è stato superato ventuno volte, con una
particolare concentrazione nel corso di due secoli e mezzo, dal 1450 al 1700,
quando si sono contate ben tredici delle ventuno piene catastrofiche.
Il Cinquecento fu il secolo più
devastante, con ben cinque piene eccezionali, di cui quattro oltre i diciotto
metri e una, quella della vigilia di Natale, 24 dicembre 1598, che con 19,56 m di altezza
idrometrica a Ripetta, costituisce il massimo storico mai registrato a Roma,
con una portata di circa quattromila metri cubi al secondo.
Questa piena fu davvero qualcosa di
impensabile. In quella occasione, le
acque fuoriuscite dall’alveo del Tevere raggiunsero una altezza di cinque
metri, sommergendo perfino le colonne del Pantheon (il punto del centro di Roma
più basso rispetto al livello del mare) di ben sei metri.
Le lapidi della spaventosa piena del
1598 testimoniano il livello record delle acque del Tevere a Roma sono ancora
ben visibili a Roma, e in particolare come abbiamo detto sulla facciata della
Chiesa della Minerva, vicino al Pantheon, dove è possibile rendersi conto della
altezza che avevano raggiunto le acque e confrontare questo livello con le altre piene (quelle del 1422, 1495,
1530, 1557 e 1870).
Oltre a quella della Minerva, ben 11
lapidi in memoria di quella inondazione sono giunte fino a noi, tra le quali
quella di via S. Maria de’ Calderari quasi alla congiunzione con via Arenula.
I dati sulla piena del 1598, di cui disponiamo, sono molto dettagliati e derivano dalla cronaca dalla cronaca di Jacopo Castiglione, da dove si apprende che il Tevere inondò la città a partire dalle ore 23 circa del giorno 23 dicembre e fino alle ore 10 del giorno 25 dicembre, quando il livello dell’acqua cominciò a calare. L’acqua del Tevere era dunque fuoriuscita dagli argini per trentacinque ore consecutive, seminando il panico tra la popolazione, che non aveva avuto nemmeno il tempo di mettersi al riparo. Le case furono sommerse fino al terzo piano. I morti furono quasi quattromila, il recupero dei corpi avvenne solo parzialmente e con molti giorni di ritardo. Decine, centinaia di corpi furono tumulati in fosse comuni e ricoperti di calce, per scongiurare il rischio altissimo di epidemie.
Il conto dei morti infatti continuò
per molto tempo dopo l’alluvione, a causa delle malattie causate dal ristagno
delle acque, rigurgitate dalle fogne e dell’umidità.
Con un’altezza idrometrica di 19,56 m
a Ripetta, cui corrisponde una portata al colmo di circa 4000 m3/s,
l’inondazione del 1598 divenne dunque -
ed è a tutt’oggi - la maggiore piena del
Tevere conosciuta, a coronamento di un anno veramente eccezionale visto che, come riporta la cronaca del Castiglione, il Tevere era già più volte
uscito dal suo letto (con piene già notevoli il 2 febbraio e il 7 marzo)
allagando la zona dell’attuale lungotevere Marzio, ed uscì nuovamente anche
pochi giorni dopo, il 10 gennaio 1599. Castiglione così commenta: “Quest’anno
del 1598 è stato quasi tutto si humido, che la maggior parte di giugno si passò
con pioggia e freddo, né per questo havemo avuto l’Autunno asciutto. Anzi in
detta stagione non ha mai fatto altro, che piovere quasi continuamente”.
Gli effetti dell’alluvione furono
devastanti anche sulle cose, oltre che sulle persone. La città storica rimase
sotto metri d’acqua per parecchie ore e la corrente impetuosa del fiume fece crollare
due piloni (e quindi tre arcate) del Ponte Senatorio (cioè del cosiddetto Ponte
Rotto) dalla parte della riva sinistra, con il vantaggio che il ponte mai più
ricostruito liberò l'alveo del fiume da un pesante ingombro che durante le
inondazioni si trasformava in una pericolosissima diga.
