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03/12/18

Libro del Giorno: "Delitto di una notte buia" di Elizabeth Gaskell.



E' iniziata da qualche anno la riscoperta di Elizabeth Gaskell, scrittrice inglese d'epoca vittoriana (Londra 1810 – Holybourne 1865), che ebbe una vita infelice, sublimata nel grandissimo amore per la letteratura. 

Orfana di entrambi i genitori, Elizabeth cresce nel piccolo centro rurale di Knutsford e a ventuno anni sposa William Gaskell, ministro della Chiesa Unitaria, col quale si trasferisce a Manchester. 

Nel 1845 la morte dell’unico figlio maschio la spinge, spronata dal marito, a cercare sollievo al dolore nella scrittura del suo primo romanzo, Mary Barton, che ottiene un buon successo. 

Quella che era nata come distrazione diventa allora una vera e propria vocazione letteraria: l’osservazione della realtà di Manchester la stimola a descrivere la vita drammatica del proletariato urbano e le tensione fra le classi.

Per la rivista di Charles Dickens – «Household Words» – scrive una serie di bozzetti sulla vita rurale inglese all’inizio dell’Ottocento. 

Amica di molti scrittori e intellettuali del suo tempo, stringe un forte legame con Charlotte Brontë. 

Questo Delitto di una notte buia appare a puntate per la prima volta tra il gennaio e il marzo del 1863 tra le pagine del periodico «All the year round» grazie all’entusiasta approvazione di Charles Dickens

E' un romanzo intimo, dalle tinte tristi e fosche che si dipana tra le case di Ford Bank, una cittadina nella quale Edward Wilkins esercita la professione di avvocato come il padre prima di lui. 

La capacità affabulatoria e l’acuta intelligenza gli permettono di avvalersi della simpatia dei nobili locali anche se, in una Inghilterra ancora rigidamente divisa in classi, questi ultimi non considereranno mai l’avvocato un loro pari. 

Sconvolto per la morte della moglie e della secondogenita, Mr. Wilkins riversa ogni attenzione nei confronti della figlia maggiore, Ellinor. 

La vita della ragazza sembra perfetta: è innamorata del giovane Mr. Corbet, uno studente di Giurisprudenza brillante e ambizioso che fa pratica nelle vicinanze; tutto le sorride, al punto da non accorgersi dell’evidente stato di decadenza del padre, il quale, sentendo il peso dell’inadeguatezza sociale e del proprio fallimento, riversa i suoi malumori in vizi, lussi e alcolici. 

Tutto si ferma una notte, una notte buia durante la quale Ellinor assiste a un delitto nato quasi per caso. 

E sarà proprio questo evento a sconvolgere, con un colpo drammatico e impietoso del destino, la sua vita ribaltando l’ordine di ogni cosa e condannando la giovane a una irredimibile infelicità. 


La colpa, il destino, l'espiazione, l'amore vano, sono i temi di questo romanzo che non possiede la grandezza di un classico di Dickens, ma espone il punto di vista femminile sulla vita di quegli anni (e sulla difficile vita delle donne di quegli anni) e sulle eterne disillusioni dell'amore. 

Delitto di una notte buia
Introduzione e cura di Francesco Marroni
Traduzione di Maria Barbuni
Edizioni Libreria Croce di Fabio Croce
Roma, 2017
Euro 17.50
Pagine 276

09/10/18

Libro del Giorno: "Bartleby lo scrivano e altri racconti" di Herman Melville.



Tornano, in nuova e bellissima edizione, nella traduzione di Alessandro Roffeni, 5 racconti di Herman Melville, tra cui il famosissimo Bartleby, pubblicato per la prima volta nel 1853 sul "Putnam's Monthly Magazine", due anni dopo il clamoroso insuccesso si Moby Dick che, uscito nel 1851, non portò al suo autore né vendite né riconoscimenti. 

Prossimo alla rovina finanziaria e dopo che un incendio aveva distrutto molte copie dei suoi libri nella sede della casa editrice di New York, Melville a 33 anni avvertiva la propria carriera di scrittore già volta al termine.

Eppure, non interruppe del tutto la sua produzione, tornando a lavorare in solitudine ai racconti e a L'uomo di fiducia, l'ultimo romanzo (pubblicato nel 1857) che avrebbe visto le stampe mentre l'autore era in vita, cioè fino al 1911, anno della morte di Melville. 

Lo scrittore dunque decise, pochi anni dopo averlo creato, di imitare il suo Bartleby, il protagonista del suo celebre racconto: come lo scrivano "preferisce" non scrivere più scegliendo in pratica il suicidio, così lo scrittore deluso - come scrive Alessandro Roffeni  nella nota alla traduzione - "preferisce anch'egli sottrarsi allo sguardo dei lettori, scegliendo di suicidarsi come figura pubblica".

Anche Melville terminerà i suoi anni da vecchio brontolone: come uno dei personaggi di questi racconti. 

Rileggere oggi Bartleby ci fa apprezzare ancora di più il manifesto esistenziale di Melville, quello di un rifiuto sostanziale e radicale dei meccanismi di complicità e di sottomissione su cui si basa la società civile.  Ma una lettura ancora più attenta, oggi, ci aiuta a sfrondare questo gigantesco racconto dalla prosopopea "politica" che gli è stata attribuita nel corso dei decenni: quella cioè di un semplice proclama a favore della disubbidienza (politica).  In realtà il finale patetico del racconto, con la "voce" raccolta dal narratore, a proposito del misterioso Bartleby prima del suo apparire sulla scena, prima perciò di essere assunto a servizio come scrivano dall'avvocato-narratore, ci illumina sul fatto che Bartelby è sostanzialmente un tragico deluso dalle cose del mondo: la sua occupazione (precedente) all'ufficio postale delle "lettere smarrite" (vero colpo di genio di Melville), ci fa intuire che Bartleby  ha sperimentato grazie a quel surreale impiego, l'inutilità di ogni cosa - passioni, interessi, faccende, litigi, ecc.. - umana.  Tutte quelle cose incompiute e perse, mai consegnate, mai recapitate, mai portate a termine, suggellano il fallimento di ogni aspettativa umana.  

La sua protesta dunque - "preferisco di no" - è dunque una ribellione nei confronti della condizione umana tout-court piuttosto che una ribellione/rivendicazione sociale. 

Meno fulminanti, ma ugualmente magistrali sono gli altri quattro racconti presenti nel volume: Il tavolo di melo, dove il narratore è un uomo sconvolto dall'apparizione di un elemento misterioso e inesplicabile:  il rumore di un ticchettio proveniente da un vecchio tavolo in legno di noce trovato in una soffitta, dal quale scaturirà un insetto meraviglioso; anche in Io e il mio camino si parla di mistero, perché c'è chi vuole sondarlo, violarlo e metterlo a nudo: cioè un presunto scomparto segreto nel vecchio camino della casa, che invece l'anziano proprietario vuole difendere a ogni costo; infine ne Il violinista e in Jimmy Rose Melville torna sui temi del successo e del fallimento e della decadenza, di cui i due rispettivi protagonisti sono in diversi modi l'incarnazione.

