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11/02/19

Libro del Giorno: "Follia" di Patrick Mc Grath.



Un classico, milioni di copie vendute nel mondo, per il capolavoro di Patrick Mc Grath, mai tornato in seguito su questi livelli. 

Pubblicato per la prima volta nel 1996, il romanzo si svolge nel 1959 e attinge abbondantemente ai ricordi d'infanzia e di vita dello stesso autore, nato a Londra e cresciuto vicino all'ospedale di Broadmoor dall'età di cinque anni, dove suo padre era sovrintendente medico. In effetti Mc Grath rischiò seriamente di seguire le orme paterne, se non l'avesse definitivamente tentato la carriera di scrittore.

Follia, come tutti i grandi romanzi, sfrutta con la massima efficienza e con l'uso di una macchina narrativa perfetta, un materiale essenziale. Sulla scena si affacciano pochissimi personaggi.  Peter, il narratore, uno psichiatra che lavora in un grande manicomio alle porte di Londra; Max, il vicedirettore che aspira al posto di principale e che arriva all'istituto accompagnato dalla inquieta moglie Stella e dal figlio Charlie un bambino di 12 anni; Edgar Stark un paziente in regime di semilibertà, artista fallito, ricoverato in manicomio dopo aver ammazzato la moglie e averne mutilato il corpo, staccandole la testa; Nick, un amico di Edgar che lo aiuta dopo la sua fuga dal manicomio. E infine Brenda, la madre di Max e suocera di Stella. 

L'inferno inizia a dipanarsi quando Stella, complice una grande serra vittoriana nel giardino del manicomio che viene restaurata da alcuni pazienti,  comincia una relazione con Edgar, il quale, fascinoso e manipolatore, la travolge dentro una passione senza limiti. 

Trascinata da un irrefrenabile desiderio e dalla acuta frustrazione della vita familiare e dalla freddezza di Max, Stella comincia il suo viaggio autodistruttivo, discendendo ad uno ad uno tutti i gradini della degradazione, abbandonando la famiglia e l'istituto per raggiungere l'amante in uno squallido loft alla periferia di Londra, subendone violenze e pressioni psicologiche, fino ad un tentativo di distacco che però non ottiene risultati. 

Fino all'ultima pagina Mc Grath districa abilmente i fili di una matassa psicologica in cui frustrazione femminile, desiderio, rancore, rivalsa e odio, passione e morte, sono l'uno all'altro collegati come il filo di un angoscioso e doloroso rosario. 

Non all'altezza la riduzione fatta da David Mackenzie nel 2005. 

Fabrizio Falconi


30/01/19

Libro del Giorno: "La tigre assenza" di Cristina Campo.



E' ormai un nome quasi leggendario quello di Cristina Campo, nella vicenda letteraria italiana.

Si tratta dello pseudonimo della poetessa e scrittrice Vittoria Guerrini nata a Bologna nel 1923 e spentasi prematuramente a Roma nel 1977, minata da una malattia al cuore che condizionò la sua intera esistenza.

Formatasi su studi privati, cresciuta nel culto della bellezza e animata da un'incoercibile tensione alla perfezione, etica non meno che estetica - come scrive la voce a lei dedicata dalla Treccani -  fu grandemente influenzata dal pensiero di Simone Weil, e negli ultimi anni si dedicò allo studio dei mistici e della grande tradizione liturgica del cristianesimo, cattolico romano e orientale.

Ciò che alimenta il mito della Campo, è l'estrema esiguità della sua produzione poetica: pubblicò in vita soltanto un'esile raccolta di versi (Passo d'addio, nel 1956), alcuni articoli su riviste e due volumetti di saggi (Fiaba e mistero e altre note, 1962; Il flauto e il tappeto, 1971).

Tutto ciò in ossequio ad un rigore e ad una autodisciplina quasi maniacale, bene espressa dalla frase che amava ripetere a proposito di se stessa, a mo' di precoce epitaffio: "Ha scritto poco, e le piacerebbe aver scritto ancora meno."

Ciò nonostante, il nome di Cristina Campo è divenuto oggetto di devozione prima nell'ambiente degli esperti di cose letterarie, e poi  tra i lettori, dopo la pubblicazione di un ristretto corpus dei suoi scritti, a partire da Gli imperdonabili (1987), in cui è raccolta l'intera opera saggistica e che trae il titolo dal saggio dedicato ai poeti, ovvero all'imperdonabile amore della perfezione.

A quel libro, pubblicato da Adelphi, ha fatto seguito La tigre assenza (a cura di M. Pieracci Harwell, 1991), che raccoglie le poesie, edite, inedite e sparse, e le traduzioni dei poeti più amati. 

Nella bandella sono riportate due frasi, l'una di Ezra Pound: «Poesia è l’arte di caricare ogni parola del suo massimo significato», l'altra di Simone Weil: «che ogni parola abbia un sapore massimo», che bene esprimono le regole convergenti a cui Cristina Campo si è sempre attenuta, sia nel suo lavoro di traduttrice, che nella sua attività di poeta.

Tutta la sua opera in versi è così racchiusa nelle prime 50 pagine di questo libro, cui fa seguito però una gloriosa carrellata di traduzioni che vanno da  Simone Weil, a John Donne, da Hofmannsthal all'amatissimo W.C. Williams, da Herbert a Giovanni della Croce, fino a Emily Dickinson.

Più che traduzioni, queste di Cristina Campo, sono  esercizi di metafisica, dove ogni parola è distillata come il risultato di una potente e misteriosa alchimia.

Di certo tra le più grandi traduzioni in lingua italiana di questi poeti.

In Passo d’addio sono raccolte tutte le rare poesie scritte dalla Campo che ci offrono visioni terse e piene di pathos:  "Devota come ramo/ curvato da molte nevi/ allegra come falò/ per colline d'oblio."
" T'ho barattato, amore, con parole."   " La luce tra due piogge, sulla punta di fiume che mi trafigge";
fino al poemetto Diario bizantino, che apparve pochi giorni dopo la sua morte. E forse da questi ultimi versi, , da un «mondo celato al mondo, compenetrato nel mondo, / inenarrabilmente ignoto al mondo», occorrerebbe partire per capire tutta Cristina Campo. Una voce davvero unica nel firmamento della poesia italiana, difficilmente assimilabile a qualunque altra del nostro tempo.

Fabrizio Falconi

Cristina Campo 
La Tigre Assenza 
A cura di Margherita Pieracci Harwell 
Biblioteca Adelphi 
1991, 6ª ediz., pp. 316 

21/01/19

Il futuro del Libro - Un bellissimo intervento di Roberto Calasso oggi sul "Corriere".