La situazione cominciò quindi a
migliorare dopo la piena del 1598 anche a causa di ragioni propriamente
tecniche come ad esempio la diminuzione di circa mille chilometri quadrati di
bacino della Val di Chiana che passarono all’Arno; la deviazione dei torrenti
Tresa e Rio Maggiore; la costruzione del ponte Regolatore sul Velino, ultimata
nel 1602.
Per arrivare però ad una risoluzione definitiva delle
alluvioni del Tevere in città, bisognò aspettare fino alla fine dell’Ottocento.
Come un presagio, fu proprio poche settimane dopo la presa di Roma, il 28
dicembre del 1870, che Roma subì una nuova, grande inondazione, con ben 17,22
metri di altezza, la seconda in assoluto più alta dal 1637. Una piena che
avrebbe raggiunto e superato i livelli di quella del 1598 se nel frattempo,
come abbiamo detto, una parte del bacino del fiume non fosse stata deviata sul
corso dell’Arno.
Fu però proprio sulla spinta emotiva di questa nuova
disastrosa piena, che si decise finalmente di mettere mano ai progetti di
difesa degli argini del fiume, che già da diverso tempo giacevano nelle
segreterie parlamentari.
Tra i molti e diversi progetti – ve n’era anche uno
“sponsorizzato” da Giuseppe Garibaldi che prevedeva una monumentale opera di
deviazione del corso delle acque del Tevere e dell’Aniene, per evitare il
tratto cittadino – prevalse quello di rinforzare gli argini del fiume con alti
e poderosi muraglioni in travertino, in grado di resistere ad una piena anche
più alta di quella del 1870.
Tratto da Fabrizio Falconi, Roma Segreta e Misteriosa, Newton Compton editore, Roma, 2015
28/09/22
50 anni di "Solaris" il capolavoro di Tarkovskij che fu interpretato come la risposta russa a "2001 Odissea nello Spazio"
27/09/22
Arriva il nuovo libro di Emmanuel Carrère sul processo del secolo, a Parigi, contro i terroristi del Bataclan
Parigi. V13. Il processo del secolo al terrorismo islamico. V come venerdì, 13 come 13 novembre 2015, il giorno in cui Parigi fu attaccata dal commando jihadista di Salah Abdeslam, l’unico terrorista sopravvissuto di quella notte maledetta: 130 morti e 350 feriti tra il Bataclan, lo Stade de France e alcuni bistrot della capitale.
26/09/22
Una storia veramente misteriosa: L'anello di Grace scomparso e la Biga di Monteleone
25/09/22
La volta che Werner Herzog umiliò crudelmente il giovane Emmanuel Carrère
24/09/22
La vera storia di "Mocha Dick" la Balena Albina che fu l'ispirazione del Moby Dick di Melville
21/09/22
La migliore sorpresa della stagione per quanto riguarda le serie: "Kleo"
20/09/22
La lunga lotta di Vittorio Gassman contro la depressione
E già dal titolo, il romanzo raccontava l'effetto dirompente della depressione, sulla propria visione della vita: che è come si guardasse, appunto, da sottoterra.
Anche il grande Vittorio Gassman, come si sa, è stato per lungo tempo affetto da depressione bipolare, una malattia di cui il celebre attore si decise a parlare anche in pubblico. Gassman raccontò di un periodo durato circa due anni - il più duro della sua malattia - in cui non riusciva più a provare interesse o piacere per alcuna cosa, compresa la sua vita. Anche risvegliarsi era un dramma e neppure la suo famiglia riscuoteva in lui un interesse, motivo per il quale quel periodo coincise con un allontanamento dai suoi figli.
Le parole di Gassman furono forti e profonde, in una Italia che non era ancora abituata a sentir parlare di depressione. La sua, in particolare era chiamata, ed è chiamata, in psichiatria, anedonia. Che comportava per lui anche l'effetto di non riuscire a dimostrare amore e affetto verso le persone che aveva accanto, compresa la sua famiglia. Anche se i suoi familiari, raccontò, avevano continuato sempre a sostenerlo nella lotta contro la malattia, che fu combattuta anche con l’assunzione di psicofarmaci. “La depressione è una brutta bestia. – disse Gassman in una intervista televisiva –Quando tocca l’apice coincide con uno sgomento totale, con l’angoscia e dunque si vorrebbe ad un momento non esserci più. Io credo di non essere portato al suicidio, però molte mattine di quel periodo io mi svegliavo – e me ne sono accorto dopo un po’ – con i muscoli delle gambe e delle braccia che mi dolevano. Poi ho capito che il mio corpo inconsciamente faceva uno sforzo fisico anche per non risvegliarsi, che era un modo dolce, senza intervento cruento, di non esserci più, di cessare questo tipo di sofferenza.