Si tratta comunque di cinque perle di grande valore, che meritano di essere riscoperte e ammirate nuovamente. 

06/08/18

Libro del Giorno: "Il mio mortale nemico" di Willa Cather.



Scritto nel 1926, questo è un altro dei grandi romanzi brevi scritti da Willa Cather (1873 - 1947) di cui abbiamo già parlato pochi giorni fa a proposito di Una signora perduta.

La vicenda prende il via dalla provincia profonda americana - dalla quale proveniva anche la Cather - in una cittadina dove è ancora vivo il ricordo della bella Myra Henshawe, rimasta orfana e allevata dal ricco zio, che ha rinunciato all'eredità per amore.

Una notte, la giovane Myra è infatti scappata di casa portando con sé solamente un manicotto e un portamonete. A passo svelto e testa alta, se n'è andata per sempre. Ha raggiunto Oswald Henshawe, giovane spiantato di cui è innamorata, e lo ha sposato, rinunciando così ai beni dello zio che le spetterebbero. Un gesto audacemente romantico, che in famiglia diventa una leggenda colpendo non poco la fantasia della ragazzina Nellie, la quale qualche anno più tardi ha la possibilità di incontrare da vicino, a New York, l'eroina di cui ha così tanto sentito parlare.

Ha così la conferma del carisma della donna, del suo innegabile charme: né gli amici artisti, cui riserva una conversazione dove vibra «una lingua speciale» e un’incorreggibile prodigalità, né gli «amici ricconi», che subiscono rassegnati il suo sarcasmo fulmineo riescono a resisterle.

A mano a mano però Nellie scopre - osservando la coppia da vicino -  che è come se nella casa degli Henshawe, dove regnano spensieratezza e buone maniere e ogni cosa appare unica e irripetibile, penetrasse uno spiffero gelido, suscitando un misterioso terrore e crepe minacciose minassero quell'apparente incanto. 

Dieci anni più tardi, incontrando di nuovo Myra e il marito sulla West Coast, Nellie capirà che quella coppia perfetta era un esempio di legame fondato sull’odio non meno che sulla passione, giacché «si può essere nemici e amarsi allo stesso tempo».

Anche la madre di Nellie del resto, quando lei ancora bambina, le aveva chiesto se Myra e Oswald fossero poi sono stati felici, le aveva rivolto una risposta glaciale: «Felici? Oh, sì! Come la maggior parte della gente». E allora a che cosa è servito quel sacrificio? Che senso ha avuto barattare grandi fortune per una vita banalmente normale? Quelle che emergono, in questo romanzo breve ma stratificato, sono le mille sfumature di una figura ambigua e tormentata, una donna tanto risoluta nelle sue clamorose rinunce, quanto incapace di godere di una felicità che di clamoroso non ha nulla. 

Uno spirito libero che si trova a combattere contro i limiti della quotidianità e la crescente, esasperante consapevolezza di essere una donna totalmente diversa da quella che pensava di essere in giovane età. Tanto che in un momento di quieta disperazione, ridotta quasi all'immobilità, Myra definisce il marito "il mio mortale nemico".

Willa Cather descrive queste variazioni così sensibili sul tema della felicità e delle illusioni, in un piccolo capolavoro: pagine davvero indimenticabili, intrise di una grande carica drammatica. 

«Cather non è solo una brava scrittrice: è unica, è grandiosa», scrive Antonia S. Byatt nella bellissima introduzione al volume, «Il mio nemico mortale è una vera tragedia costruita a partire da una vera storia d’amore. La scrittrice che è in me pensa a questo libro più che a ogni altro dell’autrice. Ogni breve episodio è la rivelazione perfetta di qualcosa di nuovo e inaspettato. Non c’è una sola parola superflua o ridondante. È un romanzo al tempo stesso distaccato e dolorosamente commovente».

Fabrizio Falconi

Willa Cather 
Il mio mortale nemico 
Traduzione di Monica Pareschi 
Piccola Biblioteca 
Adelphi 2006, pp. 112

03/08/18

Libro del Giorno: "Ritratto di Signora in Viaggio" di Gottardo Pallastrelli.


Prezioso questo nuovo libro, da poco uscito da Donzelli, scritto da Gottardo Pallastrelli, che da anni studia il mondo di Henry James. 

Tutto parte dal fortunoso ritrovamento di una ventina di lettere inedite del grande scrittore ritrovate nell'archivio privato di una famiglia italiana, indirizzate ad una signora americana dell'epoca, finita sposa ad un italiano, Caroline Fitzgerald. 

È a lei che è dedicata questa biografia ricostruita attraverso il minuzioso studio di lettere, diari e documenti d’epoca, che ricostruisce un reale ritratto di signora nel quale è inevitabile scorgere in filigrana le fattezze di un’ideale eroina jamesiana. 

Molto nota nell’alta società newyorchese, Caroline ben presto si trasferì a Londra. Fu in un brillante salotto di Kensington che avvenne il primo incontro con lo scrittore americano, il quale, in una lettera a Edith Wharton, la descrive con un ricercato termine: "handsome blowsy", qualcosa come una «bellezza trascurata»

James frequentava le donne dall’eleganza sofisticata della migliore società internazionale, e Caroline certamente  non ricalcava lo stereotipo della giovane ereditiera americana in Europa tanto in voga in quegli anni. 

Lei che era colta, ricca, innamorata della poesia e talmente affascinata dall’Oriente da aver studiato il sanscrito e da vestire lunghe tuniche esotiche, era infatti decisamente lontana da quel cliché. 

Dopo il divorzio da un Lord inglese, si era innamorata di un medico ed esploratore italiano, Filippo De Filippi, famiglia dai cui archivi (oggi in possesso degli eredi) è uscito oggi questo carteggio.  

Sia pur tra le righe delle sue lettere James sembrò incoraggiare quella scelta e, negli anni che seguirono, spesso incontrò Caroline costatandone la nuova felicità, dopo il primo matrimonio fallito e sciolto perché non consumato.

Imperdibili sono alcuni resoconti che James scrive delle sue gite in Italia a bordo di una delle primissime automobili del secolo di proprietà della coppia. 

Il viaggio fu, del resto, la cifra stessa dell’esistenza di una donna intraprendente che andò fino in Caucaso e poi in India al seguito delle esplorazioni del marito. 

