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02/10/14

Il giorno più bello per incontrarti (Incipit)





Prologo

Per far nascere una storia occorre silenzio. Ma io non ho bisogno di far nascere una storia. Essa c'è già, esiste.  Reclama semplicemente di essere raccontata. Dovrò spiegare tutto, nulla potrà essere tralasciato. Dare conto anche del silenzio.

Per far questo, come si conviene, è bene rendere omaggio a colui che questa storia ha generato, o dalla quale è stato immotivatamente sospinto.

A lui essa ritorna, a lui affido queste parole, pronunciate, ricordate, ripetute nonostante da ogni parte giungano fin qui inarrestabili rumori, grida e stridori dissennati.


Il giorno più bello per incontrarti, Fabrizio Falconi, Fazi editore, 1999 (incipit)

Qui la versione formato Kindle

26/08/14

"Il lungo sguardo" di Elizabeth Jane Howard, un grande romanzo sull'interiorità.




E' davvero una gran bella sorpresa la pubblicazione italiana di Il lungo sguardo di Elizabeth Jane Howard, da Fazi Editore che con questo romanzo può ripetere il grande e imprevisto successo di Stoner, diventato per propagazione via passaparola, un caso editoriale.  

Elizabeth Jane Howard è infatti, come l'americano John Williams, un autore quasi del tutto sconosciuto in Italia, anche se a lei si debbono quindici romanzi di successo, offuscati da un profilo biografico seducente (era una donna molto bella) e disastroso.

Nata a Londra 1923 e morta da pochi mesi a  Bungay, la Howard  veniva da una famiglia benestante (suo padre era un mercante di legname e sua madre una ballerina russa) e da una infanzia infelicitata da molestie sessuali subite dal padre e da una depressione cronica della madre.

Prima di sposarsi giovanissima - a diciannove anni, una via di fuga dalla famiglia - studiò recitazione e fece anche l’indossatrice.

Ma anche il resto della vita della Howard non fu semplice: una figlia, due matrimoni, una terza unione ventennale con lo scrittore Kingsley Amis, il padre di Martin, uno dei più grandi scrittori inglesi contemporanei. 

Alla infelicità personale la Howard tentò di porre rimedio con una incessante attività di scrittore, culminata nella saga familiare The Cazalet Chronicles, che le guadagnò un enorme successo (oltre un milione di copie). 

L'eco della vita della Howard risuona fin troppo incessantemente in questo che viene considerato il suo capolavoro.  Il lungo sguardo (traduzione non proprio felice dell'originale The Long View), pubblicato nel 1956 è la cronaca di una infelicità: quella di coppia, dei coniugi Antonia e Conrad, Mrs. e Mr. Fleming, e quella personale di Antonia, alle cui radici si risale attraverso una narrazione - a ritroso - che comincia negli anni '50 e torna indietro fino al 1924.

Siamo di fronte ad una scrittura di alto livello. Sofisticata, sulla scia della lezione magistrale di Henry James, ma sempre concentrata su un punto focale della narrazione: l'interiorità.  Il mistero della vita interiore, delle ombre che la attraversano, delle ferite che restano, dei piaceri e delle consolazioni che esaltano ma non consolano. 

I personaggi maschili del romanzo della Howard sono tutti orribili.  Cinici come Mr. Fleming, perso nella sua presunzione di dirigere il mondo delle cose, distaccato ed efferato; patetici come il marinaio che viene a riscaldare brevemente la dispersione di vita di Antonia; terrificante come il Geoffrey che abusa della ingenuità e dell'incanto della diciannovenne (come all'epoca in cui si è sposata l'autrice) Antonia. 


Ma è il personaggio di Antonia quello che resta sempre al centro, in una sorta di sofferta e consapevole auto-biografia.
Una biografia costruita intorno ad un vuoto che niente e nessuno sembra capace di riempire veramente. Perché è la vita, la vita vera - e in definitiva l'amore, che della vita è la massima e la più efficace espressione - che manca, anche in una vita esteriormente, apparentemente, superficialmente, inutilmente scintillante come quella di Antonia. ...O di Elizabeth ?


Elizabeth Jane Howard negli anni '50.


25/10/13

'Il giorno più bello per incontrarti" di Fabrizio Falconi - L'e-book e la storia del libro.






