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13/05/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 20. Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin) di Wim Wenders (1987)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 20. Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin) di Wim Wenders (1987)


Nella sua piena maturità artistica, e dopo aver già collezionato almeno 5 film fondamentali per la storia del cinema europeo, e non soltanto europeo,  Wim Wenders realizzò Der Himmel über Berlin avvalendosi nuovamente della stretta collaborazione di Peter Handke, il quale scrisse monologhi e dialoghi del film in progress, mentre il film veniva girato (esistono numerosi aneddoti in proposito).

Quel che ne risultò fu una poetica favola metropolitana, dai valori universali.

La storia del film è quella dell'amore di Damiel per un'acrobata circense.  Dalla fine della seconda guerra mondiale, si immagina, Damiel e Cassiel sono gli angeli vigilanti della città di Berlino, sorvegliando e accudendo i pensieri più intimi della gente.

Nelle pause di lavoro, gli angeli s’incontrano alla biblioteca di Stato, dove Omero, il più anziano di tutti, racconta il passato della città e delle sventure che l’hanno afflitta durante la seconda guerra mondiale. 

Gli angeli, con sottile riferimento teologico, possono essere visti soltanto dai bambini, mentre gli adulti non hanno di loro la benché minima percezione. Viceversa, gli angeli vedono il mondo ma senza poterne cogliere gli aspetti più mondani (la loro vista infatti è in bianco e nero). 

Damiel segue, idealmente innamorato, soprattutto Marion, anche lei sorta di angelo, perché lavora come trapezista di un circo che sta per chiudere per mancanza di spettatori. 

Le domande di Marion intercettano le ansie e i dubbi della contemporaneità: il passaggio inesorabile del tempo, l'annullamento dello spazio perpetrato dalla civiltà moderna ha invertito questo rapporto, ed è così che la dimensione del viaggio è stata annullata. Il problema dell'anima e della identità, e quello del male, che grava sempre sull'uomo. 

A Berlino inoltre si girano le riprese di un film giallo ambientato durante la seconda guerra mondiale che ha come protagonista Peter Falk, il “tenente Colombo” di una serie televisiva di sceneggiati polizieschi di grande successo. 

Anche lui, si scoprirà, un angelo decaduto dalla propria condizione che è diventato un essere mortale.  Il quale, nelle sue vesti "umane"  convincerà Damiel a incarnarsi, per amore di Marion. 

Precipitato nella condizione umana, Damiel si ritrova accanto al muro che divide in due la città e vede improvvisamente i colori del mondo, provando tutte le sensazioni degli esseri mortali: quelle piacevoli e quelle spiacevoli. 

E' proprio in questa commistione tra umano e angelico, tra uomo e oltre-uomo che il film gioca le sue suggestioni filosofico-poetiche, da Dante ad Heidegger. 

Un film insomma, che si respira come una profonda riflessione sulla condizione umana, ma che vola alto sulle ali della poesia, nel meraviglioso bianco e nero di Henri Alekan.

L'opera di Wenders, tra i mille premi in tutto il mondo, conquistò la Palma d'Oro al Festival di Cannes del 1987.

IL CIELO SOPRA BERLINO 
(Der Himmel über Berlin) 
Germania, Francia, 1987, 
Regia Wim Wenders 
durata: 128 minuti
con Bruno Ganz, Solveig Dommartin, Peter Falk, Otto Sander, Curt Bois 

06/05/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 18. "Segreti e Bugie" ("Secret and Lies") di Mike Leigh



Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 18. "Segreti e Bugie" ("Secret and Lies") di Mike Leigh 

E' uno straordinario dramma psicologico, quello messo in scena da Mike Leigh nel 1996 che gli è valso innumerevoli premi, tra cui la Palma d'Oro al Festival di Cannes.

Ed è uno di quei film che restano, che sono già classici, perché incarnano il senso più profondo dei sentimenti umani, ad ogni latitudine, con la freddezza formale di una tela di Vermeer e il calor bianco di un racconto di Maupassant. 

La vicenda raccontata è quella di Hortense, trentenne borghese, di colore,  di mestiere ottica, che alla morte dei genitori adottivi decide di scoprire chi sia la sua madre biologica. 

Scopriamo così che alla periferia di Londra vivono due fratelli, Cynthia e Maurice (fotografo, sposato ma  senza figli), che non si vedono da parecchio tempo. 