Il Corriere della Sera pubblica oggi un bellissimo estratto del discorso che Roberto Calasso terrà venerdì 25 gennaio, giornata conclusiva del XXXVI Seminario di Perfezionamento della Scuola per Librai Umberto e Elisabetta Mauri, presso la Fondazione Cini nell’Isola di San Giorgio Maggiore, Venezia. La relazione di Calasso, intitolata Come ordinare una libreria, è in programma alle 11.45. Ne diamo un piccolo anticipo su questo blog (l'originale dell'articolo è qui). 

Partiamo dal caso di gran lunga più semplice: l’e-book. Oggetto di una infatuazione collettiva, per qualche tempo è fiorito come una rigogliosa pianta tropicale per appassire poi altrettanto rapidamente. Oggi appare acquisito che l’e-book è una modalità di lettura accanto a altre e continuerà a sussistere, senza però danneggiare il libro cartaceo in modo irreparabile, come taluni speravano e come invece è avvenuto per l’industria discografica sotto l’urto dei mezzi elettronici. Retrospettivamente, si può dire che per qualche tempo l’e-book ha soprattutto offerto il destro a molti per enunciare stoltezze di vario genere. Ricordo una voce e una sera d’estate, in una casa in stile californiano di un’isola greca in gran parte disabitata. La voce era di una signora piuttosto abbiente, dalle molteplici nazionalità, la quale dichiarava il suo entusiasmo per gli e-book, perché le avrebbero permesso di fare pulizia in casa, eliminando una volta per sempre quegli incongrui oggetti cartacei che spuntavano in ogni angolo e attiravano polvere: i libri.
Quanto ad Amazon, il caso è ben più complicato e ben più rilevante. E qui occorre fare un passo indietro. Quando apparvero i primi libri Adelphi, nel 1963, nessuno immaginava che mezzo secolo dopo la massima concentrazione di denaro sarebbe derivata non dal petrolio ma dalla pubblicità. Punto che anche i senatori americani facevano fatica a capire fino a pochi mesi fa, quando Mark Zuckerberg pronunciò le tre parole che sono diventate l’insegna stessa del terzo millennio: «We run ads», «Abbiamo la pubblicità». Quelle parole erano la risposta a un senatore che non riusciva a spiegarsi in che modo Facebook guadagnasse denaro, anzi molto denaro. Altrettanto inimmaginabile era che un rivenditore di articoli vari sarebbe diventato l’uomo più ricco del mondo. Non era una stranezza, ma una fra le varie conseguenze dell’entrata nell’era digitale. Con solidi argomenti, una larga parte dell’umanità, in Oriente com e in Occidente, si dedica oggi ad acquistare una immane quantità di articoli vari e di servizi per via elettronica, in tempi brevissimi. Amazon è diventato l’emblema di questa mutazione — ed è eloquente il fatto che le sue prime applicazioni fossero riservate ai libri, terreno economicamente modesto, dove gli acquisti richiedevano spesso ricerche accidentate e frustranti. Ciò che accadde con i libri è perciò solo uno spicchio di un processo irreversibile e onnilaterale, che può solo perfezionarsi. Ogni tentativo di opposizione a questo processo è puro wishful thinking, fondato su valutazioni illusorie delle forze in campo. Nessuna catena di librerie potrà mai competere con gli sterminati magazzini di Amazon e con la sua capacità di fornire il prodotto in tempi minimi. E questo ha evidenti conseguenze per le librerie. Non però quelle che all’inizio si paventavano. Le imprese che oggi rischiano di più sono le più grandi, che di colpo si rivelano insufficienti in quanto non abbastanza grandi. D’altra parte, se crescessero ancora raggiungerebbero dimensioni sproporzionate al mercato dei libri, che è comunque un piccolo mercato e aspira al massimo a rimanere stabile. A questo punto dovrebbe essere però evidente che il mutamento radicale nel mondo dei libri non è che il contraccolpo di un mutamento ben più vasto, che di fatto riguarda tutto.

16/12/18

Poesia della domenica: " E' rimasta laggiù" di Cristina Campo.



E' rimasta laggiù, calda, la vita,
l'aria colore dei miei occhi, il tempo
che bruciavano in fondo ad ogni vento
mani vive, cercandomi...

Rimasta è la certezza che non trovo
più se non tra due sonni, l'infinita
mia sapienza in frantumi. E tu, parola
che tramutavi il sangue in lacrime.

Nemmeno porto un viso
con me, già trapassato in altro viso
come spera nel vino e consumato
negli accesi silenzi...

                             Torno sola
tra due sonni laggiù, vedo l'ulivo
roseo sugli orci colmi d'acqua e luna
del lungo inverno. Torno a te che geli

nella mia lieve tunica di fuoco.


Cristina Campo, da La tigre assenza, Adelphi, Milano, 1991 p. 22.

06/08/18

Libro del Giorno: "Il mio mortale nemico" di Willa Cather.



Scritto nel 1926, questo è un altro dei grandi romanzi brevi scritti da Willa Cather (1873 - 1947) di cui abbiamo già parlato pochi giorni fa a proposito di Una signora perduta.

La vicenda prende il via dalla provincia profonda americana - dalla quale proveniva anche la Cather - in una cittadina dove è ancora vivo il ricordo della bella Myra Henshawe, rimasta orfana e allevata dal ricco zio, che ha rinunciato all'eredità per amore.

Una notte, la giovane Myra è infatti scappata di casa portando con sé solamente un manicotto e un portamonete. A passo svelto e testa alta, se n'è andata per sempre. Ha raggiunto Oswald Henshawe, giovane spiantato di cui è innamorata, e lo ha sposato, rinunciando così ai beni dello zio che le spetterebbero. Un gesto audacemente romantico, che in famiglia diventa una leggenda colpendo non poco la fantasia della ragazzina Nellie, la quale qualche anno più tardi ha la possibilità di incontrare da vicino, a New York, l'eroina di cui ha così tanto sentito parlare.

Ha così la conferma del carisma della donna, del suo innegabile charme: né gli amici artisti, cui riserva una conversazione dove vibra «una lingua speciale» e un’incorreggibile prodigalità, né gli «amici ricconi», che subiscono rassegnati il suo sarcasmo fulmineo riescono a resisterle.

A mano a mano però Nellie scopre - osservando la coppia da vicino -  che è come se nella casa degli Henshawe, dove regnano spensieratezza e buone maniere e ogni cosa appare unica e irripetibile, penetrasse uno spiffero gelido, suscitando un misterioso terrore e crepe minacciose minassero quell'apparente incanto. 