Da poco tempo è disponibile on line la versione e-book de Il giorno più bello per incontrarti. (scaricabile su Kindle

Ho scritto questo romanzo nel 2000 (pubblicato con l'editore Fazi), dopo che per la radio mi ero interessato della storia di un ragazzo veneto - si chiamava Tiziano - il quale, sofferente per disturbi della personalità - s'era più volte allontanato da casa e alla fine era stato creduto morto.  Abitava infatti con la sua famiglia, poverissima, sull'isola di Pellestrina, nella laguna veneta.   Un giorno, dopo molte settimane che Tiziano era sparito nel nulla, la risacca portò sulla riva dell'isolotto un corpo in decomposizione.  L'autopsia, frettolosamente concluse che si trattava del ragazzo e furono celebrati i funerali. 
Ben cinque anni più tardi, però, la madre di Tiziano ricevette una cartolina da un ospedale di Padova, dove il figlio risultava ricoverato.  
Si scoprì così che il ragazzo si era allontanato e in stato di confusione mentale aveva vagato per lunghi mesi nell'entroterra veneto, fino ad essere accolto nell'istituto di salute mentale.
La madre recuperò il figlio risorto, lo riportò a Pellestrina, ma senza restituirlo alla vita.  Tiziano si ammalò gravemente, rifiutando il cibo e morendo pochi mesi dopo. 

Questa tragica storia ispirò il libro. Il vagabondo diventò il padre di Giovanni, il protagonista del libro.  
Per tutto il tempo nel quale scrissi il romanzo e anche dopo, non pensai mai a Il fu Mattia Pascal, che pure avevo letto molti anni prima.  E fu il mio amico Robert P. Harrison, quando lesse il libro, a sottolinearmene la vicinanza di temi e di storia. 

Anche il titolo del romanzo ha una radice molto personale: è una frase, l'ultima, pronunciata da mio padre, prima di morire. Ed è veramente singolare che in sede di editing finale, questa frase finì per essere prescelta come titolo ideale del romanzo (in effetti lo era). 

Come sempre finzione e realtà hanno scelto un modo (e moto) proprio per dialogare nella forma di questa storia, che ad un certo punto della mia vicenda, ha chiesto di essere raccontata. 

(Versione e-book scaricabile QUI)

24/05/13

Cieli come questo - di Fabrizio Falconi (2002).




L’incontro durò fino all’ora di pranzo.
Terminato il tempo per le domande, Rajakrishna si alzò in piedi, fece il solito inchino e si allontanò dalla sala.
Più tardi i suoi collaboratori riferirono che dopo aver pranzato con riso e matè si era inoltrato a piedi, per il sentiero che partiva dal lato nord del borgo e si inerpicava sulle colline circostanti.
Isabella insieme ai ragazzi consumò uno spuntino all’unico bar dei paraggi, poi cercò di riposarsi sui sedili di pietra della grande vasca all’aperto, sotto la pergola. Arrotolati i risvolti dei pantaloni, immerse le gambe nell’acqua calda. Il vento era calato e il  sole era ancora alto e caldo. 
Valdemar si era addormentato su una delle panchine.
Isabella muoveva avanti e indietro i piedi nell’acqua.
Lorenzo si sedette vicino a lei.
“ Credo di essermi innamorato di te, “ disse .
Isabella non spostò lo sguardo dall’acqua. Rimase a lungo in silenzio, come se lui non avesse parlato. Sussurrò:  “ Non voglio nemmeno sentirlo. “
Lorenzo gettò un sasso nell’acqua.
“ Non servirà non parlarne. “
“ Forse non servirà, ma è quello che voglio. Non voglio parlarne. “
Nuvole rade correvano sul sole.
“ Curiosa quella scena, te la ricordi ? “ Lorenzo sembrava pensare ad altro, ora. .
“ Quale scena ? “
“ Quella scena di Nostalghia, il film di Tarkovskij.  La girò qui, in questa vasca. L’hai visto ? “
“ Sì. Però non mi ricordo bene. Sono vecchi film. Mi chiedo anzi come fai a conoscerli .“
Lui non rispose. Proseguì:
“ Nessuno ha capito bene cosa significa quella scena del matto che attraversa a piedi la vasca prosciugata con la candela in mano, e ogni volta che la candela si spegne, deve tornare indietro. Succede per tre volte ed è un piano sequenza lunghissimo.  “
“ Sì adesso mi ricordo. Secondo me era una specie di voto. “
“ Un voto ? “
“ Sì, un voto che si realizza solo se la candela rimane accesa fino alla fine della vasca. “
“ E di quale voto poteva trattarsi ? “
“ Non lo so. Forse lo stesso che chiederei io, ora, “ rispose lei.
“ E cioè ? “
“ Che il tempo per una volta si fermi. Qui. Che banale. Chissà quante volte anche tu l’hai pensato. Lo pensano tutti: quando uno trova un punto nuovo che non conosceva, dentro se stesso, vuole fermarsi. Ma nessuno può esaudire questo voto, e d’altronde è così che va il  mondo. “


14/04/13

Annapaola Cancogni, ovvero Quentin Clewes: 'Lei', un libro straordinario.