Cynthia ha con sé la figlia Roxanne e non ha simpatia per Monica, moglie di Maurice. 

Finalmente questi, che fa il fotografo, rompe gli indugi, va a trovare la sorella e la invita a casa sua per festeggiare tutti insieme il ventunesimo compleanno di Roxanne. 

E' in questo frangente che Cynthia viene contattata da Hortense, scoprendo così che è lei la figlia che ha dato in adozione subito dopo averla partorita a quindici anni. 

Le due donne si incontrano e, dopo i primi attimi di smarrimento (grande è la sorpresa di Hortense nel trovarsi di fronte questa donna bianca, sfiorita, sfiancata dalla vita), cominciano ad uscire insieme ed a ricreare le condizioni per costruire un rapporto affettuoso. 

Cynthia, felice per questo affetto ritrovato, chiede al fratello di poter portare una persona alla festa di compleanno, facendola passare per collega di lavoro. 

Arriva il giorno stabilito, e tutti si ritrovano a casa di Maurice e Monica. Dietro l'apparente allegria, si cela il nervosismo: Cynthia rivela che Hortense è sua figlia e, subito dopo, altre rivelazioni seguono tra i parenti presenti intorno al tavolo. 

Finalmente dalle tante bugie si passa alla verità, e Cynthia può tornare a casa propria, circondata da due figlie che cominciano a conoscersi e a stare insieme.  

Un dramma di grande tensione e di perfetto sviluppo che coinvolge totalmente lo spettatore chiedendogli di muoversi tra i rigidi, durissimi muri che molto spesso avvelenano le relazioni umane e i rapporti famigliari generando sofferenze psicologiche insostenibili. 

In realtà, ci dice Leigh, liberarsi di questi muri, esercitare il perdono, la comprensione, la compassione, l'empatia è ciò che di più difficile è richiesto oggi, e sicuramente però, ciò che ci rende davvero umani.

Arricchisce il film una straordinaria performance del cast, con una meravigliosa Brenda Blethyn su tutti (vincitrice di numerosi film), stimolati da Leigh, il quale ricorse all'espediente, durante la lavorazione, di rivelare a poco a poco agli attori, lo sviluppo delle vicende dei personaggi da loro interpretati, enfatizzando così ancor di più, sui loro volti, l'effetto sorpresa, che si dipana pienamente nella grandiosa scena finale. 

Fabrizio Falconi


Segreti e Bugie
Secrets & Lies
Regia Mike Leigh
Regno Unito 1996
Durata 142 min
con Brenda Blethyn, Timothy Spall, Phyllis Logan, Claire Rushbrook, Marianne Jean-Baptiste

                       




03/05/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 17. Nodo alla gola (Rope) di Alfred Hitchcock (1948)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 17. Nodo alla gola (Rope) di Alfred Hitchcock (1948)

Tra i mille gioielli inventati, diretti e realizzati dal grande Alfred Hitchcock spicca questo film sperimentale, considerato a lungo uno dei suoi minori, e poi divenuto - dalla riscoperta di Truffaut e della Nouvelle Vague francese - uno dei più importanti, probabilmente, della storia del cinema.

Hitchcock, infatti, per questo film, sfidò le leggi della narrazione comune e consolidate dell'arte cinematografica, inventando una storia che si consuma in tempo reale, in un unico ambiente,  e con un montaggio di dieci piani-sequenza, la maggior parte dei quali collegati uno all'altro, in modo da apparire come un'unica ripresa.

Per far questo Hitch, che aveva 48 anni scelse la pièce Rope di Patrick Hamilton, ispirato a un avvenimento di cronaca nera, l'assassinio di un bambino commesso nel 1924 da Nathan Freudenthal Leopold Jr. e Richard A. Loeb, una coppia di giovani uniti da un legame omosessuale.

Il delitto aveva sconvolto l'America per la sua assenza di movente (la vittima fu scelta a caso e il crimine aveva il solo scopo di commettere un delitto per il gusto estetico di compierlo). Hitch prese a pretesto questo caso, modificandone tutti i dettagli, insieme a Hume Cronyn e Arthur Laurents con cui lavorò alla sceneggiatura. per preparare la sceneggiatura, adattando il dramma preesistente.