Un lungo incubo, dal quale Gassman non si liberò mai completamente, ma con il quale imparò a convivere, superando la crisi più nera e aprendosi alla guarigione:"Quando stavo per guarire," raccontò, "ho sognato la mia guarigione. Allora mi sono alzato, sono corso in bagno e ho visto che gli occhi erano tornati normali dopo che per due anni li ho avuto che si leggeva il vuoto, che stavo male, e curiosamente proprio mio figlio, che per quel tempo mi aveva evitato, è arrivato in bagno e ha ripreso il suo rapporto con me.”
Fabrizio Falconi - 2022
16/09/22
L'incidente in cui perse la vita Alessandro Momo, che sarebbe diventato un grande attore del cinema italiano
15/09/22
"Federer è una esperienza religiosa": Quando David Foster Wallace celebrò il mito di Federer - il celebre articolo che apparve sul NYT
Ci sono delle volte, quando guardi giocare il giovane tennista svizzero, in cui la mascella scende giù, gli occhi si proiettano in avanti ed emetti suoni che inducono il coniuge nell’altra stanza a venire a vedere se ti è successo qualcosa. Questi Federer Moments sono ancora più intensi se hai abbastanza esperienza diretta di gioco da comprendere l’impossibilità di quanto gli hai appena visto fare.
Tutti possiamo citare qualche esempio. Questo è uno. Finale dello US Open 2005, Federer contro Agassi, siamo all’inizio del quarto set, Federer ha il servizio. C’è uno scambio piuttosto lungo di colpi da fondocampo, con il caratteristico andamento a farfalla del tennis da picchiatori che predomina ai giorni nostri, con Federer e Agassi impegnati ognuno dei due a far correre l’avversario da un lato all’altro del campo, cercando di trovare il colpo vincente… fino a quando, improvvisamente, Agassi tira fuori un potente rovescio incrociato che costringe Federer a decentrarsi alla sua sinistra: ci arriva, in allungamento col rovescio, ma il tiro esce corto e tagliato, mezzo metro oltre la linea di battuta, una di quelle situazioni in cui Agassi va a nozze, e mentre Federer si scalmana per cambiare direzione e recuperare la posizione centrale, Agassi si fa sotto per prendere la palla corta di controbalzo e la scaglia con forza nello stesso angolo di prima, per cercare di prendere Federer in contropiede, e in effetti ci riesce: Federer è ancora vicino all’angolo, ma sta correndo verso il centro, e la palla ora è diretta verso un punto dietro di lui, dove stava appena un attimo fa, e non c’è tempo di girare il corpo, e Agassi segue il colpo scendendo a rete sul rovescio… ed ecco che Federer, non si sa come, riesce a invertire istantaneamente la spinta, arretra di tre o quattro passi quasi saltellando, a velocità impossibile, e colpisce la palla di diritto sul suo lato di rovescio, con tutto il peso spostato all’indietro, e quel diritto è un topspin lungolinea da urlo, e Agassi, sceso a rete, si protende per cercare di intercettarlo, ma la palla lo supera, corre lungo la linea e va a atterrare esattamente sull’angolo destro del campo di Agassi, conquistando il punto, con Federer che ancora sta danzando all’indietro quando la palla tocca terra.
