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21/06/20

Poesia della Domenica: "Lamento della sposa barocca (octapus)" di Claudia Ruggeri




lamento della sposa barocca (octapus)

T’avrei lavato i piedi
oppure mi sarei fatta altissima
come i soffitti scavalcati di cieli
come voce in voce si sconquassa
tornando folle ed organando a schiere
come si leva assalto e candore demente
alla colonna che porta la corolla e la maledizione
di Gabriele, che porta un canto ed un profilo
che cade, se scattano vele in mille luoghi
– sentite ruvide come cadono -; anche solo
un Luglio, un insetto che infesta la sala,
solo un assetto, un raduno di teste
e di cosce (la manovra, si sa, della balera),
e la sorte di sapere che creatura
va a mollare che nuca che capelli
va a impigliare, la sorte di ricevere; amore
ti avrei dato la sorte di sorreggere,
perché alla scadenza delle venti
due danze avrei adorato trenta
tre fuochi, perché esiste una Veste
di Pace se su questi soffitti si segna
il decoro invidiato: poi che mossa un’impronta si smodi
ad otto tentacoli poi che ne escano le torture.




Claudia Ruggeri (Napoli, 30 agosto 1967 – Lecce, 27 ottobre 1996) è stata una poetessa italiana. Nata a Napoli da padre salentino e da madre napoletana. Esordisce giovanissima nel 1985, alla Festa dell'Unità di Lecce, quando declama i suoi versi durante un reading, al quale è presente anche il poeta (e amico) Dario Bellezza. Viene accolta come voce promettente e singolare nel nuovo panorama letterario. Muore suicida a Lecce il 27 ottobre del 1996, a soli ventinove anni, lanciandosi nel vuoto dal balcone della sua abitazione.

09/05/20

Goffredo Parise e Roma: un rapporto, un sentimento, un racconto - Da "Le Rovine e l'Ombra" di Fabrizio Falconi



Goffredo Parise era giunto a Roma i primi giorni di marzo del 1960. All’amico Comisso una settimana prima aveva scritto: Tra una settimana parto per Roma dove resterò quasi stabilmente data l’impossibilità per me di stare ancora a Milano. Le ragioni sono molte (…) Mi annoio atrocemente, e non della dolce noia del Veneto (…) ma di una noia acre e inutile, impiegatizia e tramviaria, da grandi magazzini asettici. Insomma mi sento come un aquilone sotto la pioggia (…) basta con questo libeccio che soffoca i voli. (23)

E’ la noia la grande nemica che già pedina questo trentenne inquieto, venuto dalla provincia veneta. Eppure Milano è la città che ha regalato a lui, figlio di una ragazza madre,  amicizie importanti, un lavoro di prestigio (lavora alla Garzanti) e il grandissimo successo a soli 25 anni con Il prete bello.

Parise però ha bisogno di altro. E sembra trovarlo: nel Corriere della Sera, in un articolo del ’72 ricorda: Quando a trent’anni sono sceso a Roma, è stata la liberazione. Ho incontrato l’Italia.  E a Comisso scrive: Freneticamente vivo ciò che avevo voglia di vivere e che Milano mi aveva soffocato, ossia la mia fantasia… Vivo insomma intensamente ancora i giovani anni che mi restano, nel modo che mi è congeniale, nell’estro e nel disordine dell’avidità, nel sogno e nell’avventura…

In effetti a Roma Parise trova una ben calda accoglienza: Montale, Piovene, Moravia diventano amici, nel 1964 va a vivere in Via della Camilluccia, vicino di casa a Gadda, comincia a scrivere per il cinema e firma sceneggiature per Bolognini, Fellini, Tonino Cervi.  Conosce anche Marco Ferreri, e si innamora artisticamente del suo folle genio creativo. Scrive per lui il copione de L’ape regina, uno dei più censurati e controversi della filmografia di Ferreri.

Finché l’irrequietezza non lo ferma, spingendolo a mettersi in viaggio per i famosi reportage da mezzo mondo, è Roma la casa di Parise. Prima di far ritorno nel Veneto, dove compra una casa a Salgareda, un piccolo borgo sul Piave, nei primi anni ’70.

Roma resta comunque per lo scrittore Parise, sempre un punto di riferimento. Il punto di ritorno dai suoi viaggi, l’approdo solare e d’ombra, il luogo della eterna fantasia, del sogno che si rinnova.

E quando tra il 1971 e il 1981 pubblica i suoi Sillabari, Parise scrive un racconto proprio su Roma, uno degli ultimi, lasciando incompiuta la sua opera, com’è noto, alla lettera S.

Dodici anni fa giurai a me stesso, preso dalla mano della poesia, di scrivere tanti racconti sui sentimenti umani, così labili, partendo dalla A e arrivando alla Z, scrive nella celebre Avvertenza al testo del gennaio 1982, Ma alla lettera S, nonostante i programmi, la poesia mi ha abbandonato. E a questa lettera ho dovuto fermarmi. La poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei, non quando vogliamo noi e non ha discendenti. Mi dispiace ma è così. Un poco come la vita, soprattutto come l’amore. (24)

La prima cosa che scopriamo allora è che per Parise Roma è un sentimento. Come Amicizia, Dolcezza, Fame, Ozio, Povertà o Simpatia, che sono altri titoli del Sillabario.

Il racconto – uno dei più misteriosi del libro – inizia in modo bruciante con un viaggiatore, un uomo che si sentiva straniero senza però esserlo, che una domenica d’inverno, al crepuscolo, arriva con un rapido, dal nord, alla stazione di Roma. (25)

Già dai finestrini la città gli appare col suo inconfondibile aspetto, le enormi case innestate sui colli rognosi di rifiuti e untume e le pietre dell’Arco di Porta Maggiore da cui sorgono ciuffi d’erba e alberelli.
Il viaggiatore, appena sceso dal treno, riconosce anzi, sente, la mortale presenza dei secoli e della storia, come sempre quando arriva.

La città delle rovine dunque lo accoglie con un canto di morte. Il cielo però, color violetta e la luce limpida della tramontana, colorano subito la scena di presenze vive: donne africane vestite di bianco, soldati, uomini delle più diverse razze che si muovono nel crepuscolo, il colore delle cose che varia sempre più verso l’ombra.

L’uomo sale su un taxi ed attraversa la città stranamente deserta, senza traffico, come non l’aveva vista mai.
Giunto a casa, entra e lascia la borsa ma subito esce di nuovo spinto dalla luce. Prende a passeggiare sul lungotevere, viene avvicinato da un giovane africano – con occhi dalla cornea bianchissima -  che vuole vendergli una coperta. Ed è curiosa questa Roma che sembra già popolata solo di stranieri, di africani in particolare. Molto tempo prima del dovuto, Parise già è così che la vede.  