Da ogni parte del mondo Caroline riportava bellezze ed emozioni nel carteggio con James e gli altri amici della vecchia Europa. 

Una vita inconsueta vissuta appieno in poco più di quarant’anni e finita a Roma il giorno di Natale del 1911. 

Leggere oggi la sua biografia, attraverso le tante pagine di suo pugno, è come leggere in controluce un romanzo jamesiano mai scritto, o meglio ancora sbirciare nel vissuto di James fatto di incontri con donne e uomini reali da cui lo scrittore attingeva spunti per i suoi capolavori. 

Molto interessante è anche l'appendice del libro dedicata alla vita dei due fratelli di Caroline, l'uno Augustine, pittore, l'altro, Edward, alpinista famoso (fu il primo a salire sulla vetta dell'Aconcagua, la montagna più alta d'America), che anche loro certamente finirono per ispirare lo scrittore americana, come scriveva la stessa Caroline: «Henry James è venuto da noi per il tè questo pomeriggio – annotava in una lettera del 22 maggio 1896 – e ha continuato a farmi domande su Edward il quale, ne sono certa, finirà in uno dei suoi prossimi romanzi». 

Di certo la vita stessa di Caroline, e il suo carattere indipendente, fu ispirazione per James per le sue indimenticabili protagoniste femminili, accomunate dall'essere ereditiere americane in cerca di fortuna in Europa. 

Seguire la vita di Caroline Fitzgerald e della sua famiglia significa non solo fare luce su esistenze affascinanti di cui si erano perse le tracce, ma anche godere di quell’intimità emotiva che legò così profondamente Henry James a una donna dalla personalità complessa e originale. T

Il libro si avvale anche di uno splendido apparato fotografico, con le rare immagini di quell'epoca felice in cui a un ristretto numero di privilegiati era concesso di compiere esperienze uniche, inedite, in giro per i cinque continenti. 

Ritratto di signora in viaggio 
Un'americana cosmopolita nel mondo di Henry James 
Donzelli Editore 2018, 
pp. 256 Euro 25.

09/06/18

Il Libro del Giorno: "Sweet Dreams" di Michael Frayn.



Dal genio di uno dei maggiori autori viventi, il racconto di un uomo che senza sapere di esser morto arriva in Paradiso e inizia a fare carriera. Un classico della letteratura inglese tradotto per la prima volta in italiano.
Howard Baker, un giovane uomo di idee liberali e discrete ambizioni, si trova in macchina, fermo davanti a un semaforo. Quando lo supera succede qualcosa: invece di prendere la via che si sarebbe aspettato, imbocca una superstrada a dieci corsie che lo conduce verso un'enorme metropoli. Ancora non lo sa, ma è giunto in Paradiso. Soltanto che, a differenza di quanto avveniva ai tempi di San Giovanni, il Paradiso oggi non è più una città fatta di oro puro e cristallo trasparente, ma un luogo vibrante e pieno di intrattenimenti e opportunità professionali, in cui tutto, davvero, è possibile. 
Qui Howard fa nuovi incontri e ritrova vecchie conoscenze, si innamora di una ragazza e contemporaneamente conduce la solita vita famigliare con la moglie e i figli
Un giorno arrivano a fargli visita i suoi amici storici: al pari di lui, anche loro in quel luogo sono impegnati in progetti e attività di assoluto rilievo; uno di essi ispira poeti come John Donne e William Butler Yeats "passandogli" alcuni versi, un altro riesce a far tornare in vita persone che erano morte. 
Howard invece fa parte di un prestigioso team di architetti e designer che sta progettando le Alpi: sarà lui a disegnare l'inconfondibile sagoma del Cervino. E la sua carriera non si fermerà di certo qui, con il tempo infatti Howard diventa una specie di guru spirituale e infine arriverà a essere scelto da Dio come proprio aiutante... 
“Frayn è un grande scrittore. E questo romanzo una specie di Candido di Voltaire. Un Candido contemporaneo e irresistibile”. - New Yorker
“Forse uno dei contributi più originali della narrativa inglese all’intero ventesimo secolo”. - Times Literary Supplement
"Dopotutto, che cosa ti piace, in effetti? Di fatto, che cosa ti diverte? Non la contemplazione, Howard. Non l'essere in contatto con l'infinito. Quello che ti piace è prawn biryani e crumble di mele; alzarti tardi la domenica e leggere i giornali in vestaglia; tenere sott'occhio le tue polizze assicurative; toglierti il cibo incastrato tra i denti con uno stecchino affilato".
"Pensavo che da qui sarei stato diverso".
"Ti piacerebbe essere diverso?".
Howard riflette, togliersi il cibo incastrato tra i denti con uno stecchino affilato.
"No", dice infine.
"Ecco, bene".


12/04/18

Adelphi pubblica le lettere di Samuel Beckett: Una vocazione unica e complessa.



Scrivere di Samuel Beckett e' difficilissimo, ovviamente. Perché lui, come nessun altro, ha saputo incarnare lo scrittore del Novecento, perché come nessun altro ha saputo potare drasticamente ogni parola non necessaria, fino ad arrivare in alcuni casi che si possono solo definire "assoluti" al puro silenzio, come per esempio alla fine de "L'ultimo nastro di Krapp".

Perché i suoi testi sono cosi' carichi di densita' e di consapevolezza da rendere quasi impossibile dire "altro". Anche per questi motivi la pubblicazione per Adelphi - casa editrice che in Italia fa un lavoro che oggi non riesce a fare nessun altro, per respiro, diversita' e complessita' - del primo volume delle "Lettere" di Beckett e' un evento editoriale vero, cosi' vasto da richiedere addirittura quattro curatori internazionali, a cui si affianca, per l'edizione italiana, Franca Cavagnoli.

Il primo tomo copre il periodo giovanile dello scrittore, tra il 1929 e il 1940 ed e', come sottolinea la prefazione, una ampia occasione (500 sono le pagine del libro) di incontrare la voce di Beckett in un periodo nel quale "la sua attivita' pubblica non ardisce ancora farne uso".

Una voce che, anche per le modalita' di costruzione delle lettere, e' piena della sua consapevolezza di scrittore (e il fatto che i testi contengano innumerevoli volte i dubbi su questa scelta e le ricorrenti incertezze legate alla fatica del distillare delle frasi, se non addirittura delle singole parole - "L'idea stessa di scrivere mi sembra, come dire, grottesca" - e' una ulteriore conferma di tale consapevolezza) e che gia' si nutre di sistemi di riferimento, come quello che potremmo definire "escrementizio", che saranno poi cruciali nella poetica dello scrittore e drammaturgo futuro ("Le lettere - si legge nella lunga introduzione al volume, firmata da Dan Gunn - sono, come e' sempre piu' chiaro, non soltanto il mezzo, ma anche il fine, grazie al quale la strada bloccata del presente diventa, nello scrivere, l'autostrada sgombra di un futuro").