E poi segue quel consueto, breve secondo di silenzio attonito prima che la folla newyorchese esploda, e in tv John McEnroe, con il suo auricolare da commentatore in testa, che dice (più che altro a se stesso, sembra): «Come ha fatto a far punto da quella posizione?». E ha ragione: considerando la posizione di Agassi e la sua straordinaria velocità, Federer doveva indirizzare la palla dentro un corridoio largo cinque centimetri se voleva superarlo, ed è quello che ha fatto, muovendosi all’indietro, senza tempo per preparare il colpo, e senza poter sfruttare il peso del corpo per imprimergli potenza. Era impossibile. Era una roba alla Matrix. Non so che razza di suoni siano usciti dalla mia bocca, ma la mia consorte dice di essere accorsa nella stanza e di aver trovato il divano pieno di popcorn e il sottoscritto in ginocchio, con gli occhi che sembravano quelli finti a palla che si trovano nei negozi di cianfrusaglie.
Questo è un esempio di Federer Moment, ed era solo in tivù, e la verità è che il tennis in tivù sta al tennis dal vivo più o meno come il video porno sta alla realtà percepita dell’amore umano.
Giornalisticamente parlando, non ho notizie succose da offrirvi su Roger Federer. A venticinque anni è il miglior tennista vivente. Forse il migliore di tutti i tempi. Biografie e profili si sprecano. Il programma di informazione della Cbs, 60 Minutes, gli ha dedicato una puntata lo scorso anno. Tutto quello che volete sapere su mister Roger Federer, il suo passato, la sua città natale in Svizzera, Basilea, il modo assennato e disinteressato con cui i genitori hanno sostenuto il suo talento, la sua carriera tennistica giovanile, i suoi iniziali problemi di fragilità e carattere, il suo amato allenatore delle giovanili, la morte accidentale di quell’allenatore, nel 2002, che lo ha al tempo stesso annichilito e temprato e lo ha aiutato a diventare quello che è oggi, i trentanove titoli conquistati finora in singolo nella sua carriera, gli otto titoli del Grande Slam, l’attaccamento, insolito per costanza e maturità, alla sua ragazza, che lo segue nei suoi viaggi (nel circuito maschile è una cosa rara) e gestisce i suoi affari (nel circuito maschile è una cosa mai sentita), il suo stoicismo di altri tempi e la sua solidità mentale e la sua bella sportività e la sua generale, evidente modestia e la sua meditata e filantropica prodigalità: è tutto a portata di Google.
Rimboccatevi le maniche. Il presente articolo vuole descrivere il modo in cui Federer viene sperimentato da uno spettatore, e il contesto in cui ciò avviene. La tesi specifica è la seguente: se non avete mai visto il ragazzo giocare dal vivo, e poi lo andate a vedere, di persona, sul sacro manto erboso di Wimbledon, in mezzo a un caldo letteralmente disidratante, seguito da vento e pioggia come nell’edizione di quest’anno, allora siete il soggetto ideale per sperimentare quella che uno degli autisti dei pulmini riservati alla stampa durante il torneo descrive come «un’esperienza che rasenta lo spirituale».
La bellezza non è l’obbiettivo degli sport di competizione, ma lo sport di alto livello è uno degli ambiti in cui la bellezza umana ha le maggiori probabilità di esprimersi. Il rapporto è più o meno quello che intercorre fra il coraggio e la guerra. La bellezza umana di cui parliamo in questa sede è una bellezza di tipo particolare: la potremmo chiamare bellezza cinetica. La sua forza e il suo fascino sono universali. Non ha niente a che vedere con il sesso o i modelli culturali. Sembra legata, in realtà, alla riconciliazione degli esseri umani con il fatto di avere un corpo.
Naturalmente, negli sport maschili nessuno parla mai di bellezza o di grazia del corpo. Gli uomini possono professare il loro “amore” per lo sport, ma questo amore deve sempre essere casto e rappresentato secondo la simbologia della guerra: eliminazione contro avanzamento, gerarchia del rango e della classifica, ossessione per le statistiche, analisi tecniche, fervore tribale e/o nazionalista, uniformi, masse rumoreggianti, striscioni, gente che si batte il petto, facce dipinte, ecc.