Dieci anni più tardi, incontrando di nuovo Myra e il marito sulla West Coast, Nellie capirà che quella coppia perfetta era un esempio di legame fondato sull’odio non meno che sulla passione, giacché «si può essere nemici e amarsi allo stesso tempo».

Anche la madre di Nellie del resto, quando lei ancora bambina, le aveva chiesto se Myra e Oswald fossero poi sono stati felici, le aveva rivolto una risposta glaciale: «Felici? Oh, sì! Come la maggior parte della gente». E allora a che cosa è servito quel sacrificio? Che senso ha avuto barattare grandi fortune per una vita banalmente normale? Quelle che emergono, in questo romanzo breve ma stratificato, sono le mille sfumature di una figura ambigua e tormentata, una donna tanto risoluta nelle sue clamorose rinunce, quanto incapace di godere di una felicità che di clamoroso non ha nulla. 

Uno spirito libero che si trova a combattere contro i limiti della quotidianità e la crescente, esasperante consapevolezza di essere una donna totalmente diversa da quella che pensava di essere in giovane età. Tanto che in un momento di quieta disperazione, ridotta quasi all'immobilità, Myra definisce il marito "il mio mortale nemico".

Willa Cather descrive queste variazioni così sensibili sul tema della felicità e delle illusioni, in un piccolo capolavoro: pagine davvero indimenticabili, intrise di una grande carica drammatica. 

«Cather non è solo una brava scrittrice: è unica, è grandiosa», scrive Antonia S. Byatt nella bellissima introduzione al volume, «Il mio nemico mortale è una vera tragedia costruita a partire da una vera storia d’amore. La scrittrice che è in me pensa a questo libro più che a ogni altro dell’autrice. Ogni breve episodio è la rivelazione perfetta di qualcosa di nuovo e inaspettato. Non c’è una sola parola superflua o ridondante. È un romanzo al tempo stesso distaccato e dolorosamente commovente».

Fabrizio Falconi

Willa Cather 
Il mio mortale nemico 
Traduzione di Monica Pareschi 
Piccola Biblioteca 
Adelphi 2006, pp. 112

12/04/18

Adelphi pubblica le lettere di Samuel Beckett: Una vocazione unica e complessa.



Scrivere di Samuel Beckett e' difficilissimo, ovviamente. Perché lui, come nessun altro, ha saputo incarnare lo scrittore del Novecento, perché come nessun altro ha saputo potare drasticamente ogni parola non necessaria, fino ad arrivare in alcuni casi che si possono solo definire "assoluti" al puro silenzio, come per esempio alla fine de "L'ultimo nastro di Krapp".

Perché i suoi testi sono cosi' carichi di densita' e di consapevolezza da rendere quasi impossibile dire "altro". Anche per questi motivi la pubblicazione per Adelphi - casa editrice che in Italia fa un lavoro che oggi non riesce a fare nessun altro, per respiro, diversita' e complessita' - del primo volume delle "Lettere" di Beckett e' un evento editoriale vero, cosi' vasto da richiedere addirittura quattro curatori internazionali, a cui si affianca, per l'edizione italiana, Franca Cavagnoli.

Il primo tomo copre il periodo giovanile dello scrittore, tra il 1929 e il 1940 ed e', come sottolinea la prefazione, una ampia occasione (500 sono le pagine del libro) di incontrare la voce di Beckett in un periodo nel quale "la sua attivita' pubblica non ardisce ancora farne uso".

Una voce che, anche per le modalita' di costruzione delle lettere, e' piena della sua consapevolezza di scrittore (e il fatto che i testi contengano innumerevoli volte i dubbi su questa scelta e le ricorrenti incertezze legate alla fatica del distillare delle frasi, se non addirittura delle singole parole - "L'idea stessa di scrivere mi sembra, come dire, grottesca" - e' una ulteriore conferma di tale consapevolezza) e che gia' si nutre di sistemi di riferimento, come quello che potremmo definire "escrementizio", che saranno poi cruciali nella poetica dello scrittore e drammaturgo futuro ("Le lettere - si legge nella lunga introduzione al volume, firmata da Dan Gunn - sono, come e' sempre piu' chiaro, non soltanto il mezzo, ma anche il fine, grazie al quale la strada bloccata del presente diventa, nello scrivere, l'autostrada sgombra di un futuro").

Beckett, a proposito di se stesso, parla di "aspermatismo mentale" (in relazione alla "masturbazione mentale" che lui riferisce a Huxley), poi, in una lettera del 4 agosto 1932 da Londra al suo corrispondente piu' intimo, Thomas McGreevy, in qualche modo, carica di quello che potremmo chiamare "ottimismo", forse definisce meglio il concetto: "Se riuscissi a inventarmi dei pretesti per scrivere una poesia, un racconto, qualsiasi altra cosa, starei bene. In verita' credo di stare bene. Ma a volte mi terrorizza l'idea di essere guarito dal solletico della scrittura. Immagino che sia questo posto fornicante con il suo clima fornicante. Tuono letale e pioggia a torrenti".


Poi, con un colpo di genio che scavalca a pie' pari tutto Proust, la lettera prosegue cosi': "Oggi pomeriggio ero seduto in St. James's Park su una sdraio da 2 pence e mi sono debitamente commosso, fin quasi all'occhio lucido, per un bambino che giocava a 'bus vuoti' con una bambinaia, dalla stessa identica espressione tipo granito sgretolato, che aveva la mia prima di sposare il giardiniere e diventare polipara, e la chiamava Tata. 1/8... 3/8 Presto mandero' un cablo a mia madre che venga a darmi il bacio della buonanotte".

Dire che il senso dell'intero Novecento letterario sia, cripticamente quanto volete, espresso in queste poche righe, e' forse troppo. Ma di una buona parte perche' no? Samuel Beckett, il giovane Samuel Beckett di queste lettere, probabilmente risponderebbe "Tant piss" e anche questo sarebbe coerentemente novecentesco (e, dato non trascurabile, oggi l'aggettivo ha senso compiuto proprio attraverso Beckett, che lo ha forgiato parola su parola su parola. Quindi tutto si ricompone in un circolo che e' divertente, seppur non particolarmente originale, definire "assurdo". E ci fermiamo qui, saluti e ossequi a James Joyce).

