08/10/22

Branduardi canta Yeats: Storia di un album straordinario

 

La copertina di Branduardi canta Yeats

Erano sicuramente altri tempi. 

A metà degli anni '80 c'erano ancora in giro produttori discografici, in Italia, capaci di sfidare le regole del mercato e di proporre prodotti di alta o altissima qualità, capaci di coniugare la sperimentazione con la musica vera. 

A noi giornalisti musicali dell'epoca sembrò un vero azzardo, ai limiti dell'incoscenza, quando fummo convocati nella sede della Polydor a Roma, per la conferenza stampa di un nuovo disco di Angelo Branduardi, che costituiva una scommessa per il suo produttore David Zard, impresario e produttore di origini libiche, il quale negli anni '70 '80 e '90 dettò legge per l'organizzazione dei concerti in Italia. 

David, insieme al fratello Dory (che era il produttore artistico di questo disco), nel giugno 1967 era stato costretto a lasciare la Libia per motivi razziali, in quanto di famiglia ebraica. 

Trasferitosi a Roma con la famiglia, ai primi degli anni '70 aveva cominciato a lavorare nel mondo dello spettacolo, diventando promoter dei più grandi eventi che in quegli anni si svolsero in Italia, compresi i  concerti di Aretha Franklin e dei Led Zeppelin. 

Da sempre estimatore di Branduardi, Zard aveva stavolta deciso di produrgli (con la sua etichetta "Musiza" - ovvero "Musica - Zard") un album che non aveva nessuna velleità di vendite popolari, non contenendo nessun possibile hit, nessuna "Fiera dell'Est" o "Cogli la prima mela."

Branduardi, cresciuto nell'ambiente della musica colta, e grande conoscitore di poesia (anni prima aveva per esempio realizzato una versione fantastica di "Confessioni di un malandrino" di Sergej Esenin) e di letteratura, aveva con la moglie Luisa Zappa, trasformato in canzoni, adattandole in musica, alcune meravigliose poesie di William Butler Yeats. 

Per l'esattezza: I cigni di Coole (The Wild Swans at Coole); Il cappello a sonagli (The Cap and Bells); La canzone di Aengus il vagabondo (The Song of Wandering Aengus); Il mantello, la barca e le scarpe (The Cloak, the Boat and the Shoes) A una bambina che danza nel vento (To a Child Dancing in the Wind); Il violinista di Dooney (The Fiddler of Dooney); Quando tu sarai... (When you are Old); Un aviatore irlandese prevede la sua morte (An Irish Airman Forsees his Death); Nel giardino dei salici (Down to the Salley Gardens) Innisfree, l'isola sul lago (The Lake Isle of Innisfree).
 
Si tratta di 10 veri gioielli, per un progetto che fu all'epoca approvato personalmente da Michael e Ann Yeats, i figli del grande poeta. 

Il nono album di Branduardi uscì conquistandosi una ristretta cerchia di fedelissimi che ancora oggi tengono da parte e venerano questo piccolo capolavoro della musica italiana.  

Tutte le musiche sono firmate dallo stesso Branduardi con l'eccezione  di La canzone di Aengus il vagabondo, la cui musica è scritta da Donovan. 
Angelo Branduardi, come sua abitudine, suonò quasi tutti gli strumenti da solo (chitarra, violino, violino baritono, voce, cori, flauto) insieme al fidato Maurizio Fabrizio e a Josè De Ribamar "Papete" alle percussioni. 

Altri tempi, dunque, che hanno lasciato però tracce molto profonde.

Fabrizio Falconi - 2022 

05/10/22

Libri: Arriva in Italia "Hitler, la manipolazione, il consenso, il potere"



"Hitler aveva una capacita' quasi medianica di comprendere le piu' profonde aspirazioni del popolo tedesco". A quasi ottant'anni dalla sua morte nel bunker della Cancelleria a Berlino ha ancora senso interrogarci sulla sua eredita' e sulla modernita' della sua leadership? 

La risposta e': ora piu' che mai

Basta leggere il volume Il leader, su Adolf Hitler: la manipolazione, il consenso, il potere scritto dallo storico Davide Jabes. 

Un libro scorrevole, divulgativo, con alla base la volonta' di non volere essere tanto una nuova ricerca sull'attivita' del dittatore tedesco, quanto una riflessione sulla sua 'presenza'. 

Sulla insondabile ma ricorrente seduzione esercitata dal despota sulle masse che lo acclamano.

Una necessaria lettura da fare superando "il naturale disgusto" verso la persona e la ricerca del nemico da annientare, a partire dagli ebrei, suggerisce l'autore, per iniziare "seriamente a preoccuparci di come avrebbe impostato l'esistenza dei suoi 'amici', ovvero di quel mondo che lo idolatrava o quanto meno gli ubbidiva". 

"In Italia, non molti anni fa, durante un quiz televisivo nessuno dei concorrenti seppe rispondere a una semplice domanda: quando era andato al potere Adolf Hitler", ricorda Jabes nella prefazione al libro. 

Il Fuhrer "diede risposta a masse di diseredati, di persone schiacciate da un presente terribile promettendo loro un futuro radioso, il tutto risultando credibile e onesto (questa forse la sua performance 'artistica' migliore). Perche' non considerare la sua pericolosa eredita' non degna della massima attenzione, quando oggi una moltitudine assai maggiore aspetta di essere sollevata dallo stato di costante miseria economica e sociale in cui versa?". 

Il volume analizza la giovinezza di Hitler, il condizionamento disturbante avuto dalla sua famiglia di origine nonche' la giovinezza trascorsa a Vienna, dove sviluppa quel rifiuto della societa' multiculturale, multilinguistica per abbracciare a Monaco sintesi piu' semplificatrici e rispondenti al suo bisogno di cercare il nemico a tutti i costi. 

Le trova nella destra bavarese e nell'antisemitismo che l'alimenta, nella sua disordinata e caotica costruzione di un modello illustrato con enfasi in un crescendo retorico ma quasi musicale

Per questo Jabes sottolinea l'importanza della passione di Hitler per Wagner e le sue frequentazioni dei teatri. Sono descrizioni e ricostruzioni molto suggestive, capaci di trasportarci nel vissuto di un uomo di cui vorremmo non parlare piu', mentre l'autore con professionale distacco ci mostra uno per uno quali sono i possibili agganci con l'attualita'. Sta a noi scegliere di interrogarci sul tema o chiudere il libro e ancora una volta far finta di niente, sperando che tutto si risolva da se'.

DAVIDE JABES
IL LEADER. ADOLF HITLER: LA MANIPOLAZIONE, IL CONSENSO, IL POTERE 
Solferino
pagine 251
18 euro 

04/10/22

Keanu Reeves, uno dei più interessanti attori di Hollywood, e l'ombra di Jennifer Syme, la compagna perduta

 


Ha da poco compiuto 58 anni Keanu Reeves, uno degli attori e delle personalità più interessanti espresse dal cinema americano negli ultimi decenni. 

Reeves, porta nel suo DNA un incredibile miscuglio di etnie e forse è questo a renderlo così interessante, rispetto a profili di suoi colleghi molto più sbiaditi: è nato infatti a Beirut il 2 settembre 1964, figlio di Patricia (nata Taylor), costumista e interprete, e Samuel Nowlin Reeves Jr. Sua madre è inglese, originaria dell'Essex .  Suo padre americano è originario delle Hawaii ed è di origine nativa hawaiana , cinese, inglese, irlandese e portoghese. 

Sua nonna paterna è cinese hawaiana . Sua madre lavorava a Beirut quando incontrò suo padre, che ha abbandonato la moglie e la famiglia quando Reeves aveva solo tre anni. Reeves ha incontrato suo padre l'ultima volta sull'isola hawaiana di Kauai quando aveva 13 anni . 