Per ragioni non per tutti evidenti, i codici espressivi della guerra dalla maggior parte di noi sono considerati più sicuri dei codici espressivi dell’amore. Magari la pensate così anche voi, e in questo caso il mesomorfico e marzialissimo spagnolo Rafael Nadal è l’uomo-uomo che fa per voi, con la manica tirata su a mostrare il bicipite e le autoesortazioni in stile teatro Kabuki. E per di più, Nadal è la nemesi di Federer nonché sorpresa dell’anno a Wimbledon, dato che è uno specialista della terra battuta e nessuno si aspettava di vederlo andare più avanti dei primi turni. Mentre Federer, dal primo turno alle semifinali, non ha offerto la minima sorpresa o la minima suspense competitiva. Ha surclassato ogni avversario con tale eclatante superiorità che stampa e televisione si preoccupavano che i suoi match, troppo noiosi, non riuscissero a tener testa al fervore nazionalista dei Mondiali di calcio.
Ma la finale del 9 luglio è il sogno di chiunque. Nadal contro Federer è un replay della finale del Roland Garros del mese prima, vinta da Nadal. Federer, in tutto l’anno, aveva perso appena quattro partite, ma sempre contro Nadal. E si aggiunga che Nadal aveva adattato il suo stile di gioco terragnolo all’erba, avvicinandosi più alla linea di fondo per i tiri da fondocampo, potenziando il servizio e superando la sua allergia alla rete. Al terzo turno, ha praticamente sventrato Agassi. Nella finale di quest’anno va in scena il fascino della vendetta, la dinamica re-contro-regicida, il contrasto stridente fra i caratteri. Il machismo passionale dell’Europa del sud contro la contorta, clinica abilità artistica di quella del nord. Apollo e Dioniso. Scalpello e mannaia. Destrorso e mancino. Numero uno e numero due al mondo. Nadal, l’uomo che ha spinto fino alle estreme conseguenze il tennis moderno tutto potenza e fondocampo, contro un uomo che ha trasfigurato questo tennis medesimo, eccezionale sia per precisione e varietà sia per ritmo e rapidità, ma che può essere incredibilmente vulnerabile, o intimidito, di fronte al primo. Un giornalista sportivo britannico, eccitatissimo insieme ai suoi colleghi in tribuna stampa, ripete due volte: «Sarà una guerra».
La bellezza di un grande atleta è quasi impossibile da descrivere in modo diretto. O da evocare. Il diritto di Federer è una grande frusta liquida, il suo rovescio a una mano può diventare piatto, carico di effetto o tagliato, tagliato con una spinta tale che la palla cambia forma nell’aria e schizza sull’erba ad altezza caviglia. Il suo servizio ha una velocità e un livello di precisione e varietà tale che nessun altro riesce ad avvicinarcisi; quando serve, il suo movimento è sinuoso e diseccentrico, distinguibile (in tivù) solo da un particolare schiocco tipo anguilla che coinvolge tutto il corpo al momento dell’impatto. La sua capacità di anticipazione, il suo senso del campo, sono di un altro pianeta, e il suo gioco di gambe non ha eguali nel mondo del tennis (da bambino, era anche un calciatore prodigio). Tutto questo è vero, eppure niente di tutto ciò spiega veramente qualcosa, niente evoca l’esperienza di guardare quest’uomo che gioca. Di testimoniare, in prima persona, la bellezza e la genialità del suo gioco. Ti devi avvicinare all’essenza estetica per vie indirette, girarci intorno, o come faceva San Tommaso d’Aquino col suo ineffabile soggetto di studio, cercare di definirlo dicendo ciò che non è.
