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23/06/21

"Chadzi-Murat" il capolavoro di Tolstoj sulla Guerra, che stregò Ludwig Wittgenstein


Adesso che l'ho finalmente letto - uno dei pochi Tolstoj che ancora mi mancavano - capisco pienamente perché Ludwig Wittgenstein, ai suoi studenti di Cambridge che partivano per la mattanza della Seconda Guerra Mondiale, raccomandava fortemente la lettura di questo breve romanzo e anche che lo portassero con loro in trincea.

A sua volta, Wittgenstein aveva letto e portato con sè, Chadzi-Murat quando si era arruolato volontario nelle file dell'esercito imperiale austro-ungarico all'indomani dello scoppio del Primo Conflitto Mondiale.

Era stata per lui una lettura fatale.

E se a distanza di 30 anni lo raccomandava alle reclute inglesi (nel frattempo egli si era stabilito a vivere e a insegnare a Londra), era perché aveva toccato con mano la portata dirompente di quel racconto lungo, come un definitivo apologo sulle dinamiche della guerra, di chi la conduce e di chi la vive sul fronte, della sua imbecillità e della sua ambiguità sottile.

Nessuno, meglio di Tolstoj, ha potuto e saputo raccontare la guerra, non solo nei suoi orrori ma anche e soprattutto nella folle ebbrezza che provoca in chi viene mandato al macello (ebrezza che nel caso della Wermacht era amplificata dalla diffusione obbligatoria massiccia delle potentissime metanfetamine che venivano assunte a manciate dai combattenti di ogni ordine e grado).

Tolstoj aveva vissuto in prima linea per anni la guerra in Crimea, conoscendo profondamente quei sentimenti profondi di dissoluzione e esaltazione che rapiscono i soldati mobilitati da un qualche ideale patriottico o semplicemente da primari registri umani come il rancore, la rivincita, la vedetta, l'onore.

Ma in Chadzi-Murat Tolstoj allarga il suo affresco fino alle stanze dei potenti, di coloro che la guerra la decidono, la impongono, la vivono, la giocano come ambizione personale e accrescimento smisurato del proprio potere.

In un lungo capitolo, il XV, Tolstoj descrive il ritratto forse più vero e terribile che sia mai stato scolpito di un tiranno, in questo caso lo zar Nikolaj Pavlovic.

In queste pagine nulla viene risparmiato, tutto viene mostrato: della pochezza umana, della qualità miserabile di questo essere umano che la sorte ha dotato di un potere di vita e di morte immenso. Dei suoi meccanismi psicologici primari, di lui e della ridicola corte di servili parvenu che gli si muove intorno.

Il capitolo XV venne, come è ovvio, interamente cassato dalla censura zarista quando il romanzo fu pubblicato a Mosca nel 1912, due anni dopo la morte di Tolstoj.

Fabrizio Falconi - 2021

15/06/21

I limiti dell'Autofiction e la narrativa contemporanea: un debito di sincerità




Riflettevo, dopo aver letto il Nobel Tokarczuk, sui guai derivanti dalla superfetazione editoriale, che spingendo per la pubblicazione di un numero sempre più spropositato di libri e titoli, mischia alto e basso senza senso, eruttando galassie di autori che brillano per un minuto, come le stelle dell'11 agosto, tornando a confondersi nell'oscurità nel breve volgere di un lampo.

Tutti hanno diritto di pubblicare, per carità, e tutti hanno diritto di stare in scena, di diventare famosi per i 15 minuti che spettano, come ha profetizzato Warhol.

Se tutto però è in scena, tutto è ob-sceno.

Fiorisce il genere dell'autofiction, che i saggi fanno risalire a Marcel Proust.
Credo però che proprio Proust fosse massimamente cosciente del rischio dell'osceno, che è sempre la pornografia.
Esibirsi va bene. Mettere in vendita l'intimità al miglior offerente, e compiacersene, è pornografia.
Cercavo di capire cosa, leggendo Tokarczuk, mi causasse disagio. Non era l'esibirsi, no. Non era nemmeno la ricercatezza colta del suo esibirsi.
No, piuttosto era il 'compiacimento'.
Era quello. Chi racconta di sé, compiacendosene, asseconda l'ego ma difficilmente genera empatia nel lettore. Piuttosto solletica altre reazioni: curiosità, voyeurismo, morbosità.

E' questa la sottile linea di demarcazione tra W.G.Sebald e la Tokarczuk.
E' questo, il vero dolore rivelativo, che distingue Robert M. Pirsig dall'ultimo Carrère e dai suoi tanti imitatori moderni.
E' questione di sincerità. E' questione di tenere a bada l'ego saccente e sfrenato, lo specchio autoriferito dentro il quale ciò che interessa - all'autore - è la propria immagine e il proprio godimento, amplificato dalla pornografia dei lettori che leggono.
Ma come si riconosce la sincerità?
Metodo non c'è.
E' una questione di suoni. E' come quando dentro una orchestra che suona, si avverte, fastidioso, uno strumento che stride, che va per conto suo e segue un'altra via.
Il suono che stride lo si riconosce tra le pagine, e se lo si riconosce, non si è capaci di proseguire senza quel fastidio nelle orecchie - o negli occhi.
Allora si chiude il libro, e si riprendono in mano I racconti di Sebastopoli di Leone Tolstoj.

Fabrizio Falconi - 2021

17/05/21

Libro del Giorno: "I vagabondi" di Olga Tokarczuk



E' un libro ricchissimo e straniante, I Vagabondi, che erroneamente viene definito romanzo. E' vero che questa definizione oggi viene usata come il soffione di un organetto per contenere ogni forma più o meno irregolare di narrazione.

I Vagabondi però, appare fin dall'inizio, una meditazione sul tema del viaggio e del viaggiare, che coinvolge esperienze personali, memorie, informazioni saggistiche, mini racconti che a volte ritornano durante la narrazione, che apparentemente non segue alcun filo logico, se non quello di esplorare la proprietà dell'essere umano - come di ogni essere vivente - di vivere nello svolgersi della condizione temporale, la quale a sua volta si articola sulla dimensione spaziale, dimostrando l'esattezza della formulazione einsteiniana secondo la quale spazio e tempo interagiscono, formando una unica e terza dimensione, influenzando anche la percezione del tempo umano.