L’uomo prosegue a piedi fino al Circo Massimo, mentre non pare sera a causa della luce.  E’ un crepuscolo di quelli che regala a Roma, che sembra non trascolorare mai definitivamente nell’ombra, che permane a lungo in una condizione di incertezza sospesa, tra ombra e luce.

Al Circo Massimo, l’uomo si imbatte in un travestito – anche questo di colore – che con una parrucca bionda in testa sbuca fuori da un cespuglio muovendosi con gesti di danza e aprendo e chiudendo la grande bocca rossa.

Giunto alla Passeggiata Archeologica e poi alle Terme di Caracalla il viaggiatore si sente in uno stato d’animo molto strano, sentendosi ancora più straniero di quanto lo fosse in modo leggero e trepidante, camminando molto piano, attratto dal terreno intorno ai muri e alle rovine. Si sente anche dentro una specie di narcosi, mentre la luce viola è ancora nel cielo e spunta una prima stella al di là delle mura romane.

Prende a rovistare tra i ciuffi di erba polverosa, i kleenex, i rifiuti, le bottiglie di birra, dai quali affiorano frammenti di pietra bianchissima, quasi porosa, certamente molto antica.

Ed è qui che accade qualcosa di veramente inaspettato e terribile.

Il racconto, che era proseguito fin qui in una sorta di allucinato resoconto di quieta e inquieta contemplazione, prende una piega completamente diversa: il viaggiatore si ritrova all’imboccatura di un anfratto, proprio tra quelle antiche mura.  Sulle prime pensa alla nicchia di guardia delle Terme. E pronuncia tra sé il nome tepidarium ricavandone un senso di totale rilassatezza. Ma ecco che dopo essersi acceso una sigaretta, scorge una figura muoversi nella luce viola. E’ una donna molto grassa e anziana, accucciata e con le calze arrotolate. Vicino a lei c’è un giovane etiope, alto con gran capelli crespi, molto simile al venditore di coperte incontrato poco prima sul Lungotevere.

E prima che l’uomo se ne renda conto, ancora avvolto dalla passività della luce viola nel cielo notturno, viene colpito da un fendente di coltello, sferrato dall’etiope. Arrivano altri colpi, nel ventre, nel petto, nel collo e l’uomo quasi senza sentire dolore, zampilla sangue a fiotti abbondanti e regolari come in chiaro ma anche oscuro accordo con il cuore.

E’ la frase con cui si chiude il racconto, e anch’essa sembra tagliente come una rasoiata. 

L’assurdità della scena e di questa fine – cosa facevano i due nell’oscurità ? La donna con l’aria da portinaia romana e l’etiope ? Un rapporto sessuale ? O un qualche diverso affare ?  E perché l’etiope reagisce con tale violenza ? Per un semplice furto ? O perché l’uomo ha involontariamente scoperto – o sta per scoprire – un segreto ? – è come un nero sipario che cala apparentemente senza scopo, senza alcuna finalità.

Eppure anche questa fine ha qualcosa di catartico. L’uomo muore quasi senza sentire dolore, il suo essere sembra come  ingoiato dentro il teatro di quella città notturna, dalla luce viola, dalle sue rovine. E nel ventre di una rovina egli trova la fine, quella fine che forse è cercata, forse è auspicata, sembrando quasi una liberazione: l’abbandono all’effimero destino, alla sua apparente insensatezza.

Ma la chiave (anche) di questa morte è nella sua innocenza. 

Una parola decisiva per Parise, che in quegli anni scrisse a proposito di com’era sorta in lui l’idea di scrivere i Sillabari: Sentivo una grande necessità di parole semplici. Un giorno, nella piazza sotto casa, su una panchina, vedo un bambino con un sillabario. Sbircio e leggo:l’erba è verde. 
Mi parve una frase molto bella e poetica nella sua semplicità ma anche nella sua logica. C’era la vita in quel "l’erba è verde", l’essenzialità della vita e anche della poesia...
Gli uomini d’oggi secondo me hanno più bisogno di sentimenti che di ideologie. 
Ecco la ragione intima del sillabario. (26)

Roma è dunque un sentimento, le rovine sono sentimento e anche la morte è sentimento. Quella morte interiore che Parise ha attraversato così tante volte nel corso della vita, rinascendo ogni volta dalle proprie rovine. 

Le guerre che visitò come inviato, i posti più strani del mondo che incontrò, non modificarono niente in lui, al punto di invidiare chi era rimasto, a scrivere, fermo nella sua stanza.

Nel suo eremo di Ponte di Piave, dove si rinchiude per vivere gli ultimi anni della sua vita, Parise trova forse un senso alla sua eterna inquietudine.  Non ci sono più rovine intorno. Ma solo la melodia della natura, dei ruscelli e delle campane.

E in lui si incarna forse quella morte vagheggiata nel racconto scritto per i Sillabari.  Una morte soltanto fisica, che è compimento di quanto fatto, e punto interrogativo per un altrove sconosciuto.  Nel racconto Famiglia, nei Sillabari, aveva scritto quello che è sembrato il suo perfetto epitaffio:
...godette per un po' le "gioie della vita", incontrò, vide e amò molti occhi, pelli, le calme e le intelligenze pratiche di altre famiglie, poi cessò di godere le "gioie della vita" e di lui non si ebbero più notizie se non per sentito dire.

23. Questa citazione e quelle che seguono sono rese pubbliche dalla Casa di Cultura Goffredo Parise, Ponte di Piave (TV).

24. Goffredo Parise, Sillabari, Adelphi, Milano 2004.
25. Tutte le citazioni sono tratte dal racconto Roma, in G. Parise, Sillabari, Op.cit. pag. 327 e ss.
26. da Il Gazzettino, 31 ottobre 1972, in F. Sala, “Il Sillabario dei sentimenti”
27. Famiglia, in Sillabari, op. cit. p. 137.


Tratto da Fabrizio Falconi, Le rovine e l'ombra, Castelvecchi, Roma, 2017

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13/08/19

Processo a Machiavelli: "Assolto!"


John Milton l'avra' pure definito "figura del demonio", ma in Romagna il pensiero e' stato decisamente diverso.

Il 'tribunale' di San Mauro Pascoli ha assolto Niccolo' Machiavelli con formula piena: 81 voti per la condanna, 600 per l'assoluzione. 