Dopo che i suoi genitori divorziarono nel 1966, sua madre trasferì la famiglia a Sydney, e poi a New York City, dove sposò Paul Aaron, un regista di Broadway e Hollywood , nel 1970.

La vita di Reeves dunque non è stata proprio semplicissima, nemmeno da adulto: nel 1998, Keanu aveva  incontrato Jennifer Syme , assistente del regista David Lynch , a una festa organizzata per la sua band Dogstar, e iniziarono a frequentarsi. 

L'anno dopo, la vigilia di Natale, il 24 dicembre 1999, Syme ha dato alla luce prematuramente la figlia della coppia, Ava Archer Syme-Reeves, che però era nata morta . La coppia si sciolse diverse settimane dopo, ma in seguito si riconciliò. 

Il 2 aprile 2001, un'altra tragedia: Syme rimase uccisa in un incidente automobilistico, con il suo veicolo che finì per schiantarsi su tre auto parcheggiate su Cahuenga Boulevard a Los Angeles. Secondo quanto riferito, Syme non indossava le cinture di sicurezza. 

Reeves raccontò agli investigatori che erano tornati insieme, e avevano fatto un brunch insieme a San Francisco il giorno prima dell'incidente. 

Reeves portò sulle spalle la bara della compagna, che fu sepolta vicino a sua figlia. 

Keanu avrebbe dovuto girare il sequel di Matrix la primavera successiva, ma rinunciò per cercare, disse, "pace e tempo". 

Reeves è sempre stato discreto riguardo alle sue convinzioni spirituali, dicendo che è qualcosa di "personale e privato". Alla domanda se fosse una persona spirituale, ha detto di credere «in Dio, la fede, la fede interiore, il sé, la passione e le cose», e che è «molto spirituale».

Sebbene non pratichi formalmente il buddismo , la religione ha lasciato una forte impressione su di lui, soprattutto dopo le riprese di Little Buddha, di Bernardo Bertolucci, di cui è stato protagonista. 

Raccontò: "La maggior parte delle cose che ho tratto dal buddismo sono state umane: capire i sentimenti, l'impermanenza e cercare di capire le altre persone e da dove provengono".

Alla domanda su The Late Show con Stephen Colbert nel 2019 sulle sue opinioni su ciò che accade dopo la morte, Reeves ha risposto: "So che mancheremo a quelli che ci amano"

Reeves supporta diversi enti di beneficenza e cause. In risposta alla battaglia di sua sorella contro la leucemia , ha fondato una fondazione privata sul cancro, che aiuta gli ospedali pediatrici e fornisce ricerca sul cancro. Nel giugno 2020, si è offerto volontario per Camp Rainbow Gold, un ente di beneficenza per bambini dell'Idaho. 

Riguardo a successo e denaro, ha detto: "Il denaro è l'ultima cosa a cui penso. Potrei vivere di ciò che ho già guadagnato nei prossimi secoli". 

03/10/22

"Il Maestro e Margherita" vive: anche se la Casa di Bulgakov, ritrovo dei satanisti russi, è stata dipinta di bianco

 


Una frase memorabile e molto citata ne Il maestro e Margherita, il capolavoro assoluto di Mikhail Bulgakov, è: "I manoscritti non bruciano" (рукописи не горят ). 

Il Maestro, come si sa, è uno scrittore afflitto sia dai suoi problemi mentali che dalle dure critiche politiche affrontate dalla maggior parte degli scrittori sovietici nella Mosca degli anni '30 nell'Unione Sovietica stalinista. Brucia il suo prezioso manoscritto nel tentativo di ripulire la sua mente dalla guai che il lavoro gli ha portato. 

Quando finalmente si incontrano, Woland chiede di vedere il romanzo del Maestro; il Maestro si scusa per non averlo potuto fare, poiché l'aveva bruciato. Woland gli dice allora: "Non puoi averlo fatto. I manoscritti non bruciano"

C'è un elemento profondamente autobiografico riflesso in questo passaggio: Bulgakov infatti, bruciò la prima copia di Il Maestro e Margherita per le stesse ragioni che esprime nel romanzo

A Mosca, oggi, due musei onorano la memoria di Mikhail Bulgakov e Il maestro e Margherita . 

Entrambi si trovano nell'ex condominio di Bulgakov in Bolshaya Sadovaya, n. 10

Dalla fine degli anni '80 e dalla caduta dell'Unione Sovietica, l'edificio è diventato un luogo di ritrovo per i fan di Bulgakov e per i gruppi satanisti con sede a Mosca

Negli anni hanno riempito i muri di graffiti . I migliori venivano solitamente conservati mentre le pareti venivano ridipinte, in modo che intorno si potessero vedere diversi strati di colori diversi. 

Nel 2003, durante il nuovo corso politico in Russia, tutti i numerosi dipinti, battute e disegni sono stati purtroppo completamente imbiancati. 

I due musei sono rivali: il Museo ufficiale MA Bulgakov, sebbene fondato per secondo, si identifica come "il primo e unico Museo Memoriale di Mikhail Bulgakov a Mosca"

Casa Bulgakov si trova invece al piano terra dell'edificio. Questo museo è stato istituito con iniziativa privata il 15 maggio 2004. Contiene oggetti personali, foto e diverse mostre relative alla vita di Bulgakov e alle sue diverse opere. Si tengono spesso vari eventi poetici e letterari.

La Casa Bulgakov gestisce anche il Teatro MA Bulgakov e il Café 302-bis. 

Nell'appartamento numero 50 al quarto piano si trova il Museo MA Bulgakov ( Музей М А. Булгаков). Questa struttura è invece di iniziativa del governo, ed è stato fondato il 26 marzo 2007. 

30/09/22

La Rovina del Gioco (o Ludopatia) - Dostoevskij e Puskin

 


   Interrompere l’illusione, fermarsi in tempo, ragionare, essere prudenti: virtù sconosciute agli amanti del rischio del gioco. Sicuri lasciapassare per la rovina.

   «Domani, domani tutto finirà», è il mantra che ripete Aleksej Ivanovic il giovane precettore protagonista de Il giocatore (1866). Nel teatro popolato da ludopatici seriali messo in scena da Dostoevskij il domani è l’opzione, la vera scommessa.

   Aristocratici e poveri, inebriati dalla fede nel dèmone del Caso, credono di poterne cavalcare la soma imbizzarrita.  Perdere è oggi. Vincere è domani. C’è un domani in cui si vincerà, e tutto finirà.  E anche se si vincesse oggi, c’è ancora un altro domani da sfidare.

   Il virus è contagioso e quasi mai si guarisce.

   Lo spirito russo, così profondamente incardinato sull’eterna sfida alla minaccia incombente del Destino e del Caso aveva già trovato un analogo eroe ne La dama di picche di Puskin (1834), con l’apparentemente imperturbabile  protagonista Hermann, giovane ufficiale che si sente immune – per pura fede nella volontà, essendone infatti potentemente attratto – dal vizio del gioco e che finisce per diventarne succube nel modo più imprevedibile: un commilitone gli rivela infatti che una nobildonna, sua nonna, conosce il segreto per vincere infallibilmente al gioco delle tre carte (arcano trasmessole nientemeno che dal Conte di Saint-Germain in persona).

   Hermann viene introdotto con il favore della dama di compagnia nell’appartamento della duchessa, ma questa spaventata dall’irruzione, dalle insistenze e dalle minacce, muore sul colpo  prima di rivelare il mistero.

   Sarebbe la salvezza di Hermann, se non fosse che la rovina si ripresenta sotto forma di sogno prima e di un fantasma poi: sotto queste sembianze la nobildonna promette al giovane di svelargli la combinazione vincente – tre, sette e asso – ad una condizione: che esso sposi la sua prediletta dama di compagnia.