Olga Tokarczuk è nata nel 1962 e ha studiato psicologia a Varsavia. Scrittrice e poetessa tra le più acclamate della Polonia, la sua opera è stata tradotta in trenta paesi e in oltre quarantacinque lingue. 
La notorietà delle sue opere e da ultimo il successo de I Vagabondi le ha meritato il Premio Nobel per la Letteratura 2018 “per la sua immaginazione narrativa che con passione enciclopedica rappresenta l’attraversamento dei confini come forma di vita”

Il romanzo I vagabondi (Bompiani, 2019) le è valso anche il Man Booker International Prize 2018 ed è stato finalista al National Book Award. 

La narratrice che ci accoglie all’inizio di questo romanzo confida che fin da piccola, quando osservava lo scorrere dell’Oder, desiderava una cosa sola: essere una barca su quel fiume, essere eterno movimento. 

È questo spirito-guida che ci conduce attraverso le esistenze fluide di uomini e donne fuori dell’ordinario, come la sorella di Chopin, che porta il cuore del musicista da Parigi a Varsavia, per seppellirlo a casa; come l’anatomista olandese scopritore del tendine di Achille che usa il proprio corpo come terreno di ricerca; come Soliman, rapito bambino dalla Nigeria e portato alla corte d’Austria come mascotte, infine, alla morte, impagliato e messo in mostra; e un popolo di nomadi slavi, i bieguni, i vagabondi del titolo, che conducono una vita itinerante, contando sulla gentilezza altrui.

Come tanti affluenti, queste esistenze si raccolgono in una corrente, una prosa che procede secondo un andamento talvolta guizzante, come le rapide, talvolta più lento, come se attraversasse le vaste pianure dell’est, per raccontarci chi siamo stati, chi siamo e forse chi saremo: individui capaci di raccogliere il richiamo al nomadismo che fa parte di noi, ci rende vivi e ci trasforma, perché “il cambiamento è sempre più nobile della stabilità”.


23/03/21

Il genio e la sregolatezza di Goliarda Sapienza

Goliarda Sapienza ai tempi del suo legame con Citto Maselli

Ed eccovi me a quattro, cinque anni in uno spazio fangoso che trascino un pezzo di legno immenso. Non ci sono né alberi né case intorno, solo il sudore per lo sforzo di trascinare quel corpo duro e il bruciore acuto delle palme ferite dal legno. Affondo nel fango sino alle caviglie ma devo tirare, non so perché, ma lo devo fare. Lasciamo questo mio primo ricordo così com’è: non mi va di fare supposizioni o d’inventare. Voglio dirvi quello che è stato senza alterare niente. 

Questo è l’incipit del romanzo L’arte della gioia, di Goliarda Sapienza, nata a Catania nel 1924 da Giuseppe Sapienza e Maria Giudice (la prima donna dirigente della Camera del lavoro di Torino). E forse proprio queste frasi ci possono fare capire il tipo di persona che era Goliarda: vera, sincera e libera. Goliarda cresce in un clima di assoluta libertà. Non ha vincoli sociali. Addirittura non frequenta regolarmente la scuola perché il padre non voleva che la figlia fosse soggetta ad imposizioni fasciste. A sedici anni si iscrive all’accademia nazionale d’arte drammatica di Roma e per un periodo intraprende la carriera teatrale, distinguendosi nei ruoli delle protagoniste pirandelliane. Lavora anche per il cinema, inizialmente spinta da Alessandro Blasetti, poi si limita a piccole apparizioni come in Senso di Luchino Visconti. Sotto la regia di Blasetti nel 1946 recita in Un giorno nella vita e nel 1948 in Fabiola. Nel 1950 recita in Persiane chiuse di Comencini, nel 1951 appare in Altri tempi, nuovamente di Blasetti, mentre nel 1955 ha una parte in Ulisse e in Gli Sbandati di Francesco Maselli. Nel 1970 ha una parte in Lettera aperta ad un giornale della sera sempre di Francesco Maselli e nel 1983 recita sotto la regia di Marguerite Duras in Dialogo di Roma.

Sentimentalmente si lega al regista Citto Maselli, ma qualche anno dopo sposa il copywriter Angelo Maria Pellegrino. Poi lascia il palcoscenico e il cinema per dedicarsi alla carriera di scrittrice. Ma la sua vita è complicata. Verso la fine degli anni Sessanta finisce in carcere per un furto di oggetti in casa di amiche. E sempre dal carcere, ma anche dopo, continua a scrivere pubblicando poche opere, tranne alcune come “Le certezze del dubbio”. Ma il suo capolavoro è “L’arte della gioia”, una sorta di romanzo autobiografico in cui dalla sua penna Goliarda fece un ritratto non solo di se stessa, ma anche della società del tempo e riuscì a trattare argomenti scomodi per il periodo come la libertà sessuale, la politica, la famiglia. Per questo il libro non fu mai pubblicato e va alle stampe postumo nel 2000, riscuotendo prima indifferenza e a distanza di anni enorme successo di critica. Fra le altre sue opere citiamo “Lettera aperta”, “Il filo di mezzogiorno”, “Università di Rebibbia”, “Le certezze del dubbio” e “Destino coatto”.

Ed è proprio a causa del suo romanzo “L’arte della gioia” che Goliarda, nota negli ambienti artistici e culturali romani, attrice, scrittrice, compagna per 17 anni di Francesco Maselli, si riduce in povertà. Nella casa romana di via Denza pende lo sfratto e le viene tagliata anche la luce. E lei ruba a casa della amiche. Un furto per disperazione, lo aveva definito lo scrittore Angelo Pellegrino che ha vissuto con lei per 20 anni e che ha curato la sua opera. Nella prefazione al libro racconta che Goliarda scriveva sempre a mano per sentire l’emozione nel battito del polso, servendosi di una semplice Bic nero-china a punta sottile. “Scriveva – si legge nella prefazione – come leggeva, da lettrice, scriveva per i lettori più puri e lontani, con abbandono lucido e insieme passionale, affettuoso e sensuoso, attenta ai battiti cardiaci di un’opera, più che ai concetti e alle forme”. Goliarda scriveva in solitudine, guardando il mare, di mattina, su fogli extrastrong piegati in due perché il formato ridotto le consentiva una sua idea di misura, dove vergava le parole con una grafia abbastanza minuta, facendo ciascun rigo via via più rientrato sino a ridurlo a una o due parole, allora ricominciava daccapo con un rigo intero e veniva fuori un curioso disegno, una specie di elettrocardiogramma di parole, una scrittura molto cardiaca. E’ così che è definita da Pellegrino nella prefazione de “L’arte della gioia” la scrittura della sua compagna di vita.