Una volta deciso, al millimetro il copione, le riprese furono preparata con un lavoro minuziosissimo, perché tutto il film avrebbe dovuto essere girato in piano sequenza.  Il pavimento fu così segnato con cerchi numerati, mentre intere pareti dell'appartamento scivolavano via per permettere alla macchina da presa di seguire gli attori. Inoltre, un particolare dispositivo, chiamato cyclorama, consentiva di riprodurre in miniatura 35 miglia del profilo di New York, illuminato da 8000 lampadine a incandescenza, che resta come sfondo di tutte le riprese, attraverso le grandi vetrate dell'attico in cui avviene la vicenda.

Vicenda che è presto raccontata: poco prima di un ricevimento nel loro appartamento a New York, Brandon Shaw e Phillip Morgan, due giovani raffinati presunti omosessuali e conviventi, nel corso di una lite uccidono strangolandolo con una corda l'amico David Kentley, giunto in anticipo all'appuntamento, e ne nascondono il corpo in un baule antico sul quale, per evitare che possa essere aperto, viene preparata la tavola per il party.

Nonostante l'accaduto s'inizia la festa, a cui sono stati invitati anche il padre del ragazzo ucciso, la sua fidanzata Janet Walker e il suo ex migliore amico Kenneth, che in precedenza aveva avuto una relazione con Janet.

Brandon ha inoltre invitato anche il loro ex professore Rupert Cadell (James Stewart, alla sua prima prova con Hitchcock), ammirato per le sue teorie sulla relatività dei concetti di bene e male e sull'omicidio come privilegio riservato a pochi eletti.

Inizia così una drammatica tragica e sottesa partita a scacchi tra il professore e i due ragazzi, che dissimulano l'assenza della vittima dietro una serie di scuse sospette, provocando continuamente il professore sulle teorie che egli ha insegnato e conducendole alle estreme conseguenze, fino al finale nel quale Cadell, avendo intuito cosa è realmente successo, torna in casa con un pretesto dopo la fine della festa, induce Brandon a confessare e poi spara tre colpi di rivoltella fuori dalla finestra. Il film si chiude con i tre che attendono inerti l’arrivo della polizia allertata dai vicini.

Nodo alla Gola, dunque è più che un esperimento di cinema (o di teatro) totale, nel quale la macchina da presa diventa appunto il terzo occhio, quello dello spettatore che sa - sa tutto, dall'antefatto - quello che è realmente successo, sa perfino dove si trova il corpo della vittima, ed è costretto a tifare per l'investigazione del professore.

Il quale, nella versione finale, non è certamente un cattivo maestro, ma che forse durante il racconto e alla fine è costretto a riflettere sugli equivoci e sul letale fraintendimento che i suoi insegnamenti hanno provocato.

Ciò che interessava Hitchcock era una meditazione sui meccanismi dell'omicidio gratuito, quello senza movente, fatto semplicemente per assecondare una perversa base estetica personale superomistica.  Un tema che già in letteratura era stato ampiamente indagato - a partire dalla equivocata teoria dell'Oltreuomo di Nietzsche - da Edgar Allan Poe, da Dostoevskij in Delitto e Castigo o da André Gide ne I Sotterranei del Vaticano.

Il film, che dura solo 77 minuti, si presenta dunque come un incredibile compendio di tecnica del cinema - qui portata a livelli di sperimentazione futuristici per l'epoca di cui si tratta - e della narrazione nel cinema, oltre che una potente meditazione sull'abisso del cuore umano, e sulla banalità del male.

In barba al vigente rigidissimo Codice Hays, che all'epoca censurava ogni riferimento non in linea con quelli che venivano sani costumi sessuali, Hitchcock anche in questo seppe essere trasgressivo: pur non essendo infatti esplicitato il rapporto omosessuale tra Brandon e Philip, esso è nel film fortemente accennato grazie ad allusioni e ed elegantissime caratterizzazioni dei personaggi.