Esistono tre tipi di spiegazioni valide per dar conto dell’ascendente di Federer. Una ha a che fare con il mistero e la metafisica ed è, ritengo, quella che più si avvicina alla realtà. Le altre sono più tecniche e più praticabili per un testo giornalistico. La spiegazione metafisica è che Roger Federer è uno di quei rari, soprannaturali atleti che sembrano essere esentati, almeno in parte, da certe leggi della fisica. Esempi analoghi sono quelli di Michael Jordan, che oltre a riuscire a saltare ad altezze disumane era capace di rimanere sospeso in aria un istante o due di più di quanto consentito dalla forza di gravità, e Muhammad Ali, che riusciva a “galleggiare” sul ring e a mettere a segno due o tre diretti nel tempo necessario per assestarne uno. Dal 1960 a oggi di altri esempi del genere ce n’è forse una mezza dozzina. E Federer appartiene a questa categoria, una categoria che si potrebbe chiamare geni, mutanti o incarnazioni divine. Non è mai in affanno o sbilanciato. La palla che si avvicina rimane sospesa, per lui, una frazione di secondo in più di quanto dovrebbe. I suoi movimenti sono sinuosi, più che atletici. Come Ali, Jordan, Maradona e Wayne Gretzky sembra essere al tempo stesso meno solido e più solido degli uomini che affronta. Specialmente nel completo bianco che Wimbledon ancora ama imporre ai partecipanti, Federer appare quello che forse (secondo me) è: una creatura dal corpo fatto sia di carne sia, in un modo o nell’altro, di luce.
Questa storia della palla che con spirito collaborativo rimane sospesa lì, rallentando, come se fosse suscettibile al volere dell’elvetico: la metafisica sta qui. Qui e nel seguente aneddoto. Dopo la semifinale del 7 luglio in cui Federer ha distrutto Jonas Björkman — non semplicemente battuto, distrutto — e subito prima della rituale conferenza stampa post- partita in cui Björkman, che è amico di Federer, dice di essere contento di «aver avuto un posto in prima fila» per vedere lo svizzero «giocare il tennis più vicino alla perfezione che si possa immaginare», Federer e Björkman chiacchierano e scherzano fra di loro, e lo svedese gli chiede se la palla quel giorno per lui era più grande del solito, visto come aveva giocato, e Federer gli conferma che «era grande quanto una palla da bowling o da basket». Per Federer era solo un modo modesto e scherzoso di consolare Björkman, per confermargli che anche lui era sorpreso dalla qualità del gioco espresso quel giorno; ma è anche una battuta rivelatrice di quello che è il tennis per lui. Immaginate di essere una persona con riflessi, coordinazione e velocità soprannaturali, e di giocare a tennis ad alti livelli. Giocando, non vi sembrerà di possedere dei riflessi e una velocità fuori dal comune; vi sembrerà invece che la palla sia grande, che si muova lentamente e che avete tutto il tempo che volete per colpirla. In altre parole, non proverete niente di simile alla velocità e all’abilità (empiricamente reali) che vi attribuirà il pubblico dal vivo, guardando le palline muoversi a una velocità tale da diventare indistinte masse sibilanti.
La velocità è solo un elemento. Ora passiamo al tecnico. Il tennis spesso è definito un «gioco di centimetri», ma è un luogo comune che prende come punto di riferimento più che altro il punto in cui atterra la pallina. Se il punto di riferimento è il giocatore che colpisce la palla in arrivo, allora il tennis è più correttamente un gioco di micron: cambiamenti tanto sottili da essere quasi inesistenti riguardo al momento dell’impatto, avranno ripercussioni considerevoli sulla direzione e la traiettoria della palla. Lo stesso principio spiega perché la minima imprecisione quando si mira a un bersaglio con un fucile farà sbagliare il tiro, con un bersaglio sufficientemente lontano.
Per illustrare la tesi, rallentiamo il tutto. Immaginate di essere un giocatore di tennis, posizionato appena dietro la linea di fondo sull’angolo destro. L’avversario vi serve una palla sul diritto, voi ruotate in modo che il vostro fianco sia sulla traiettoria della palla in arrivo, e cominciate a portare indietro la racchetta per effettuare la risposta di diritto. Continuate a visualizzare il punto in cui vi trovate quando siete a metà del movimento: la palla ora è all’altezza del fianco più avanzato, a una quindicina di centimetri dal punto di impatto.