Goliarda Sapienza non vedrà mai l’uscita di quel romanzo a cui aveva dedicato tutta se stessa. Pellegrino riesce a farlo pubblicare da Stampa Alternativa, nell’indifferenza totale di tutto il mondo culturale. Per uscire dall’ombra nel suo Paese d’origine, il romanzo deve prima sbarcare in Francia dove è stato tradotto e da dove è partita la popolarità di questa siciliana orgogliosa, tenace, libera e senza pregiudizi. Per mesi il suo romanzo ha dominato le classifiche dei libri più venduti e ha appassionato i critici che lo hanno paragonato a “Il gattopardo” o a “Horcynus Orca”. Nelle edicole c’è anche il romanzetto “L’università di Rebibbia”, nato dalla carcerazione seguita al furto di gioielli nella casa dell’amica romana. “L’ho fatto per rabbia – aveva raccontato all’epoca – per provocazione. Lei era molto ricca, io diventavo sempre più povera. Più diventavo povera più le davo fastidio. Magari mi invitava nei ristoranti più cari, ma mi rifiutava le centomila lire che mi servivano per il mio libro. Le ho rubato i gioielli anche per metterla alla prova, ma ero sicura che mi avrebbe denunciato”. Da questo diario-romanzo emerge la figura di una signora che parla in modo forbito, guardata con sospetto dalle compagne di cella per i suoi vestiti, ma che presto capisce che lì non ha bisogno di fingere, se è borghese, non può nasconderlo. Nella dura e fredda realtà del carcere, Goliarda scopre anche cosa vuol dire solidarietà, calore, amicizia. Tutta la sua esistenza è fuori dall’ordinario, anche per i due tentativi di suicidio, l’elettroshock subito, la cura psicanalitica.

Negli ultimi della sua vita Goliarda Sapienza insegna recitazione presso il Centro sperimentale di cinematografia di Roma. Goliarda è riuscita a dare voce all’emotività senza quel forzato distacco che caratterizza molti degli autori contemporanei. Muore a Gaeta e qui viene seppellita nel 1996, mentre fiori rossi e terra bruna cadono sul suo feretro. Tutti al suo funerale hanno pensato che presto si sarebbe ricominciato a parlare di lei. E così è stato. “Sai come sono fatta – aveva detto ad una conoscente tre giorni prima di morire – è possibile che scompaia per un po’ per poi tornare all’improvviso”. E all’improvviso è scoppiato il caso editoriale del libro a cui ha dedicato parte della sua vita e che non ha mai visto pubblicato.

Chiudiamo questo omaggio con i suoi versi:

Non sapevo che il buio 
non è nero 
Che il giorno non è bianco
Che la luce 
acceca 
E il fermarsi 
è correre 
Ancora 
di più

23/02/21

Un brano di "Porpora e Nero" di Fabrizio Falconi - Il ritrovamento della quarta e ultima traccia



Da Porpora e Nero:

“Ho letto l’articolo di Heckscher che ha allegato alla traduzione, è molto affascinante. Se veramente Bernini per l’elefante ha preso ispirazione dall’Hypnerotomachia Pamphili di Francesco Colonna, vorrebbe dire che sia lui che Kircher si stavano occupando dei simboli dei Rosacroce”. 
Per l’occasione si era scomodato anche Meister. Laura lo aveva seduto di fianco, nel sedile posteriore dell’ammiraglia scura che li stava portando a destinazione.
“Sì è una ipotesi interessante”, rispose freddamente Laura senza staccare gli occhi dalla strada.
“È il testo che chiamano Poliphilo?”
“Proprio quello”.
“È molto famoso, ho consultato una copia tempo fa. È un testo pieno di suggestioni. Ma non avevo mai pensato all’episodio di Poliphilo che si addormenta in una valle e sogna un elefante con un obelisco sul dorso. È impressionante la somiglianza con quello di Bernini”.
“Sì, ma non sapremo mai come siano andate le cose”.
“Bonnard cosa dice?” chiese Meister toccando la spalla all’autista per fargli segno di accostare. Laura fissava le sue mani, che sembravano quelle di un adolescente, allungate e prive di peli.
“Non so, credo che propenda per l’ipotesi romana. L’ipotesi che Bernini sia stato influenzato dal vero elefante regalato dal re del Portogallo, inviato quasi un secolo prima in regalo a Leone X”.
“Sì, Annone, l’elefante bianco”.
Laura si sentiva inquieta per la presenza di Meister, e anche se egli continuava a mostrargli il suo lato erudito e socievole, sperava che la mattinata insieme finisse quanto prima.
“La sapienza dell’istinto e della natura che sorregge quella degli uomini”, continuò Meister con fervore. La macchina si era fermata davanti all’albergo Bologna, ed erano ormai a pochi passi dalla Minerva.
“Aspetti un secondo. I nostri uomini stanno bonificando la zona”.
Laura lo guardò interdetta:
“Bonificando?”.
“Sì, stavolta non ci faremo sorprendere. Abbiamo creato una specie di cordone, a protezione di eventuali intrusi. Non vogliamo tra i piedi nessuno”.
Dopo una breve attesa, comparve vicino al finestrino il faccione di Montenegro. Sollevò il pollice nell’aria e si allontanò a piedi in direzione della piazza. Meister fece cenno a Laura di scendere
e insieme si incamminarono verso l’obelisco della Minerva.
La piazza era semideserta, alle otto del mattino. Uno spazzatore automatico puliva la strada all’angolo di fronte al lussuoso albergo. La luce fredda dell’inverno conferiva un aspetto metafisico al piccolo obelisco eretto davanti alla immensa bianca facciata della Chiesa della Minerva.
Avvicinandosi, Laura notò un paio di persone vestite di scuro agli angoli opposti della piazza, che dovevano essere gli scagnozzi di Meister. Montenegro si era fermato sui gradini della chiesa, guardandosi intorno. 
“Facciamo presto”, intimò Meister nervoso. 
Lasciò che fosse Laura, per prima a salire sui tre gradini
del piedistallo. Sorreggendosi con una mano alla base, Laura scrutò al di sotto della gualdrappa che ricadeva di fianco all’elefante. 
Allungò una mano tra le zampe dell’animale scolpito, prima da una parte poi dall’altra mentre Meister la osservava in silenzio. Finalmente sentì tra le dita quello che cercava: un foglietto ripiegato in quattro. Laura fece un cenno a Meister, estrasse la mano e subito la infilò nella tasca del cappotto
come lui le aveva chiesto di fare. Partì un cenno a Montenegro. Il quale a sua volta lo ripeté ai due uomini di guardia agli estremi della piazza. Tutti rimasero al loro posto, mentre Laura e Meister tornarono verso la macchina. 
Quando l’autista mise in moto e guidò lungo via Santa Caterina da Siena e il Collegio Romano, Meister chiese a Laura di consegnargli il biglietto, e lo aprì ansiosamente sotto i suoi occhi: stavolta c’era una fotografia in bianco e nero: la riproduzione di un geroglifico egizio e al di sotto una piccola scritta, nella stessa calligrafia dei biglietti precedenti:



Prima monas
Considera la mano sinistra

Meister rimase ad osservare l'immagine a lungo, poi alzò lo sguardo trionfante su Laura: “Non abbiamo lavorato invano!”