Ci sono scrittori da cento libri.  Scrittori bulimici, la cui opera somiglia alla pianta della mangrovia, che attecchisce nelle paludi con il clima umido e si ramifica all'infinito, senza soluzioni di continuità.

Ci sono scrittori, invece, la cui opera è fragile come un fiore notturno, che la mattina è già appassito e il suo profumo intenso ha inebriato così intensamente l'aria da permanere a lungo nonostante la sua brevissima vita. 

E' il caso dell'opera di Annapaola Cancogni, la figlia del grande Manlio Cancogni, morta a soli cinquant'anni nel 1993 a New York, dove viveva e insegnava letteratura italiana, traduceva (Eco, Pontiggia), scriveva saggi.

La morte prematura di Annapaola svelò all'epoca un'autore vero, raffinato e pienamente formato. 

Un solo romanzo scritto  e pubblicato - Jetlag. 

Più quattro straordinari brevi racconti, che nel 1998 furono pubblicati in Italia dall'editore Fazi - con testo inglese a fronte - per l'iniziativa meritoria di Simone Caltabellota.



Il libro si intitola Lei, ed è firmato con lo pseudonimo maschile di Quentin Clewes.

E, come scrisse Giulia Borgese per il Corriere della Sera, in questi racconti si sente un'aria di autobiografia: nel primo, Lapsang Souchong, il giovane uomo che e' l'io narrante parla della ragazza arrivata chissa' da dove: La prima volta che la vidi mi parve uno di quei gigli bianchi dal collo lungo che si slancia in su e poi s'arriccia agli orli. Ma sbagliavo. Per un giglio, era troppo riservata... Aveva il collo lungo e orgoglioso del giglio ma insieme la modestia e la dignita' della fresia

Un chiaro indizio di quell'interesse per la duplicita' (maschile/ femminile; il giglio/la fresia), che viene rinforzato da questo altro passo: Rammentava come a quattordici anni, infastidita del fatto che l'identita' delle persone fosse per forza determinata da qualcosa di relativamente irrilevante come il loro sesso, aveva deciso che da quel momento in poi sarebbe stata "it".

Un tentativo cioè inedito di uscire dalla terza persona, da "she" e da "he", dall'essere per forza "lei" o "lui", per ritrovare - o almeno tentare di ritrovare - l'io.

Ma a parte questo, i quattro racconti in questione: Salammbo, Erie-Lackawanna e Lei, sono autentici gioielli di sintetica forza emotiva espressi in uno stile limpido ed essenziale che incide e tocca lasciando il segno. 

Si pensa ad Alice Munro, si pensa a Anne Tyler, ma si pensa anche ai grandi maestri del racconto breve, a Fitzgerald o all'immenso Maupassant.  

Eppure, il fiore Annapaola ha seminato il suo profumo nell'aria soltanto per una notte...

Fabrizio Falconi. 

28/03/13

'Stoner' di John Williams - Recensione.




Non è facile trovare un romanzo come questo. 

Stoner, il nome del protagonista, ci fa pensare ad una pietrificazione.  Eppure, nulla in questo romanzo è pietrificato. Tutto vibra, tutto si muove, tutto vive di vita interiore. 

Si sa poco di John Williams,  per decenni oscuro docente universitario e autore soltanto di una manciata di romanzi, morto nel 1994.

Stoner però è diventato un piccolo grande caso letterario, prima negli Stati Uniti, poi in Italia dove il passa parola lo ha trasformato in successo, e dove ha suscitato l'entusiasmo di molti scrittori, tra cui Emanuele Trevi.

La vicenda dell'oscuro, anonimo professore di Letteratura Inglese alla Missouri University, a partire dagli anni della depressione fino al dopoguerra, sembrerebbe - come scrive Peter Cameron nella postfazione - l'antitesi di quello che oggi il mercato editoriale, soprattutto in Italia, considera come gli ingredienti sicuri per un libro di successo. 

Una vita apparentemente grigia, quella di Stoner. 

Una vita dove sembra non succedere niente. 

John Williams, però, è un vero maestro.   Se ne ha la riprova perché descrive la vita di un uomo virtuoso: di gran lunga l'operazione più difficile oggi (anzi, quasi impossibile).   E' molto più semplice cimentarsi con un Limonov, tanto per dire. 

Ma tutti sanno, dai tempi di Dostoevskij, che descrivere il bene è enormemente più difficile, in narrativa specialmente, che descrivere il male. 

Stoner è virtuoso anche senza volerlo. Segue la sua via. Tende o spera a ciò che è meglio.  Ma nulla di quello che ha immaginato o sperato, si verifica nei modi in cui egli auspica. 

Il suo unico punto fermo, la sua ciambella di salvataggio, sembra essere il suo lavoro, il suo insegnamento: eppure anche qui sembra non eccellere, non sembra nulla di speciale. 

La sua mid-way, la sua common-life è però solo apparenza appunto: grazie alla lingua sublime, di cui Williams fa uso, lentamente caliamo nella profondità di questo uomo. 

Scopriamo quanto esso ci parli. 

Svela, lentamente e inesorabilmente, la sua più inquieta umanità.    Ciò che rende una vita, in definitiva, vissuta. 

Senza giri di parole, e senza artifizi inutili,  la prosa di Stoner affonda come un bisturi nella coscienza, e la fende con naturalezza, tenerezza e decisione brutale. 

Abbiamo la vita davanti.  La (nostra) vita.

Quel che di più sublime, la letteratura, la grande letteratura, riesce - quando è in stato di grazia - a donarci. 

Fabrizio Falconi 



23/11/11

Intervista a Robert Pogue Harrison - Il dominio dei morti.



Robert Pogue Harrison  è direttore del Dipartimento di Francese e Italiano presso l’Università californiana di Stanford, una delle più prestigiose d’america. Ma, da diversi anni è anche autore raffinato sulla scena internazionale, con saggi che attraversano materie differenti e contigue come la letteratura, la filosofia, l’antropologia. Un percorso originale che gli è valso l’attenzione  dei massimi critici, riconoscimenti, e traduzioni in tutto il mondo.
In Italia, il suo primo lavoro, Foreste,  L’ombra della civiltà ( Garzanti ) è apparso nel 1992, seguito da un curioso e affascinante piccolo libro dedicato alla sua “seconda città” ( Harrison ha vissuto per molti anni a Roma ), Roma, la pioggia. A cosa serve la letteratura ( I Coriandoli, Garzanti, 1995 ). Ancora inedito in Italia è il suo lavoro su Dante, The Body of Beatrice, mentre dalla Fazi è pubblicato Il Dominio dei morti  un saggio che è costato cinque anni di lavoro, e che sceglie come suggestivo campo di indagine il rapporto culturale e antropologico tra morti e vivi, attraverso l’opera di grandi scrittori, poeti e filosofi. Un’opera impegnativa, ma allo stesso tempo di grande leggibilità ed enormemente stimolante, che in America ha raccolto reazioni entusiastiche, ed è già stata con successo tradotta in Francia, Germania, e ora anche in Italia. 

D. : Dunque, Harrison, cominciamo dal titolo.  Perché:  ‘ il dominio dei morti ‘ ?  Viviamo in un mondo che sembra ignorare i morti. Un mondo dove la morte, i morti, sembrano completamente rimossi. Lei invece suggerisce addirittura un ‘dominio’.
R. :  Nel titolo, nel titolo di questo libro, ci sono almeno due allusioni. La prima ad un celebre verso di Dylan Thomas, and death shall have no dominion. La seconda, a San Paolo che nella Prima Lettera ai Corinzi, chiede: O morte, dov’è il tuo dominio (o la tua vittoria, a seconda delle traduzioni )?  E’ ovvio che in questo mio titolo è contenuta una sfumatura polemica. In effetti viviamo in un mondo dove sembra che la morte non esista, e dove facciamo di tutto per esorcizzarla, rimuoverla.  Ma, nonostante tutti i nostri sforzi, non possiamo fare a meno, noi viventi, di essere totalmente influenzati dai nostri predecessori, da coloro che sono morti. Le nostre religioni, i comandamenti, ma anche le istituzioni, il diritto, le costituzioni e soprattutto il linguaggio che noi viventi abitiamo, sono stati ‘pre-abitati’ da coloro che ci hanno preceduto. Noi parliamo una lingua creata da coloro che sono morti. Ogni parola che noi usiamo ci è stata tramandata. Le parole sono abitate dai morti, così come tutte le cose umane.
 Non solo i cimiteri, o i monumenti ci ricordano i morti, ma anche l’immagine ( alla quale ho dedicato l’ultimo capitolo ), possiede qualcosa di fortemente evocativo, e in certo senso mortuario. Come appare chiaro specialmente nel ritratto fotografico: grazie al ritratto, continuiamo a vedere persone che non ci sono più, che non abitano più tra noi. L’invenzione della tecnologia moderna ha fatto sì che siamo ormai circondati da immagini dei morti ( pensiamo solo ai vecchi film, continuamente trasmessi in televisione ). Da un lato quindi siamo privati di un rapporto proficuo, continuo con i nostri morti, e tendiamo a metterli a distanza, dall’altra siamo circondati e sovrappopolati dalle immagini dei morti.