Le "Lettere" completano l'opera di Samuel Beckett, la arricchiscono, diventano "opera" a loro volta e ci parlano di una vocazione univoca, per quanto perennemente insicura, verso la letteratura che ha un unico pari nel XX secolo, il vero "companion" dell'irlandese: Franz Kafka, che pure mai compare in tutte queste missive, salvo che in una nota dei curatori, senza alcun diretto riferimento al testo beckettiano.

"Le lettere di Beckett - scrive ancora Dan Gunn, ed e' come se parlasse anche di Kafka - rivelano compromessi e fieri rifiuti, il desiderio di autoaffermazione e il ribrezzo per la notorieta', le strade sbagliate non intraprese per un soffio e l'intimo convincimento che l'unica strada da seguire davvero sia quella della letteratura".

L'unica strada. La strada. Murphy dopo Josef K., Malone come l'agrimensore. "Finale di partita" per Gregor Samsa.

Fonte: Leonardo Merlini per askanews

20/09/17

Esce per Adelphi, "Cacciatori nel buio" - intervista a Lawrence Osborne.



I luoghi e, per certi versi, anche le situazioni sono le stesse. Ma Lawrence Osborne, l'autore inglese noto in Italia per alcuni illuminanti reportage letterari dai confini del mondo, questa volta resta in Oriente, pero' si muove dalla non fiction al romanzo con "Cacciatori nel buio", che esce nella collana Fabula di Adelphi ed e' il primo testo di non fiction di Osborne a essere tradotto in italiano. 

Lo abbiamo incontrato alla sua presentazione alla libreria Verso a Milano e abbiamo parlato con lui del diverso passo che occorre per passare sul terreno impervio del romanzo.

"E' piu' di un altro passo - ci ha risposto Osborne - e' un altro mondo, un altro universo psicologico. Per me e' stato molto difficile arrivarci, e ho cominciato con un libro ambientato in Marocco, uscito nel 2012, ma c'e' una grande differenza tra le due cose e si richiede un cambio completo di abitudini di lavoro. Ci ho messo tanto ad arrivarci, e' successo a 50 anni. Ci sono dei momenti nella tua vita in cui certe cose succedono, magari anche in modo inconscio". 

"Cacciatori nel buio" e' stato definito un noir e racconta di casino', somme di denaro, oscurita' e vite alternative sul confine tra Thailandia e Cambogia e quindi nella giungla di un Paese dove la violenza dei Khmer Rossi continua segretamente ad aleggiare

"Scrivere fiction - ha aggiunto Osborne - e' molto piu' divertente per me. La verita' e' che io ho sempre trovato molto difficile scrivere giornalismo e non fiction. Anche se in realta' il mio ultimo libro di non fiction pubblicato in Italia, 'Bangkok' era scritto in modo particolare, come se fosse una raccolta di racconti. Non voleva essere solo qualcosa di noioso e fattuale, ma piuttosto un libro con delle emozioni, abbastanza pazzo. Lo volevo cosi', con uno stile da fiction. Credo che abbia rappresentato il momento di transizione tra i due mondi". 

Gran parte della letteratura di Osborne, e probabilmente anche una discreta fetta della sua vita, si svolge proprio sui confini, zone di transizione e incertezza nelle quali lo stesso scrittore ammette di sentirsi "piu' vivo"

"Il confine tra Thailandia e Cambogia - ci ha raccontato - e' un confine molto interessante, come quello tra Messico e Stati Uniti, o tra Spagna e Marocco. Quei confini carichi di elettricita', molto tesi, molto violenti, ma anche liberatori: attraversare un confine simbolicamente rappresenta una liberazione"

La vita dei protagonisti del romanzo segue un suo sviluppo, che spesso appare incalzante e tumultuoso, cosi' come, ci ha assicurato Lawrence Osborne, la genesi degli stessi personaggi. "Io posso pianificare meta' del libro - ha concluso lo scrittore - ma dell'altra meta' non ho idea. I personaggi verranno fuori e andranno dove vogliono". Niente male come premessa e promessa di avventura.

25/04/17

E' morto negli USA Robert M. Pirsig, l'autore geniale de "Lo zen e l'arte della manutenzione della motocicletta".



Una perdita dolorosa per il mondo della Letteratura:  E' morto all'eta' di 88 anni lo scrittore e filosofo statunitense Robert M. Pirsig, autore del romanzo filosofico bestseller 'Lo zen e l'arte della manutenzione della motocicletta' (1974)

Lo rende noto la sua casa editrice, la William Morrow and Company. 

Pirsig era da tempo malato ed e' deceduto ieri nella sua casa di South Berwick, nel Maine.

fonte ANSA - AP

Per ricordare questo scrittore così particolare, quest'uomo così spirituale, riporto qui il mio articolo pubblicato qualche mese in occasione della ristampa del suo celebre romanzo: 



Ci sono libri che ti ronzano dietro per 30 anni e alla fine scelgono loro quando è il momento.

Così è stato con Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta.  

Sono arrivato in ritardo, perché questo fu il libro di una generazione e 30 anni fa, tutti dovevano averlo letto. 

Leggerlo oggi è perfino blasé. 

Forse in Italia.  Questo libro, infatti si è conquistato stabilmente un posto nella letteratura contemporanea e le sue vicende sono curiose e per molti versi inspiegabili (a cominciare dal misterioso motivo per cui questo libro toccò subito il cuore di una massa enorme di persone, pur essendo un libro difficile, con interi capitoli e pagine di pura speculazione tecnica filosofica). 

A partire dalla sua pubblicazione. Come forse qualcuno sa, è quasi incredibile la storia editoriale del libro: il manoscritto inviato dal suo autore Robert M. Pirsig, fu infatti respinto nel corso di 4 anni da 121 diversi editori. 

Pubblicato dal piccolo editore William Morrow nel 1974 con un anticipo pagato all'autore di 3.000 dollari, stampato in quell'anno, ottenne un successo immediato di proporzioni mondiali, continuamente ristampato, con più di 5.000.000 di copie vendute in tutti i paesi del mondo. 

William Morrow, dopo aver letto il manoscritto, telefonò a Pirsig e gli comunicò che intendeva pubblicare quello strano libro perché "lo aveva costretto a chiedersi perché facesse l'editore. Era molto scettico sull'esito di vendite: "questi sono i primi e gli ultimi soldi che ti procureranno i tuoi libri," disse a Pirsig.  Non andò così.

Come è noto, l'autore Pirsig, compì il viaggio descritto, da Est a Ovest, attraverso gli Stati Uniti nel turbolento 1968. Questa foto ritrae il primo giorno di viaggio insieme al figlio Chris nel North Dakota.