Beckett, a proposito di se stesso, parla di "aspermatismo mentale" (in relazione alla "masturbazione mentale" che lui riferisce a Huxley), poi, in una lettera del 4 agosto 1932 da Londra al suo corrispondente piu' intimo, Thomas McGreevy, in qualche modo, carica di quello che potremmo chiamare "ottimismo", forse definisce meglio il concetto: "Se riuscissi a inventarmi dei pretesti per scrivere una poesia, un racconto, qualsiasi altra cosa, starei bene. In verita' credo di stare bene. Ma a volte mi terrorizza l'idea di essere guarito dal solletico della scrittura. Immagino che sia questo posto fornicante con il suo clima fornicante. Tuono letale e pioggia a torrenti".


Poi, con un colpo di genio che scavalca a pie' pari tutto Proust, la lettera prosegue cosi': "Oggi pomeriggio ero seduto in St. James's Park su una sdraio da 2 pence e mi sono debitamente commosso, fin quasi all'occhio lucido, per un bambino che giocava a 'bus vuoti' con una bambinaia, dalla stessa identica espressione tipo granito sgretolato, che aveva la mia prima di sposare il giardiniere e diventare polipara, e la chiamava Tata. 1/8... 3/8 Presto mandero' un cablo a mia madre che venga a darmi il bacio della buonanotte".

Dire che il senso dell'intero Novecento letterario sia, cripticamente quanto volete, espresso in queste poche righe, e' forse troppo. Ma di una buona parte perche' no? Samuel Beckett, il giovane Samuel Beckett di queste lettere, probabilmente risponderebbe "Tant piss" e anche questo sarebbe coerentemente novecentesco (e, dato non trascurabile, oggi l'aggettivo ha senso compiuto proprio attraverso Beckett, che lo ha forgiato parola su parola su parola. Quindi tutto si ricompone in un circolo che e' divertente, seppur non particolarmente originale, definire "assurdo". E ci fermiamo qui, saluti e ossequi a James Joyce).

Le "Lettere" completano l'opera di Samuel Beckett, la arricchiscono, diventano "opera" a loro volta e ci parlano di una vocazione univoca, per quanto perennemente insicura, verso la letteratura che ha un unico pari nel XX secolo, il vero "companion" dell'irlandese: Franz Kafka, che pure mai compare in tutte queste missive, salvo che in una nota dei curatori, senza alcun diretto riferimento al testo beckettiano.

"Le lettere di Beckett - scrive ancora Dan Gunn, ed e' come se parlasse anche di Kafka - rivelano compromessi e fieri rifiuti, il desiderio di autoaffermazione e il ribrezzo per la notorieta', le strade sbagliate non intraprese per un soffio e l'intimo convincimento che l'unica strada da seguire davvero sia quella della letteratura".

L'unica strada. La strada. Murphy dopo Josef K., Malone come l'agrimensore. "Finale di partita" per Gregor Samsa.

Fonte: Leonardo Merlini per askanews

03/01/18

Il libro del giorno: "Darke" di Rick Gekoski.





Alla veneranda età di 73 anni, former member del dipartimento di Letteratura Inglese della Warwick University, cittadino inglese anche se americano di nascita, Rick Gekoski, ex membro della giuria del Booker Prize e dell'International Booker Prize, si è concesso un esordio letterario con un romanzo che già a partire dal nome - Darke è il nome del protagonista del romanzo - manifesta il suo intento, quello di scrivere un libro fieramente cupo. 

James Darke è infatti un ex insegnante, bibliofilo, che dopo la morte per cancro dell'amata moglie, decide di costruirsi un isolamento perfetto.   Si barrica nella sua casa di Londra, stacca i contatti sociali con tutti, si dà insomma per morto, affidando ad un unico amico la risposta alle mail del suo account che disattiverà, insieme al telefono e ad ogni contatto con l'esterno. Il cambio della serratura con cui si apre il romanzo è il gesto simbolico di questa guerra dichiarata al mondo.  

Darke non risponderà più a nessuno, nemmeno all'unica figlia, Lucy, che viene a bussare alla porta di casa, che gli manda disperati messaggi sulla mail che lui ormai non legge più, se non per la procura dell'amico. 

Anche un isolamento così ben organizzato però - Darke è un vero odiatore perfetto, odia tutti,  qualunque essere umano, perfino i cani dei vicini che avvelena con tecniche sofisticatissime, perfino la donna dell'est, unica superstite che ha il permesso di entrare in casa sua per svolgere le pulizie - è destinato a fallire. 

Ci sarà di mezzo la cocciutaggine della figlia e la salvezza di un bambino che lo costringeranno a uscire dal buio e piano piano ad abbandonarsi nuovamente e suo malgrado, alla vita.

Colmo di ghiotte citazioni - solo qualcuna esplicita, la maggior parte criptate e nascoste nel testo - Darke è un furbo romanzo sul mood dirompente del nichilismo e del cinismo a oltranza.  Che andrebbe anche bene se non ci fosse, tra le righe - anzi, ad ogni riga - un sentimento insopportabile di autocompiacimento che vellicola il narcisismo letterario di Gekoski e del suo alter-ego Darke

Il sarcasmo e la simpatia feroce che suscita a tratti Darke cerca infatti una complicità di tipo ricattatoria da parte del lettore.  Ti mostro quanto sono cinico, quanto potrò disprezzare questa vita che vivo e che vivi tu e che viviamo, al patto che mi riconosci di essere intelligente più di te, e di muovere i fili di questo gioco letterario. 

Darke non è credibile dall'inizio. La sua cattiveria feroce del post-isolamento contrasta con i racconti teneroni del pre-: la malattia della moglie Luzy, la vita molto borghese e convenzionale descritta nel pre-. E che tutto sommato Darke continua a fare nel suo elegante appartamento del quartiere londinese dove vive. 

Gekoski, oltre alle sue amarezze personali - il decadimento fisico, la vita che non ha senso, la morte,  la truffa e il ridicolo delle religioni, la malattia - che viene descritta con minuzia crudelissima e senza risparmio di particolari - ci mette anche dosi di sarcasmo a piene mani. 

Ma se la sostanza dark  - cioè nichilista - del libro fa impallidire perfino uno come Philip Roth, più volte citato nel testo e sicuramente riferimento letterario per Gekoski, il paragone letterario più vicino per questo romanzo è quello di Barney, cui Darke assomiglia molto.  Ma l'opera di Richler sta a quella di Gekoski come una sinfonia rispetto ad un mottetto. 