Consideriamo alcune delle variabili implicate. Sull’asse verticale, cambiare l’angolo di inclinazione della testa della racchetta di un paio di gradi soltanto produrrà rispettivamente un topspin o un colpo di taglio; mantenendola perpendicolare, verrà fuori un diritto piatto, senza effetto. Orizzontalmente, spostare anche di pochissimo a sinistra o a destra la testa della racchetta, e colpire la palla un millisecondo prima o dopo farà la differenza tra una risposta incrociata e un lungolinea. Ulteriori, piccole modifiche nella curva del movimento del vostro colpo da fondocampo e dell’accompagnamento del colpo contribuiranno a determinare se la palla supererà la rete a una distanza lontana o vicina dal bordo della medesima, e questo, insieme alla velocità del colpo (e a certe caratteristiche dell’effetto che imprimete alla palla) determinerà la profondità della risposta, l’altezza del rimbalzo, ecc. Queste, naturalmente, sono solo le distinzioni di massima: per esempio, c’è la distinzione tra topspin potente e topspin morbido, o quella fra colpo incrociato da un angolo all’altro del campo e colpo incrociato appena accennato, e così via. E poi c’è anche la questione della distanza a cui consenti alla palla di avvicinarsi al tuo corpo, della presa che usi, di quanto pieghi le ginocchia e/o di quanto porti avanti il peso, se sei in grado o meno di guardare la palla e simultaneamente vedere cosa sta facendo il tuo avversario dopo aver servito. Anche tutte queste cose contano. E in più c’è il fatto che non stai mettendo in moto un oggetto statico, stai invertendo la traiettoria e (in varia misura) l’effetto di un proiettile che arriva verso di te, a una velocità, nel caso del tennis professionistico, tale da rendere impossibile un pensiero cosciente. Il servizio di Mario Ancic, ad esempio, spesso viaggia a una velocità intorno ai 210 chilometri orari. Considerando che dalla linea di fondocampo di Ancic alla vostra intercorre una distanza di poco meno di 24 metri, questo significa che il suo servizio impiega 0,41 secondi per arrivare fino a voi. È meno del tempo necessario per battere le ciglia due volte, rapidamente.
La conclusione è che il tennis professionistico comporta intervalli di tempo troppo brevi per agire in modo deliberato. Da un punto di vista temporale, siamo piuttosto nel raggio d’azione dei riflessi, reazioni esclusivamente fisiche, che bypassano il pensiero cosciente. E ciononostante, rispondere a un servizio in modo efficace dipende da un ampio insieme di decisioni e aggiustamenti fisici molto più consapevoli e intenzionali di un battito di ciglia, del sobbalzo che facciamo quando qualcosa ci spaventa, ecc.
Per riuscire a rispondere con efficacia a un servizio potente ci vuole quello che qualcuno chiama “senso cinestetico”, che significa la capacità di controllare il corpo e le sue estensioni artificiali tramite un sistema complesso e molto rapido di compiti. La nostra lingua ha un vasto campionario di termini per descrivere i vari elementi di questa capacità: percezione, tocco, forma, propriocezione, coordinamento, coordinamento occhio-mano, cinestesia, grazia, controllo, riflessi, e via elencando. Per i giovani tennisti promettenti, l’obbiettivo principale dei durissimi programmi di allenamento quotidiani di cui si sente parlare è affinare il senso cinestetico.