Quest'altra foto del viaggio invece, scattata dallo stesso Pirsig, ritrae Chris e gli amici John e Sylvia, più le due moto, protagoniste del lungo viaggio (in realtà i due amici lasciano l'impresa a metà del libro).  

                                 

Questa invece è la piantina dettagliata del viaggio. 



Ma quello che conta nel libro non è il viaggio (o comunque non solo quello) e nemmeno i riferimenti allo Zen che sono del tutto secondari, o alla manutenzione della motocicletta che è soltanto la metafora di quel cammino interiore che riguarda tutti, prima o poi nella vita. 

Il libro non ha  nemmeno una qualità letteraria particolare. Ci sono romanzi stilisticamente molto più importanti di questo, in quello scorcio di Novecento. 

E' un libro importante per altri motivi

Ci sono libri infatti libri così, di tanto in tanto, che sono come meteore, oggetti strani. Che appaiono nel cielo per motivi imperscrutabili. 

Leggendolo, ho capito perché.

Quel che appassiona è la storia umana del libro. E' struggente scoprire che Chris, il ragazzino del libro, il figlio di Pirsig, che accompagna il padre in questo lungo viaggio  a tratti crudele e folle, e ne è in fondo il vero protagonista, sia stato ammazzato durante una rapina, a San Francisco, in modo assurdo appena 4 anni dopo l'uscita e il successo mondiale del libro.

Lo racconta drammaticamente Pirsig nella postfazione al libro e le cronache di allora ne riferirono abbondantemente. 

Forse è anche per questo che il libro ha avuto questo destino singolare. 

Perché il suo spirito, lo spirito di questo libro, è legato a quello di persone vive che hanno lottato con la follia, con la consapevolezza e con l'insensatezza: il cammino che tutti sfioriamo ogni giorno nella vita, e che da ogni padre si trasmette ad ogni figlio, da ogni generazione ad ogni generazione, il compito della vita: quello di districarsi nelle trappole dell'entusiasmo, attraversare le ombre, riconoscere la Qualità delle cose (che preesiste alle cose, il vero tema del libro) e attraverso questo dare un senso. 

Si tratta anche di un aspro confronto tra due modi (platonico e aristotelico, in definitiva), di interpretare il mondo. Scrive Pirsig:

All'intelligenza classica interessano i principi che determinano la separazione e l'interrelazione dei mucchi (di sabbia), i nessi, le cause gli effetti, i torti le ragioni, le conseguenze, gli errori, le responsabilità le mancanze gli arbitrii i bisogni, l'intelligenza romantica si rivolge alla manciata di sabbia ancora intatta (guarda cioè all'essenza, a quello che le cose sono). Sono entrambi modi validi di considerare il mondo, ma sono inconciliabili. 

In fondo da questa dicotomia dipende anche il risultato che lo Zen induce nel lettore di turno. Chi è dotato di prevalente intelligenza classica, sarà portato a valutare il libro come un tentativo pretestuoso di dare nome all'innominabile; viceversa, chi dispone di intelligenza romantica sarà portato a entrare senza indugio nella disputa filosofica pazzoide di Pirsig con tutte le scarpe e a lasciarsi travolgere dal vissuto del legame di vita drammatico e unico che si ripete in ogni passaggio generazionale. 

Comunque la si pensi e comunque lo si senta, il libro eccolo qua: che gira ancora il mondo (nell'anno di grazia 2014) e porta il suo... disegno ancora lontano, come appunto una cometa. 

Fabrizio Falconi

06/03/17

Rivelazioni: il progetto Adelphi (grazie a Bazlen) avrebbe potuto realizzarsi a Trieste e non a Milano.





C'e' mancato poco che una casa editrice come la Adelphi nascesse, invece che a Milano nel 1962, a Trieste alla fine del 1949. 

Lo si evince dalla scoperta, fatta dalla Libreria antiquaria Drogheria 28 di Simone Volpato, del carteggio intercorso tra i triestini Bobi Bazlen, uno dei fondatori-ispiratori della Adelphi appunto, con Anita Pittoni che proprio nel 1949 crea la casa editrice Lo Zibaldone. 

Il carteggio e' composto di dieci lettere scritte tra la fine del 1949 e il 1953 e comincia con l'invito della Pittoni a Bazlen di entrare nello Zibaldone, editore da lei ideato con Giani Stuparich e Luciano Budigna. 

L'invito e' insistente: sotto qualsiasi forma "come mozzo, come timoniere, come conoscitore dei venti? aspettiamo consigli o silenzi, qualche scritto o un messaggio in bottiglia". 

Bazlen non si fa pregare: comincia col mandare messaggi e subito dopo orienta la casa editrice in direzione della Mitteleuropa, una zona mentale e linguistica che sara' fortemente rappresentata ovviamente proprio nel catalogo Adelphi tra gli anni 70-80 con autori come Kraus, Roth, Schnitzler, Canetti. 

Bazlen consiglia alla Pittoni di lasciar stare la letteratura triestina, che ha una vena stanca, per aprirsi "alla Mitteleuropa ... farei una casa editrice che viaggia mentalmente tra Trieste, Gorizia, Vienna, Budapest, Lubiana ... pubblicando scrittori di queste ampie zone tu entreresti in una mentalita' di ordine, di pulizia, di scrittura aurea e scopriresti il disordine, il decadimento progressivo che corrompe corpi, mente e sogni; una letteratura simile ad uno scheletro con una divisa impeccabile". 

Gli autori da pubblicare sono quelli: Schnitzler, Trakl, Daubler, Rilke, Heine, Grillparzer. La Pittoni riflette e si scontra con problemi pratici, come le traduzioni, espone i dubbi ma Bazlen non demorde e le consiglia di leggere le poesie di Holderlin curate da un giovane Gianfranco Contini e Kaethchen di Heilbronn di Von Kleist e Misteri di Knut Hamsun. 

Bazlen afferma che Svevo e' autore irrinunciabile per le generazioni future di scrittori (e si chiede se Svevo fosse nato ad Agrigento e Pirandello a Trieste) e consiglia alla Pittoni di pubblicare le poesie di Carlo Michelstaedter, mitteleuropeo, scrittore "giovane e' un po' acerbo che gia' contiene i fuochi della disperazione (Gorizia e' scenografia schizofrenica). 

Il piccolo ma ricco carteggio, dove compaiono anche giudizi acidi su Saba e sulla sua Libreria e amorevoli su Giotti (proprio a 60 anni dalla loro morte) e' stato acquistato da Giampiero Mughini; tuttavia sara' visibile alla Mostra Internazionale Libri Antichi e di pregio che si terra' a Milano tra il 24-26 marzo 2017. 