Nodo alla Gola
(Rope)
di Alfred Hitchcock
USA 1948
con John Dall, Farley Granger, James Stewart, Joan Chandler
durata 77 minuti



29/04/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 16. La doppia vita di Veronica (La Double Vie de Véronique) di Krzysztof Kieślowski (1991)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 16. La doppia vita di Veronica (La Double Vie de Véronique) di Krzysztof Kieślowski (1991) 

Scorrono sullo schermo i tetti grigi di Parigi e quelli di Cracovia.  Due meravigliose città fanno da sfondo al capolavoro di Kieślowski, girato 3 anni dopo aver concluso l'opera - pensata per la televisione - del Decalogo, ispirata dai dieci comandamenti, reinterpretati ad una luce del tutto personale e contestualizzati nella vita moderna

La Doppia Vita di Veronica precede inoltre il trittico dei Film Blu, Bianco e Rosso (usciti nel 1993 e 1994 e dedicati ai tre colori della bandiera francese), omaggio al paese che era divenuto quello di adozione per il grande regista polacco, dopo le mille difficoltà avute durante il regime comunista nel suo paese all'epoca di Solidarnosc e della repressione violenta dello sciopero di Danzica. 

Nel mezzo dei due cicli, Kieślowski trova forse il suo gioiello più puro. 

Tratto da un copione scritto dallo stesso Kieślowski insieme all'inseparabile Krzysztof Piesiewicz, il film racconta le vicende di una cantante polacca, Weronika, dotata di una voce sublime.  In trasferta a a Cracovia per far visita alla zia malata, Weronika viene notata dal direttore d'orchestra che le dà una parte nel concerto che si deve svolgere da lì a qualche giorno.  Proprio però durante quel giorno però, durante il concerto, Weronika cade a terra e muore.

Qualcosa di misterioso è accaduto qualche giorno prima della sua morte: una mattina, infatti, per le strade di Cracovia, infatti, Weronika, aveva visto salire su un pullman una turista che ha il suo identico aspetto, una perfetta sosia. 

Dopo la morte di Weronika, la narrazione si trasferisce dunque a Parigi, dove Véronique, la ragazza francese che Weronika ha intravisto quel giorno, si sente tutto d'un tratto strana: ha la sensazione di essere sola al mondo. Così, dopo aver saputo dal proprio medico di avere gravi problemi di cuore,  va dal proprio maestro di musica ed annuncia di voler smettere di cantare.

Divenuta insegnante di canto, Véronique un giorno conosce un marionettista che si esibisce in uno spettacolo nella scuola, Alexandre, con il quale la ragazza inizia una relazione. 

Una notte, in una stanza d'albergo, Alexandre fa notare a Véronique che in una foto del suo viaggio in Polonia c'è una donna uguale a lei; Véronique scoppia in lacrime. 

Alexandre costruisce una marionetta con le sembianze di Véronique, e visto che ne costruisce anche un'altra per sicurezza, comincia ad inventare la storia di due donne identiche nate lo stesso giorno, in città diverse ma unite psicologicamente.

Il poeta con la cinepresa - Kieślowski - costruisce qui un meccanismo perfetto, dai mille simboli e dalle mille interpretazioni.  Il riferimento più esplicito è quello alla vita dello stesso Kieślowski, che per continuare la sua carriera artistica, creativa, ha dovuto "uccidere" la propria parte polacca, e rinascere - preservandosi - nella sua parte francese.  Ma il film è anche una profonda meditazione sulla individualità umana, sulla profondità dell'anima - in collegamento costante con l'anima mundi - sui mondi psicologici - inconscio, emotività/ razionalità, pensiero - che costituiscono il mistero della persona umana.

Il tema del doppio, che la letteratura ha così lungamente indagato, da von Chamisso a Dostoevskij -  trova nel cinema di Kieślowski un altro suggestivo svolgimento, questa volta per immagini, grazie anche al volto di Irène Jacob, attrice icona per il regista polacco (che tornerà a lavorare con lui qualche anno più tardi con Film Rosso, l'ultimo film girato da Kieślowski, stroncato da un infarto a Varsavia a soli 55 anni).

Presentato in anteprima al Festival di Cannes 1991, La Doppia Vita di Veronica ottenne il riconoscimento per la miglior interpretazione femminile.



01/04/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 8. Mephisto di István Szabó (1981)



Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 8. Mephisto di István Szabó (1981)

Non ha avuto forse abbastanza considerazione il maestro ungherese Istvàn Szàbo, di origini ebraiche (classe 1938),  nonostante alcuni suoi film siano arrivati anche al grande pubblico internazionale.

Come è stato il caso di Mephisto, uscito nel 1981, che fu candidato alla Palma d'Oro al Festival di Cannes di quell'anno (vincendo il Premio per la migliore sceneggiatura) e vinse l'Oscar per il miglior film straniero l'anno seguente (1982). 