07/02/21

Libro del Giorno: "La casa di Parigi" di Elizabeth Bowen

 


Pubblcato anni fa in una versione tagliata dalla casa editrice Essedue, “La casa di Parigi”  è tornato in libreria pubblicato da Sonzogno nella collana diretta da Irene Bignardi e in  versione integrale, tradotto da Alessandra di Luzio accompagnato da una postfazione di Leonetta Bentivoglio.

Da molti considerato il capolavoro di Elizabeth Bowen (1899-1973) una delle più raffinate e importanti scrittrici del novecento anglosassone, irlandese che visse molto a Londra, affiliandosi al celebre circolo di Bloomsbury, profondamente ammirata da Virginia Woolf, "La casa di Parigi" è un romanzo vischioso, che avvolge come un incantesimo e conduce il lettore attraverso un misterioso viaggio nella psicologia e nei destini di pochi personaggi.

Siamo a Parigi, in inverno, la Grande guerra è finita da poco, aleggia sulla città un'atmosfera cupa e grigia. Alla Gare du Nord scende Henrietta, undici anni, con in mano la sua scimmietta di pezza. Viene a prenderla la signorina Fisher, un'amica di famiglia che la ospiterà per una intera giornata in un elegante appartamento, in attesa di farla ripartire per il Sud della Francia. 

In quella casa borghese, dal confortevole odore di pulito, Henrietta si imbatte in una gradita sorpresa: c'è un suo coetaneo, il fragile Leopold, avviato verso un futuro incerto. 

Tra i due bambini, estremamente sensibili e inquieti, dopo l'iniziale diffidenza, si accende la curiosità: di ciascuno nei confronti dell'altro, e di entrambi verso il misterioso mondo degli adulti. 

I due fanciulli, grazie agli indizi disseminati attorno a loro, rivivono, tra immaginazione e realtà, le tormentate storie d'amore dei grandi, in particolare quella scandalosa tra la madre di Leopold e il suo padre naturale. 

Acclamato come un classico al momento della pubblicazione (1935), "La casa di Parigi", oltre a mettere in scena una passione sentimentale, è un acuto studio psicologico e un esercizio di finezza letteraria sulla prima irruzione del dolore, sulla scoperta del sesso, sulla perdita dell'innocenza e sull'intrico delle conseguenze e del danno. 

Un romanzo importante, dalla cadenza solenne e dalla prosa jamesiana che desta ammirazione per la profondità psicologica e la capacità descrittiva, dei paesaggi naturali e umani.

Elizabeth Bowen

La Casa di Parigi

Sonzogno, Venezia 2016

Traduzione di Alessandra Di Luzio

Postfazione di Leonetta Bentivoglio

286 pagine, Euro 15

06/11/20

La Regina degli Scacchi, una bella serie tv. Ma il romanzo è un'altra cosa.

 



La Regina degli Scacchi (The Queen's Gambit è il titolo originario anche del romanzo, cioè "Il gambetto della Regina", che è una celebre mossa del gioco degli scacchi), è la nuova serie Netflix che sta spopolando un po' in tutto l'occidente e anche in Italia, come successe un anno fa per Unhortodox, non a caso anche quella una storia tutta al femminile, di sottomissione e di riscatto. 

La serie, va detto subito, è un ottimo prodotto, in sette lunghe puntate (ciascuna più di un'ora), con straordinarie ricostruzione di interni, costumi (la storia è ambientata negli anni '60 negli USA) e ambienti, con una colonna sonora ottima (Carlos Rafael Rivera) e una interprete brava e adatta (Anya Taylor-Joy) nel ruolo di Beth Harmon, la ragazzina prodigio che scala le vette più alte della scacchistica nazionale e internazionale. 

Ciò che però stona, nella serie, è la profonda differenza rispetto allo straordinario romanzo da cui è tratta, scritto da Walter Tevis nel 1983. 

Il personaggio di Beth, nella serie, è trasformato in salsa glamour (vestiti elegantissimi, fascino, sicurezza, autocontrollo), completamente diverso dal personaggio immaginato da Tevis.   Per ovvie ragioni di appetibilità televisiva anche le competizioni, cioè le partite sono rese in modo del tutto inverosimile - con le mosse che vengono compiute dai giocatori praticamente in automatico, senza pensare nemmeno un decimo di secondo, quando chiunque sa che ogni mossa delle competizioni di alto livello è meditata a lungo - o a lunghissimo - e le partite durano ore intere - a volte giornate - proprio per questo.

Ma torniamo al romanzo.

The Queen's Gambit è considerato il capolavoro di Walter Tevis, morto l'anno seguente, e il suo penultimo romanzo. 

Autore raffinato e appartato Tevis ha scritto una raccolta di racconti e sei romanzi, i quali hanno avuto molta fortuna, con celebri adattamenti cinematografici, come quelli tratti da L'uomo che cadde sulla Terra, scritto nel 1963 e portato sullo schermo da Nicholas Roeg (con Bowie protagonista), Lo spaccone (1959), diventato un classico del cinema con Paul Newman protagonista e Il colore dei soldi (1984), il suo ultimo romanzo, trasposto al cinema da Martin Scorsese, ancora con Newman protagonista e il giovanissimo Tom Cruise. 

La Regina degli Scacchi però, merita un posto a parte. 

Si tratta di un romanzo perfetto, che ha come protagonista l'orfana Beth Harmon e ne segue passo passo le vicende dalle stanze dell'oscuro orfanotrofio cattolico nel quale viene accolta dopo la morte dei genitori, fino ai palcoscenici più esclusivi del gioco degli scacchi, nel quale si dimostra precocemente un puro genio.

Beth inizia a giocare quasi per caso, quando scopre nello scantinato della scuola, il vecchio e burbero custode giocare da solo davanti alla scacchiera al lume di una fioca lampada.