14/01/17

"Il retaggio" di Sybille Bedford (Recensione).


Sybille Bedford è una di quelle scrittrici minori  che hanno attraversato tutto il Novecento, sfiorando le vite dei più grandi, con cui hanno intrattenuto spesso rapporti molto stretti - spesso oscurati da questi -  e che vengono via via riscoperte come è già successo a Elizabeth Jane Howard e a diverse altre.

La biografia della Bedford è già di per sé una sorta di opera d'arte. Nata in Germania, nel 1911 a Charlottenburg, il padre è il nobile Maximilian von Schoenbeck, «un uomo educato al piacere, a godere delle cose belle della vita, ma presto intrappolato fra paure ed eventi». La madre, inglese, è bella e spregiudicata, ma sparirà presto dalla vita della figlia.

La vita della Bedford fin da piccola ha un'impronta decisamente cosmopolita. Lascia infatti la Germania ancora bambina, troncando poi ogni legame con il Paese dopo subito l'avvento del nazismo. Vive così in una specie di bel mondo dorato, tra la Gran Bretagna, la Francia e l'Italia, circondata da una ristretta schiera di donne e uomini colti, intelligenti e sensibili, provenienti da ogni parte del mondo.

Tra gli amici più intimi c'è Aldous Huxley, come lei viaggiatore instancabile oltre che romanziere e saggista, al quale la Bedford ha dedicato una biografia. Dopo una vita intensissima e molti romanzi scritti, muore il 17 febbraio 2006 all'età di 94 anni.

Il Retaggio, uscito nel 1956,  è quello che viene considerato il suo capolavoro. Si tratta di un classico romanzo familiare alla ricerca di un mondo perduto, che è quello della stessa scrittrice. Nei personaggi dei protagonisti, l'eccentrico Julius Felden e la moglie Caroline, sono infatti identificabili i genitori di Sybille e il Retaggio si apre proprio su quella scena della Germania di fine Ottocento, con la sua opulenza terriera e finanziaria, le aspre tensioni sociali, il presagio di una catastrofe lontana ma già chiaramente annunciata; la stessa scena nella quale ha visto i natali la scrittrice.

Nelle quasi 400 pagine del romanzo si dipanano le storie di tre famiglie, unite da divergenti tradizioni aristocratiche e separate da irreali visioni del futuro. 

La prima è costituita da solidi beneficiari ebrei di Berlino, nel cuore del Nord prussiano e protestante; le altre due appartengono «a realtà discordi del Sud cattolico: l’una sonnolenta, rurale, volta al passato; l’altra ossessionata da sogni ecumenici di dimensioni europee».

A unirle provvederanno due matrimoni e uno scandalo.

E su tutto aleggia lo stile leggero e turbinoso di Sybille Bedford, che accompagna e descrive la dissoluzione di questo mondo polveroso e perduto, facendolo rivivere nella memoria del lettore.

E' un romanzo a tratti macchinoso e difficile, perché la Bedford non è mai consequenziale e non ha rispetto per le regole narrative, giocando con dialoghi surreali fuori dal tempo e dai personaggi, e con rapidi salti di luogo e temporali, divertendosi a dilatare i tempi in alcune parti (come la fuga dalla terribile accademia, da parte di uno dei giovani rampolli aristocratici) e sorvolando brutalmente su altre, che restano misteriosamente sottratte alla curiosità del lettore.

Sybille Bedford 
Il retaggio 
Traduzione di Marina Antonielli 
Adelphi2016, pp. 388

13/01/17

"Il libro del Tao - Tao Te Ching" di Lao Tzu, un libro per la vita.




E' un libro che non si smette mai di rileggere e che ogni volta restituisce un tesoro di conoscenza. 

Si tratta di uno di quei testi sapienzali che come accade per lo stesso I-Ching sembra rispondere diversamente ogni volta al lettore che lo interroga e che vi si accosta. Proponendo risposte ricche di implicazioni da decifrare, che hanno riscontro nelle vite di tutti. 

Scritto, secondo la tradizione cinese, nel VI secolo a.C. dal leggendario Lao-tzu e, secondo i filologi, in un’età oscillante fra il VI e il III secolo a.C., il Tao-tê-ching è considerato il fondamento della religione e della scuola filosofica taoista.

Lao-tzu utilizza e interpreta categoria che all'epoca in cui egli scrive già esistevano e facevano parte della civiltà cinese arcaica: il Tao, cioè la «Via», regolatrice della totalità; il , «Virtù», ma piuttosto nel senso di «potenza magica»; lo Yin e lo Yang, princìpi femminile e maschile; il Wu wei, cioè il «non-agire», ricetta della suprema efficacia. 

Tali categorie vengono rielaborate dal Tai-te-Ching in brevi frasi apparentemente semplici, che possiedono una risonanza infinita e pur rasentando la paradossalità esprimono idee di pura evidenza, illuminanti nella introspezione dell'animo umano.  

In particolare - in pieno contrasto con l'ideologia preminente nella civiltà occidentale - il Tao-te-ching è una esaltazione della debolezza e della mollezza come antidoto alla forza e alla durezza umana, che causano i più grandi disastri, nelle vite individuali e in quella collettiva. 

Pratica il non agire. Impegnati a non essere indaffarato (LXIII), scrive Lao-Tzu, Più vai lontano, meno conosci. Per questo il saggio conosce senza spostarsi, riconosce senza vedere, compie senza agire. (XLVII)

 Fai vivere le creature, nutrendole e trattandole come se fossero tue, senza aspettarti nulla in cambio. Lasciale crescere e non pretendere di possederle e governarle. Questa è la virtù più misteriosa. (X)

In poche pagine si dipana una saggezza difficile e antica, che si basa sull'accettazione della trasformazione e sull'essere predisposti e consistenti per il cambiamento.  Come ogni bambino che nasce che - scrive Lao Tse - è molle e debole, e proprio per questo cresce e diventa colmo di pienezza.  Per questo chi muore è duro e rigido. 

Non bisognerebbe mai dimenticarlo. 



03/12/16

Complessità del Buddhismo e semplificazioni occidentali.



Negli ultimi decenni si è assistito ad una diffusione del buddhismo in Occidente in una versione che l'Occidente - non so quanto consapevolmente o meno - ha notevolmente semplificato, rischiando di trasformare la teoria e la pratica millenaria del buddhismo in qualcosa di molto simile ad una disciplina new age

Addirittura ho sentito ripetere spesso che il buddhismo, rispetto al Cristianesimo, è molto più semplice (!) e immediato. Credo che ciò dipenda, come sempre, da una mancanza di approfondimento e di consapevolezza delle cose. 