Il film è notoriamente ispirato all'omonimo romanzo di Klaus Mann (figlio del grande Thomas e morto suicida nel 1949), scritto fra il '35 e il '36 dopo che la sua famiglia aveva lasciato la Germania subito dopo l'avvento del nazismo. 

Il romanzo - e il film - raccontano l'irresistibile ascesa del protagonista, l'eclettico attore Henrik H - sotto i panni del quale Mann aveva celato quelli del celebre attore Gustav Gründgens (marito, fra l'altro, di sua sorella Erika), suo ex amico carissimo, talento straordinario ma anche straordinariamente ambizioso, o meglio arrivista: determinato cioè a qualunque compromesso pur di arrivare al successo.

Il film mostra con una impeccabile sceneggiatura - e la prova monumentale di un grandissimo attore austriaco, Klaus Maria Brandauer - i turbamenti personali di Höfgen dopo l'ascesa di Hitler al potere, nel 1933.

Höfgen, nel pieno della sua scalata al successo, teme che tutto svanisca.  Deve oltretutto nascondere la relazione con Juliette, una ragazza mulatta, che ama e con la quale si esercita nella danza. In breve però, si decide a lasciarsi ogni responsabilità alle spalle, e assetato di successo, scende a patti con i nazisti, diventando presto anzi un favorito di Göering e un esponente di primo piano del teatro di regime.

Il film non si dimentica per la carica trascinante di Brandauer (irresistibile) nel tracciare il suo percorso faustiano: quello che molti intellettuali tedeschi decisero di intraprendere vendendo l'anima, sfruttando i gangli e la macchina di propaganda del regime nazista.

Ma Mephisto è anche una potente meditazione sul ruolo tra creatività e potere.  Tra ambizione personale e arte.  Gusto estetico e responsabilità morale. 

Un dilemma morale che Klaus Mann visse in prima persona, assistendo alla mutazione genetica del cognato, convertitosi al nazismo, contro cui si vendicò scrivendo questo romanzo; e che Szàbo deve aver sentito molto attuale anche nei decenni di Cortina di Ferro, oltre la quale scrisse e diresse questo film, nella Ungheria dei primi anni '80.

Fabrizio Falconi

Mephisto
di István Szabó 
Ungheria, 1981
durata: 144 minuti









29/03/19

100 film da salvare alla fine del mondo: 7. "Crimini e Misfatti (Crimes and Misdemeanors)" di Woody Allen (1989)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì e ogni venerdì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 7. Crimini e Misfatti (Crimes and Misdemeanors) di Woody Allen (1989)

Nella assai estesa filmografia Alleniana spuntano numerose perle, di differente sostanza e forma, la più perfetta è il dostoevskijano Crimini e Misfatti, girato dal talento newyorchese nel 1989. 

La trama è presto riassunta: l'oculista Judah Rosenthal (Martin Landau) tradisce la moglie Miriam (Claire Bloom) con la hostess Dolores (Anjelica Houston), ma quando questa mette in pericolo la sua tranquillità, la fa assassinare da un sicario e continua a condurre la sua vita senza neanche l'ombra di un rimorso.  Parallelamente a questa vicenda, si snoda quella dell'eterno perdente, il documentarista Cliff Stern (lo stesso Woody Allen) che, innamorato della bella Halley (Mia Farrow), la vede preferirgli l'arrogante Lester (Alan Alda), fratello di sua moglie Wendy (Joanna Gleason).

Girato in dieci settimane, nell'autunno del 1988, quasi interamente a New York (si riconoscono le sale del grande albergo Waldorf-Astoria al Tavern on the Green nel Central Park), Crimini e Misfatti è un brillante, amarissimo apologo sulla incapacità dell'uomo contemporaneo di orientarsi nelle questioni morali, quindi nelle relazioni, nei rapporti, e nel confronto con la propria coscienza.  E' - si potrebbe dire oggi - la preconizzazione, con quasi 30 anni di anticipo, delle teorie sulla società liquida e sull'amore liquido di cui ha teorizzato a lungo Zygmunt Bauman.

La grandezza estetica nel film è - oltre che nella perfetta sceneggiatura, un congegno mirabile, senza falle - nella magica fusione tra dramma e commedia.   Sotto la veste di una commedia apparentemente convenzionale, infatti, Allen dice cose serissime.   E, all'inverso, ogni considerazione che il film e i suoi controversi personaggi fruttano, è sottoposta alla lente dell'ironia e del tono della commedia.