   L’ossessione è irresistibile. Hermann vi soggiace.

   Si decide finalmente a vincere la prudenza del raziocinio e sfida la sorte, ma senza ottemperare alla richiesta del matrimonio preventivo. E se il sette e il tre si confermano vincenti, al posto dell’asso, il mazzo sfodera la donna di picche, sotto l’effige della quale si riconoscono i lineamenti beffardi della vecchia contessa. La rovina ingoia così anche il povero Hermann, che diventa pazzo.

Tratto da: Fabrizio Falconi, Le Rovine e l'Ombra, Castelvecchi editore, Roma, 2017





29/09/22

Quando furono costruiti i Muraglioni del Tevere ? La disastrosa piena del 1598

 


La natura alluvionale del Tevere è ben nota dall’antichità, ed ha accompagnato la storia del fiume e della città per molti secoli, a partire dalla sua fondazione, se è vero che scaturisce proprio da una piena del fiume la nascita della leggenda di Romolo e Remo, i due fratelli trasportati da una cesta fino all’argine ai piedi del colle Palatino.

Gli allagamenti del Tevere, dunque, sono testimoniati dall’età più antica (almeno sin dalla fine del V secolo a.C.) e anche nella Roma Imperiale la cura del fiume e il problema delle inondazioni, impegnarono non poco prefetti, consoli e senatori, tutti coloro che dovevano amministrare la cosa pubblica.

Con una certa regolarità, dunque, più o meno ogni venticinque anni, con periodi più intensi e altri meno, i disastri provocati da piene del Tevere furono protagonisti della vita cittadina, aggravati da due fattori, la minima pendenza dell’alveo del fiume, che in alcuni punti della città è appena dodici metri più in alto rispetto al livello del mare, e la costruzione dei ponti, in particolare di Ponte Milvio e di Ponte Sant’Angelo che hanno creato barriere artificiali al libero scorrimento delle acque.

La memoria storica romana si è dunque formata sul ricordo di questi eventi eccezionali, che sono testimoniati da lapide e iscrizioni (le cosiddette manine) su molti degli edifici del centro storico e che ancora oggi è possibile notare, per esempio sulla fiancata destra della chiesa di Santa Maria Sopra Minerva.

Perché una piena fosse davvero eccezionale e particolarmente catastrofica, il livello delle acque, misurato dagli idrometri, in particolare quello del Porto di Ripetta, doveva superare il livello di sedici metri.  Questo evento, dall’anno 1000 all’anno 1870 è stato superato ventuno volte, con una particolare concentrazione nel corso di due secoli e mezzo, dal 1450 al 1700, quando si sono contate ben tredici delle ventuno piene catastrofiche.

Il Cinquecento fu il secolo più devastante, con ben cinque piene eccezionali, di cui quattro oltre i diciotto metri e una, quella della vigilia di Natale,  24 dicembre 1598, che con 19,56 m di altezza idrometrica a Ripetta, costituisce il massimo storico mai registrato a Roma, con una portata di circa quattromila metri cubi al secondo.

Questa piena fu davvero qualcosa di impensabile.  In quella occasione, le acque fuoriuscite dall’alveo del Tevere raggiunsero una altezza di cinque metri, sommergendo perfino le colonne del Pantheon (il punto del centro di Roma più basso rispetto al livello del mare) di ben sei metri.

Le lapidi della spaventosa piena del 1598 testimoniano il livello record delle acque del Tevere a Roma sono ancora ben visibili a Roma, e in particolare come abbiamo detto sulla facciata della Chiesa della Minerva, vicino al Pantheon, dove è possibile rendersi conto della altezza che avevano raggiunto le acque e confrontare questo livello  con le altre piene (quelle del 1422, 1495, 1530, 1557 e 1870).

Oltre a quella della Minerva, ben 11 lapidi in memoria di quella inondazione sono giunte fino a noi, tra le quali quella di via S. Maria de’ Calderari quasi alla congiunzione con via Arenula.

I dati sulla piena del 1598, di cui disponiamo, sono molto dettagliati e derivano dalla cronaca dalla cronaca di Jacopo Castiglione, da dove si apprende che il Tevere inondò la città a partire dalle ore 23 circa del giorno 23 dicembre e fino alle ore 10 del giorno 25 dicembre, quando il livello dell’acqua cominciò a calare. L’acqua del Tevere era dunque fuoriuscita dagli argini per trentacinque ore consecutive, seminando il panico tra la popolazione, che non aveva avuto nemmeno il tempo di mettersi al riparo.  Le case furono sommerse fino al terzo piano. I morti furono quasi quattromila, il recupero dei corpi avvenne solo parzialmente e con molti giorni di ritardo. Decine, centinaia di corpi furono tumulati in fosse comuni e ricoperti di calce, per scongiurare il rischio altissimo di epidemie.

Il conto dei morti infatti continuò per molto tempo dopo l’alluvione, a causa delle malattie causate dal ristagno delle acque, rigurgitate dalle fogne e dell’umidità.

Con un’altezza idrometrica di 19,56 m a Ripetta, cui corrisponde una portata al colmo di circa 4000 m3/s, l’inondazione del 1598 divenne dunque  - ed è a tutt’oggi -  la maggiore piena del Tevere conosciuta, a coronamento di un anno veramente eccezionale visto che,  come riporta la cronaca del  Castiglione, il Tevere era già più volte uscito dal suo letto (con piene già notevoli il 2 febbraio e il 7 marzo) allagando la zona dell’attuale lungotevere Marzio, ed uscì nuovamente anche pochi giorni dopo, il 10 gennaio 1599. Castiglione così commenta: “Quest’anno del 1598 è stato quasi tutto si humido, che la maggior parte di giugno si passò con pioggia e freddo, né per questo havemo avuto l’Autunno asciutto. Anzi in detta stagione non ha mai fatto altro, che piovere quasi continuamente”.

Gli effetti dell’alluvione furono devastanti anche sulle cose, oltre che sulle persone. La città storica rimase sotto metri d’acqua per parecchie ore e la corrente impetuosa del fiume fece crollare due piloni (e quindi tre arcate) del Ponte Senatorio (cioè del cosiddetto Ponte Rotto) dalla parte della riva sinistra, con il vantaggio che il ponte mai più ricostruito liberò l'alveo del fiume da un pesante ingombro che durante le inondazioni si trasformava in una pericolosissima diga.

La situazione cominciò quindi a migliorare dopo la piena del 1598 anche a causa di ragioni propriamente tecniche come ad esempio la diminuzione di circa mille chilometri quadrati di bacino della Val di Chiana che passarono all’Arno; la deviazione dei torrenti Tresa e Rio Maggiore; la costruzione del ponte Regolatore sul Velino, ultimata nel 1602.

Per arrivare però ad una risoluzione definitiva delle alluvioni del Tevere in città, bisognò aspettare fino alla fine dell’Ottocento. Come un presagio, fu proprio poche settimane dopo la presa di Roma, il 28 dicembre del 1870, che Roma subì una nuova, grande inondazione, con ben 17,22 metri di altezza, la seconda in assoluto più alta dal 1637. Una piena che avrebbe raggiunto e superato i livelli di quella del 1598 se nel frattempo, come abbiamo detto, una parte del bacino del fiume non fosse stata deviata sul corso dell’Arno.

Fu però proprio sulla spinta emotiva di questa nuova disastrosa piena, che si decise finalmente di mettere mano ai progetti di difesa degli argini del fiume, che già da diverso tempo giacevano nelle segreterie parlamentari.

Tra i molti e diversi progetti – ve n’era anche uno “sponsorizzato” da Giuseppe Garibaldi che prevedeva una monumentale opera di deviazione del corso delle acque del Tevere e dell’Aniene, per evitare il tratto cittadino – prevalse quello di rinforzare gli argini del fiume con alti e poderosi muraglioni in travertino, in grado di resistere ad una piena anche più alta di quella del 1870.