Un verdetto senza appello nell'evento di Sammauroindustria davanti a un pubblico di 800 persone, che ancora una volta ha confermato - per alzata di paletta - l'anima "garantista" della Romagna nei tradizionali processi storici di agosto alla Torre Pascoliana. 

Il dibattito, coordinato dal presidente del Tribunale Miro Gori, e' stato acceso tra i due contendenti, i politologi Carlo Galli (accusa) e Maurizio Viroli (difesa). Galli, docente dell'universita' di Bologna, ha subito messo le cose in chiaro: "Accusare Machiavelli e' un'impresa disperata. L'autore del Principe e' stato il Galileo della politica, l'ha rivoluzionata. Eppure ci sono diversi capi di imputazione che gli possono essere rivolti"

Il primo, secondo Galli: "Machiavelli ha fatto della politica un mito esistenziale onni-coinvolgente. La politica non puo' essere l'unica chiave per interpretare la vita sociale". Ma il suo principale reato "e' un utopismo fuori dallo spazio e dal tempo: ha avuto troppa fiducia negli uomini, li ha considerati troppo virtuosi. È un rivoluzionario di una realta' disincantata". 

E come condanna ha chiesto per Machiavelli "un esilio temporaneo da trascorrere nel deserto della politica di oggi. Qualche anno di purgatorio per depurarsi dalla sua ingenuita', magari da passare in una legislatura nel nostro Parlamento. Condannare Machiavelli infatti e' condannare la politica di oggi". 

 Di parere opposto Maurizio Viroli, docente a Princeton (Usa): "Machiavelli e' piu' difficile difenderlo che accusarlo, vista la quantita' di insinuazioni che sono state scritte sul suo conto". 

E ha contestato l'accusa della "centralita'" della politica nel suo pensiero: "Non e' sostenibile la tesi che Machiavelli metta al centro di tutto la politica, come soluzione onnicomprensiva dell'esistenza. 

Nel suo pensiero la dimensione della leggerezza della vita, del gioco, del sorriso, dello scherzo e' molto forte. 

Cosi' come e' fuorviante l'accusa di utopismo, perche' sa leggere la realta' come pochi. Machiavelli non solo capisce la politica ma vuole fare qualcosa di piu', vuole ispirare (principi e cittadini) sui fini possibili: ispirare un redentore che possa liberare l'Italia; lottare contro la corruzione a Firenze; ispirare la rigenerazione morale di un popolo. 

Non e' un caso che a lui si siano ispirati gli scrittori risorgimentali, cosi' come grandi pensatori come Gobetti e Gramsci". Il finale e' sull'oggi: "Siamo noi che abbiamo bisogno di Machiavelli se vogliamo vedere rinascere il nostro Paese. Non mi resta che chiudere con le parole di Francesco De Sanctis: 'Sia gloria a Machiavelli'". 

19/04/19

Libro del Giorno: "L'amante fedele" di Massimo Bontempelli



Che piacere riconciliarsi con la prosa di Bontempelli,  una delle voci più originali del Novecento letterario italiano.  Merito della casa editrice di Sassuolo, Incontri, aver riportato in libreria, a oltre sessant'anni dalla prima edizione 'L'amante fedele', il libro di racconti con cui Massimo Bontempelli vinse il 'Premio Strega' nel 1953, decimo titolo della collana Kufferle dedicata alla riproposta di testi e autori del passato, con introduzione della drammaturga e storica del teatro Patricia Gaborik, attenta studiosa dello scrittore. 

Si tratta di quindici racconti nei quali Bontempelli, ormai al termine della vita (morì a Roma il 21 luglio del 1960),  esprime la sua idea personalissima idea di letteratura, quel "realismo magico" che si rifa alla tradizione nordica e ai grandi racconti di Djuna Barnes, in seguito applicato da molti grandi autori da Borges fino a Rushdie

In un certo senso questa raccolta è il coronamento della narrativa di Bontempelli per la presenza costante di alcuni elementi cardine della sua poetica, dalla centralita' del mito allo spirito di avventura che guida i suoi personaggi, dai toni incantati e meravigliosi con cui viene descritta la natura,  alla predilezione per i protagonisti femminili. 

Diversi nelle ambientazioni e nelle atmosfere i 15 racconti sono uniti innanzitutto dallo stile di Bontempelli convinto che l'arte del Novecento dovesse essere in grado di esprimere l'"avventuroso miracolo" della vita quotidiana, in una visione in cui erano centrali i concetti di immaginazione, ironia e candore. 

Se, come scrisse Bontempelli, il mistero è "la sola realtà", attraverso uno sguardo candido, libero cioè da intellettualismi o convenzioni sociali, è possibile pervenire a una comprensione istintiva del mondo, in piena sintonia con la natura. E candidi sono, per gran parte, i protagonisti de 'L'amante fedele'.  Un bel tuffo in un mondo dal respiro diverso, completamente estraneo, rispetto all'oggi dominato dal cinismo e dal disincanto. 

Fabrizio Falconi


02/09/18

Poesia della Domenica: "Come può esser ch'io non sia più mio?" di Michelangelo Buonarroti.



Come può esser ch’io non sia più mio?
O Dio, o Dio, o Dio,
chi m’ha tolto a me stesso,
c’a me fusse più presso
o più di me potessi che poss’io?
5
O Dio, o Dio, o Dio,
come mi passa el core
chi non par che mi tocchi?
Che cosa è questo, Amore,
c’al core entra per gli occhi,
10
per poco spazio dentro par che cresca?
E s’avvien che trabocchi?


edizione Laterza,  Bari, 1960 a cura di Enzo Noè Girardi.

01/09/18

Torna "Ravenna per Dante" ! 3 mesi e 80 occasioni per riscoprire il divino poeta.



Ottanta appuntamenti gratuiti, 41 soggetti e 22 spazi coinvolti, in un periodo di tre mesi: numeri che continuano a crescere di anno in anno (70 gli eventi del 2017).

Tutto questo è 'Ravenna per Dante', rassegna promossa nella città dove il Sommo Poeta, esule da Firenze, trovò l'ultimo rifugio, probabilmente completò la Commedia e dove morì il 13 settembre 1321.

A organizzarla il Comune, insieme ad associazioni internazionali e realtà cittadine sia istituzionali che formate da appassionati e lettori.

Tra gli eventi più importanti, l'Annuale della morte (9 settembre), le Letture Classensi, le Conversazioni dantesche e la mostra 'L'ultimo Dante e il cenacolo ravennate.