Come avviene per i colpi di fulmine della psiche descritti da James Hillman ne Il codice dell'anima, Beth si sente risucchiata da quello strano oggetto - la scacchiera - e dalla dinamica misteriosa del gioco. Impara in breve tempo, in breve tempo il suo cervello comincia a concentrarsi unicamente su quello. Riesce a battere in poco tempo il suo maestro, poi vola rapidamente sempre più alto, imparando da un manuale trafugato i rudimenti del millenario gioco.

Una volta adottata dalla stramba signora Withley e dal suo pessimo marito, Beth comincia a giocare ad alto livello: torneo dopo torneo, anche i media cominciano ad accorgersi di lei e negli anni '60-'70 in cui il libro è ambientato, Beth finisce addirittura per diventare - a soli sedici anni - l'orgoglio della nazione americana che ha finalmente un grande maestro da opporre agli invincibili dominatori sovietici.

Il pregio di questo meraviglioso libro è soprattutto nello stile e nella narrazione trasparente, sospesa ed essenziale che ricorda un altro capolavoro coevo, Stoner di  John Williams, da poco riscoperto e diventato un caso editoriale mondiale.

Non ha cadute, non ha pause, e tutto procede come un treno senza fermate fino alla fine. Beth è un commovente, vivo personaggio, che resta nel cuore di ogni lettore. Tevis riesce a mantenersi così neutro da evitare ogni smaccata empatia, ogni partecipazione eccessiva con il suo personaggio, che vive di vita propria e non ha bisogno di nessuna sovrastruttura, di nessuna costruzione narrativa.

Così anche il lettore è costretto ad osservarla, senza "tifare": per molte e molte pagine il lettore non sa anzi se sperare che Beth vinca o perda. E' chiaro che vincere per lei, e vincere fino alla fine, trionfando nella partita finale contro il campione del mondo russo Borgov sarebbe l'apoteosi di un riscatto esistenziale. Ma dietro questo successo si nascondono anche molte ombre e gli scacchi - come l'insegnamento universitario per Stoner - sono anche un modo per Beth per eludere la vita, per non affrontarla veramente, per attenuarne le feroci sofferenze.

Il fatto però che la ragazza sopravviva così strenuamente alla autodistruzione è plausibile e catartico.  E' una lezione anzi, che oggi sembra più che mai importante.

Anche i personaggi di contorno sono fenomenali: l'amica di orfanotrofio Jolene, la madre adottiva, così fragile e vera, la signora Withley,  il Signor Schaibel, il custode, e lo stesso Benny, ragazzo prodigio come Beth e come lui autisticamente isolato dal mondo.

Un romanzo veramente perfetto dunque, praticamente impossibile da trasporre nella fiction senza tradirne il nucleo originario: 

nella serie in particolare si è deciso di omettere quasi del tutto il cupio dissolvi della protagonista che, in particolare dopo la morte della matrigna, la avviluppa in una angosciosa autodistruzione e che nel romanzo occupa più della metà delle pagine, mentre nella serie è relegata appena ai margini.  

Si perde inoltre tutta la voce interiore che caratterizza il libro, la voce di Beth, il travaglio psicologico, la sofferenza, che è la grandezza del romanzo. 

E' ovvio che probabilmente non poteva essere diversamente da così, in una serie tv pensata per il grande pubblico onnivoro. 

Sarebbe però un bel successo se la serie televisiva riaccendesse l'interesse e la curiosità su questo libro e su questo autore, che meriterebbero davvero di essere conosciuti e letti in misura molto maggiore di quanto accade oggi.

Fabrizio Falconi - 2020  






06/08/20

Cosa è l'amore di una madre. (da Romain Gary)


Soltanto quando raggiunsi la quarantina cominciai a capirlo. Non è bene essere tanto amati, così giovani, così presto.

Ci vengono delle cattive abitudini. Si crede che ci sia dovuto. Si crede che un amore simile esista anche altrove e che si possa ritrovare. Ci si fa affidamento. Si guarda, si spera, si aspetta. 

Con l'amore materno la vita ci fa all'alba una promessa che non manterrà mai. 

In seguito si è costretti a mangiare gli avanzi, fino alla fine. Ogni volta che una donna ci prende tra le braccia e ci stringe al cuore, si tratta solo di condoglianze. Si ritorna sempre a guaire sulla tomba della propria madre come un cane abbandonato.  

Mai più, mai più, mai più.  Braccia adorabili si chiudono intorno al nostro collo e labbra dolcissime ci parlano d'amore, ma noi sappiamo già tutto. Noi siamo stati alla sorgente troppo presto e abbiamo bevuto tutto. 

Quando ci riprende la sete, si ha un bel cercare da ogni parte: non ci sono più pozzi, ma solo miraggi. Abbiamo fatto, alla prima luce dell'alba, uno studio approfondito dell'amore e ci siamo documentati troppo bene.

Dovunque andremo, porteremo con noi il veleno dei confronti; e passiamo il tempo aspettando ciò che abbiamo già avuto. 

Non dico che dobbiamo impedire alle madri di voler bene ai loro piccoli. Dico semplicemente che sarebbe bene avessero qualcun altro, oltre i figli, a cui voler bene. Se mia madre avesse avuto un amante non avrei passato la vita a morir di sete dietro ogni fontana. Disgraziatamente per me, io so distinguere i veri diamanti. 

Romain Gary, da La promessa dell'alba 


05/08/20

Libro del Giorno: "Parlarne tra amici" di Sally Rooney




E' diventata subito un fenomeno letterario Sally Rooney (classe 1991), irlandese laureata al prestigioso Trinity College di Dublino e lanciata dal suo editore con l'eloquente slogan di: "la Salinger della generazione Snapchat". 

Parlarne tra amici (Conversations with Friends) è il suo primo libro, l'esordio, avvenuto nel 2017, bissato l'anno seguente da Persone Normali (Normal People, anche questo pubblicato in Italia da Einaudi), nel 2018, che ha vinto il Costa Book Award, e soprattutto è stato trasformato in una splendida serie televisiva (titolo omonimo), che nei paesi anglosassoni ha messo d'accordo tutti ed è ancora poco vista in Italia. 

Rooney scrive - nei due romanzi che ha scritto finora - di cose che conosce bene. Quasi tutti i personaggi del primo e del secondo libro orbitano nel mondo dell'università dublinese, tra aspirazioni artistico-letterarie e famiglie disfunzionali di provenienza; tra relazioni fluide che non si stringono mai del tutto, espiazioni personali, equivoci, comunicazioni frammentate che avvengono attraverso mail e messaggi what's app, feste piuttosto banali, conversazioni sui massimi e minimi sistemi, e soprattutto il rito del bere, in compagnia o da soli, bere molto. 

Ma mentre in Normal People i protagonisti sono soltanto due, i poco più ventenni Marianne (alto borghese e sfigata perché strana) e Connell (orfano di padre, di famiglia umile), che si amano moltissimo, lasciandosi e riprendendosi e ancora lasciandosi,  in Conversations with Friends i protagonisti sono quattro, due coppie: le studentesse Frances e Bobbi (che formavano una coppia lesbica ma si sono lasciate, pur continuando a costituire un connubio artistico - Frances scrive testi poetici e Bobbi le interpreta su palchi di ritrovi universitari) e Melissa e Nick, più grandi di loro di dieci o quindici anni:  Melissa è una fotografa e pubblica libri, Nick è un attore trentaduenne, bello e fallito e con problemi psicologici. I due sono sposati da parecchi anni. 

La vicenda si innesca quando Melissa contatta le due ragazze per realizzare un servizio delle loro performances. Frances e Bobbi si ritrovano a frequentare la casa sua e di Nick, con le feste alcoliche e borghesi, a conoscere i loro amici, ad accettare i loro inviti nella villa in Francia, a confrontarsi in lunghe conversazioni durante i pasti, in cui si parla di anarchia, della persecuzione dei neri in America, del capitalismo, delle malefatte della finanza globale. 

Accade così che Frances si innamora di Nick (che fra l'altro è il primo uomo che si sia mai portato a letto) e Bobbi si scopre infatuata di Melissa alla quale sottopone timide avances

Il focus della narrazione si stringe sempre più intorno a Frances (che rassomiglia in modo notevole alla Marianne di Normal People, ne è anzi per molti versi la controfigura e probabile controfigura della stessa autrice, Sally Rooney): intorno alle sue nevrosi, ai suoi istinti di autolesionismo (che ritornano in tutto il romanzo e sono anch'essi comuni alla Marianne dell'altro romanzo), alla sua afasia, alla sua scoperta del sesso, alla sua ipocondria che si manifesta poi in veri disturbi psicosomatici e non. 

Qui però, al contrario di Normal People, che ha uno sviluppo più lineare e coerente, la vicenda comincia ad aggrovigliarsi intorno all'inconcludenza dei vari personaggi, che dicono tutto e il contrario di tutto, e fanno tutto e il contrario di tutto: si capisce fin troppo l'intento della Rooney, di descrivere senza enfasi e con apparente freddezza, la confusione contemporanea, l'analfabetismo sentimentale, l'allergia a ogni tipo di responsabilità, la fluttuazione come sistema di vita, l'insoddisfazione e l'inconcludenza come unico orizzonte possibile. 

Nick, l'unico maschio dei quattro protagonisti, è l'emblema di questa palude: indeciso a tutto, si lascia guidare dalla sua passività-remissiva, limitandosi ad assecondare le richieste - sessuali, sentimentali, decisionali, minime - che gli vengono formulate. 

Nessuno dei quattro personaggi suscita l'empatia del lettore (in Normal People era impossibile invece non averne per l'onesto e fragile Connell e anche per la volubile Marianne), e con il passare delle pagine, si finisce per avvertire l'inautentico di questa narrazione e un fastidioso senso di compiacimento dell'autrice per i suoi personaggi, perduti in questo confortevole cupio dissolvi che non è mai definitivo e sempre rimandabile. 

Insomma, c'è la sensazione che il successo della Rooney di questo primo romanzo sia dovuto più che altro alla immedesimazione da parte dei molti lettori nelle fragilità emotive dei personaggi e sopratutto di Frances, piuttosto che all'indubbio talento della scrittrice.  

Le cose sono andate meglio con il secondo romanzo e soprattutto con la miracolosa messa in scena della serie televisiva tratta da Normal People, che ha potuto avvalersi di due giovanissimi interpreti veramente straordinario che hanno saputo dare faccia, corpo e sincerità a una storia di formazione intensa e dolorosa. 


Fabrizio Falconi 

28/07/20

Libro del Giorno: "Padri e figli" di Ivan Turgenev





Padri e Figli, (in russo Отцы и дети) fu pubblicato nel 1862 da Ivan Turgenev che nel romanzo affronta l'emersione della mentalità rivoluzionaria nella Russia della seconda metà del XIX secolo e la conseguente crescente protesta contro il regime in atto e la mentalità conservatrice della società del tempo. 

Il titolo evoca quindi la nuova relazione della giovane generazione con quella dei suoi padri, la prima animata da ideali sovversivi e rivolta al progresso sociopolitico.

Il romanzo fu pubblicato per la prima volta in Le Messager Russe nel 1862. E fu proprio Turgenev il primo a rendere popolare il termine nichilismo, con il romanzo che suscitò accese polemiche nella Russia di Alessandro II, al punto che l'autore lavorò nel corso degli anni a sei nuove edizioni del suo capolavoro: nel 1862, 1865, 1869, 1874, 1880 e 1883. 

La storia si svolge attorno a un conflitto ideologico tra generazioni. 

Il romanzo inizia il 20 maggio 1859, quando Nikolaij Petrovic Kirsanov accoglie suo figlio Arcadij tornato dall'università,accompagnato dal personaggio centrale del romanzo, Evgenij Vassiliev Bazarov, che conosce e professa idee materialiste e anti-tradizionaliste. 

Nikolaij Petrovic vive con suo fratello Pavel, un personaggio dal carattere malinconico e orgoglioso e meno liberale di suo fratello. Nikolaj cerca di aprirsi alle idee moderne e vive pacificamente nel suo dominio terriero. 

Vedovo, la sua padrona è Fenecka, uno dei suoi contadini, di cui è il padre del bambino. 

Dopo un'accesa discussione con lo zio Pavel, i due giovani preferiscono andare in città con i genitori di Bazarov, che incarnano invece valori tradizionali della Russia. 

Incontrano Anna Sergeevna, una ricca vedova di 29 anni, che li invita a farle visita nella sua tenuta dove vive anche la sua giovane sorella Katja, piuttosto ritirata. 

Evgenij si innamora contro ogni sua previsione, di Anna e, nonostante i suoi principi rivoluzionari, dichiara il suo amore per lei, il che sconcerta la giovane donna. 

Arkadij, nel frattempo, si sente attratto da Katia. 

I due studenti tornano quindi dai genitori di Bazarov e poi nuovamente da Nicolaij Petrovic, dove si impegnano in nuove discussioni ed Evgenij in nuovi esperimenti scientifici. 

E' qui che una discussione con lo zio Pavel degenera in un duello tra i due uomini. Pavel viene colpito alla gamba. Arkadj dichiara il suo amore a Katia. 

La fine del romanzo è tragica e coinvolge Evgenij mentre gli altri personaggi vanno poi verso il loro destino: Arcadij sposa Katia, Pavel si traferisce all'estero, in Germania, Anna Sergeevna si sposa a Mosca. 

Un romanzo straordinario e perfetto, dove ogni pagina è una lezione di letteratura. 

Traduzione di Giuseppe Pochettino
Introduzione a cura di Franco Cordelli
2014 
ET Classici 
pp. 264 
€ 10,50 
ISBN 9788806224134

    18/05/20

    Libro del Giorno: "Anima" di Natsume Sōseki



    Poco conosciuto e poco ristampato in Italia, Natsume Sōseki (pseudonimo di Kinnosuke Natsume) è un autore interessantissimo e moderno, sia per stile che per filosofia e contenuti. 

    Il cuore delle cose, talvolta tradotto (e in Italia tradotto magnificamente da SE) come Anima  è uno dei suoi romanzi più famosi, pubblicato per la prima volta in Giappone nel 1914.

    Sōseki è interessante anche per la sua vicenda umana: nato a Edo nel 1867 studiò all'Università Imperiale di Tokyo, diventa insegnante, poi vince una borsa di studio e si trasferisce a Londra nel 1900.  L'esperienza a Londra, che gli permette di avvicinarsi a concetti propri della cultura occidentale e a comprendere diversi aspetti di quella inglese, coincide con uno dei periodi più difficili della sua vita: a causa della solitudine, soffrirà di esaurimento nervoso e problemi psicofisici

    Torna il Giappone nel 1903, e scrive la sua prima opera di narrativa, Io sono un gatto, che ha un successo immediato. Seguiranno altre fortunate opere, il cui successo non risolve i problemi nervosi dello scrittore: di crisi in crisi muore nel 1916 a soli 49 anni. 

    Anima è per certi versi la sua opera capitale e la più autobiografica: il romanzo è diviso in tre sezioni dal titolo "Il maestro e io", "I miei genitori e io" e "Il maestro e il suo testamento morale".

    Le prime due sezioni sono narrate in prima persona dall'allievo (del quale, analogamente al maestro, non si conosce il nome), mentre l'ultima sezione è narrata in prima persona dal maestro, in quanto è costituita dal suo testamento morale.

    Il romanzo narra del rapporto tra un giovane studente e un maestro, conosciuto fortuitamente a Kamakura, il quale vive in una condizione di totale isolamento dal mondo nella sua residenza a Tōkyō. 

    Nonostante l'iniziale distacco del maestro, lo studente piano piano riesce ad avvicinarsi a questa figura enigmatica, che non ama parlare molto di sé e che nelle frequenti discussioni con il ragazzo lascia intendere di aver trascorso un passato drammatico, senza però approfondirne i particolari.

    Il maestro vive a Tōkyō in condizioni modeste, in compagnia della moglie e di una domestica.

    Durante le sue visite, il ragazzo ha modo di conoscere anche la moglie del maestro, molto devota al marito, la quale però non crede di suscitare in lui un analogo sentimento, per il pessimismo del maestro nei confronti del genere umano.

    Sono numerose questioni che rimangono aperte (tra cui di chi sia la tomba che il maestro va spesso a visitare e cosa sia successo in passato per giustificare un atteggiamento simile) quando il giovane studente deve ritornare al paese natale perché il padre è in gravi condizioni di salute.

    Quando si trova lì riceve una lettera dal maestro che l'allievo legge in treno, precipitandosi a tornare dal maestro che forse è in pericolo: il lungo testamento morale che il maestro ha scritto infatti, contiene il racconto del suo passato, dando risposta ai molti dubbi seminati nella prima parte.

    Di sorpresa in sorpresa si giunge senza poter interrompere la lettura, alla fine del racconto.

    Stilisticamente impeccabile, decisivo nei temi che affronta. Quello che oggi si definirebbe un "romanzo psicologico", che svela gli intralci dell'anima, la battaglia contro le proprie scelte morali, le tentazioni, le debolezze, le fragilità, il confronto con il mistero della morte.

    Natsume Soseki 
    Anima 
    Traduzione di N. Spadavecchia 
    Editore: SE Collana: Testi e documenti 
    Anno edizione: 2015 
    Pagine: 224 
    EAN: 9788867231775

    07/05/20

    Libro del Giorno: "La maschera di Dimitrios" di Eric Ambler



    Eric Clifford Ambler, nato a Londra nel 1909 e morto sempre a Londra nel 1998, è stato un geniale  scrittore e sceneggiatore britannico, autore di alcune fra le più famose spy story della letteratura gialla. Tentò la fortuna anche a Hollywood, dopo la seconda guerra mondiale, in cui servì nella truppe inglesi per sei anni occupandosi di riprese sui luoghi di battaglia. 

    Ma visto che l'esperienza americana non fu esaltante, tornò in Europa nel 1958 a scrivere romanzi, sempre di ambientazione spionistica o thriller, genere di cui fu il nobilitatore insieme a Graham Greene e William Somerset Maugham.

    La maschera di Dimitrios è uno dei suo gialli migliori, dalla trama intricata e ricca di suspence

    L'azione ha inizio a Istanbul, intorno alla metà degli anni Trenta. Nel corso di un ricevimento Charles Latimer, giallista inglese di successo, viene avvicinato dal più imprevedibile degli ammiratori, il colonnello Haki – alto ufficiale dei servizi segreti e scrittore di suspense alle prime armi. La trama che il colonnello sottopone a Latimer, e che vorrebbe che quest’ultimo sviluppasse in proprio, è rozza, fiacca, artificiosa.

    Ma poi Haki allude alla vicenda «scombinata, non artistica», priva di «moventi occulti» di Dimitrios Makropoulos, il più grande criminale europeo di quegli anni, coinvolto in ogni delitto compreso fra il traffico di eroina e l’assassinio politico.

    E così, da alcuni indizi contraddittori disseminati in una conversazione apparentemente casuale, ha inizio l’inquietante «esperimento investigativo» di Latimer, che inseguirà le tracce di Dimitrios fra le rive dell’Egeo, i quartieri turchi di Sofia e i boulevard di Parigi, trasformandosi via via da elegante, distaccato scrutatore di fatti in protagonista di un romanzo a tinte forti.