La capacità narrativa, oratoria, umoristica, definitiva di Richler apre infatti le porte a un vero e proprio mondo, dove il lettore è precipitato e coinvolto, fino alla fine, senza possibilità e volontà di potersi/volersi sottrarre.  Il libro di Gekoski è invece un esperimento a freddo, che freddo rimane. Che non concede e non dà nulla al lettore. E' un piccolo sfogo di un futuro morente, che prima di andarsene sente l'umano bisogno di confessare il suo personale astio contro l'inconveniente di essere nato. 

Una visione della vita - e anche della letteratura - deprimente, e che anche di questa depressione non riesce mai a fare arte.

Fabrizio Falconi



02/06/17

"Il Carteggio Bellosguardo" - L'amore "impossibile" tra Henry James e Constance F. Woolson, un libro della Italo Svevo.


Una giovane scrittrice americana, nipote di uno dei padri di quella letteratura, si invaghisce del grande Henry James.  Con grazia lo insidia, gli scrive, finché lui un po’ si concede, almeno in parte. Così nelle ville che da Bellosguardo si affacciano su Firenze nasce un amore che non verrà mai realmente consumato. Ma che finirà per attraversare, se così possiamo dire, i carteggi che i due protagonisti si scambiano, entrare nelle loro opere e diventare letteratura. Questo racconto lo ripercorre, come nei frammenti del discorso di Roland Barthes, come l’archetipo di quelle passioni sospese e mai vissute.
 
Questa è la storia di un amore sghembo, frammentario e sospeso, difficilmente espresso e malamente corrisposto, dietro il quale si nasconde la più grande letteratura dell’ottocento.
Valerio Aiolli è nato a Firenze nel 1961, tra i suoi libri Io e mio fratello (Edizioni E/O, 1999), Luce profuga (Edizioni E/O,2001), A rotta di collo (Edizioni E/O, 2002), Fuori tempo (Rizzoli, 2004), Ali di sabbia (Alet, 2007), Il sonnambulo (Gaffi, 2014), Lo stesso vento (Voland, 2016).
 
LA COLLANA - PICCOLA BIBLIOTECA DI LETTERATURA INUTILE
L’energia intellettuale che da sempre caratterizza la città di Svevo, Saba, Bazlen e Stuparich, per una nuova editoria di cultura, intel­ligente e attenta alle esigenze dei lettori più raffinati.
La Italosvevo rinasce con una nuova collana di volumetti intelligenti e anticonvenzionali per contenere quel­la letteratura, di grande tradizione italiana, che non appartiene alla narrativa e difficilmente trova spazio nelle case editrici. Volumi di piccolo formato molto cura­ti nella veste grafica, copertina in brossura su carta di pregio con lunghe bandelle, ri­legatura filo refe, tagli laterali in tonso. Con questo nuovo progetto editoriale Italosvevo vuole catalizzare l’energia culturale che nasce dalla storica tradizione letteraria di Trieste e che tuttora ne fa una delle città più attive e ferventi, per esportarla in tutto il Paese. Il progetto della Italosvevo, rilevata Alberto Gaffi, la cui direzione editoriale è affidata a Giovanni Nucci, è di andare a cogliere questo fermento là dove storicamente è sempre, con una produzione letteraria particolarmente vivida, colta, intelligente e raffinata. Con un occhio di riguardo alla realtà triestina, pubblicando però indistintamente autori italiani e, se necessario, stranieri.
La collana «Piccola biblioteca di letteratura inutile» si muoverà negli spazi del reportage, delle divagazioni letterarie, divertissement, pamphlet, testi di letteratura filosofica o di saggistica dissacrante, brevi scritti morali. Nel segno della riflessione e della critica, dall’attenzione e dell’intelligenza, del sarcasmo e dell’ironia. La grafica curata da Maurizio Ceccato è moderna pur seguendo i dettami della grafica editoriale di più chiara tradizione.  I volumi finora usciti sono: Trittico di Hans Tuzzi, Piccolo dizionario delle malattie letterarie di Marco Rossari, Un ossimoro in lambretta. Labirinti segreti di Giorgio Manganelli di Patrizia Carrano, Sulla Poesia di Giorgio Caproni a cura di Roberto Mosena, Editori vicini e lontani di Cesare De Michelis, E due uova molto sode di Giovanni Nucci, Non è una questione politica di Alfonso Berardinelli.

14/03/17

"Scene di vita di provincia" di J.M.Coetzee, un grande Libro (Recensione).



Einaudi ha recentemente riunito in un solo volume, con il titolo complessivo di Scene di vita di provincia, le tre parti del racconto autobiografico di J.M.Coetzee, Premio Nobel per la Letteratura nel 2003, pubblicate in tre differenti volumi, pubblicati nel 2001, 2002 e 2010.  E nel corso delle 558 pagine c'è modo non soltanto di ricostruire porzioni della vicenda biografica del grande scrittore, ma soprattutto i nodi cruciali della sua ispirazione. 

Nel primo dei tre capitoli, Infanzia, Coetzee racconta - in terza persona - la vita di un ragazzino nel quartiere anonimo di una desolata provincia sudafricana, a centosessanta chilometri da Città del Capo, Worcester. Un ragazzino molto intelligente e chiuso, che cerca una via di fuga da un padre ordinario che non riesce a rispettare e da una madre che ama di amore viscerale ma che non gli dà certezze, dai riti di una scuola dove le regole non sono uguali per tutti, dai turbamenti di un'infanzia già minata nel suo carattere più sensibile.  dagli angusti orizzonti nazionalistici del Sudafrica nel secondo dopoguerra. 

Comincia qui, tra le esperienze famigliari, le fughe nel selvaggio Veld con la cuginetta preferita, la percezione di quel profondo senso di inadeguatezza nei confronti della vita, che è soprattutto un blocco relazionale, costruito intorno ad una intelligenza e ad una sensibilità troppo precoci. La difficoltà di costruirsi un'identità nella babele di etnie, lingue, religioni del Sudafrica a cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta, al di là di ogni pregiudizio, è la sfida che il ragazzino accetta, con la condizione di pagarne il prezzo. 

Nella seconda parte, Gioventù Coetzee è già diventato poco più che ventenne e ha già cambiato vita e continente. Dopo la laurea ha scelto di abbandonare il Sudafrica, quel luogo violento e radicale che gli imprigiona l'anima e ha scelto la disinibita Londra, dove si parla l'inglese che la sua famiglia ha sempre parlato (pur essendo di origini olandesi), dove è possibile sentirsi vicini al cuore europeo dei poeti, i grandi poeti - Pound, Holderlin - e narratori - Ford Madox Ford - che hanno riempito l'immaginazione e i sogni dell'adolescente provinciale.    