Mostra di documenti dagli Archivi di Ravenna, Bologna, Pisa e Venezia', ospitata alla Biblioteca Classense e ricca di preziosi inediti (9 settembre-28 ottobre, inaugurazione sabato 8 settembre alle 17.30).

Il programma, sostenuto da Regione e Ibc, inizia il percorso celebrativo verso il 2021, settimo centenario della morte del Poeta.

FONTE: ANSA

04/06/18

RadioTre celebra i 30 anni delle Lezioni Americane di Italo Calvino.




E' cominciata sabato scorso e proseguirà ogni sabato fino al 30 giugno, alle 18, su Rai Radio3 un nuovo ciclo della trasmissione Pantheon, composto da 5 puntate, dal titolo: Lezioni americane 30 annidopo

Nel giugno di trent'anni fa, estate 1988, il vastissimo pubblico di lettori di Italo Calvino accoglie le Lezioni americane con l'emozione dell'apertura di un testamento segreto

Il dattiloscritto a cui lavorava ossessivamente da oltre un anno, cioe' da quando era stato invitato dell'Universita' di Harvard, primo scrittore italiano, a tenere le Charles Eliot Norton Poetry Lectures (che in passato erano state affidate a personalita' come T.S. Eliot, Igor Stravinsky, Jorge Luis Borges, Octavio Paz), e che era stato interrotto nella sua elaborazione dalla morte dello scrittore nel settembre 1985, svelava riflessioni che consideravano la breve distanza che ci separava allora dalla chiusura del "millennio del libro", come lo definiva lui stesso nelle prime righe della prima conferenza, e proiettavano sei valori, sei proposte (in realta' cinque piu' una soltanto accennata) nel futuro.

Ora che il millennio e' maggiorenne, e che alcuni di quei lettori di allora sono diventati anche scrittori, Radio3 ha provato a misurare la rilevanza di quelle lezioni, incontrato oltre quaranta autori, tra il Salone di Torino e Un'altra Galassia a Napoli per chiedere loro di scegliere tra leggerezza, rapidita', esattezza, visibilita' e molteplicita' e di testimoniare come questi valori sono ancora vivi nella loro esperienza e in quella della letteratura ma non solo

 Con: Paolo Giordano, Helena Janezscek, Domenico Scarpa, Alessandro D'Avenia, Ernesto Ferrero, Giancarlo De Cataldo, Nicola Lagioia, Marco Peano, Dario Voltolini, Gian Mario Villalta, Giuseppe Culicchia, Antonella Lattanzi, Diego De Silva, Marcello Fois, Paola Soriga, Marco Malvaldi, Igor Esposito, Silvio Perrella, Patrizia Rinaldi, Vanni Santoni, Giusi Marchetta, Antonella Ossorio, Carmen Pellegrino, Valerio Magrelli, Davide Enia, Matteo Nucci, Leonardo Colombati, Camilla Baresani, Marco Belpoliti, Stefano Valenti, Chiara Valerio, Christian Raimo, Francesco Piccolo, Elena Stancanelli. Le letture sono di Graziano Piazza e Pantheon e' curato da Federica Barozzi, Diego Marras e Lorenzo Pavolini. 

26/01/18

50 anni dalla morte di Salvatore Quasimodo. Grandi iniziative a Messina e in Sicilia.



Convegni, mostre seminari e documentari. Fervono i preparativi a Messina e provincia per commemorare il cinquantenario della morte di Salvatore Quasimodo, avvenuta il 14 giugno 1968. 

Il poeta nacque a Modica (Rg) il 20 agosto del 1901 e trascorse gli anni dell'infanzia in piccoli paesi della Sicilia orientale (Gela, Cumitini, Licata), seguendo il padre che era capostazione delle Ferrovie dello Stato.

Subito dopo il catastrofico terremoto del  1908 ando' a vivere nella citta' dello Stretto, dove Gaetano Quasimodo era stato chiamato per riorganizzare la stazione. 

Prima dimora della famiglia, come per tanti altri superstiti, furono i vagoni ferroviari. Scrisse nella lirica al padre "Dove sull'acque viola era Messina, tra fili spezzati e macerie tu vai lungo binari e scambi col tuo berretto di gallo isolano..." . 

Nel 1941 gli venne concessa, per chiara fama, la cattedra di Letteratura Italiana presso il conservatorio di musica "G. Verdi" di Milano 

Insegnamento che terra' fino all'anno della sua morte. 

Il 10 dicembre 1959 a Stoccolma, ricevette il premio Nobel. 

Per programmare le iniziative in sua memoria si e' svolta la prima riunione del comitato scientifico composto dal commissario straordinario, Francesco Calanna, dal magnifico Rettore dell'Universita' di Messina, Pietro Navarra, dal presidente della Fondazione famiglia Piccolo di Calanovella, Vanni Ronsisvalle, dal presidente del Parco letterario Quasimodo, Carlo Mastroeni, e dal dirigente scolastico dell'istituto tecnico "Jaci", Carlo Davoli. 

E' stata stilato il calendario degli eventi. Numerose le proposte avanzate dai componenti del gruppo di lavoro: Calanna, a capo dell'ente che possiede l'archivio Quasimodo, ha annunciato di aver attivato gli uffici per "la realizzazione di un palinsesto di appuntamenti che mettano in risalto la figura del grande letterato che a Messina ha sviluppato le sue radici culturali e umane, citta' nella quale ha studiato e vissuto e che oggi vuol rendere onore al sommo poeta e grande figura nel panorama letterario del Novecento". 

Inoltre, la Citta' Metropolitana realizzera' un cd contenente oltre tremila articoli di stampa, un inedito archivio multimediale di eventi, molti di questi sconosciuti al grande pubblico

Ronsisvalle, ha anche annunciato la realizzazione, in collaborazione con Rai Teche, di un docufilm che ripercorra visivamente tutte le tappe fondamentali della vita di Quasimodo ed ha annunciato "l'intenzione di invitare il presidente del Premio Nobel in occasione di uno degli appuntamenti in cantiere e di ospitare per un mese, a Villa Piccolo a Capo d'Orlando, il prossimo vincitore del riconoscimento per la letteratura". 

Il Prorettore dell'Universita' di Messina, Giovanni Cupaiuolo, ha reso noto l'organizzazione di un convegno che approfondira' l'attivita' di Quasimodo quale traduttore di testi, "una testimonianza di quanto fossero eclettici i suoi interessi culturali". Mastroeni, da molti anni "testimone dell'immenso valore culturale delle opere del poeta", ha assicurato la realizzazione di iniziative anche attraverso l'attivita' del "Club Amici di Salvatore Quasimodo". 