Tratto da Fabrizio Falconi, Roma Segreta e Misteriosa, Newton Compton editore, Roma, 2015





28/09/22

50 anni di "Solaris" il capolavoro di Tarkovskij che fu interpretato come la risposta russa a "2001 Odissea nello Spazio"

 


Era il 1972 - cinquanta anni fa -  quando uscì il film di fantascienza "Solaris", firmato da uno dei più grandi registi di sempre, Andrej Tarkovskij, terminato soltanto 4 anni dopo l'uscita del capolavoro di Kubrick, "2001 Odissea nello spazio".

Negli anni della corsa alla luna, il film fu immediatamente visto come "la risposta russa al film di Kubrick." 

E in effetti i confronti tra i due film sembrano inevitabili. Entrambi propongono idee nobili su ciò che l'umanità può trovare nelle profondità dello spazio. Esploriamo per scoprire, per comprendere meglio fenomeni a noi precedentemente sconosciuti. Come mai? Perché speriamo che, sia in piccolo che in grande, le nostre scoperte ci aiuteranno a capire meglio noi stessi e come ci adattiamo alla scala più ampia della Terra e del cosmo

In entrambi i casi, i personaggi umani fanno davvero scoperte sbalorditive sulla vita tra le stelle. Kris di Solaris e Dave (Kier Dullea) di A Space Odyssey si trovano faccia a faccia con esseri ed entità più potenti e influenti di qualsiasi cosa avrebbero potuto prevedere. 

Proprio come il genere della fantascienza stessa, le forme di vita aliene presenti sfidano l'ovvia categorizzazione. 

Nonostante le somiglianze, ogni film è in gran parte un prodotto di ciò che il rispettivo regista si è sforzato di ottenere. Caldo e freddo L'approccio di Kubrick, così come il suo approccio a gran parte della sua opera, è spesso classificato come freddo e clinico. Gli effetti visivi sono splendidi, il mistero della trama magnetico e la conclusione maestosa. Il viaggio dell'ultimo terzo del film, attraverso lo spazio e forse il tempo stesso è eccitante e sorprendente.

Tarkovsij, puntò su un'esperienza che si potesse comprendere e apprezzare anche emotivamente. Proprio come i monoliti del 2001 hanno influenza sugli umani (in modi trasformativi !), così anche l'oceano su Solaris comunica con Kelvin, il dottor Snaut (Jür Järvet) e il dottor Sartorius (Anatoly Solonitsyn) in modi che sarebbero stati descritti come stregoneria alcuni secoli fa

Si dice che la sostanza giallastra sotto la superficie del pianeta produca giardini che ricordano quelli che si trovano in tutta Europa, per non parlare degli umanoidi che l'energia del pianeta può replicare. 

Sia 2001 A Space Odyssey che Solaris' le esperienze sono incredibilmente bizzarre. Quando Kris dice che sua moglie Hari (Natalya Bondarchuk) è morta 10 anni fa, ma viene vista camminare per i corridoi della stazione spaziale come se fosse una passeggiata domenicale, qualcosa non va

Ma tra questo e il caleidoscopico spettacolo di luci acido di Kubrick, il primo tocca qualcosa che ci rende ciò che siamo: le emozioni

I ricordi di Kris, Sartorious e Snaut sono ciò che produce repliche quasi perfette di persone che conoscevano. Non viene spiegato abbastanza perché lo spettatore o gli astronauti capiscano esattamente perché Solaris lo stia facendo, ma è quasi fuori luogo

Il fatto è che il suo oceano può leggere nei pensieri più profondi ed evocare esseri fatti di carne e ossa. Sebbene Tarkovskij accenna a chi hanno ricordato Snaut e Sartorius, il fantasma vivente più importante è Hari, la moglie defunta da tempo di Kris. 

Non è solo la sceneggiatura di Tarkovskij e Fridrikh Gorenshtein.   

Il trio più importante che fa di Solaris quello che è, è il suo regista, il suo direttore della fotografia Yadim Yusov e la sua montatrice Lyudmila Feiginova. Non molti film prendono vita come Solaris . 

Nella nostra epoca moderna di tagli veloci e montaggi appariscenti, il lavoro di Feiginova e Yusov corre il rischio di risultare terribilmente lento.

Ma Solaris visto oggi diventa un'esperienza sensoriale unica. 

Adattato dall'omonimo romanzo di Stanislaw Lem, l'intero libro si svolge sulla stazione spaziale in bilico sopra il misterioso pianeta omonimo, ma la sceneggiatura originale prevedeva che la maggior parte dell'azione si svolgesse sulla Terra.

Alla fine, Tarkovskij ha trovato un equilibrio tra il mostrare il suo protagonista a casa prima della partenza e l'avventura esistenziale nello spazio

Il russo notoriamente non amava lo sforzo della sua controparte americana. Per lui, qualunque verità potesse approfondire la fantascienza risiedeva più nell'esperienza umana che nelle ossessioni per il progresso tecnologico. È necessaria un'astronave per arrivare a Solaris, è necessaria una pellicola per informare Kris su cosa aspettarsi e i medici possiedono lo strumento di misurazione per concludere scientificamente che Hari non è davvero Hari. In definitiva, niente di tutto ciò significa molto se le persone interessate non possono provare nulla. Solaris è molto simile a Odissea nello spazio , ma con un tocco umano.

Fonti: 
Tilt Magazine: Solaris at 50: Edgar Chaput, Space, Kubrick, and Tarkovsky’s Human Touch 

27/09/22

Arriva il nuovo libro di Emmanuel Carrère sul processo del secolo, a Parigi, contro i terroristi del Bataclan


Parigi. V13. Il processo del secolo al terrorismo islamico. V come venerdì, 13 come 13 novembre 2015, il giorno in cui Parigi fu attaccata dal commando jihadista di Salah Abdeslam, l’unico terrorista sopravvissuto di quella notte maledetta: 130 morti e 350 feriti tra il Bataclan, lo Stade de France e alcuni bistrot della capitale. 

V13 “come tutti, magistrati, avvocati e giornalisti chiamiamo questo mostruoso processo del 13 novembre nel quale siamo imbarcati”, scrive Emmanuel Carrère nell’omonimo libro in uscita per le edizioni Pol, che riunisce, con l’aggiunta di nuovi contenuti, i reportage curati dallo scrittore francese nella sala bunker del Palazzo di giustizia di Parigi e pubblicati sull’Obs a cadenza settimanale dal settembre 2021 al giugno 2022, quando ci fu il verdetto, perpétuité réelle, ergastolo senza sconti di pena a Abdeslam

“Tra Violette Lazard, Mathieu Delahousse e Vincent Monnier, gli eccellenti specialisti del dossier V13 non mancavano certo all’Obs. Ma per aver uno sguardo un po’ diverso su questo evento di primo piano, che sarebbe stato estremamente mediatizzato, tutto nel cv di Carrère lasciava immaginare che questo freelance avrebbe completato bene la nostra squadra”, racconta Grégoire Leménager, vicedirettore del settimanale parigino e autore della postfazione di “V13”. 