Siamo sul 2-1 per Nadal nel secondo set della finale, e lo spagnolo è al servizio. Federer ha vinto il primo set lasciando l’avversario a zero, ma poi ha avuto un leggero calo, come a volte gli succede, e si è trovato subito sotto di un break. Siamo ai vantaggi, è avanti Nadal, un punto con 16 tocchi. Rispetto a Parigi, le battute di Nadal sono molto più veloci, e in questo caso serve centrale. Federer tiene a galla la palla con un diritto morbido alto: può permetterselo perché Nadal non scende mai a rete dopo il servizio. Lo spagnolo effettua un tipico diritto potente in topspin, con palla indirizzata in profondità sul rovescio di Federer; Federer replica con un rovescio in topspin ancora più potente, quasi un colpo da terra battuta. Nadal è preso di sorpresa ed è costretto ad arretrare leggermente e risponde con una palla corta, bassa e tesa, che atterra appena oltre la T della linea di battuta, sul diritto di Federer. Contro qualsiasi altro avversario, più o meno, Federer su una palla del genere potrebbe semplicemente chiudere il punto, ma una delle ragioni per cui Nadal lo mette tanto in difficoltà è che è più veloce degli altri, può arrivare su palle su cui gli altri non arrivano: e quindi Federer in questo caso si limita a incrociare di diritto, piatto e di forza media, cercando, più che il colpo vincente, una palla bassa e non troppo angolata, che costringe Nadal a salire decentrandosi sul lato destro, quello di rovescio per lui. Nadal effettua un rovescio lungolinea in corsa; Federer, sempre di rovescio, restituisce la palla tagliata con un backspin, sulle stessa linea, lenta e fluttuante, costringendo Nadal a tornare nello stesso punto. Nadal rimanda la palla indietro tagliandola — e siamo a tre colpi lungo la stessa linea — e Federer a sua volta gliela rimanda indietro, sempre tagliata e sempre nello stesso punto, questa volta ancora più lenta e più fluttuante, e Nadal pianta i piedi per terra e spara un violento rovescio a due mani in lungolinea sempre sullo stesso lato, è come se ormai lo spagnolo avesse piantato le tende sul suo lato destro: non cerca più di tornare indietro al centro della linea di fondo tra un colpo e l’altro, Federer lo ha come ipnotizzato. Ora lo svizzero tira fuori un rovescio in topspin, profondo e violentissimo, di quelli che fanno sibilare la palla, in un punto leggermente spostato sulla sinistra di Nadal: Nadal ci arriva e spara un diritto incrociato; Federer risponde con un rovescio incrociato ancora più forte e potente sulla linea di fondo, talmente veloce che Nadal deve colpire di diritto all’altezza del piede di appoggio e poi correre verso il centro mentre la palla atterra a mezzo metro circa da Federer, di nuovo sul rovescio. Federer fa un passo avanti e confeziona un altro rovescio incrociato, ma completamente diverso, molto più corto e angolato, un angolo che nessuno avrebbe previsto, e talmente potente e carico di effetto che atterra corto, appena al di qua della linea laterale, schizzando via dopo il rimbalzo, e Nadal non può avanzare per intercettare il tiro e non può arrivarci lateralmente sulla linea di fondo, a causa dell’angolazione e dell’effetto: fine del punto. È un punto spettacolare, un Federer Moment: ma guardandolo dal vivo, ti rendi conto che è anche un punto che Federer ha cominciato a costruire quattro o cinque colpi prima. Tutto quello che è avvenuto dopo quel primo lungolinea tagliato è stato progettato dalla svizzero per abbindolare Nadal, cullarlo e poi spezzargli il ritmo e l’equilibrio aprendosi quell’ultimo, inimmaginabile angolo, un angolo che sarebbe stato impossibile senza un topspin estremo.
Federer non ha niente da invidiare a Lendl e ad Agassi quanto a potenza dei colpi, si solleva da terra quando colpisce ed è capace di colpire da fondocampo con una potenza che nemmeno Nadal. La raffinatezza, il tocco e la classe non sono morti nell’era del tennis dei picchiatori. Perché ora, nel 2006, siamo ancora nell’era del tennis dei picchiatori: e Roger Federer è un picchiatore di prima categoria, uno dei più agguerriti.
Il fatto è semplicemente che lui non è soltanto questo. È anche la sua intelligenza, la sua capacità occulta di anticipare gli eventi, il suo senso del campo, la sua capacità di interpretare e manipolare gli avversari, di mescolare effetto e velocità, di sviare e mascherare, di usare capacità di visione tattica, vista periferica e gamma cinestetica invece della semplice potenza meccanica, e tutto questo ha messo in mostra i limiti, e le possibilità, del tennis maschile così come viene giocato oggi.
Roger Federer sta dimostrando che la velocità e la potenza del tennis professionistico odierno sono semplicemente lo scheletro, non la carne.
Federer, in senso figurato e in senso letterale, ha reincarnato il tennis maschile, e per la prima volta da anni il futuro di questo sport appare imprevedibile.
Federer is a religious experience di David Foster Wallace apparve originariamente in inglese su The New York Times del 20 agosto 2006 e, in traduzione italiana di Fabio Galimberti, su Repubblica del 3 settembre 2006 con il nuovo titolo “Federer il mutante e il segreto del tennis perfetto”.