A Londra, Coetzee  è ben lungi dal diventare un poeta o uno scrittore, però. Essendo un abile matematico, finisce a lavorare come programmatore presso l'IBM, un mestiere frustrante e solitario che finisce per isolarlo ancora di più, in una città dove non trova sostanzialmente né amici, né rapporti sentimentali stabili, ma anzi dove assapora l'amaro di fugaci sperimentazioni quasi sempre insoddisfacenti.  

Licenziatosi dall'IBM e indeciso tra il proseguire la vita bohémian negli ancora più stranianti Stati Uniti, o fare ritorno a casa (dove comunque sarà costretto a fare rotta più avanti, per la morte della madre), Coetzee cerca affannosamente la propria strada, senza riuscire a fare breccia dentro di sé, senza trovare una via ad una apertura più sincera e radicale del cuore. 

L'ultima parte, Tempo d'Estate, scritta dieci anni dopo le prime due e non nella stessa forma della terza persona come le altre due, Coetzee inventa un proprio ritratto post-mortem: immagina infatti che dopo la sua morte un ricercatore universitario, volendo approfondire aspetti della vita dello scrittore, scelga di intervistare cinque persone che lo hanno conosciuto: quattro donne e un uomo. 

Le cinque lunghe interviste ricostruiscono soprattutto il lato più umano di Coetzee, la sua fragilità emotiva e psicologica, la carenza di affettività, le difese strutturate dietro le quali lo scrittore ha protetto il suo nucleo più profondo. 

Ne escono opinioni crudeli, a volte crudelissime, come nel caso della ballerina brasiliana, conosciuta da Coetzee durante il suo ritorno in SudAfrica per prendersi cura del padre rimasto vedovo e malato, che sprezzantemente giudica lo scrittore un mezzo uomo, un uomo inutile. 

In altri casi i toni sono più vicini - come quelli usati dalla cugina, Margot - o più tranchant come quelli usati dalla insopportabile Julie, la psicologa che ha avuto Coetzee come amante per un lungo periodo.  

Durante quest'ultima parte il lettore è portato costantemente a interrogarsi sul contenuto di verità espresso da Coetzee in questo racconto volutamente frammentario: come in un complicato gioco di specchi, l'autore di Vergogna si nasconde dietro una sofisticata teoria di simulazioni. 

Cosa è vero, cosa è finzione ? Cosa è immaginazione dell'autore su se stesso, cosa denudamento baudelairiano ? 

L'intento forse è proprio questo: dimostrare che nel cuore profondo di ogni esistenza c'è un grande e piccolo mistero insondabile, che nessuno può esplorare, nemmeno chi lo ospita. Ciascuno vive e si guarda vivere in gioco di rifrazioni che comprende gli sguardi degli altri, i giudizi e le omissioni e le proprie ombre e debolezze che abitano i recessi meno illuminati, quelli più oscuri e difficili da decifrare. 

Tutto è parvenza, tutto è dolorosa sostanza. 

In fondo è anche per questo che è così difficile resistere alla tentazione di vivere. 

Fabrizio Falconi 


09/02/17

Henry James: "Una vacanza romana" - (Recensione).




E' un libro molto prezioso, questo pubblicato da Elliot: contiene il resoconto dei viaggi e soggiorni del grande Henry James nell'arco di trent'anni, dal 1872, due anni dopo la breccia di Porta Pia, fino ai primi anni del '900 (James muore nel 1916). 

James, al contrario di Joyce, amò Roma dal primo momento e Roma lo ricambiò con giorni pieni di estasi e di turbamento,  il cui resoconto è in questa pagine. 

Si tratta di sei parti distinte -  Una vacanza romana, Cavalcate romane, I dintorni di Roma, Il fuori stagione a Roma, Da un taccuino romano e Altri dintorni romani - che compongono un senso unitario di formazione e scoperta.  

James gira Roma a piedi durante il carnevale romano, prende alloggio in Via Lata /Via del Corso, esplora le più belle ville - Villa Medici e Villa Ludovisi le sue preferite, insieme a Villa Borghese - le oscure chiese, la monumentale Basilica di San Pietro - in cui torna ogni volta - percorre a cavallo la Via Flaminia fino a Ponte Milvio inoltrandosi fino a Veio, perlustra i dintorni minuziosamente (Ariccia, Albano, Nemi, i Colli Albani, la via Tuscolana), fino a un viaggio in automobile a Subiaco, per scoprire il monastero di San Benedetto. 

Questi scritti facevano già parte del volume Ore italiane (1909). La Roma dei ruderi di campagna, ma anche delle toghe purpuree dei monsignori, dei nuovi quotidiani liberi dalla censura papale e dei pastori con cappelli di paglia lungo le vie, dei monumenti capitolini e della folla sul Corso. 

Accompagnato dai molti amici inglesi o americani che lo scrittore frequentava assiduamente, e insieme a loro anche lo scultore norvegese Hendrik Christian Andersen, James frequenta i salotti nobili della capitale post-papalina di allora, va a teatro all'Apollo - dove nei palchi c'è Margherita, la neo-Regina d'Italia - oppure si mischia alle folle di contadini nella campagna intorno alla città, annotando ogni cosa, ogni percezione, dalla gloria dello spettacolo della natura lussureggiante d'estate alle luci d'inverno, alla parvenza macabra delle rovine e delle chiese spettrali abbandonate o fatiscenti. 

Lo stile di James è quello delle sue narrazioni, condito di humour e di ironia sottilissima, perennemente alla ricerca di definire l'indefinibile, ovvero la natura del fascino suggestivo di quella città eternamente presente ed eternamente sfuggente.

Anche quando torna, 30 anni dopo, l'incanto non è scomparso: Nessuno che abbia mai amato Roma come poteva essere amata in gioventù... vuole smettere di amarla. 

Il libro è oltremodo utilissimo per scoprire le cose che della città si sono tramandate fino a oggi - la sua sciatteria, la sporcizia, il disincanto, la necessità di scoprirla realmente fuori stagione, quando le torme di turisti se ne allontano - e quelle che sono profondamente mutate, anche nell'aspetto esteriore di monumenti, borghi e piazze. 

E di certo al lettore di oggi, appassionato di Roma, sale la nostalgia per quella Roma sparita che a James - e a molti altri - in altri tempi seppe spalancare magnificenze oggi sempre più rare e sempre più assediate dal caos della quotidianità sovrappopolata. 

Impreziosiscono  il volume splendide fotografie in bianco e nero di Franco Mapelli.



06/02/17

"C'è una profonda congruenza tra ragione e struttura dell'Universo." Una intervista a J.M.Coetzee (di Piergiorgio Odifreddi).


J.M.Coetzee

Ripropongo questa intervista realizzata da Piergiorgio Odifreddi a J.M. Coetzee nel 2004 a Mantova, una delle rarissime interviste rilasciate da colui che è considerato uno dei più grandi scrittori viventi.
Secondo Nadine Gordimer, premio Nobel per la letteratura nel 1991, John Coetzee è il più rappresentativo scrittore sudafricano vivente. Ma la connotazione geografica non è certamente l'aspetto più significativo delle opere del premio Nobel per la letteratura nel 2003: il quale, fra l'altro, dopo aver lavorato qualche anno in Inghilterra, e insegnato a lungo negli Stati Uniti, vive ora in Australia.

Le sue opere più profonde, infatti, sondano le dimensioni dell'angoscia in una serie di narrazioni strazianti che, spesso, mettono in scena in prima persona personaggi femminili. Dopo una serie di romanzi straordinari, come Terre al crepuscolo (1974), Deserto (1977), Aspettando i barbari (1980), La vita e il tempo di Michael K. (1983), Età di ferro (1990), Il maestro di Pietroburgo (1994) e Vergogna (1999), e i due racconti autobiografici Infanzia (1997) e Gioventù (2002), Coetzee ha recentemente inventato un nuovo genere: le conferenze-racconto di La vita degli animali (1999) e Elizabeth Costello (2003).

L'abbiamo incontrato l'11 settembre 2004 al Festival di Letteratura di Mantova, per parlare con lui dei suoi studi matematici e dei suoi esordi da informatico. 

Lei si è laureato sia in letteratura che in matematica: interessi contradditori o complementari? 
Interessi che non hanno interagito fruttuosamente fra loro. Guardando indietro, ora penso che avrei dovuto studiare filosofia, lingue moderne, o addirittura lingue classiche, invece che matematica, visto che poi ho comunque dovuto farlo in seguito. 


Che cosa l'attraeva di più, nella matematica? 
Agli inizi la teoria dei numeri. In seguito, la probabilità. 

Continua a interessarsene anche ora? 
No, non mi sono più aggiornato sugli sviluppi contemporanei. 

Lei è stato addirittura un programmatore informatico, per tre o quattro anni. 
Sí, in Inghilterra, prima di iniziare il dottorato in letteratura negli Stati Uniti. 

Cosa faceva? 
Dapprima ho lavorato in una ditta che accettava lavori di programmazione su commissione. Poi con un gruppo che faceva programmazione di sistemi. 

E le piaceva? 
Non posso dire che fosse un lavoro creativo, ma era coinvolgente: allo stesso modo in cui possono esserlo gli scacchi. C'erano periodi in cui lavoravo con intensa concentrazione, fino a sedici ore al giorno. Ora penso a quegli anni come persi: avrei potuto spendere quelle infuocate energie mentali su qualcosa di più importante che la programmazione. Tra l'altro, si trattava di programmi che comunque diventavano obsoleti in un paio d'anni, superati dai nuovi sviluppi dell'informatica. 

Che cosa le ha comunque lasciato questo suo background, nel suo lavoro di scrittore? 
Mi ha insegnato a concentrarmi. E mi ha abituato a completare per bene una costruzione in ogni dettaglio, non solo qui e là. 

In Gioventù lei dice che "la poesia è verità''. Come paragonerebbe la verità matematica a quella di un'opera d'arte? 
Gioventù è il racconto di un giovane: oggi non direi più niente di cosí romantico. Comunque, le verità matematiche sono analitiche, e già implicite negli assiomi: come poi accada che esse abbiano poteri descrittivi e predittivi sul mondo reale, è qualcosa che non posso dire di capire. Le verità della poesia, e più generale dell'arte, se ci sono, sono invece verità empiriche: più precisamente, sul modo in cui noi, come esseri animati, sperimentiamo il mondo. 

Gioventù tocca anche il problema delle relazioni tra pensiero intuitivo da un lato, e meccanico o formale dall'altro. Ci può essere creatività e bellezza anche in quest'ultimo? Penso, ad esempio, alle opere di Bach o Perec.
 
Non credo che si possa instaurare un valido paragone tra le forme di pensiero che occorrono in musica o in letteratura, anche quando sono di natura relativamente formale, come negli esempi che lei cita, e i processi di ragionamento "meccanico'', del tipo di quelli a cui obbedisce un programma di computer. Se paragoniamo un musicista creativo come Bach con uno relativamente non creativo come Telemann, la differenza che ci colpisce è proprio che Bach trascende sempre il formale, in modi assolutamente non prevedibili, mentre Telemann rimane in genere invischiato nel formalismo. 

In Gioventù lei solleva il problema se la logica sia un'invenzione umana, e in Elizabeth Costello fa lo stesso per la nozione di infinito e, più in generale, per la matematica. Logica e matematica possono essere considerate tipi di creazioni artistiche, come la letteratura e la musica? 
Non saprei cosa pensare, a questo proposito. Logica e matematica sono certamente creazioni della ragione umana, ma la storia della matematica mostra che ciò che al momento può essere visto come un atto di libera creazione, in seguito può avere applicazioni nel mondo reale. In altre parole, sembra esserci una profonda congruenza tra le facoltà della ragione e la struttura dell'universo. 

E questo cosa significa? 
Non lo so. A meno di postulare un creatore la cui essenza sia il logos

In Elizabeth Costello l'omonima protagonista dice che la sua professione è scrivere, non credere. E' veramente possibile realizzare costruzioni intellettuali senza possedere forti credenze? Non penso a una religione, ma a una visione del mondo o una metafisica. 
Ci sono almeno tanti tipi di scrittori quanti ce ne sono di matematici, se non di più. Naturalmente molti scrittori si basano su forti credenze, ma per altri la cosa più importante è essere ricettivi: si potrebbe usare qui la metafora dell'arpa eolica, le cui corde vibrano al vento. Questi scrittori credono di essere stati "dotati'' di una facoltà, che rischia di essere intralciata o impedita se essi permettono alle proprie vite di essere dominate da forti convinzioni intellettuali. 

In Che cos'è un classico lei discute musica e letteratura, ma non la matematica. Non è strano, visto che essa è in fondo il migliore esempio di qualcosa che parla attraverso i tempi e le nazioni? 
A parte una piccola minoranza di casi, le dimostrazioni dei teoremi matematici non parlano affatto attraverso i tempi: in questo senso, sono diverse non soltanto dai testi letterari o musicali, ma anche da quelli filosofici. Detto approssimativamente, non c'è niente che si possa chiamare "stile individuale'', in matematica: in ogni tempo, e in ogni campo, sembra esserci un approccio uniforme riguardo al tipo di domande che bisogna porre, e di risposte che bisogna dare. 

A me sembra che l'oggettività della matematica riguardi soltanto i risultati, che si scoprono, e non la soggettività delle loro dimostrazioni, che si inventano. Non solo Ramanujan, che lei cita in La vita degli animali, ma tutti i grandi matematici sembrano avere uno stile definito e riconoscibile. Basta ricordare l'episodio in cui Johann Bernoulli, vista la soluzione di un problema che Newton gli aveva mandato anonimamente, esclamò: "Riconosco il leone dalla zampata''. 
Allora forse devo ritrattare la mia precedente risposta. 

A proposito de La vita degli animali, Elizabeth Costello traccia una connessione fra il genocidio degli ebrei e degli animali. Cosa risponderebbe, a chi le obiettasse che Hitler era vegetariano? 
Che il fatto che una particolare persona sia o sia stata vegetariana, non ha nessuna importanza. 

E all'osservazione che il 90% dell'agricoltura mondiale è dedicata alla produzione di mangime per animali? 
Che dedicare cosí tanto del potenziale agricolo mondiale a produrre cibo per nutrire animali, affinchè i ricchi possano mangiare tanta carne quanto desiderano, è moralmente vergognoso. 

In La vita degli animali lei cita l'articolo di Nagel su "cosa significa essere un pipistrello'', e in Vergogna solleva la questione se un uomo possa mettersi nei panni di una donna. Quali sono i limiti dell'identificazione negli altri (animali, persone, alieni, macchine pensanti)? 
In parte non si può rispondere alla domanda: ad esempio, nel caso degli animali, coi quali non condividiamo un linguaggio. Per quanto riguarda uomini e donne, invece, ci sono scrittrici che, a mio parere, capiscono perfettamente l'esperienza maschile. E ho tutti i motivi di credere che ci siano scrittori che capiscono bene l'esperienza femminile ... 

Parlando di identificazione con gli altri, qual è il prezzo psicologico che uno scrittore deve pagare per inventare personaggi angosciati e angoscianti come quelli di Aspettando i barbariLa vita e il tempo di Michael K. o Vergogna? 
Nessun prezzo. 

A proposito di quei romanzi, come mai presentano uomini sulla cinquantina come avviati alla decadenza fisica? Mi sembra un po' prematuro, forse perchè io ho esattamente la loro età ... 
Quando ho scritto Aspettando i barbari ero sulla trentina, e quell'età mi sembrava lontana. Ma rimane il fatto che gli uomini sulla cinquantina non sono attraenti per le giovani donne che loro invece trovano cosí attraenti. 

Allora ho qualche motivo di credere che ci siano matematici che non capiscono bene l'esperienza femminile ...


Piergiorgio Odifreddi

21/11/16

100 anni dalla morte di Jack London - Le celebrazioni in Italia.


La vita breve ma intensa, il vitalismo incontenibile, rivoluzionario, di Jack London rimangono, a cent'anni dalla morte dello scrittore, "un monito a non darsi mai per vinti o sconfitti"

E i suoi scritti, dei quali non c'e' ancora certezza sul numero esatto, da 'Zanna Bianca' a 'Il richiamo della foresta' a 'Martin Eden' a 'Il tallone di ferro' hanno ancora molto da dirci sul rapporto tra uomo e natura, sulle conseguenze del capitalismo e il futuro della società. 

 A tutto questo e molto di piu' rende omaggio il Jack LondonTribute, tre giornate, dal 22 al 24 novembre a Trieste, di racconti, aneddoti, omaggi e testimonianze, a cura del regista e autore Massimo Navone e dello scrittore Davide Sapienza, tra i principali esperti e traduttore italiano di London

E arrivano in libreria per Chiarelettere 'Il senso della vita (secondo me)', con introduzione di Mario Maffi e per Orecchio Acerbo tornano 'L'ombra e il bagliore' con le illustrazioni di Fabian Negrin, il racconto prediletto da Borges e 'Il richiamo della foresta' in grande formato con le illustrazioni di Maurizio A.C. Quarello. 

Nato il 12 giugno 1876 a San Francisco e morto il 22 novembre 1916 a Glen Ellen, London resta ancora una figura da esplorare

Figlio di un astrologo ambulante che si rifiuta di riconoscerlo, con un padre adottivo che passava da un fallimento commerciale all'altro, London e' cresciuto insieme a compagnie poco raccomandabili. 

Leggendario scrittore di inizio Novecento, si e' misurato in mille mestieri. "Prima che mi dessero tutti questi titoli, ho lavorato in una fabbrica di conserve, in una di sottaceti, sono stato marinaio, ho trascorso mesi fra le schiere di disoccupati a cercar lavoro; ed e' questo lato della mia vita che io venero di piu', e a cui voglio restare attaccato finche' vivo" spiega London ne 'Il senso della vita'. 

 Il tributo si apre il 22 novembre al Teatro Miele di Trieste all'insegna di "Jack London, l'uomo venuto dal futuro" dove e' atteso un intervento in video realizzato per l'occasione dall'attore Marco Paolini, che con il suo "Ballata di uomini e cani" ha portato in scena con grande successo in questi ultimi anni alcuni racconti brevi di London sul rapporto uomo-natura. 

Fra gli altri contributi quelli di Claudio Bisio, Marco D'Amore, Paolo Pierobon, Gigio Alberti, Antonio Catania, Massimo Cirri, Giampiero Solari, Matteo Caccia, Nuzzo Di Biase, Cristina Dona' ed Eleonora Giovanardi. 

Al centro della seconda serata invece lo spettacolo ideato e firmato da Massimo Navone, 'Come il cane sono anch'io un animale socievole', ispirato a 'La peste scarlatta' con cui nel 1912 London sperimenta uno dei primi prototipi di narrativa 'post-apocalittica' e 'La forza dei Forti'.

 Lo spettacolo coinvolge gli spettatori in una 'performance letteraria interattiva'. In chiusura del Jack London Tribute, l'affabulazione/spettacolo 'Il Richiamo di Zanna bianca' di e con Davide Sapienza per la regia di Umberto Zanoletti e le canzoni di Francesco Garolfi. 

 E, all'ora dell'aperitivo, ogni giorno il Jack London Drink, reading di brani da 'John Barleycorn, memorie alcoliche' e altri racconti sorseggiando alcuni dei cocktail preferiti da London. Come dice Maffi nell'introduzione a 'Il senso della vita': "In un panorama editoriale che sembra continuare a privilegiare il ripiegamento su se stessi, il narcisismo e l'individualismo, le piccole tempeste nella tazzina da te', il rifiuto dell'impegno e dello schierarsi, l'accettazione del 'come e" e l'ossessiva ricerca in esso d'una piccola (e illusoria) nicchia personale, ben venga l'aria pura, piena d'ossigeno e di vita, che spira ormai da cent'anni da questi testi, da queste parole".