Giunto al suo 19mo film e all'età di 55 anni, Allen regalò agli spettatori dunque il suo frutto più maturo, nel quale il riso si inasprisce (senza prendere i toni troppo bergmaniani di Interiors o di altri suoi film), e attraverso la metafora dell'oculista (di qualcuno cioè che di professione esamina gli occhi degli altri) illustra l'impossibilità di osservarsi veramente per ciò che si è e per ciò che si fa, in una sorta di moderno Delitto e Castigo, dove il senso di colpa è sostituito e completamente rimosso da un principio edonistico che domina la vita ordinaria borghese. 

Un criminale cioè senza rimorsi e un omicidio impunito fa da contraltare al fallimento nevrotico sentimentale di Cliff, mentre è alle prese con un documentario sulla figura di un eminente professore ebreo che incarna i valori veri o tradizionali, e che prima delle fine delle riprese si suicida.

Nel silenzio del senso (e di Dio), i due protagonisti, così differenti e così simili nel loro disorientamento, si incontrano in un'ultima lunga scena nella quale si confessano amaramente i propri sbagli e le proprie vite.

Insomma un grande film morale travestito da commedia, con attori in stato di grazia e una regia magnifica e impeccabile.

Candidato a 3 premi Oscar in quell'anno (miglior regia, migliore sceneggiatura, migliore attore non protagonista (Martin Landau)).

Fabrizio Falconi

Crimini e misfatti
(Crimes and Misdemeanors)
di Woody Allen
durata: 104 minuti
Usa, 1989





01/11/18

Dal 5 Novembre torna al cinema "Il settimo sigillo" di Ingmar Bergman restaurato.



Per il centenario della nascita di Ingmar Bergman la Cineteca di Bologna porta in sala dal 5 novembre il restauro, realizzato dallo Svenska Filminstitutet, di uno dei titoli piu' iconici del regista svedese: Il settimo sigillo. 

Dopo l'anteprima, a giugno in Piazza Maggiore a Bologna nell'ambito della 32/a edizione del festival Il Cinema Ritrovato, Il settimo sigillo torna al cinema grazie al progetto della Cineteca di Bologna Il Cinema Ritrovato.

Al cinema, per la distribuzione dei classici restaurati.

Realizzato nel 1957, Il settimo sigillo segue le tracce del cavaliere Antonius Block (Max von Sydow) e del suo scudiero Jöns (Gunnar Björnstrand) che, reduci disillusi delle Crociate, fanno ritorno nella Svezia del Trecento e la trovano in balia della peste e della disperazione.

Sulla spiaggia Block incontra la Morte, e, in una delle piu' efficaci alternanze campo/controcampo mai realizzate, la sfida a una partita a scacchi per prendere tempo e poter compiere un'azione che dia un senso alla sua vita.

L'evocazione visionaria, tragica e farsesca del Medioevo scandinavo racchiusa nel Settimo sigillo ha origini remote che affondano nelle fantasie d'infanzia dell'autore.

Capolavoro tra i capolavori di Bergman, questa grande allegoria dell'uomo in cerca di Dio e in balia della morte, torna a parlarci con la potenza grafica del suo paesaggio e la chiaroscurale profondita' della sua inquietudine.

 "L'idea di realizzare Il settimo sigillo - raccontava Bergman - e' scaturita in me dalla visione dei temi trattati negli affreschi e nelle pitture medievali: i buffoni girovaghi, la peste, i flagellanti, la Morte che gioca a scacchi, i roghi delle streghe e le Crociate. Il film non ha pero' l'ambizione di restituire un'immagine realistica della vita in Svezia durante il Medioevo: e' un saggio di poesia moderna, che traduce le esperienze della vita di un uomo moderno, un saggio tuttavia modellato, sia pure molto liberamente, su spunti medievali. Il mio intento e' stato quello di dipingere come dipingevano i pittori del Medioevo, con lo stesso impegno oggettivo, con la stessa sensibilita' e la stessa gioia".

fonte ANSA

15/01/18

Per celebrare i 100 anni di Ingmar Bergman, una straordinaria rassegna di tutti i suoi film al PalaExpo' di Roma.