19/01/18

L'amore infelice di Cesare Pavese per Constance Dowling. Un brano da "Le rovine e l'ombra".



Questo sentimento della rovina amorosa che conduce e introduce alla morte fu incarnato nella forma perfetta di una morte scandalosa e poetica (non fate pettegolezzi... le ultime parole sul biglietto lasciato prima del suicidio) da Cesare Pavese.
   Nel capodanno del 1950,  a casa degli amici Giovanni Rubini e Alda Grimaldi, a Roma, Pavese aveva conosciuto l'attrice Constance Dowling. Giunta con la sorella Doris in Italia, a trent'anni non ancora compiuti, Constance aveva collezionato qualche apparizione in film minori e il fallimento di una relazione decennale con Elia Kazan. Umiliata da lui (aveva sperato a lungo e inutilmente che il regista si separasse dalla moglie, ma era stata liquidata anche in modo sprezzante) e alla ricerca di un improbabile riscatto, Constance si portava dietro il fascino del glamour hollywoodiano e la frustrazione del successo negato.  Pavese la rincontrò qualche mese più tardi a Cervinia e se ne innamorò perdutamente.  Le scrisse lettere piene di disperazione e dedizione, preparò soggetti nella illusione di spalancare per lei (e per la sorella) le porte per una carriera italiana.  Ma i progetti naufragarono e Constance decise di prendere un volo per l’America, con la promessa vana di tornare nel giro di due mesi.  Il 20 aprile salì sul volo per New York. Nelle settimane precedenti era diventata l'amante di Andrea Checchi, un attore conosciuto sul set dell'ultimo film (sfortunato come gli altri) girato in Italia, La strada finisce sul fiume.
   «Ho sperimentato con te «orrore e meraviglia», le scrisse Pavese in una delle lettere spedite in America,  disse di perdonarla e di perdonare «tutta questa pena che mi rode il cuore».
   Pavese percepì che questo inciampo della sua vita era quello definitivo.  Nulla lo consolava, nemmeno il premio Strega ricevuto per La bella estate la sera del 24 giugno.
   Appena due mesi più tardi, il 27 agosto il suicidio con i barbiturici nella stanza dell'Hotel Roma, in via Carlo Felice a Torino.
   Poco prima, in un solo mese, dall'11 marzo all'11 aprile, Pavese aveva scritto, proprio a Torino, le 10 poesie che compongono l'ultima raccolta dei suoi versi. Alla morte dello scrittore furono ritrovate in una cartella nella scrivania del suo ufficio alla casa editrice Einaudi.  Scritte a macchina, le poesie – otto in italiano e due in inglese – portavano titoli e date di pugno dell'autore, insieme al frontespizio e furono pubblicate in un volume postumo, nel 1951 con il titolo scelto da Pavese.

   Verrà la morte e avrà i tuoi occhi -
questa notte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola
un grido taciuto, un silenzio.

….

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
  
   Sono i celebri versi scritti il 22 marzo del 1950. Constance è forse in quello stesso momento tra le braccia di Checchi. Ma soprattutto Pavese ha raggiunto quella dolorosa consapevolezza che gli è impossibile abitare il territorio della rovina amorosa.  Quel territorio, per lui che si sente da tempo inadatto al vizio pericoloso di vivere («La felicità è qualcosa che si chiama Jo, Harry o John, non Cesare» scrive amaramente in una delle lettere destinate a Constance) è fatale, lo svuota anche del desiderio creativo, che lo ha tenuto in vita fino a quel momento.
«Le poesie sono venute con te e se ne vanno con te».
   È un territorio infido, quello delle rovine.  Che non è sempre illuminato dal sole, che è pieno di ombre e di abissi e che qualche volta fa perdere del tutto.
   Non so se Marcel si sia perduto. Non so se Pavese abbia trovato una Constance angelicata ad attenderlo, come in un film, non so se Jeanne abbia mai potuto realizzare un riscatto personale o interiore prima di lasciare la vita immaginata da Maupassant.   Quel che è certo è che da queste traiettorie di vita si apprende quanto le rovine abitino il cuore e l'interiorità, oltre che il nostro mondo, e quanto sia importante apprendere la lezione severa e illuminante che ci tramandano.


28/10/17

Richard Gere legge Calvino a New York ! - VIDEO.


Richard Gere onora Italo Calvino e assume le vesti di 'Biagio' per leggere 'Il barone rampante'. L'attore è stato il protagonista di un evento organizzato alla Casa Italiana Zerilli Marimo' della New York University per presentare la nuova traduzione in inglese a cura di Ann Goldstein (famosa per le traduzioni di Elena Ferrante) del celebre romanzo scritto da Calvino nel 1957 come secondo capitolo della trilogia araldica 'I nostri antenati' e la cui traduzione in inglese e' 'The Baron in the Trees'

La storia e' ambientata nel Settecento ed e' narrata da Biagio, fratello del protagonista, Cosimo Piovasco di Rondo'. Il giovane, rampollo di una famiglia nobile ligure di Ombrosa, all'eta' di dodici anni, in seguito a un litigio con i genitori per un piatto di lumache, si arrampica su un albero del giardino di casa per non scendervi piu' per il resto della vita

"Buonasera" - ha salutato in italiano Gere il pubblico dopo essere entrato accompagnato da Giovanna Calvino, figlia dello scrittore e da Stefano Albertini, direttore dell'istituzione culturale italiana.

Aggiunge poi che avrebbe voluto essere in grado di leggere in italiano, e che e' li per onorare Italo Calvino. Poi si immerge nella lettura.

Durante il dibattito, l'attore ha confessato di essersi imbattuto nel libro anni fa tramite un amico il quale stava scrivendo il copione per un film del regista francese Louis Malle e di esserne rimasto colpito.

"Questo libro - ha spiegato - e' pieno di generosita' di spirito". Poi in merito alla possibilita' di realizzarne un film inscena un siparietto in cui invoca la defunta moglie dello scrittore la traduttrice argentina Esther Judith Singer, detta Chichita.

"Chichita - dice Gere sottolineando che ci prova ogni paio di anni - e' quasi li, dammi un'ultima possibilita'". E rivolgendosi alla platea, "Dite con me, per favore Chichita".