Credo che questo breve passaggio del libro di Hervé Clerc, Le cose come sono (Adelphi edizioni, 2015), aiuti a rimettere un po' d'ordine. 

Se il nirvana è un'esperienza universale, il buddhismo è una creazione indiana. A immagine dell'India, delle sue città, la sua vegetazione, le etnie, le lingue, gli dèi, il suo miliardo di abitanti e altrettante contraddizioni, il buddhismo prolifera in modo anarchico in una giungla di sutra che nessuna tasca potrà mai interamente contenere. 

Il cristianesimo, religione del Verbo, si propaga grazie ai testi, il buddhismo malgrado i testi. 

In totale il Buddha avrebbe comunicato ai suoi discepoli 84.000 insegnamenti, afferma suo cugino Ananda, uomo dotato di una memoria fenomenale, che nessuno poteva guardare senza provare un immediato sentimento di gioia (Mahaparinirvana sutra). 

Questi insegnamenti sono contenuti o piuttosto arginati nei tre canoni. 

Il solo canone pali, nella dotta edizione della Pali Text Society, comprende 57 volumi, indici inclusi. 

Il canone tibetano Kangyur ne contiene un centinaio. 

Secondo Arthur F. Wright il canone cinese presenta da solo 74 volte la lunghezza della Bibbia. 

Nessuno quindi, conclude Clerc, può pretendere di possedere una conoscenza esaustiva di questo continente.

20/11/16

La poesia della domenica - "Sotto un abietto salice" di W.H.Auden




Sotto un abietto salice

Sotto un abietto salice
non ti affliggere più, innamorato:
segua al pensiero rapida azione.
A che serve pensare?
La tua incessante prostrazione
mostra quanto sei freddo;
alzati, su, e ripiega
la tua mappa di desolazione.

I rintocchi che scorrono sui prati
da quella fosca guglia
suonan per queste ombre senza amore
che all'amore non servono.
Ciò che è vivo può amare: perché ancora
piegarsi alla sconfitta
con le braccia incrociate?
Attacca e vincerai.

Stormi di anatre in volo sul tuo capo
e sanno dove andare,
freddi ruscelli in corsa ai tuoi piedi
e vanno verso l'oceano.
Cupa e opaca è la tua costernazione:
cammina, dunque, vieni,
non più così tarpato
in preda alla tua soddisfazione.


Underneath an Abject Willow

Underneath an abject willow,
Lover, sulk no more:
Act from thought should quickly follow.
What is thinking for?
Your unique and moping station
Proves you cold;
Stand up and fold
Your map of desolation.

Bells that toll across the meadows
From the sombre spire
Toll for these unloving shadows
Love does not require.
All that lives may love; why longer
Bow to loss
With arms across?
Strike and you shall conquer.

Geese in flocks above you flying.
Their direction know,
Icy brooks beneath you flowing,
To their ocean go.
Dark and dull is your distraction:
Walk then, come,
No longer numb
Into your satisfaction.


traduzione di Gilberto Forti

tratto da W.H.Auden 
La verità, vi prego, sull'amore
Adelphi, 1994.

06/11/16

La poesia della domenica: "Le arie che incantano e che fanno la bellezza."




Le arie che incantano e che fanno la bellezza sono:

L'aria smaliziata,
L'aria annoiata,
L'aria svaporata,
L'aria impudente,
L'aria di dominio,
L'aria di volontà,
L'aria cattiva,
L'aria malata,
L'aria fredda,
L'aria di guardare di dentro,
L'aria da gatta, infantilismo, noncuranza e malizia mescolati insieme.

In certi stati quasi soprannaturali dell'anima, la profondità della vita si rivela tutta intera nello spettacolo, per quanto comune sia, che si ha sotto gli occhi. Esso ne diventa il simbolo. 

18/06/16

Il Libro del giorno: "Jung Parla (interviste e incontri)".




Volume preziosissimo che raccoglie quasi tutte le interviste pubbliche e i resoconti degli incontri di Carl Gustav Jung dal 1912 al 1960. 

Ripetizioni a parte - che potevano forse essere evitate nella cura del libro - il volume offre pagine assolutamente straordinarie che testimoniano il genio immenso di Jung e anche i suoi limiti, le sue umane debolezze. 

Grandi le pagine sullo studio dei dittatori, quelle sulla "eternità" della psiche, sulla sua atemporalità, commovente il suo tentativo di offrirsi, "uomo che pensa" alla comprensione e al sapere del "non umano". 

Un libro da leggere e da rileggere, da tenere tra i preferiti di sempre. 








06/06/16

Il Libro del giorno: "Il velo dipinto" di William Somerset Maugham.



Se cercate un libro per l'estate, prendete questo. 

Uno dei migliori romanzi di Maugham, ristampato finalmente qualche anno fa da Adelphi e subito divenuto un classico. 

La storia di Kitty, sciocca ragazza borghese che a Londra si sposa quasi per dispetto con un riservato medico batteriologo, inviato per lavoro in Cina. 

Qui Kitty diviene l'amante del fatuo Charlie. Scoperta la tresca, Kitty decide di seguire il marito - come in una forma di espiazione - in missione in una sperduta landa dove imperversa il colera.  (DA QUI IN POI NON LEGGERE, SE SI VUOLE EVITARE LO SPOILER).  Il marito muore, contagiato, Kitty crede, grazie all'aiuto delle monache locali, di essere cambiata, sa di essere incinta, ma tornata in città subisce di nuovo le avances di Charlie. Torna a casa a Londra, dove la madre è morta. E accetterà di seguire il padre ai Caraibi per tentare ancora una volta di cambiare vita. 

Romanzo degli inizi e di grande successo, anche questo di Maugham non è affatto puro intrattenimento. Dietro la leggerezza e la leggibilità, le ombre e i conflitti della condizione umana, le debolezze del carattere, la pietà e la miseria, la grandezza umana e l'eterna inquietudine.  Personaggi che restano vivi, come se si potessero toccare. 



W. Somerset Maugham 
Il velo dipinto 
Traduzione di Franco Salvatorelli 
gli Adelphi 2011, 5ª ediz.,
pp. 234 
 isbn: 9788845925733 

11/05/16

"Fondamenta degli incurabili", di Iosif Brodskij (RECENSIONE).