Nell’atteso centenario della nascita, che tutto il mondo si appresta a celebrare, Bergman 100 rende omaggio al maestro svedese con una selezione dei suoi film più amati a ingresso gratuito, capolavori senza tempo che hanno segnato l’intera storia del cinema e creato il mito di un autore ineguagliabile per ricchezza e complessità dei temi affrontati e per l’inesausta ricerca formale e filosofica. 

Ma la vera forza di Bergman, spesso sottovalutata, è quella di un approccio al cinema fortemente emotivo, vitale e empatico, lontano dal cliché di un’arte intellettuale e oscura e aperto invece al gioco, all’ironia, alla sperimentazione e alla sensualità

“Il rapporto di Bergman con il pubblico - ha scritto giustamente Scorsese – è piuttosto simile a quello di Hitchcock: diretto, immediato”. 

Per comprendere appieno l’universo di questo artista fuori dal comune, la rassegna include poi diversi film e registi che nel corso della carriera Bergman ha indicato più volte come i suoi prediletti, da Chaplin a Fellini, da Tarkovskij a Murnau, da Sjöström a Dreyer: saranno loro gli ospiti speciali di questa straordinaria festa di compleanno a cui ogni appassionato del grande cinema non può mancare. 


Un progetto a cura di Azienda Speciale Palaexpo, Centro Sperimentale di Cinematografia - Cineteca Nazionale, La Farfalla sul Mirino 
In collaborazione con Ambasciata di Svezia in Italia, Svenska Filminstitutet, Ingmar Bergman Foundation

20/04/14

Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (4. - fine)




Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (4. - fine) 

   Nell’ultimo film di quella che è stata chiamata la trilogia teologica, Il silenzio, uscito nel 1962, Bergman sembrò sfidare il pubblico e la critica in maniera ancora più estrema con una storia – quella del viaggio allucinato di due sorelle, Anna e Ester che attraversano un paese ostile, pieno di strane figure, in cui tutti parlano una lingua incomprensibile – che incappò anche nelle ire della censura, per scene di trasgressione molto esplicite, per l’epoca. L’intento del regista era, stavolta, quello di mostrare – si potrebbe dire nietzschianamente – gli effetti della espulsione di Dio dalle vite degli uomini.  Entrambe le sorelle – che rappresentano l’una l’aspetto materialistico/edonistico dell’esistenza e l’altra quello puramente intellettuale/razionale – non raggiungono nessun barlume di senso, nelle loro vite disperate.  E la morte di una delle due Ester, la coglie con l’ultima parola scritta su una lettera per il nipote adolescente: ‘anima’.   Lo spirituale – rappresentato anche dalla musica di Bach che compare in diversi punti del film -  è l’unica possibilità di uscire dalla prigione che rinchiude l’uomo nella sua gabbia di disperazione.

   “L’uomo  mutilato dei suoi valori spirituali” scrisse un critico italiano subito dopo l’uscita del film nel nostro paese, “si abbrutisce in una solitudine che è il suo inferno. Bergman è troppo intriso di cristianesimo per condividere la persuasione di un Camus che soltanto l’ateismo può generare una carità autentica… Il silenzio proclama la tesi opposta. L’assenza dei valori spirituali mura l’uomo nel suo egoismo.” (11)  Ovvero, “ quando Dio tace, il mondo diventa un inferno.” (12)
    
   E a Bach, alla impressione forte di quell’oltre rappresentato dal sublime della musica, che indica la possibilità di una via allo spirituale, Bergman torna più volte e nelle ultime pagine della sua autobiografia.  Lo fa, in questo caso, rievocando una scena della sua infanzia:  Una domenica di dicembre ascoltai l’Oratorio di Natale di Bach alla chiesa di Hedvig  Eleonora (dove il padre di Bergman teneva i suoi sermoni, NdA).  Era di pomeriggio, la neve era caduta per tutto il giorno, silenziosa e senza vento. Ora apparve il sole.  Ero seduto nella cantoria di sinistra, proprio sotto la volta.  La mobile luce del sole, scintillante come oro, si rifletteva sulle finestre della Canonica di fronte alla chiesa e formava figure all’interno della volta.  Il corale si diffuse pieno di speranza nella chiesa che s’immergeva nell’oscurità: la devozione di Bach allevia il tormento della nostra incredulità.. Le trombe levano al Redentore grida di giubilo in re maggiore. Una dolce penombra grigioazzurra riempie la chiesa d’una calma improvvisa, d’una calma fuori dal tempo…
   I corali di Bach si muovono ancora come veli colorati nello spazio della coscienza, avanti e indietro sulle soglie, attraverso porte aperte, gioia. (13)
    
  La musica era per Bergman, come il cinema, una specie di occhio su un altro mondo.  Il cinema, in più permetteva l’approfondimento dell’analisi. Nessun’altra arte come il cinema, diceva il regista (14) arriva a cogliere lo spazio crepuscolare nascosto nel profondo della nostra anima.
   