“Aveva scritto con ‘L’avversario’ la storia di un assassino fuori dal comune, che già praticava una specie di taqiya dissimulando alla sua famiglia una parte considerevole della sua esistenza. Aveva saputo evocare il dolore della morte in ‘Vite che non sono la mia’. Aveva esaminato ne ‘Il regno’ alcune cause della radicalizzazione religiosa. Aveva appena adattato al cinema ‘Le quai de Ouistreham’ di Florence Aubenas che a sua volta racconta, se si riflette bene, una storia di taqiya”, scrive Grégoire Leménager, spiegando la scelta del romanziere che aveva già fatto diverse incursioni nel giornalismo (come il reportage in Russia nel 2012, una specie di post scriptum al suo “Limonov”)

Ogni lunedì, per nove mesi, Emmanuel Carrère ha mandato 7.800 battute alla redazione dell’Obs, raccontando il susseguirsi atroce delle testimonianze nel primo mese di processo, “l’immensa psicoterapia di queste cinque settimane che si sono appena concluse ha avuto la bellezza di un racconto collettivo e la crudeltà di un casting”; le vittime, anzi gli “eroi”, per “il coraggio di cui hanno avuto bisogno per ricostruirsi, per il modo di vivere questa esperienza, per la potenza del legame con i morti e i vivi”; i carnefici, a partire da Salah Abdeslam, “faccia da schiaffi” e “starlette capricciosa”; il rapporto tra il bene e il male citando Simone Weil: “Essere pronti a morire per uccidere, essere pronti a morire per salvare: qual è il più grande mistero?”

Il lungo racconto del processo, testimonianza letteraria di una tragedia collettiva, restituisce l’alternanza dei momenti di forte carica emotiva e i giorni pieni di rabbia e frustrazione da parte dei familiari delle vittime dinanzi al silenzio degli accusati. 

Una delle testimonianze più toccanti è quella di Aristide e Alice Barraud, fratello e sorella, gravemente feriti mentre erano seduti nel dehors del bistrot Le Petit Cambodge. “Ho cercato di capire perché dei giovani decidono di sparare contro altri giovani. Non l’ho ancora capito, forse non c’è nulla da capire”, testimonia Aristide in aula. Emmanuel Carrère osserva questi due ragazzi, in piedi, davanti ai giudici, nella loro immensa dignità. “Il nostro sguardo è rivolto verso di loro, Aristide e Alice – scrive Carrère – Le loro parole sono già un segno di giustizia”.

26/09/22

Una storia veramente misteriosa: L'anello di Grace scomparso e la Biga di Monteleone

 


Un carro etrusco unico al mondo che 120 anni fa dall'Umbria e' finito a New York a far bella mostra di se' al Metropolitan Museum

Un intrigo ordito da generali, conti e cavalieri tra distrazioni, incapacità e connivenze nell'Italia del primo Novecento. 

Ma anche la testimonianza inedita di una donna con un anello dai magici poteri, che aggiunge mistero a mistero

A Roma al museo di Villa Giulia è tornata alla ribalta la vicenda contrastata della biga di Monteleone di Spoleto.

, protagonista di un docu firmato da Dario Prosperini - in anteprima questa sera all'Etru - che per la prima volta ne ricostruisce passo passo le tappe con la voce dei protagonisti di allora e diversi documenti inediti. Mentre apre nuovi interrogativi sulla disattenzione collettiva che ha regnato a lungo nel nostro Paese nei confronti del patrimonio dell'arte. 

Oggetto di una battaglia che dura da vent'anni con i 600 abitanti del borgo umbro che ne richiedono a gran voce il ritorno in patria, la biga, che gli americani hanno ribattezzato il Carro d'oro, e' un capolavoro del VI secolo a.C. fatto di legno di noce e lamine di bronzo scolpite, opera della sapienza etrusca ma ispirato dall'arte greca, alla quale si riallaccia narrando le gesta di Achille. 

Fabbricato a Vulci, la biga era passata di mano, offerta a un militare che alla fine se la porto' nella tomba insieme a tutto il suo tesoro di oggetti di bronzo e terracotta. 

A ritrovarlo, 2600 anni dopo, furono due contadini, Isidoro e Giuseppe Vannozzi, che l'8 febbraio del 1902 scavando davanti al loro casolare si trovarono sotto gli occhi la tomba del comandante etrusco. Ceduta dai Vannozzi per 900 lire (oggi sarebbero poco piu' di 4mila 100 euro) e oggetto all'epoca di uno scandalo che occupo' a diverse riprese le pagine dei giornali, la biga passo' comunque velocemente di mano per poi arrivare nel 1903 a New York. 

Le carte ritrovate nel 2018 da Guglielmo Berattino, 16 lettere autografe tra i protagonisti della compravendita, dimostrano oggi senza piu' ombra di dubbio che l'allora direttore del Met, Luigi Palma di Cesnola, sedicente generale canavese che aveva contribuito a fondare il prestigioso museo americano, l'acquisto' per 250 mila lire dall'antiquario romano Ortenzio Vitalini, numismatico del re, che si firma col titolo di cavaliere

Questo con il tramite di un altro italiano, il conte Gioachino Toesca Caldora di Castellazzo, amico di Cesnola. 

Ma soprattutto in barba all'editto del 1820, ereditato dallo stato Pontificio e allora ancora in vigore in Italia, che gia' vietava l'esportazione di opere d'arte

La prima legge di tutela del patrimonio dello Stato italiano arriva pero' nel giugno del 1902, quando la biga aveva gia' lasciato l'Italia, diretta a Parigi dove rimase mesi prima di essere spedita a New York.

Mentre la normativa che avrebbe disciplinato il funzionamento di quella legge e' del 1909. 

Anche per questo di fronte al finimondo che a un certo punto scoppia in Italia su quel carro etrusco e all'interrogazione parlamentare del senatore Felice Barnabei, fondatore del museo di Villa Giulia, i protagonisti della compravendita rimangono tranquilli. 

E lo erano in fondo sempre stati, tanto che la biga era stata esposta in vetrina, a Roma, nel negozio di Vitalini. 

A rivelarlo in una testimonianza recuperata in una pubblicazione del 1927 da Valentino Nizzo, l'etruscologo oggi alla guida di Villa Giulia, e' il singolare racconto di una signora inglese, Grace Filder sposata al conte Solone di Campello, che alla descrizione del carro aggiunge quella di un prodigioso anello, che le sarebbe stato venduto a Monteleone, anch'esso proveniente dalla tomba del capitano. 

Un monile grazie al quale avrebbe trovato la forza per imprese decisamente notevoli, che la portarono a sorvolare in areostato mezza Italia e persino a scalare la vetta piu' alta del Monte Rosa. 

Sepolta nel cimitero acattolico di Roma, Grace potrebbe essersi portata nella tomba il magico anello, unica testimonianza, tutta da verificare sottolinea Nizzo, della presenza di gioielli nella tomba del capitano. 

Chissa', "quello che e' davvero grave e' proprio la dispersione di informazioni, insieme ai tentavi di depistaggio che hanno accompagnato questa scoperta e che rendono frammentaria la nostra conoscenza di uno dei contesti piu' importanti del VI sec. a C", fa notare il direttore del museo.

Dopo due decenni di manifestazioni di piazza, denunce, appelli ai vari ministri che si sono succeduti, gli abitanti di Monteleone, intanto, sperano ancora. Guido Barbieri, tenente colonnello dei carabinieri per la Tutela del patrimonio culturale di Perugia, come pure Berattino, invitano a puntare sulla diplomazia culturale: "i margini di manovra ci sono", sottolinea il colonnello. Marisa Angelini, la battagliera sindaca di Monteleone, spiega di aver appena scritto una nuova lettera al ministero. 

Chiunque sara' il prossimo ministro della cultura e' avvisato: sul ritorno della biga d'oro i monteleonesi non mollano. 


La tomba di Charlotte "Grace" Filder, al Cimitero Acattolico alla Piramide, a Roma 


25/09/22

La volta che Werner Herzog umiliò crudelmente il giovane Emmanuel Carrère

 


Tra le pagine del suo libro forse di maggior successo, Limonov, si scopre un interessante e amaro episodio che riguarda l'incontro dell'allora giovane autore, Emmanuel Carrère, con uno dei suoi idoli giovanili, il regista tedesco Werner Herzog. 

L'episodio merita di essere raccontato.

All'epoca, agli inizi della sua carriera letteraria, Carrère stava muovendo i suoi primi passi come critico cinematografico, su importanti riviste specializzate francesi. Il primo articolo esce nel ‘77.  

Carrère, profondo cinéphile, aveva tra i suoi idoli Tarkovskij, Kubrick, Resnais, Bob Rafelson, ma soprattutto Werner Herzog, a cui nell'82 dedicò uno studio monografico, che ancora oggi è in commercio. 

Al Festival di Cannes del 1982, dove Carrère è inviato a nome di una delle riviste con cui collabora all'epoca, gli capita l'occasione di conoscere da vicino Herzog, che si trova al Festival proprio per presentare, in concorso, Fitzcarraldo, il suo capolavoro. 

Così, prima dell'intervista, nella suite dell'Hotel Carlton, Carrère riesce a far recapitare una copia del volume che gli ha dedicato, da poco uscito, al regista tedesco. 

All'appuntamento, Herzog gli viene ad aprire la porta della camera con gli stivaloni da esploratore, e lo fa entrare ma senza degnarlo di un sorriso. Carrère, invece in profondo imbarazzo sorride e scopre con sollievo che il suo libro è proprio lì, in camera, sul piano del tavolino, al quale siederanno per l'intervista.

Carrère cerca di balbettare qualcosa, ma il regista – uomo notoriamente ispido – lo tratta a pesci in faccia, con gratuita crudeltà.

Lo ammonisce, con la sua voce profonda e "meravigliosa", che non ha letto il libro e che non ha intenzione di leggerlo; che si tratta, anzi, di Bullshit. Merda. E che quindi si sbrigasse con l'intervista che vuole fargli. 

Con l'ego sanguinante, lo spavaldo freelance ripiega traumatizzato. Oggi confessa: «Da allora non ho più rivisto Herzog. Dicono che col tempo sia diventato più umano. Anche se l'idea mi terrorizza, sarebbe bello incontrarlo di nuovo. Comunque trovo i suoi lavori successivi molto meno convincenti. Per questo, quando mi hanno chiesto una versione aggiornata del saggio, ho rifiutato». 

Roberto Manassero scrive su Doppiozero: La grandezza del libro, Limonov, è che "Carrère tratta il suo protagonista allo stesso modo di Herzog, cioè con sguardo severo e oggettivo, in virtù dell’ammirata fascinazione che prova per entrambi, sta nell’assoluta onestà intellettuale della scrittura, nella mancanza di rivendicazione soggettiva da parte dell’autore. Per cui Carrère non se la prende mai, non scrive per rivendicare ragioni o lamentare torti."

"Se definisce, come definisce, Herzog un «fascista», o meglio, se vede nell’egoismo superomista di Herzog il nocciolo del fascismo, ammettendo di non capire quali ragioni avesse per trattare in modo sgarbato un ragazzo magari valleitario ma pur sempre appassionato, Carrère usa la vita di un suo simile – di un suo simile che ammira e non capisce – come uno strumento per scandagliare se stesso."

....

"Carrère ha nei confronti del suo personaggio (Limonov, ndr) un rapporto di distanza e ammirazione, di invidia e insieme di disprezzo, e lo dice apertamente, non si nasconde, si butta dentro il suo lavoro con il peso ingombrante delle annotazioni sulla sua vita, e fa capire più di ogni altra cosa, dietro le agili e appassionanti rievocazioni storiche e biografiche, di scrivere soprattutto per se stesso, di scrivere e raccontare, così come per Herzog deve essere stato filmare o commentare immagini create da altri, per capire cosa unisce un essere umano moderato, intelligente e onesto come lo stesso Carrère, o come l’Herzog ormai invecchiato alle prese con la follia di Tradwell (nel suo film Grizzly man, ndr)  davanti all’esempio di una persona evidentemente fuori dal comune, un superuomo, come Carrère a un certo punto definisce sia Limonov sia Herzog, che di eroico e romantico non ha nulla, che anzi scivola spesso nel povero stronzo invidioso e convinto della propria superiorità, ma che sembra essere venuto al mondo per ricordare agli altri il peso delle loro scelte, i limiti delle regole sociali e dei contesti storici che condizionano ogni vita comune."

"Carrère scrive a un certo punto che se oggi Herzog si ricordasse del comportamento poco educato avuto nei suoi confronti, probabilmente si scuserebbe: e in effetti, a giudicare dal tono delle parole che usa alla fine di Grizzly Man, riflettendo sul valore della vita ridicola di Treadwell («E mentre guardiamo gli animali nella loro scelta di vivere, nella loro grazia e ferocia, un’idea si fa sempre più strada: queste immagini non sono tanto uno sguardo sulla natura quanto piuttosto su noi stessi, sulla nostra natura. Ed è questo che secondo me, al di là della sua missione, dà significato alla sua vita e alla sua morte»), viene da pensare, che sì, oggi Herzog si scuserebbe, perché nel dubbio spaventato con cui ammette di giudicare il suo personaggio si coglie la stessa onestà intellettuale che rende autentiche le pagine di Limonov. "

"E in questo, a nostro parere, si intravede uno dei segreti per cui ha pur sempre senso scrivere, filmare e raccontare il reale. Non per capirlo, ma per sentirlo meno alieno e meno distante."

Fabrizio Falconi - 2022 

24/09/22

La vera storia di "Mocha Dick" la Balena Albina che fu l'ispirazione del Moby Dick di Melville



Due avvenimenti reali costituirono la genesi del grandioso romanzo di Melville, dato alle stampe nel 1851, uno dei più grandi capolavori della letteratura di tutti i tempi: il  primo è l'affondamento nel 1820 della baleniera Essex di Nantucket, dopo l'urto con un enorme capodoglio 3 200 km dalla costa occidentale del Sud America. Il primo ufficiale Owen Chase, uno degli otto sopravvissuti, riportò l'avvenimento nel suo libro del 1821 Narrazione del naufragio della Baleniera Essex di Nantucket che fu affondata da un grosso capodoglio al largo dell'Oceano Pacifico.

Il secondo evento fu la presunta uccisione, attorno al 1830, del capodoglio albino Mocha Dick nelle acque al largo dell'isola cilena di Mocha. Si raccontava che Mocha Dick avesse venti o più ramponi conficcatigli nel dorso da altri balenieri e che sembrava attaccare le navi con una ferocia premeditata come raccontò l'esploratore Jeremiah N. Reynolds, nel maggio 1839 sul The Knickerbocker.

La fama di Mocha Dick era assai nota all'inizio del XIX secolo, a chi navigava nelle acque vicino all'Isola Mocha, al largo del Cile meridionale.

A differenza della maggior parte dei capodogli, Mocha Dick era completamente bianco,  e certamente questo fu di ispirazione per Melville.

Il cetaceo era grande e possente, capace di fare a pezzi piccole imbarcazioni con i suoi colpi di coda e si si assicurava che fosse sopravvissuto a molti scontri (secondo alcuni resoconti almeno 100) con le baleniere prima di essere ucciso.

L'esploratore Jeremiah N. Reynolds raccolse osservazioni dirette di Mocha Dick e pubblicò il suo resoconto, Mocha Dick: Or The White Whale of the Pacific: A Leaf from a Manuscript Journal ("Mocha Dick: o la balena bianca del Pacifico: un foglio da un giornale manoscritto"), nel numero di gennaio 1839 di The Knickerbocker, descrivendo la balena come "un vecchio maschio bianco, di taglia e forza prodigiose... bianco come la lana".

Secondo Reynolds, la testa della balena era coperta di cirripedi, che gli davano un aspetto duro. La balena aveva anche un metodo peculiare per soffiare: «Invece di proiettare il suo soffio obliquamente in avanti, e di ansimare con uno sforzo breve, convulso, accompagnato da un rumore sbuffante, come avviene di solito con la sua specie, lanciava l'acqua dal naso con un volume molto alto, perpendicolare, ampio, ad intervalli regolari e piuttosto distanti; la sua espulsione produceva un rombo continuo, come quello del fumo che sfugge dalla valvola di sicurezza di un potente motore a vapore.»

È molto probabile che Mocha Dick sia stato avvistato e attaccato per la prima volta in qualche periodo precedente all'anno 1810 al largo dell'Isola Mocha.

La sua sopravvivenza ai primi avvistamenti, abbinata al suo aspetto insolito, lo rese rapidamente famoso tra le baleniere di Nantucket. Molti capitani tentarono di dargli la caccia dopo aver doppiato il Capo Horn. A volte era alquanto docile, altre volte nuotava a fianco della nave, ma una volta attaccato reagiva con ferocia e astuzia ed era assai temuto dai ramponieri. Quando era agitato si tuffava in profondità e poi saltava fuori così aggressivamente che a volte tutto il suo corpo veniva completamente fuori dall'acqua.

Nel resoconto di Reynolds, Mocha Dick fu ucciso nel 1838, dopo che era parso venire in aiuto di una femmina sconvolta il cui piccolo era stato ucciso dalle baleniere. Il suo corpo era lungo 21 metri e produsse 100 barili d'olio, oltre a una certa quantità di ambra grigia. Aveva anche parecchi arpioni piantati nel corpo. 

Mocha Dick non fu l'unico caso di avvistamento di una balena albina. Una baleniera svedese sostenne di aver catturato una balena bianca molto vecchia al largo della costa del Brasile nel 1859.

Whipple riferisce che fino al 1954 c'era un uomo che viveva su Nantucket che asseriva di aver arpionato una balena bianca nel 1902. E nel 1952 Time Magazine diede la notizia dell'arpionamento di una balena bianca al largo della costa del Perù.

A partire dal 1991 ci sono avvistamenti riferiti di una megattera bianca vicino all'Australia, soprannominata Migaloo.


21/09/22

La migliore sorpresa della stagione per quanto riguarda le serie: "Kleo"


E' la più bella sorpresa della stagione: Kleo

Da tempo sostengo che i tedeschi stiano da anni producendo cose bellissime, e tra le migliori che si vedano nel formato serie-TV.
Kleo, in programmazione su Netflix è firmata Zeitsprung Pictures e gli autori che l'hanno scritta e realizzata sono colmi di genialità.
La vicenda racconta la storia (inventata) di Kleo Straub, spia della STASI, che dopo la caduta del Muro esce dal carcere e vuole capire perché e chi l'abbia punita e per cosa, vendicandosi di tutti loro.
Il pregio più grande della serie è il tono, miracolosamente in bilico tra farsa e dramma. Ci si diverte molto e con grande intelligenza. Allo stesso tempo si aprono squarci di lucida ferocia sulla transizione della Germania dell'Est, "assorbita" da quella dell'Ovest e dai traumi che ne sono seguiti.
Girata magnificamente, con una protagonista - Jella Hause - in stato di grazia e perfetta, la serie riproduce con meticolosa bravura, i colori, gli arredi, la luce di quegli anni e di quei luoghi, con esercizi di stile notevoli e grande fantasia.
Vanno segnalati poi i 7/8 minuti finali del V episodio - intitolato Uwe - dove un inseguimento drammatico diventa un pezzo di puro virtuosismo registico (ho visto qualcosa di equivalente solo in "True Detective 1" e in "Giri/Hagi/") sulla musica sublime di Max Richter (On The Nature Of Daylight (Entropy).
Da non perdere (e da vedere in lingua originale, sottotitolato).

Fabrizio Falconi - 2022

20/09/22

La lunga lotta di Vittorio Gassman contro la depressione

 


Uno dei più bei libri italiani che siano stati scritti sul tema della depressione - che non minor valore di "Un'oscurità trasparente" del grande William Styron - è a mio avviso Vedere l'erba dalla parte delle radici, scritto da Davide Lajolo nel 1977, vincitore in quell'anno del Premio Viareggio, il romanzo autobiografico nel quale Lajolo raccontava scene della sua vita come metodo terapeutico per combattere la depressione psichica che lo aveva fortemente invalidato dopo un attacco di cuore.  

E già dal titolo, il romanzo raccontava l'effetto dirompente della depressione, sulla propria visione della vita: che è come si guardasse, appunto, da sottoterra. 

Anche il grande Vittorio Gassman, come si sa, è stato per lungo tempo affetto da depressione bipolare, una malattia di cui il celebre attore si decise a parlare anche in pubblico. Gassman raccontò di un periodo durato circa due anni - il più duro della sua malattia - in cui non riusciva più a provare interesse o piacere per alcuna cosa, compresa la sua vita. Anche risvegliarsi era un dramma e neppure la suo famiglia riscuoteva in lui un interesse, motivo per il quale quel periodo coincise con un allontanamento dai suoi figli.  

Le parole di Gassman furono forti e profonde,  in una Italia che non era ancora abituata a sentir parlare di depressione. La sua, in particolare era chiamata, ed è chiamata, in psichiatria, anedonia. Che comportava per lui anche l'effetto di non riuscire a dimostrare amore e affetto verso le persone che aveva accanto, compresa la sua famiglia. Anche se i suoi familiari, raccontò, avevano continuato sempre a sostenerlo nella lotta contro la malattia, che fu combattuta anche con l’assunzione di psicofarmaci. “La depressione è una brutta bestia. – disse Gassman in una intervista televisiva  –Quando tocca l’apice coincide con uno sgomento totale, con l’angoscia e dunque si vorrebbe ad un momento non esserci più. Io credo di non essere portato al suicidio, però molte mattine di quel periodo io mi svegliavo – e me ne sono accorto dopo un po’ – con i muscoli delle gambe e delle braccia che mi dolevano. Poi ho capito che il mio corpo inconsciamente faceva uno sforzo fisico anche per non risvegliarsi, che era un modo dolce, senza intervento cruento, di non esserci più, di cessare questo tipo di sofferenza.

Un lungo incubo, dal quale Gassman non si liberò mai completamente, ma con il quale imparò a convivere, superando la crisi più nera e aprendosi alla guarigione:"Quando stavo per guarire," raccontò,  "ho sognato la mia guarigione. Allora mi sono alzato, sono corso in bagno e ho visto che gli occhi erano tornati normali dopo che per due anni li ho avuto che si leggeva il vuoto, che stavo male, e curiosamente proprio mio figlio, che per quel tempo mi aveva evitato, è arrivato in bagno e ha ripreso il suo rapporto con me.”


Fabrizio Falconi - 2022 

16/09/22

L'incidente in cui perse la vita Alessandro Momo, che sarebbe diventato un grande attore del cinema italiano

 



Morì a 17 anni Alessandro Momo, in un tragico incidente che a Roma ancora in pochi ricordano. Solo 17 anni, che gli erano bastati per essere una delle promesse più concrete del cinema italiano dell'epoca. 

Al momento della sua morte, avvenuta il 19 novembre del 1974, Alessandro si era imposto con un film di tale successo popolare che la sua carriera sembrava realmente destinata a non fermarsi più: in Malizia di Salvatore Samperi, nel 1973, Momo era il quattordicenne figlio del commendator La Brocca (Turi Ferro), quello che perde la testa dietro alla splendida governante interpretata da Laura Antonelli. 

Alessandro all'epoca è ancora minorenne e così non lo fanno entrare all'anteprima di gala del film, che infatti è rigorosamente vietato ai 18. Deve accontentarsi di posare per i fotografi, nella hall del cinema, dopodiché tornarsene a casa. Ma il suo è un ruolo così azzeccato che il pubblico lo adora da subito, al punto che la Antonelli e Momo ormai sono due nomi in ditta, reclutati nuovamente da Samperi per una sorta di sequel ideale di Malizia. Cioè Peccato veniale, in cui si ripetono le atmosfere sensuali rese morbose, nell'Italia pruriginosa di allora, dalla differenza d'età dei due attori. 

Poi, una partecipazione in un poliziesco (La polizia è al servizio del cittadino?) ed eccoci nel 1974, l'anno in cui Alessandro compie il salto di qualità: è lui, infatti, il giovane attendente che, in Profumo di Donna di Dino Risi, recita alla perfezione al fianco di un solenne Vittorio Gassman nel ruolo del capitano Fausto Consolo, cieco e autodistruttivo Coppia di personaggicreati dalla penna di Giovanni Arpino nel romanzo Il buio e il miele. 

Gassman e Momo furono talmente bravi che, vent'anni dopo, Al Pacino e Chris O'Donnell torneranno in quei ruoli in Scent of Woman, di Martin Brest. Un film per il quale Pacino vinse l'Oscar. In quello stesso ruolo che a Gassman aveva portato la Palma d'oro a Cannes, nel 1975. Quando Alessandro putroppo non c'era già più da tanto tempo.

Il racconto del fatale incidente che stronca la vita e la carriera di Momo nella cronaca del quotidiano Il Tempo di Roma, di venerdì 20 e sabato 21 novembre 1974:

«L'Honda si è piegata sul fianco sinistro e ha invaso la corsia opposta andandosi a fermare contro il marciapiede. Il ragazzo, intanto, è stato sbalzato con violenza sull'asfalto, per oltre 10 metri, e viene confermato che la BMW straniera condotta dalla signora Maria Gloria Schmidlin, proveniente dal Foro Italico non lo ha investito prendendo, al contrario, in pieno e con violenza la sola motocicletta. Alessandro Momo è stato soccorso dai Vigili del Fuoco accorsi dalla caserma di Piazza Bainsizza, e subito trasportato all'ospedale. Alessandro Momo, l'adolescente acerbo e tenebroso cinematograficamente sedotto da Laura Antonelli, è morto ieri pomeriggio, schiantandosi con la propria super-moto prima contro un taxi e, successivamente, cadendo sull'asfalto. Avrebbe compiuto diciott'anni martedì prossimo, essendo nato il 26 novembre 1956 (...) Continuano intanto le indagini per fare piena luce sul tragico incidente avvenuto pochi minuti prima delle ore 15 sul Lungotevere Cadorna, all'altezza dell'Ostello della Gioventù. Momo stava rientrando a casa a bordo della sua "Honda 750" targata Roma 31..., dopo aver seguito le lezioni nella scuola privata sulla via Olimpica, che frequentava da quando l'attività cinematografica gli aveva praticamente impedito di seguire un normale corso di studi. 

Il giovane proveniva da piazza Maresciallo Giardino a velocità piuttosto sostenuta quando si è trovato davanti un taxi 1100 condotto dal 34enne Alfio M. e targato Roma A75... È stato a quel punto che, dopo una brusca frenata, Momo ha urtato con violenza contro il manubrio e il serbatoio della sua moto. 

Immediatamente è stato soccorso all'ospedale Santo Spirito, dove i sanitari gli hanno riscontrato la frattura della quinta costola, un enfisema sottocutaneo all'emitorace sinistro, un ematoma orbitario sinistro, escoriazioni al parietale destro, ecchimosi alle labbra e al naso, una contusione all'ipocondrio sinistro, contusioni escoriate agli arti superiori ed inferiori, lo spappolamento della milza e la lacerazione dello stomaco. Lesioni mortali che, dunque, sarebbero state provocate dal tamponamento con il taxi e non, come era stato ipotizzato inizialmente, dall'urto con la BMW. 

Al momento del ricovero, Alessandro Momo era in preda ad una vivissimo stato di agitazione psico-motoria. Prima che venisse sottoposto all'intervento chirurgico con il quale si è inutilmente tentato di strapparlo alla morte, Alessandro ha scambiato qualche frase con il padre. L'agonia si è protratta fino alle 23 e cinque minuti, quando il suo respiro ha taciuto per sempre. L'altra mattina, sul luogo dell'incidente, erano rimasti alcuni frammenti di vetro, qualche cromatura e, appena visibili, i segni col gesso fatti dalla Polstrada per i rilevamenti. Nel punto dove la moto aveva concluso la sua folle impennata c'era un mazzo di rose rosse, depositato forse da un amico o da qualche ammiratrice.» 

La sua fidanzata dell'epoca era Eleonora Giorgi, che all'epoca era famosa quanto lui. Era stata proprio lei a prestargli quella super-moto.La moto, una Honda CB 750 Four, gli era stata prestata dalla sua collega e fidanzata, Eleonora Giorgi, partita per un viaggio. L'attrice fu successivamente indagata per incauto affidamento, poiché Alessandro non aveva ancora compiuto i 18 anni di età e non era abilitato alla guida di maximoto, secondo le normative vigenti all'epoca, che prevedevano ancora la maggiore età a ventuno anni. È sepolto nel cimitero del Verano, a Roma. 

Così la Giorgi ricordò Alessandro: 

"E' stato appena il mio secondo ragazzo, dopo una storia lunghissima con Gabriele, che durava da quando avevo 13 anni. Quando ci penso, all'educanda che ero, mi viene sempre da ridere... perchè dopo aver girato Appassionata (film ormai di culto, in cui una Giorgi in sexy-erba seduce il maturo Gabriele Ferzetti, ndA) io ero ormai diventata per tutti la Lolita del cinema italiano. Un'immagine inverosimile già all'epoca, per quanto era lontana dalla mia realtà di ragazza borghese, dei Parioli, che ancora stava coi suoi, figurarsi! Come Sandro, con la sola differenza che la sua famiglia abitava alla Farnesina. Con lui, eravamo due solitudini. La nostra intesa era questa. Andavamo alla deriva, come una zattera, ma col motore nucleare. Fortissimi. Sani. Famosi. Giovani da far paura. Belli da fare invidia. Insieme, anche di più, perché moltiplicavamo per dieci le nostre energie. Sempre al massimo. Dopo la morte di Sandro, uno scenografo amico nostro mi disse che era fatale, che a uno dei due doveva accadere. "Andavate troppo veloci, troppo forte, si sentiva che vi sarebbe successo qualcosa". Ricordo che ci presentò Rino Petrosino, il fotografo, ma di Sandro mi aveva già parlato un mio amico, il costumista di Malizia: "Siete identici, avete mille cose in comune... dovete assolutamente conoscervi!". Era vero. Tra noi fu un'intesa immediata. Non so, forse abbiamo fatto anche delle foto insieme... Mi ricordo che poi ci incontrammo di nuovo. In uno di quei negozietti di usato americano che a Roma, in quel periodo, erano al top... Tra i due, la più scapigliata ero certamente io, mentre lui aveva verso di me un atteggiamento molto protettivo. Per noi, l'importante era che avevamo trovato l'uno nell'altra il rapporto che ci era mancato: quello della complicità tra ragazzini. Io con la mia storia già serissima alle spalle, convivenza compresa, lui con un passato abbastanza simile (un lungo flirt con Gloria, una compagna di scuola, ndA). Ma soprattutto tutti e due, con la celebrità avuta così giovani, avevamo perso il rapporto con la nostra generazione, con i nostri coetanei. Ecco perché questa sensazione di uguaglianza, di riconoscersi identici fra tanti altri. 

Ma la vita di Alessandro finì troppo presto, la carriera era appena iniziata. La celebrità soltanto sfiorata. La vita breve, con i diciott'anni che avrebbe compiuto una settimana dopo l'incidente.