In chiusura il dibattito sul protagonista del romanzo che fugge dalla realta' si e' trasferito quasi naturalmente su argomenti politici e Gere non ha nascosto il suo disagio per l'attuale realta', quella in cui Donald Trump e' presidente degli Stati Uniti. "Dobbiamo lavorare per far si' che quest'uomo non venga rieletto" - ha detto senza mezzi termini.


(ANSA)

10/10/17

I Fratelli Taviani portano sullo schermo "Una questione privata" di Beppe Fenoglio alla Festa del Cinema di Roma.



Liberamente tratto dal capolavoro di Beppe Fenoglio - considerato da Calvino uno dei piu' bei romanzi italiani del Novecento - "Una questione privata" di Paolo e Vittorio Taviani sara' presentato alla Festa del Cinema di Roma venerdi' 27 ottobre e sara' poi in sala dal 1° novembre distribuito da 01 Distribution

«Oggi, nel nostro tempo ambiguo - dicono Paolo e Vittorio Taviani - tempo di guerra non guerreggiata, Fenoglio ci ha suggestionato con il suo "Una questione privata": l'impazzimento d'amore, e di gelosia, di Milton, il protagonista, che sa solo a meta' e vuole sapere tutto. Da qui siamo partiti per evocare, in una lunga corsa ossessiva, un dramma tutto personale, privato appunto: un dramma d'amore innocente e pur colpevole, perche' nei giorni atroci della guerra civile il destino di ciascuno deve confondersi con il destino di tutti». 

Luca Marinelli da' il volto a Milton, ragazzo introverso e riservato, mentre Lorenzo Richelmy e' Giorgio, allegro e solare: i due amici amano entrambi innamorati di Fulvia (Valentina Belle'). 

Lei si lascia corteggiare, giocando con i loro sentimenti. 

I tre ragazzi nell'estate del 43 si incontrano nella villa estiva di Fulvia per ascoltare e riascoltare il loro disco preferito: Over the Rainbow. E nonostante la guerra, sono felici. Un anno dopo tutto e' cambiato. Milton e Giorgio sono ora partigiani. È inverno e la nebbia e' calata su tutto. Milton si ritrova davanti alla villa dei tempi felici, ormai chiusa e si abbandona al ricordo di Fulvia. 

La custode lo riconosce e invitandolo ad entrare allude ad una relazione tra la ragazza e il suo migliore amico Giorgio. Per Milton, logorato dal dubbio, si ferma tutto: la lotta partigiana, gli ideali, le amicizie. Ossessionato dalla gelosia, vuole scoprire la verita'. E corre attraverso le nebbie delle Langhe per trovare Giorgio, ma Giorgio e' stato catturato dai fascisti. L'unica speranza e' trovare un prigioniero fascista da scambiare con l'amico, prima che questi venga fucilato. 

10/05/17

Un outsider troppo presto dimenticato - Alberto Lecco.





Avevo poco più di vent'anni quando ebbi l'occasione di conoscere Alberto Lecco.   Abitava nella stessa casa in cui abitò fino alla fine dei suoi giorni, nel cuore di Trastevere, in Via San Francesco a Ripa. 

Erano i primi anni '80.  Lecco, che aveva letto il mio libro di racconti d'esordio - Prima di andare - e che era uno scrittore piuttosto famoso, mi chiamò al telefono per conoscermi. Il libro gli era piaciuto, mi chiese se amavo parlare di letteratura, disse che gli interessava conoscere i gusti di uno come me, così giovane, che si affacciava allo scrivere. 

Erano cose che accadevano, in quegli anni. 

Con la timidezza tipica di quell'età mi affacciai a casa sua, all'appuntamento convenuto.  Mi ricevette con il garbo e l'eleganza di altri tempi.  Per me, che venivo da una famiglia di operai, era una delle prime esperienze nella casa di un intellettuale e tutto aveva un fascino: gli scaffali pieni di libri, i tappeti orientali, le finestre affacciate sulla vita trasteverina, il giradischi sempre acceso. 

Passammo la prima volta quasi due ore insieme. Si parlò di tutto, soprattutto di Dostoevskij che era la sua ossessione (e anche la mia, già in quegli anni). Ascoltammo Beethoven insieme, mi parlò nel suo modo fluviale, del mondo letterario italiano, che detestava, con i suoi snobismi e le sue cricche. 

Mi regalò i suoi libri, pubblicati con Mondadori, L'incontro di Wiener Neustadt,Un Don Chisciotte in America i Racconti di New York. Libri che mi affascinarono, soprattutto l'ultimo, così singolare, così diverso da quello che si pubblicava allora in Italia. 

Alberto Lecco era un intellettuale colto e raffinatissimo, assai legato alle sue origini ebraiche che interrogava in ogni libro, alla luce di un radicale cosmopolitismo che sentiva come destino inevitabile della contemporaneità. Ma era al contempo geloso delle sue origini e della grande tradizione narrativa ebraica. 

Nato a Milano nel 1921, era diventato perfettamente romano nello spirito vitale e nella confidenza con il quartiere che abitava. 

Tornai da lui parecchie volte, anche insieme ad altri amici. E sempre si ripeté lo stesso rito: con conversazioni interminabili, consigli e diktat che venivano pronunciati sempre con dolcezza - soprattutto quello di fuggire come la peste dalle conventicole e combriccole letterarie, obbedendo solo alla propria interiorità -  oro puro per la formazione di un giovane che aveva in mente di scrivere com'ero io. 

Negli anni seguenti lo persi di vista.  So che continuò a pubblicare, con sempre minore successo, totalmente isolato dal resto dell'ambiente letterario italiano. Ed è un peccato che oggi le sue ultime opere:  La morte di Dostoevskij, I Buffoni, La casa dei due fanali, siano praticamente introvabili, come del resto i vecchi. 

Sarebbe bello che qualcuno oggi, un editore illuminato, li riscoprisse.

Alberto Lecco è morto a Roma, nel silenzio quasi unanime, nel maggio del 2004, a 83 anni. 


Fabrizio Falconi



10/04/17

Il Libro del Giorno: "La bellezza che resta" di Fabrizio Coscia.





Leggendo La bellezza che resta, lo splendido libro di Fabrizio Coscia pubblicato per Melville Edizioni, mi è tornato alla mente il noto Sofisma del Velato, concepito da Eubulide di Megara nel IV secolo avanti Cristo, e commentato diffusamente da C.G.Jung in Aion, del 1951. 

Il Sofisma dice: 
"Sai riconoscere tuo padre?" 
"Sì."
"Sai riconoscere quest'uomo velato?"
"No." 
"Quest'uomo velato è tuo padre. Quindi sai e non sai riconoscere tuo padre." 