   Negli ultimi anni della sua vita, anche il cinema divenne per Bergman, superfluo. Il congedo dal set, più volte annunciato, si concretizzò con tre piccoli film, Dopo la Prova (1984), Il segno (1986) e Verità e affanni (1997) che non intaccarono l’impressione che il vero testamento spirituale del regista restasse Fanny & Alexander.  Bergman si era già ritirato da tempo nella sua isola di Faro, in una completa solitudine, in una austerità quasi monacale, interrotta soltanto dalla visita dei suoi otto figli – divenuti nel frattempo quasi tutti attori - degli amici intimi e degli attori, compagni di lavoro dei suoi film più famosi. 
   
    “Mangiava poco. Si vestiva male. Non aveva bisogno di comodità: nell’isola di Faro dove ha vissuto quando poteva perché amava quel paesaggio ideale per la rappresentazione di una condizione umana desolante, per lungo tempo è mancata persino l’energia elettrica. Si alzava alle sette del mattino, andava a letto alle dieci di sera ma non sempre dormiva, soffriva di insonnia in maniera angosciosa.”  Così descrisse questo uomo inquieto – inquieto fino alla fine – Lietta Tornabuoni (15) il giorno dopo la sua morte, avvenuta il 30 luglio del 2007, pochi giorni dopo che il regista aveva compiuto 89 anni.
     
    Nel 1995 era morta la sua ultima amatissima moglie, Ingrid Von Rosen, di dodici anni più giovane di lui.  Bergman ne fu sconvolto.  Tornarono i fantasmi della depressione, di cui non si era mai del tutto liberato, e che vent’anni prima, nel 1977 – all’indomani di uno scandalo fiscale nel quale era stato coinvolto – lo avevano portato al ricovero per tre mesi in un istituto psichiatrico di Stoccolma.  Del resto, come ha scritto Goffredo Fofi, Bergman, epigono del cinema ‘religioso’, preoccupato di interrogarsi sulle inquietudini esistenziali dell’uomo e sul suo bisogno di trascendenza, pagò lo scotto dell’assiduità con queste inquietudini a un caro prezzo personale.  (16)
    
     Ma ancora una volta, il cinema – la sua arte – gli venne in soccorso. Tornò ancora una volta dietro la macchina da presa, e in Verità e affanni  ambientò la sua ultima storia per il cinema, proprio in un ospedale psichiatrico.
   L’arte come sublimazione di inquietudini e aspirazioni spirituali trovò dunque probabilmente in Ingmar Bergman - il suo migliore interprete.  

     Ed è probabile, che alla fine della sua vita, una serenità consapevole lo abbia accolto. 
    
    "La morte lo ha raggiunto serenamente” ha detto la figlia Eva, annunciando al mondo la scomparsa del padre. Il marito di Eva, lo scrittore Henning Mankell ha riferito in quella occasione le parole di Bergman nel suo ultimo colloquio con il suocero: “Ho 89 anni, e vorrei tanto festeggiare i 90 con la famiglia. Ma tutti i miei amici se ne sono già andati, e così sono pronto…” 

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 

11.  Luigi Bini, Ingmar Bergman, Op. cit. p.41
12. Giacinto Ciaccio, Il silenzio, Rivista del Cinematografo, n.5 1964, pag. 219 e ss.
13.  Ingmar Bergman, La lanterna magica, op.cit. pag. 252.
14.  La citazione è riportata da Lietta Tornabuoni, in La cinepresa nell’anima, La Stampa, 31 luglio 2007.
15. Lietta Tornabuoni, art. cit.
16. Goffredo Fofi nell’articolo in questione – La crisi della modernità riletta attraverso le pagine di Kierkagaard, Avvenire, 21 luglio 2007 -  aggiunge: “Ma anche se molti suoi film possono sembrarci meno riusciti di altri, quale coerenza e quale così evidente e così commovente sincerità in questa ricerca !”