    Perfetta fusione di suspense e atmosfera, sottile analisi del funzionamento di ogni investigazione – letteraria o poliziesca che sia –, questo libro, per molti il primo a essere evocato quando si parla di Ambler, è anche lo straordinario documento di un’epoca in cui la civiltà e la mente dell’uomo europeo non potevano non vedersi riflesse in uno specchio oscuro, inafferrabile e sinistro: i Balcani.

    La maschera di Dimitrios è stato pubblicato per la prima volta nel 1939.


    Eric Ambler
    La maschera di Dimitrios
    Traduzione di Franco Salvatorelli
    Adelphi, 2000
    pag. 9.30 euro

    17/04/20

    Libro del Giorno: "Denti Bianchi" di Zadie Smith


    Ogni tanto fa bene misurarsi con il talento allo stato puro. 

    Fa parecchia impressione il fatto che Zadie Smith, nome d'arte di Sadie Adeline Smith, nata a Brent, quartiere nord-ovest di Londra (un'area multiculturale abitata prevalentemente dalla classe operaia) nel 1975 da padre inglese e da madre giamaicana, emigrata in Gran Bretagna nel 1969, ha scritto questo densissimo, articolatissimo romanzo, il suo romanzo d'esordio - 540 pagine - quando aveva soltanto 23 anni. 

    Denti Bianchi (White Teeth)- pubblicato nel 2000 in GB - è stato uno dei libri d'esordio  più fortunati degli ultimi decenni nel mondo, e a ragione, diventando immediatamente un caso letterario mondiale, vincendo il Whitbread First Novel Award 2000, il Guardian First Book Award, il Commonwealth Writers First Book Prize e il James Tait Black Memorial Prize per la narrativa.

    Stavolta quindi c'entra ben poco la costruzione di un fenomeno a tavolino, le scuole di scrittura, la perspicacia di abili agenti letterari. 

    C'entra più che altro - oltre al talento puro - la vicenda personale di Zadie Smith. Nata da un matrimonio misto (per il padre era il secondo), Zadie ha una sorellastra, un fratellastro e due fratelli minori. I suoi genitori hanno divorziato quando aveva quattordici anni. 

    Dopo aver accarezzato diversi sogni artistici, in diversi campi, il suo talento si è precocemente espresso nella letteratura. 

    Dopo aver studiato nelle scuole statali locali, Zadie Smith si iscrisse al King's College di Cambridge per studiare letteratura inglese. Mentre frequentava l'università pubblicò alcuni racconti in una raccolta di scritti di studenti. 

    Un editore intuì il suo talento e le offrì un contratto per un romanzo ancora da scrivere. Zadie Smith decise di contattare un agente letterario e da allora, cioè ancor prima di completare il primo capitolo del primo romanzo, è rappresentata dalla Wylie Agency. 

    Denti bianchi apparve così sul mercato editoriale nel 1997, molto prima di essere completato. 

    Basandosi solo su manoscritti parziali, diversi editori si disputarono i diritti, che vennero infine ceduti alla Hamish Hamilton Ltd.

    Zadie Smith completò Denti bianchi durante l'ultimo anno dei suoi studi a Cambridge. 

    Quando nel 2000 il libro venne pubblicato diventò immediatamente un bestseller.

    Era l'inizio di un duraturo successo. Oggi Zadie Smith oltre a essere autrice affermata (cinque finora i romanzi pubblicati, oltre a un gran numero di racconti), è anche docente (dopo aver insegnato fiction alla Columbia University School of the Arts, dal 1º settembre 2010 ha insegnato la stessa materia presso la New York University come professore tenuter (cioè a tempo indeterminato). 

    Denti Bianchi è un romanzo di qualità e di maturità sorprendente - soprattutto e ancor di più considerata l'età della sua autrice quando lo scrisse - che si ispira e rinnova la grande tradizione del romanzo anglosassone, che va da Dickens a Saul Bellow.  

    Raccontando le peripezie di Archie e Samad due amici (uno bianco e anglosassone e l'altro di origini pakistane e mussulmano) che hanno combattuto al fronte insieme, e delle loro famiglie in un lasso di tempo che va dagli anni '40 al 2000, Zadie Smith forgia un grande romanzo corale, pieno di ironia e intelligenza, di fantasia quasi pirotecnica e di così ampio respiro, che si concentra sui problemi della compatibilità multiculturale e del mondo globalizzato, in cui identità e radici sono spazzate via dalla confusione e dall'arroganza della modernità, in un continuo rimescolamento di carte. 

    In un continuo flusso che si muove dalla nostalgia del passato (le generazioni adulte) e della terra di provenienza alle sconnessioni e alle inquietudini del futuro (le seconde generazioni sedotte dal consumismo occidentale e dalla sua amoralità ipertecnologica), Denti Bianchi si fa apprezzare perché non prende parte, non tifa, non parteggia, non predica e non dà soluzioni. 

    Si tratta cioè di letteratura allo stato puro, di ciò che la letteratura dovrebbe essere. 

    Semmai un difetto si può trovare è proprio nella ridondanza delle descrizioni emotive, delle sottili annotazioni su ogni singolo personaggio, della minuziosa attenzione stilistica che innerva la scrittura in ogni singola frase e rende la storia, a tratti, perfino troppo densa di fatti minimi o trascurabili. 

    Un grande esordio, comunque, che unisce divertimento e intelligenza. 




    14/04/20

    Il ricordo letterario del mitico Festival dei Poeti di Castelporziano del 1979. Il romanzo di Raoul Precht è online

    Da oggi il sito online SUCCEDE OGGI pubblica, in dieci puntate, un romanzo inedito dedicato alle avventure ormai mitiche del Festival dei poeti di Castelporziano del 1979. La storia di un traduttore che si aggira tra i "giganti" della poesia dell'epoca
    Viene dunque pubblicato qui a puntate, con scadenza bisettimanale, il lunedì e il giovedì, il romanzo di Raoul Precht intitolato Castelporziano e dedicato al Festival dei poeti svoltosi sulla spiaggia di Ostia nel giugno 1979.
    Il romanzo segue le avventure di un giovanissimo traduttore chiamato a occuparsi in particolare dei poeti tedeschi presenti al Festival, e tocca argomenti come l’essenza della poesia, il poeta come personaggio pubblico nonché il confine fra letteratura e spettacolo, unico modo di attirare l’attenzione di un pubblico sempre più distratto.

    Da sinistra a destra Robert P. Harrison, (?), Allen Ginsberg e Fernanda Pivano 
    al Festival Internazionale dei Poeti di Castelporziano, estate 1979