Il viaggio alla ricerca della bellezza che resta, intrapreso da Fabrizio Coscia, infatti comincia e si sviluppa intorno al letto di morte del padre.  Quel padre di Fabrizio generoso e virile, diretto e concreto, ma anche ombroso e sfuggente che nella copertina del libro, in una vecchia foto, si vede stringere amabilmente un bambino, suo nipote, cugino dell'autore. 

E' proprio intorno al letto di morte del padre che avviene quella trasfigurazione - cruciale in ogni esistenza di figlio - che porta a domandarsi cosa sappiamo di lui, di colui che ci ha messo il mondo, cosa è di lui in noi, cosa è di differente invece di noi rispetto a lui, perché volenti o nolenti l'identità di un figlio si forma sempre come una imperfetta carta carbone sulle differenze e sulle similarità di chi ci ha preceduto, mettendoci al mondo. 

Cosa resta della bellezza del padre, si potrebbe dire . Cosa resta di questa esistenza vissuta come si conviene (per usare le parole di Simone Weil) ? Cosa sparisce per sempre e cosa resta ad albeggiare (la parola che continua a pronunciare il padre durante i suoi ultimi giorni) ? 

Per scoprirlo, Coscia si è messo sulle tracce della morte di grandi spiriti che hanno attraversato il mondo, in primis quello di Lev Tolstoj, di cui viene ricostruita minuziosamente la celebre fuga pre-morte, fino alla stazioncina di Astapovo, ultima tappa del suo viaggio mortale; oltre a quello di Simone Weil, di Anton Cechov, di Richard Strauss, di Frieda Kahlo, di Auguste Renoir, ma anche di Glenn Gould e di Sigmund Freud. 

Di Tolstoj, in particolare viene affrontata la redazione e la scrittura - incompiuta - di un capolavoro poco noto, Chadzi-Murat, scritto tra il 1895 e il 1904 e pubblicato postumo nel 1912. 

In questo racconto lungo, Tolstoj torna ai suoi ricordi di quando era un giovane ufficiale, tra il 1851 e il 1852, nel Caucaso. In particolare alla figura di Chadzi-Murat, un guerrigliero àvaro il quale combatte strenuamente contro l'annessione della Cecenia alla Russia. 

A questo personaggio Coscia ritorna anche a causa delle terribili vicende del massacro della scuola di Beslan, del 1 settembre 2004, che riportarono alla stretta attualità le interminabili rivendicazioni del popolo ceceno contro l'imperialismo prima russo, poi sovietico e poi ancora russo. 

Perché Tolstoj negli ultimi anni scelse di dedicare tempo e attenzione e anima a un personaggio così, un assassino, un combattente, così lontano dai temi pacifisti, dal cristianesimo radicale e non violento che Tolstoj abbracciò alla fine della sua esistenza, trasformando la sua tenuta Iasnaja Poljana in una sorta di nuovo inizio di umanità, così lontano insomma dai temi di Resurrezione e degli ultimi formidabili racconti ? 

Tolstoj, suggerisce Coscia, forse rivedeva in Chadzi-Murat l'incarnazione di uno spirito ribelle, che non si rassegna e che vuole consegnarsi alla morte non domito, ma ancora in piedi, e anzi fuggitivo.  Che vuole per questo fuggire, fino all'ultimo, non essere incastrato in nessuna comoda cornice, in nessuna divisa d'ordinanza, in nessuna categoria.  

La bellezza che resta in Tolstoj è quella dei suoi libri, dell'arte, certo, ma anche della sua esperienza completamente e fino in fondo umana. 

In quella fuga disperata, con la morte che lo segue dappresso, Tolstoj porta con sé una parte considerevole dell'irriducibile Chadzi-Murat che vuole morire a modo suo, Via-di-qua. 

Quasi come a sparigliare nuovamente le carte, a voler confondere chi pensa o si illude già di aver riconosciuto la parola fine. 

Il Tolstoj che fugge è già un altro uomo, forse il prodromo dell'uomo che è già sulla soglia, e la sta attraversando, diventando quello che per noi è puro spirito, e poi chissà.

Per questo, nelle ultimissime pagine, dopo la scomparsa del padre, Coscia racconta di continuare a sognarlo, senza riuscire a trovarlo, come accade al professor Isak nel finale de Il Posto delle fragole di Ingmar Bergman. In quel caso sarà poi l'amata cugina Sara a condurlo, sulla riva per indicarglielo: era lì, di fronte a lui. 

"Dov'è andato ? Dov'è lui ?" si chiede Coscia riferendosi al suo, di padre.  Dov'è finito, dopo la morte? Cosa è diventato ? 

La morte ci costringe a rivedere ogni identità di colui che amiamo. Come il figlio del Velato, noi riconosciamo e non riconosciamo nostro padre. Perché lui è (già diventato) altro. 

A noi mortali, a noi sopravviventi, la scoperta gioiosa di quello (non poco) che resta.

Fabrizio Falconi

28/11/16

Marco Cicala intervista la vedova di Giuseppe Berto,mentre viene ripubblicato "Il male oscuro", romanzo capitale del Novecento italiano.



Giuseppe Berto con la moglie Manuela nell'appartamento alla Balduina

Pubblico l'incipit della bellissima intervista realizzata da Marco Cicala a Manuela, la vedova di Giuseppe Berto, sull'ultimo numero del Venerdì di Repubblica. 


ROMA. La letteratura come terapia è ormai una ricetta da corsi serali per signore ansiose. Non lo era nel 1958, quando Nicola Perrotti – luminare freudiano, tra i fondatori della Società psicoanalitica italiana – prese in cura quello che sarebbe diventato il suo paziente più famoso. Giuseppe Berto aveva 44 anni e stava malissimo. La nevrosi che da qualche tempo si portava appresso s'era andata acutizzando con effetti parecchio invalidanti. Nei momentacci di crisi, Berto non può più restare da solo in una stanza, attraversare una strada, salire oltre il quarto piano di un palazzo. Non prende ascensori, treni, aerei, navi. Se c'è traffico, anche spostarsi in auto lo getta nel panico. Ha dolori al colon, al torace. Vive nel terrore del cancro, dell'infarto, della pazzia. Soprattutto scopre una paura a lui finora sconosciuta: quella di scrivere. Dopo tre romanzi di varia fortuna, si danna alla tastiera, ma niente. A sbloccarlo, lentamente, saranno le sedute da Perrotti.