Che straordinario libro che è, Fondamenta degli incurabili

Originariamente scritto su invito del Consorzio Venezia Nuova che lo pubblicò nel dicembre del 1989, in una edizione fuori commercio, fu successivamente pubblicato da Adelphi nel 1991. 

Più che di un libro, si tratta di un atto d'amore di Brodskij per Venezia, la città della bellezza definitiva. Il poeta - nello svolgersi di 51 brevi paragrafi - racconta il suo rapporto con il luogo e il suo spirito, dal primo arrivo stralunato, in pieno inverno,  con l'odore di alghe marine sottozero, e la più elegante creatura di sesso femminile, che lo introduce alla scoperta della bellezza (si trattava della Contessa Mariolina De Zuliani Doria, che all'epoca era sposata e che non viene mai nominata; di tutta la storia si occupa un sito americano qui, mentre non si trova nulla sui siti italiani). 

Brodskij esplora il mistero di Venezia, il connubio tra Acqua e Tempo, gli specchi delle camere d'albergo, le stanze senza riscaldamento (per una sorta di rito Brodskij tornerà per vent'anni a Venezia sempre d'inverno), la nebbiolina carica di rintocchi,  il grigiore, la riva a mezzanotte, il corpo diventato soltanto veicolo per l'occhio, i palazzi spettrali sul Canal Grande, i visitatori e gli ospiti illustri (come Ezra Pound e la vedova, Olga Rudge), la luce del Tiepolo e del Tintoretto, e del Giorgione e del Bellini, le facciate merlettate delle chiese, il colore porfido scuro che assume il cielo sulla Laguna, le Messe in una lingua straniera, la bellezza che è innocua, sicura, che non minaccia di ucciderti, non ti fa soffrire, ed è sempre una eccezione alla regola

Brodskij riporta la citazione di Anna Achmatova che scriveva: "L'Italia è un sogno che continua a ripresentarsi per il resto della vita." 

Così succede anche a Brodskij, che a Venezia continua a tornare  sempre, nonostante i problemi cardiaci, che in un caso lo portano vicino alla morte e lo spingono ad andarsene via di notte, su un treno. 

La prosa poetica di Brodskij è in stato di grazia. Ogni sua parola è illuminata.  Ogni parola svela e incide la realtà di un sogno: che è più reale della realtà. 

Come scrive Brodskij nell'ultima pagina, noi andiamo e la bellezza resta. Perché noi siamo diretti verso il futuro, mentre la bellezza è l'eterno presente. Lo stesso vale per l'amore, perché anche l'amore è superiore, anch'esso è più grande di chi ama. 

Fabrizio Falconi
(C) riproduzione riservata 2016


22/04/16

"La lezione del maestro" di Henry James (RECENSIONE).





Pubblicato a puntate nel 1888, e nella sua forma definitiva nel 1909. 

L'idea nacque dopo una conversazione che Henry James ebbe col giornalista suo amico Theodore Child sulle conseguenze del matrimonio. Alla data del 5 gennaio 1888, nei taccuini (Notebooks) utilizzati dallo scrittore per registrare le prime idee sulle sue opere, James scrive infatti che Child attribuiva la scarsa qualità letteraria di una recente opera di Daudet al fatto che quest'autore aveva moglie e figli ed era quindi obbligato a produrre indiscriminatamente a buon mercato.

Di questo parla infatti La lezione del Maestro:  l'incontro tra il vecchio scrittore, St. George e il giovane autore, Paul Overt, che ha scritto un solo romanzo, Ginestrella, e che idolatra il vecchio maestro. 

Quando ha finalmente occasione di incontrarlo, durante un convivio in una lussuosa casa di campagna, Paul può verificare con mano il carisma del vecchio scrittore, il quale dichiara di aver letto l'opera prima di Overt e di esserne entusiasta.  Paul rimane però piuttosto sconcertato quando St, George ammonisce il giovane sui rischi che comporta - nell'arte e nella vita - un'accettazione idolatra dei precetti dei maestri, e soprattutto sui rischi che comporta il matrimonio e l'avere dei figli, per uno che vuole veramente scrivere, e diventare un grande scrittore. 

St. George in effetti è sposato, con una moglie molto attiva che gli cura perfino i rapporti con gli editori, e con figli e  - anche Paul lo sa - negli ultimi libri ha fatto passi falsi, cedendo evidentemente alle lusinghe della commerciabilita'.

A legare i due uomini c'è Miss Fancourt, figlia di un generale e "provinciale di genio", amica e devota di St. George.  Paul se ne innamora.   St. George, in una lunga discussione notturna, da una parte sembra sospingere Paul tra le braccia di Miss Fancourt, dall'altra caldeggia il rigore più assoluto. 

Paul prende alla lettera questo secondo ammonimento, e parte - insalutato - per la Svizzera, intenzionato a scrivere il suo secondo "perfetto" romanzo.   

Resta lontano dall'Inghilterra per due anni e in Italia gli giunge la notizia che la moglie di St. George è morta. 

Tornato finalmente  a Londra, Paul va per prima cosa a casa di Miss Fancourt, che non ha dimenticato e che vorrebbe ritrovare. Da suo padre però, il Generale, viene a sapere che St. George ha annunciato che si sta per risposare.  E che si risposerà proprio con sua figlia. 

Nel finale, amarissimo, Paul fa i conti prima con Miss Fancourt - che gli manifesta l'innocente affetto di sempre, e con St.George, che senza ritrattare di una virgola, e senza vergognarsi - come gli chiede Paul - si vanta di aver salvato il ragazzo, e di averlo consegnato alla pura creatività. 

La breve storia è l'occasione per James per fornire un apologo crudele e sottilissimamente psicologico sulla creatività (la letteratura) e i rapporti umani (cioè la vita vera), e la distanza che sempre esiste tra le due cose. 

La Lezione del maestro è una lezione ben cinica, e dura da sopportare per Paul, che però è principalmente vittima della propria ambizione, e dello sbaglio distorto di deificare una persona (prima che uno scrittore) profondamente umana e profondamente debole. 

St. George ha manipolato Paul, ma Paul ha praticamente chiesto di essere manipolato. 

La vita non è la letteratura, e sa presentare il conto.  L'inganno sottile di St.George è anche l'autoinganno che Paul persegue per (poter) dimostrare a se stesso di essere uno scrittore. 

Ma forse, ed è questo il gioco di specchi più grandioso di questo grandioso breve romanzo, è tutta la vita ad essere un inganno, perché niente risulta veramente autentico in questa caccia alla volpe alla ricerca di se stessi e del proprio ruolo nel mondo. 

Fabrizio Falconi (C) - 2016 riproduzione riservata.