Sostenuto dal terapeuta, Berto torna al lavoro «come un paralitico che dopo l'attacco di trombosi rieduca a poco a poco gli arti immobilizzati e li riporta a compiere i movimenti» confesserà più tardi. Rimette mano a roba abortita, rimasta nei cassetti, ma Perrotti gli consiglia di buttare via tutto per tentare qualcosa di totalmente nuovo. Non importa il risultato: basta che Berto arrivi fino alla fine senza fermarsi mai. È quanto Bepi farà in due mesi di autoreclusione nella casupola che s'è comprato in cima allo sperone calabrese di Capo Vaticano. Ne verrà fuori «il malloppo», cioè la prima stesura grezza, torrenziale del Male oscuro, suo magnum opus (1964), «che è press'a poco il racconto della mia malattia».



Adesso il romanzo torna in libreria da Neri Pozza, con una bella postfazione di Emanuele Trevi (bella postfazione è formula di prammatica nelle recensioni, però questa è bella davvero) e con il testo di sperticato encomio che nel ‘65 Carlo Emilio Gadda dedicò al libro dai microfoni radio della Rai. Del resto, sin nel titolo – tratto da un passo della Cognizione del dolore citato in esergo – Il male oscuro si situa sotto l'astro saturnino di Gadda, altro nevrotico leggendario. E leggenda è anche quella che ha finito per avvolgere l'exploit di Berto, il suo libro del riscatto e del successo. Hanno raccontato quell'impresa come matta e disperatissima, e magari lo fu, ma nello stile di Bepi: anticonformista disciplinato.



«Scriveva solo al pomeriggio, con due dita. Scriveva e si liberava. Lo vedevi scrivere e liberarsi» ricorda la moglie Manuela nell'appartamento romano alle pendici della Balduina dove si stabilì con il marito a fine anni ‘50. Mi avevano descritto la signora Berto come una tipa battagliera. È di più. Classe 1933, in due ore e fischi di conversazione mi offre vino e sigarette; oltre che di Berto, mi parla di Lawrence d'Arabia, dell'altare di Pergamo, del genocidio armeno e della sua famiglia allargata assai, inclusa quella moglie di suo padre che discendeva da una dinastia russa citata addirittura in Guerra e pace. In vita sua Manuela ha concesso poche interviste; questa l'ha accettata a due sole condizioni: «Non la scriva a domanda e risposta. E non mi chiami La vedova Berto». Obbedisco.



Con Bepi, che per lei era Beppi  si conobbero a Roma, piazza del Popolo, nei primi anni ‘50. Sono belli tutti e due, lui più âgé di 18 anni. «Mi agganciò bussandomi sulla spalla. Era affascinante. Ma non so perché l'occhio mi cadde sui suoi calzini corti e la camicia di nylon». Nel ‘54 convolano. Avranno un'unica figlia, Antonia, che oggi vive tra Italia e Stati Uniti. Siccome nell'atto del concepimento il padre ebbe un problema, volevano chiamare la bambina Colica: «Parola sdrucciola, bellissima, a Beppi piaceva tanto. Però all'anagrafe rifiutarono».



A quell'epoca Berto non sta ancora male, ma nemmeno benissimo.«Prima che ci sposassimo era stato ricoverato d'urgenza per un attacco di calcoli ai reni. Pensavano fosse un cancro, lo aprirono. E da lì ne fecero un ipocondriaco». Berto entra in depressione. Passa dall'agopuntura alla chiropratica, all'omeopatia. Dorme con due vocabolari sotto le gambe per favorire la circolazione. Le tenta tutte: «A un certo punto gli dissero di curarsi con una strana scatoletta di legno da attaccare ogni mattina alla corrente elettrica. Gli prescrissero anche di lavarsi i denti con il sapone di Marsiglia e aspettare».



Ma i placebo fanno tutti cilecca. Arrivano le prime crisi: «Un giorno uscendo da una banca vicino via Veneto lo ritrovo abbracciato alle ginocchia di un vigile urbano». Attacco di panico: «Nel pizzardone riconosceva l'ordine: lo rassicurava. Lo spostammo in farmacia per un calmante». Profondo buio. Finché qualcuno non gli segnala Nicola Perrotti, «uomo buono, intelligente, comprensivo, attento, amoroso» lo definirà Berto. «Per lui» dice Manuela «fu il vero padre». Quello biologico invece si chiamava Ernesto, da Cologna Veneta (Verona), ex carabiniere reinventatosi venditore di cappelli. «Ma tutt'al più era buono a piantare il radicchio. Una carogna» è il ricordo affettuoso della nuora che non lo conobbe mai.



Il male oscuro è anche una guerra di liberazione da quel padre: «Spedì Beppi in collegio. E non lo rivoleva in casa né a Natale né a Pasqua, solo d'estate. Si infuriava quando lui gli spettinava il riporto. Non faceva che ripetergli: Ti sarà un delinquente! Lo fece crescere nel senso di colpa». Colpa di che? «Di non essere all'altezza delle aspettative del papà». E così, per risollevarsi l'autostima, Berto parte due volte volontario in guerra: campagna d'Abissinia (1935) e ancora Africa settentrionale (1942). Doppiamente medagliato, finirà prigioniero negli Stati Uniti e in campo di concentramento scoprirà la scrittura. In seguito avrebbe sconfessato l'allucinazione fascista, migrando verso posizioni anarco-liberali.



Ma mettetevi nei panni di uno come lui: ex prode venuto su tra i miti virili del Ventennio che a quarant'anni si ritrova tremante e denudato dalla nevrosi: «Una malattia basata sulla paura. Paura di tutto» scriverà, con un certo coraggio. Oltre al rapporto col padre, aveva sofferto l'ostracismo della society letteraria di sinistra («La mafia di Moravia» la definisce Manuela per direttissima), e a metterlo k.o. s'era aggiunto pure il flop di Il brigante (‘51), romanzo con il quale Berto contava di ritrovare il successo di Il cielo è rosso, suo fiammeggiante esordio (‘46).



È questo l'uomo diminuito che torna metodico al lavoro sul tavolinetto di Capo Vaticano e, ticchete tacchete, dà la stura al groppo che lo opprime. Scrive come un beat, erutta frasi fluviali, se ne infischia della punteggiatura: «Era come se avessi scoperto il bandolo d'un filo che mi usciva dall'ombelico: io tiravo e il filo veniva fuori, quasi ininterrottamente, e faceva un po' male, si capisce, ma anche a lasciarlo dentro faceva male».
Pensava al Prometeo incatenato di Eschilo, pure lui citato sul frontespizio del romanzo: Il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore.