15/11/21

Il mistero della scomparsa di Ettore Majorana - C'è una traccia che porta a Roma ?

 


La scomparsa di Ettore Majorana è uno dei grandi enigmi irrisolti che ha appassionato a lungo giornalisti e storici. Il geniale fisico catanese infatti, come si sa, scomparve letteralmente nel nulla nel marzo del 1938, dopo aver preso un traghetto della Tirrenia da Napoli a Palermo. Nessuno sa con certezza se giunse mai a destinazione, nessuno sa se mise in opera una geniale messinscena, nessuno sa se si suicidò nelle acque del Tirreno (le ricerche in mare non diedero mai frutti), nessuno sa se – come ha sostenuto il prof. Antonino Zichichi - Majorana, sconvolto da quanto aveva scoperto sull’atomo e preconizzando i disastri che sarebbero provenuti dalle scoperte sull’energia nucleare, non decise di sparire rinchiudendosi in un convento.

In realtà, tra le diverse piste, la Procura di Roma, che recentemente ha chiuso dopo decenni le indagini, ha privilegiato quella sudamericana: della scomparsa cioè volontaria del fisico in Venezuela, sotto falsa identità, laddove la sua presenza sarebbe stata accertata – nella città di Valencia – negli anni compresi tra il 1955 e il 1959.

Ma l’ipotesi di una sopravvivenza, sotto falso nome, di Majorana segue anche una pista romana, che negli ultimi tempi si è arricchita di nuovi particolari.

Secondo un nuovo testimone, infatti, il grande fisico avrebbe terminato i suoi giorni proprio a Roma, e nemmeno troppo distante, anzi molto vicino a quell’Istituto di Fisica di via Panisperna 89/a dove insegnava Enrico Fermi e dove si formarono quei geniali ragazzi destinati a scompaginare la storia della scienza e a far parlare di sé nel mondo intero.

Le ultime tracce di Majorana, infatti, portano sugli scalini della Università Gregoriana, in piazza della Pilotta, a pochi passi da Fontana di Trevi.

La testimonianza arriva da un uomo che asserisce di aver parlato a lungo con quel barbone, incontrato un giorno del marzo 1981 insieme a monsignor don Di Liegro, fondatore della Caritas romana (il quale però, essendo scomparso, non può avvalorare la testimonianza).

Secondo il racconto dell’uomo, il clochard dimostrò di conoscere la soluzione del Teorema di Fermat, un difficilissimo enigma matematico rimasto irrisolto per quattro secoli, definitivamente sciolto nel 2000.

Fu proprio monsignor Di Liegro, racconta il testimone, a confermare l’identità dell’uomo, spiegandogli che si trattava proprio del grande fisico, il quale, dopo una sosta in un convento di Napoli, si era trasferito in un altro istituto religioso, nei pressi di Roma, e da qui si era allontanato, proprio per tornare sui suoi passi, nella zona di Roma cioè dove aveva mosso i suoi primi passi di brillantissimo fisico.

Di Liegro chiese al testimone di mantenere il segreto «per almeno quindici anni dopo la mia morte».

E l’uomo decise di rispettare le volontà del sacerdote.

Vero o falso che sia il racconto, fa molta impressione ancora oggi immaginare Ettore Majorana nei panni di un barbone trasandato, tra la folla indifferente, in quella piazza della Pilotta dove ha sede una delle istituzioni accademiche romane più prestigiose e in prossimità di quei luoghi dov’era nato il mito dei Ragazzi di via Panisperna.

 Tratto da: Fabrizio Falconi, Roma esoterica e misteriosa, Newton Compton, 2015

 

12/11/21

Il suicidio di David Foster Wallace nelle parole di sua moglie



Karen Green è una donna eccezionale. 

E oltre ad essere una donna eccezionale è anche una artista vera. 

E oltre ad essere una donna eccezionale e anche una artista vera è stata anche la moglie di un genio, David Foster Wallace, considerato uno degli scrittori più importanti degli ultimi 50 anni e suicidatosi il 12 settembre del 2008, a soli 46 anni, impiccandosi ad una trave della sua abitazione. 

In tutti questi anni, dopo la morte del marito, la Green ha compiuto ogni sforzo per comprendere la morte di David, ma in una intervista a The Guardian, ha ribadito la volontà di negare l'idea che il suicidio sia in qualche modo un atto significativo, ancor meno comprensibile in termini artistici – il mito del depressivo romantico – come invece molti commentatori della morte di Wallace, mettendolo insieme ad altri suicidi celebri come Kurt Cobain, hanno voluto vederlo. 

"È stato un giorno nella sua vita", dice la Green "ed è stato un giorno nella mia. Il problema per me è che c'è uno stress post-traumatico che deriva dal trovare qualcuno che ami in quel modo, come ho fatto io. È un cosa reale. Un vero cambiamento al tuo cervello, a livello cellulare, a quanto pare. La gente mi dice che avrei dovuto essere preparata, a causa della storia di David con la depressione. Ma ovviamente non ero affatto preparata. Non me ne sarei andata, lasciando lui solo in casa, mai, se avessi sospettato che sarebbe potuto succedere. Sento ancora che è stato commesso un errore". 

Confessa di evitare ancora dopo tanto tempo Google: "Cosa fai quando il referto dell'autopsia di tuo marito è su Internet ed è considerato un argomento degno di una fottuta critica letteraria?" 

Sono rarissime le volte in cui la Green ha parlato del suicidio del marito. "L'ho fatto solo quando sapevo che l'articolo non avrebbe incluso le parole "impiccato" o "corpo scoperto", dice. 

"Ma mi sono sbagliata e l'hanno fatto lo stesso. Sono un'idiota, ovviamente. So che il giornalismo è giornalismo e forse la gente vuole leggere che ho scoperto il corpo più e più volte, ma questo non definisce David o il suo lavoro. Tutto questo lo trasforma in uno scrittore di celebrità, il che penso lo avrebbe fatto molto arrabbiare, o almeno avrebbe fatto arrabbiare la parte buona di lui. Ma adesso ha definito anche me, e sto davvero lottando con questo". 

Se ha deciso di parlarne è stato perché si è sentita in dovere di pubblicare The Pale King , l'ultima opera di David, uscita postuma, e in parte perché ha la sensazione che parlare della sua esperienza possa essere di aiuto ad altre persone che sono state lasciato indietro a convivere con l'ossessione o l'incubo del suicidio. 

Non è sicura di molte cose riguardo alla morte di suo marito ma è certa di una cosa: che Wallace voleva che il Re Pallido fosse pubblicato, anche nel suo stato incompiuto. "Gli appunti che ha preso per il libro e i capitoli che erano completi, sono stati lasciati in una pila ordinata sulla sua scrivania nel garage dove lavorava. E le sue lampade erano accese sopra. Quindi non ho dubbi nella mia mente questo è quello che voleva. Era in uno stato organizzato molto insolito per David. " 

"Forse l'ottusità è associata al dolore psichico", ha scritto Wallace in una delle pagine del Re Pallido, uscito con enorme successo dopo la sua morte, "perché qualcosa di opaco o opaco non riesce a fornire abbastanza stimoli per distrarre le persone da qualche altro tipo di dolore più profondo che è sempre presente, anche se solo ad un livello inferiore, e da cui la maggior parte di noi spende quasi tutto il proprio tempo e le proprie energie cercando di distrarsi."

Una delle molte pagine profetiche dell'opera di un grande scrittore.

10/11/21

Chi ha scritto l'aforisma "C'è un campo oltre il giusto e lo sbagliato..." che perfino Brad Pitt porta tatuato sul braccio?

 


Quando sull'ultimo frame della serie tv The Victim - ottimo drama targato BBC in onda sulla piattaforma Sky - ho visto su schermo nero calare per l'ennesima volta il celebre aforisma sul Campo oltre il giusto e lo sbagliato ho sentito la necessità di andare un po' a indagare. 

L'aforisma - o breve poesia - attribuito al poeta mistico persiano Gialal al-Din Rumi, chiamato più semplicemente in occidente Rumi, è infatti diventato così famoso da noi che perfino il divo Brad Pitt ha pensato di tatuarselo sul suo muscoloso bicipite (vedi foto qui sopra). 

Ma questo aforisma è veramente di Rumi, il poeta mistico persiano vissuto nel 1200?

E cosa dice esattamente? 

La traduzione con cui questi antichi versi sono giunti a noi, in Occidente, recita: 

Ben oltre le idee di giusto e sbagliato c’è un campo. Ti aspetterò laggiù.

Una frase molto suggestiva che fa pensare soprattutto al perdono e alla riconciliazione. E a questo uso viene sostanzialmente riferita.

Esistono diverse versioni occidentali di questo aforisma. Che in realtà farebbe parte di un testo più lungo che nella sua completezza reciterebbe così:

Al di là delle idee di cosa sbagliata e cosa giusta, c'è un campo. 

Ci incontreremo li. 

Quando l'anima si sdraia in quell'erba, il mondo è troppo pieno per parlarne. 

Idee, linguaggio, anche la frase “reciprocamente” non ha alcun senso


In realtà tutte le traduzioni occidentali del quartetto discendono da quella del poeta americano Coleman Barks (nato nel 1937).
Da allora, questa formula, attribuita a Rumi, si trova recitata alle cerimonie nuziali, quando gli intellettuali hanno un dibattito particolarmente controverso, e negli uffici dei terapisti e nelle sale di meditazione dappertutto. 

Studiando però da vicino la cosa si scopre che questa frase NON è proprio quello che ha scritto Rumi. 

La citazione esatta da cui questo aforisma è estrapolato è infatti uno dei quartetti - precisamente il n.157 - di quell'opera sterminata di Rumi, il suo Canzoniere, che si chiama Divan-i Shams-i Tabrīz ("Canzoniere di Shams-i Tabrīz"). 

Scopriamo così che il testo originale di Rumi, di quel Quartetto è, in lingua farsi:


Æ Ò کفر از اسلام برون صحرائی
 است ما را به میان آن فضا سودائی
است عارف چو بدانرسید سر را بنهد نه کفر 
æ نه اسلام æ نه آنجا جائی است

La traduzione dalla lingua farsi di questo quartetto è molto più complessa e molto lontana da quella di Coleman Barks. 

La traduzione letterale, lascerebbe infatti intendere non il campo attraente dove lasciamo cadere tutte le nostre idee e disaccordi nell'erba in cui ci stendiamo e ritroviamo la nostra perduta unità, ma una terra desolata e desolata di disillusione. 

Ecco come sarebbe:

Al di là del male e del giusto fare, c'è un deserto 
Il deserto ci chiama come se fosse l'oasi 
Desideriamo abbracciarci l'un l'altro nella sua erba rigogliosa 
e bevi dalla limpida sorgente 
La luna mi sussurra all'orecchio: 
Ho un piede in quel deserto 
Ma non chiedermi di incontrarti lì 
Perché in quel deserto di delusione, 
proprio come con il bene e il male, 
io e te e anche l'unità tra di noi, cesserebbero di esistere 


Qualcosa di radicalmente diverso dal senso introdotto da Coleman Barks. 

La poesia di Rumi alluderebbe alla grande capacità della mente di creare illusioni e disillusioni.  In questo senso il deserto ci chiama come se fosse un'oasi, richiamandoci al senso ultimo dell'esistenza e alla inutilità della divisione, delle divisioni create dalla mente.

In questi versi Rumi cioè alluderebbe alla disperazione e al desiderio di un uomo che ha attraversato tutte le fasi della ricerca ed è arrivato a quella finale. La non-dualità è vista come uno stato in cui si può tranquillamente assumere una posizione neutrale ad ogni avvenimento poiché, dopotutto, in questa terra, non esiste il male o il bene. Non almeno, in senso assoluto. 

E' soltanto nell'ottica divina, che questa non-dualità finalmente si scioglie e si ricompone.  

Insomma, l'Occidente ha semplificato moltissimo il pensiero di Rumi, trasformando i suoi versi in una frase più facilmente comprensibile e più facilmente spendibile per la nostra mentalità. 

Una occasione, forse, per tornare a rileggere i meravigliosi componimenti di Rumi. 

Fabrizio Falconi - 2021

08/11/21

Chi era Giorgio, il padre di Francesco De Gregori omaggiato da "Tutto più chiaro che qui" ?



Come per molti artisti, il padre ha avuto una notevole importanza nella formazione di Francesco De Gregori, che si scopre anche dall'ascolto di alcune sue (celebri) canzoni. 

Francesco De Gregori è nato nel 1951, dal matrimonio fra il bibliotecario Giorgio e l'insegnante di lettere Rita Grechi, e come raccontano le cronache, il nuovo arrivato ricevette il nome di Francesco in memoria di suo zio, ufficiale degli Alpini e successivamente partigiano vicecomandante delle Brigate Osoppo, ucciso a Porzûs nel 1945 dai partigiani comunisti delle Brigate Garibaldi. 

E' a causa della professione del padre, che il giovane Francesco crebbe a Pescara fino circa ai dieci anni per poi tornare a Roma, dove frequentò il liceo classico Virgilio.

Il 1966 è un anno cruciale per il quindicenne Francesco: insieme a suo padre e a suo fratello Luigi, di sette anni più anziano, si reca a Firenze per prestare soccorso alla popolazione colpita dall'alluvione. E in quello stesso anno, decide di imparare a suonare la chitarra. 

Ma chi era il padre di De Gregori?  Certamente nella formazione di Francesco, hanno avuto la massima importanza le radici "umaniste" di lui e della moglie, Rita Grechi. 

Giorgio De Gregori era nato a Roma il 25 settembre 1913. Laureatosi in lettere, entrò in servizio come bibliotecario aggiunto nelle biblioteche governative nel 1937, a soli 24 anni, presso la Biblioteca nazionale centrale di Firenze. 

Trasferito nel 1942 a Roma, ma chiamato alle armi dopo pochi mesi, sul fronte francese, rientrò in Italia dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 e fu comandato a prestare servizio fino alla fine della guerra presso la Direzione generale delle accademie e biblioteche a Padova. 

Dopo la Liberazione rientrò in servizio alla Biblioteca di archeologia e storia dell'arte di Roma, con la responsabilità anche della custodia del materiale delle biblioteche tedesche in Roma. 

Dal 1952 in poi Giorgio De Gregori rivestì molti e importanti incarichi che lo portarono ai vertici dell'AIB, l'Associazione delle Biblioteche Italiane, di cui fu segretario per molti anni.

Giorgio De Gregori, che  è morto a Roma il 30 giugno 2003, era dunque un vero studioso, un intellettuale ed è immaginabile l'importanza che i libri - e l'amore per i libri - abbiano rivestito nella stessa educazione del futuro cantautore. 

Francesco, dal canto suo, ha ripetutamente omaggiato il padre con accenni presenti in diverse delle sue canzoni e soprattutto in una canzone che gli ha interamente dedicato:  "Tutto più chiaro che qui", contenuta nell'album "Canzoni d'Amore" pubblicato nel 1992.  A tal proposito il cantautore romano dirà: "Non era un Grande Vecchio. Era mio padre, Era lui che faceva il bagno nel Tevere. Canottiere negli anni Venti; grande uomo. Aveva visto tutto".

Ed è una canzone sempre bellissima da riascoltare: qui sotto



Fabrizio Falconi - 2021 

07/11/21

Quali sono stati i 5 film più visti di sempre al cinema, per numero di spettatori, in Italia? Molte sorprese.

 


Siamo da sempre abituati alle classifiche del box-office, per ciò che concerne il cinema, sempre aggiornate però sulla stagione in corso, oppure sull'unico parametro degli incassi, sulla base dei quali è ben difficile fare confronti con il passato: costo del biglietto, numero delle sale, diverso valore della moneta, delle lire prima e dell'euro poi, rendono impossibile stilare classifiche che abbiano un qualche senso.

L'unico criterio valido resta allora quello del numero di biglietti staccati: cioè del numero di spettatori che effettivamente si è recato in una sala cinematografica per vedere quel certo film. 

Anche qui non mancano i problemi nel paragonare gli anni d'oggi con quelli del passato: troppo diverso il sistema di fruizione del cinema, ieri e oggi. Come sappiamo oggi l'offerta del cinema è variatissima e i mezzi per usufruire della visione di un film sono infiniti, dal web agli smartphone, dalla smart tv allo streaming: la sala è rimasta un mercato praticamente di nicchia.

La classifica del maggior numero di spettatori GLOBALE dei film proiettati in Italia nella storia del cinema e della distribuzione riserva tuttavia interessanti sorprese.

Il film più visto nella storia del cinema in Italia è infatti Dottor Zivago: il capolavoro di David Lean, uscito nel 1966, risulta essere stato visto nel nostro paese da una cifra incredibile di spettatori: 22 milioni e 900.000. Considerando che all'epoca la popolazione italiana era di circa 51.000.000 di abitanti, significa che quel film fu visto da quasi un italiano su due, al cinema.

Al secondo posto si piazza Il Padrino di Francis Ford Coppola, che nel 1972 portò al cinema qualcosa come 21.800.000 spettatori. 

In terza posizione il colosso biblico I dieci comandamenti, diretto da Cecil B. DeMille, che nel 1953 (quando gli italiani erano 47 milioni) realizzò 16.800.000 spettatori.

Quarto è il più grande successo italiano della saga dell'agente 007: Missione Goldfinger, uscito nel 1964, ottenne 15.800.000 spettatori.

Quinto, un altro kolossal: Guerra e Pace, tratto da Tolstoj con la regia di King Vidor, anche se di completa produzione italiana, nel 1956. Al botteghino realizzò 15.623.000 spettatori (dato certificato dalla SIAE che lo conferma film di produzione italiana più visto di tutti i tempi nel nostro paese). 

A sorpresa, il sesto posto è occupato dal controverso Ultimo Tango a Parigi, di Bernardo Bertolucci. Il film con Marlon Brando e Maria Schneider, pur essendo stato sequestrato poche settimane dopo la sua uscita, e tornato nelle sale nel 1973, fu visto da ben 15.623.000 milioni di spettatori. 

Sono numeri da capogiro, oggi del tutto irripetibili. Basti pensare che La vita è bella di Roberto Benigni (1997) o il recente Quo vado di e con Checco Zalone, non hanno raggiunto la soglia dei 10 milioni di spettatori.  


Fabrizio Falconi (Fonte dati: http://boxofficebenful.blogspot.com/)


06/11/21

Il figlio segreto di Maria Callas: l'ombra della "Divina".

 


Una vita straordinaria, colma di successi straordinari, ma colma anche di un dolore profondissimo e sordo, di una inquietudine insopprimibile, di una fragilità congenita unita ad una determinazione straordinaria nella sua carriera mirabolante. Maria Callas, nel corso della sua vita custodì anche un segreto poco noto, che in un articolo tempo fa, fu così ricostruito:

Milano, 5 settembre 1977 Luigi era nervoso. Erano le undici e cinque e «La Signora» non era ancora arrivata. Quella scena si ripeteva ogni primo lunedì del mese. Da diciassette anni. Era il suo piccolo, grande segreto. Una vita onesta la sua: da quarant'anni per tutti lui era solo «il Ginetto», il vecchio custode del cimitero di Bruzzano, alla periferia nord di Milano. 

Se la ricordava ancora come fosse ieri quella mattina di diciassette anni prima. Era un lunedì. Il primo lunedì di maggio. Faceva ancora freddo, il cielo non prometteva niente di buono. E lui se ne stava attaccato alla piccola stufetta della sua guardiola a leggere il giornale. Come ogni lunedì mattina, non c'era niente da fare: il cimitero era chiuso al pubblico. 

All'improvviso il rumore di una macchina, di quelle potenti. Ginetto non credeva ai suoi occhi. Davanti al cancello c'era una berlina, di quelle che si vedevano giusto alle feste dei morti al Monumentale, il cimitero dei ricchi: blu, con le tendine grigie, per proteggere la privacy dei «signori», tirata a lucido come nuova. 

Non aveva mai visto niente di simile in tutta la sua vita. «È lei il custode?» Un uomo alto, magro, in un elegante completo grigio, interruppe d'un tratto i suoi pensieri. «Guardi che qua è tutto chiuso. Dovete tornare più tardi, nel pomeriggio» rispose Ginetto, seccato per quell'intrusione che spezzava la monotonia del suo inizio settimana. «Lo sappiamo. Ma "La Signora" deve assolutamente far visita al cimitero. Questo è per il suo disturbo» disse l'autista senza scomporsi, mettendogli frettolosamente una busta in mano e guardandosi in giro con aria circospetta, per paura che qualche occhio indiscreto potesse assistere a quella scena. 

Ginetto aprì in fretta la busta: c'erano cinquecentomila lire in contanti. Un'enormità. Non aveva mai visto tanti soldi tutti insieme. Con le mance, qualche cresta sui lumini e lo stipendio del Comune riusciva a stento a raggranellare centottantamila lire alla fine di ogni mese. Quell'uomo gli stava offrendo lo stipendio di tre mesi. E non ci doveva pagare nemmeno le tasse. Era lì a contare, ancora incredulo per tutto quel ben di Dio, quando l'anonimo autista lo interruppe ancora una volta. «Allora? Ci fa entrare? Se saprà conservare questo segreto ci vedrà arrivare alle undici del mattino di ogni primo lunedì del mese. Le garantiamo questa rendita in cambio del più assoluto riserbo. Niente chiacchiere. Con nessuno. Accetta?» 

Ginetto fece due calcoli: quella sarebbe stata la svolta della sua vita. Il tredici al Totocalcio che aveva sempre sognato. Non era onesto? Be', in fondo lui non rubava niente a nessuno. Faceva solo un piacere a una sconosciuta «Signora». Senza pensarci due volte, aprì il pesante cancello del cimitero. «Vi accompagno. Dove dovete andare? Qui dentro è casa mia» propose. «Non si preoccupi. "La Signora" sa dove andare.» 

Avrebbe voluto ringraziarla, «La Signora». Ma una tendina grigia la nascondeva al resto del mondo. Andava avanti così da diciassette anni. Tutti i mesi. Puntuale come un orologio svizzero, la berlina blu arrivava alle undici. «Son quasi le undici e mezzo. Che le sarà successo?» Ginetto ora incominciava a preoccuparsi sul serio. Non era mai successo in tanti anni che «La Signora» mancasse al suo appuntamento. 

Poi, all'improvviso, il rumore della berlina. Ginetto tirò un sospiro di sollievo. Anche per quel mese la sua rendita era assicurata. Maria piangeva, come ogni volta. Lasciava che le lacrime scorressero lungo le sue guance scavate dalla solitudine. Dietro quella piccola foto di un neonato morto, dietro quel nome, Omero, inciso nel marmo a lettere d'oro, si nascondeva un pezzo della sua vita. Un segreto. Suo figlio. Sì, quel figlio che era stata costretta a nascondere agli occhi del mondo; quel figlio che aveva fatto seppellire di nascosto in un angolo remoto di Milano, come se se ne dovesse vergognare. 

Quel figlio che non aveva potuto abbracciare neppure una volta per la crudeltà di suo padre, Aristotele Onassis.


fonte Il Giornale, 8 settembre 2007



02/11/21

"Meddle" compie 50 anni. I segreti del mitologico album dei Pink Floyd



Compie 50 anni Meddle, il sesto album in studio del gruppo rock inglese Pink Floyd, che fu inciso per la Harvest Records. 

Un album che ebbe un successo mondiale incredibile, pur avendo avuto una produzione molto singolare, e assai poco pianificata. E oggi è considerato un album di transizione tra il gruppo ancora influenzato da Syd Barrett della fine degli anni '60 e gli emergenti Pink Floyd. 

Un disco ormai quasi mitologico, a partire dall'iconica copertina che fu spiegata dal suo creatore Storm Thorgerson come la fotografia rielaborata di un orecchio sott'acqua. 

Ma come nacque Meddle?

Di ritorno da una serie di tournée in America e Inghilterra a sostegno dell'album Atom Heart Mother , all'inizio del 1971 i Pink Floyd iniziarono a lavorare su nuovo materiale agli Abbey Road Studios di Londra. 

A quel tempo, Abbey Road era dotata solo di impianti di registrazione multitraccia a otto tracce , che la band trovò insufficienti per le crescenti esigenze tecniche del loro progetto. 

Così impiegarono i loro migliori sforzi, inclusa l'apertura di quello che divenne " Echoes ", su un nastro a 16 tracce in studi più piccoli a Londra (vale a dire lo studio AIR e Morgan a West Hampstead). 

Mancando un tema centrale per il progetto, la band utilizzò diversi metodi sperimentali nel tentativo di stimolare il processo creativo. Un esercizio prevedeva che ogni membro suonasse su una traccia separata, senza alcun riferimento a ciò che stavano facendo gli altri membri. 

Il tempo era del tutto casuale mentre la band suonava attorno a una struttura di accordi concordata e stati d'animo come "primi due minuti romantici, successivi due su tempo". Ogni sezione registrata è stata nominata, ma il processo è stato in gran parte improduttivo; dopo diverse settimane, non erano state create canzoni complete. 

Leckie, uno dei tecnici del suono, dichiarò più tardi che le sessioni dei Pink Floyd spesso iniziavano nel pomeriggio e finivano presto la mattina dopo, "durante il quale non si sarebbe fatto nulla. Non c'era alcun contatto con la casa discografica, tranne quando il loro manager dell'etichetta si presentava di tanto in tanto con un paio di bottiglie di vino e un paio di spinelli." 

Apparentemente la band trascorreva lunghi periodi di tempo lavorando su suoni semplici o su un particolare riff di chitarra. Hanno anche trascorso diversi giorni all'AIR cercando di creare musica utilizzando una varietà di oggetti domestici, esperimento che venne ripetuto anche per gli album seguenti, The Dark Side of the Moon e Wish You Were Here . 

Wright per la suite di Echoes, aveva alimentato una singola nota attraverso un altoparlante Leslie , producendo un rumore metallico simile a un sottomarino . La band ha provato ripetutamente a ricreare questo suono in studio ma senza successo, e così la versione demo è stata utilizzata su quello che sarebbe poi diventato "Echoes", mixato quasi esclusivamente agli AIR Studios. 

In combinazione con David Gilmour's chitarra, la band è stata in grado di sviluppare ulteriormente la traccia, sperimentando effetti sonori accidentali (come la chitarra di Gilmour che viene collegata a un pedale wah-wah al contrario) 

L'ultimo pezzo di 23 minuti, Echoes, alla fine avrebbe occupato l'intero secondo lato dell'album. 

" One of These Days " è stato sviluppato attorno ad una bassline ostinata creata da Roger Waters , alimentando l'output attraverso un Binson Echorec. La linea di basso è stata eseguita da Waters e Gilmour utilizzando due bassi, uno su vecchie corde. 

La band registrò nella prima metà di aprile 1971, ma nella seconda metà suonò a Doncaster e Norwich prima di tornare a registrare alla fine del mese. 

Agosto è stato trascorso nell'estremo oriente e in Australia, settembre in Europa e da ottobre a novembre negli Stati Uniti. 

Sebbene le tracce possiedano una varietà di stati d'animo, Meddle è generalmente considerato più coeso rispetto al suo predecessore del 1970, Atom Heart Mother . 

"One of These Days" in gran parte strumentale è seguita da " A Pillow of Winds ", che si distingue per essere una delle poche canzoni d'amore acustiche e silenziose nel catalogo dei Pink Floyd. 

Queste due canzoni si susseguono l'una nell'altra attraverso effetti sonori ventosi, anticipando la tecnica che sarebbe stata successivamente utilizzata su Wish You Were Here . Il titolo di "A Pillow of Winds" è stato ispirato dai giochi di Mahjong che Waters, Mason e le loro mogli giocavano nel sud della Francia. 

La canzone " Fearless " comprende registrazioni sul campo di tifosi del Liverpool FC nella Kop canto dell'inno del club anthem, " We never walk alone ", che porta la canzone ad un fine in un pesantemente riverberato fade-out . 

" San Tropez ", al contrario, è una canzone pop dalle influenze jazz con un tempo shuffle , composta da Waters nel suo stile sempre più intriso di songwriting sbarazzino. 

La canzone è stata ispirata dal viaggio della band nel sud della Francia nel 1970. 

I Pink Floyd hanno mostrato in modo insolito il loro senso dell'umorismo con " Seamus ", traccia assai originale con il cane di Steve Marriott (cui Gilmour faceva da dog sitter) che ulula a tempo di musica.

L'ultima canzone dell'album è "Echoes" di 23 minuti. 

Il titolo dell'album Meddle è un gioco di parole: una via di mezzo tra "medaglia" , e il verbo "interferire". 

L'immagine di copertina è stata fotografata da Bob Dowling. L'immagine rappresenta un orecchio, sott'acqua, che raccoglie onde sonore (rappresentate da increspature nell'acqua). 

La copertina contiene una foto di gruppo della band (l'ultima dei Floyd fino al 1987, A Momentary Lapse of Reason ). 

Meddle è stato rilasciato il 31 ottobre 1971 negli Stati Uniti e il 13 novembre nel Regno Unito. Sebbene nel Regno Unito abbia raggiunto il numero tre in classifica, la scarsa pubblicità da parte della Capitol Records ha portato a vendite deboli negli Stati Uniti e una posizione in classifica al numero 70. 

Meddle però è stato successivamente certificato disco d'oro dalla RIAA il 29 ottobre 1973 e poi doppio disco di platino l'11 marzo 1994, in seguito all'attenzione aggiunta dagli album successivi successi della band negli Stati Uniti. 

Fatto sta che oggi Meddle è considerato una pietra miliare del rock e della musica contemporanea. 50 anni, e non li dimostra. 




01/11/21

L'uomo è una creatura assurda - Dostoevskij





L'uomo è creatura avventata ed assurda, e forse a lui come al giocatore di scacchi interessa soltanto il processo di raggiungimento dello scopo, non già lo scopo stesso. 

E chissà forse lo scopo a cui tende l'umanità consiste unicamente nel mantenere ininterrotto questo processo di raggiungimento, in altre parole è la vita medesima, e non propriamente la meta da raggiungere. 

La quale meta non può essere altro che il due più due quattro, ossia una formula, ma questo due più due quattro non è più la vita, signori, bensì, il principio della morte.

L'uomo ha sempre avuto paura di questo due più due quattro. Poniamo anche che l'uomo non faccia altro che cercare questo due più due quattro, e solchi gli oceani e sacrifichi la vita in tale ricerca, ma trovarlo poi di fatto, vero Iddio, ne ha paura.

E invero sente che quando lo avesse trovato non gli rimarrebbe più nulla da cercare.
Si rivela in lui, ogni volta che raggiunge uno scopo, come un senso di disagio.
Darsi da fare per raggiungere uno scopo gli piace, sì, ma raggiungerlo poi per nulla e questo è, s'intende, un fatto terribilmente comico.

E' noto che molti amatori del genere umano, prima o poi verso la fine della loro vita mutarono registro, facendosi protagonisti di qualche storia, dite pure, talvolta delle più scandalose.

Rovesciate su un uomo, rovesciategli anche addosso tutti i beni terreni, immergetelo fino ai capelli nella felicità, tanto che alla superficie della felicità, come da un'acqua, non affiorino che bolle d'aria; dategli anche tale prosperità economica che non gli resti nient'altro da fare se non dormire, mangiar pampepato e provvedere a che la storia universale non abbia a finire lì;

E anche allora lui, l'uomo, anche allora, per mera sconoscenza, per mera monellaggine, farà qualche porcheria. Rischierà perfino il pampepato e a bella posta desidererà la più rovinosa sciocchezza, l'assurdità più antieconomica, unicamente per mescolare a tanta positiva saggezza il proprio pernicioso elemento fantastico.
Vorrà tenersi le sue fantasticherie e la sua indegna stupidaggine appunto e unicamente per dimostrare a se stesso che gli uomini son sempre uomini.

Fedor Dostoevskij - Ricordi dal Sottosuolo - circa 1864.

29/10/21

Qual è stato il primo Teatro costruito a Roma ? E dove si trovava ?

 



Quando fu costruito il primo teatro a Roma?

 

Il primo teatro in muratura a Roma può essere considerato il Teatro di Pompeo, che sorgeva nei pressi dell’attuale Largo Argentina, tra via dei Chiavari e via dei Giubbonari, dove si trova oggi piazza di Grotta Pinta (resti importanti dell’edificio si possono ancora ammirare oggi nei locali dell’Hotel Lunetta), la cui forma richiama quelle della costruzione romana. 

Il teatro prese il nome dal console Gneo Pompeo Magno che ne ordinò la costruzione al ritorno dalla sua campagna vittoriosa sui popoli orientali, tra il 60 e il 55 a.C. 

Prima di Pompeo, vigeva il divieto di costruire edifici stabili di spettacolo in città. Il console aggirò il divieto facendo apporre sulla sommità della cavea un piccolo tempio dedicato a Venere Vincitrice, cosicché tutta la gradinata del teatro appariva come una grande scala d’accesso al tempio. 

Il teatro aveva dimensioni considerevoli – il diametro era di centocinquanta metri – e fu il primo passo della grande opera di monumentalizzazione del Campo Marzio, una zona destinata a diventare di vitale importanza nella vita della città di Roma.


Tratto da Fabrizio Falconi - 501 domande e risposte sulla storia di Roma - Newton Compton, 2020

 


27/10/21

Il Palazzo del Monte di Pietà a Roma e l’orologio dalle ore matte

 


Il Palazzo del Monte di Pietà e l’orologio dalle ore matte

 

E’ davvero molto lunga la storia del Palazzo del Monte di Pietà che affaccia sulla piazza omonima, nel cuore del rione di Regola. Il Palazzo fu costruito nel 1588 come nobile residenza di un Cardinale, Prospero Santacroce. E’ soltanto quindici anni più tardi, nel 1603, dopo la morte del Cardinale, che divenne la sede del Monte dei Pegni fondato nel 1527 da un padre minorita, Giovanni da Calvi e che era originariamente ospitato in Via dei Coronari.

Per destinarlo alla nuova funzione – che era quella del Monte dei Pegni, istituita da un gruppo di nobili romani papalini per combattere la piaga dell’usura – furono necessari lavori di ampliamento del Palazzo Santacroce, affidati ai più geniali architetti dell’epoca, Carlo Maderno e Francesco Borromini: il Palazzo fu ingrandito e diviso in due parti, una destinata a conservare il denaro, e l’altro i pegni che da quel periodo in poi i Romani in difficoltà economica andavano a piazzare al Monte.

Tra i numerosi abbellimenti e ornamenti del Palazzo, si provvide nel Settecento anche a dotare il Palazzo di un grande orologio – uno dei più grandi di quelli pubblici a Roma – al di sotto del campanile a vela sul frontone.

A quanto pare però, questo orologio monumentale, sin dalla sua installazione, cominciò a mostrare difetti di funzionamento, con gli orari che quasi mai coincidevano con gli altri orologi romani.

Una leggenda – probabilmente basata su un fondamento di verità – allora, spiegò questo malfunzionamento con l’ira di un orologiaio, quello che si era dedicato alla costruzione del meccanismo, il quale indignato per la somma ricevuta, ben più bassa rispetto a quanto pattuito, aveva deciso di sabotare il congegno lasciando perfino la firma del suo dispetto, con una iscrizione incisa sull’orologio stesso: Per non esser state a nostre patte/ orologio del Monte sempre  matte. E cioè, in pratica: accordi saltati, orario impazzito. Più verità che leggenda visto che l’iscrizione pare vi fosse realmente e fu cancellata dalle autorità cittadine in tempi relativamente recenti.

Resta la singolare circostanza che proprio una comune, quotidiana questione di soldi finì per condizionare e per restare ad emblema – visto che l’orologio anche ai tempi nostri continua a seguire un suo orario – del Palazzo che più di ogni altro a Roma è stato ed è il simbolo del denaro.


tratto da: Fabrizio Falconi - Misteri e segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton editore, 2014-2017 

 


26/10/21

La storia della celebre Statua a Giordano Bruno, in Piazza Campo de' Fiori





La celebre statua di Giordano Bruno in Campo de' Fiori fu inaugurata in un caldo giorno di giugno (il 9, giorno della Pentecoste) dell'anno 1889, tre anni dopo la Statua della Libertà e soltanto tre settimane esatte dopo l'inaugurazione della Tour Eiffel a Parigi. 

Ma le peripezie che ne permisero l'erezione sono talmente complesse e lunghe che ci vollero 13 anni per ultimare il tutto. 

L'omaggio a Bruno proprio nella piazza dove il frate pagò il prezzo più alto per il coraggio e la libertà di pensiero, fu dovuto all'iniziativa politica di quella Italia liberale, laica, massona, radicale che dopo l'unità aveva cominciato a raccogliere sempre più sostenitori contro il potere clericale e papale, e ovunque si celebrava il ricordo di quell'eroe sacrificato in modo inumano. 

La statua era una vera e propria sfida al potere vaticano e suscitò l'indignazione delle università pontificie e dello stesso papa Leone XIII, che stigmatizzò ferocemente l'iniziativa. 

L'eco di questa battaglia asperrima varcò i confini italiani e si spanse fino a Londra e a New York, dove il pensiero di Giordano Bruno era da molto tempo studiato nelle aule di filosofia e di teologia. 

Intorno al 1880 fu costituito un comitato internazionale che si poneva come obbiettivo la realizzazione di un monumento a Roma dedicato al frate di cui furono promotori anche Victor Hugo e Ernest Renan

A gennaio del 1888 la battaglia intorno al monumento si fece talmente virulenta che una manifestazione studentesca venne brutalmente repressa dalla polizia

Solo a seguito di questi fatti il capo del governo di allora, Francesco Crispi, decise di concedere il parere favorevole alla realizzazione della statua, anche per rendere evidente e palese l'emancipazione di Roma, divenuta capitale de Regno d'Italia, dal potere dei papi. 

I lavori vennero affidati a Ettore Ferrari il quale realizzò il ritratto in bronzo di Bruno il cui volto, ricoperto dal cappuccio da frate, fu orientato proprio in direzione del Vaticano e le cui mani incrociate sui polsi (come un condannato) sorreggono con dignità un grosso volume

Il filosofo Giovanni Bovio redasse l'iscrizione da porre sul piedistallo: "A Bruno, il secolo da lui divinato qui dove il rogo arse" 

La stata non ebbe vita facile nemmeno in seguito. Durante il fascismo, movimenti ultracattolici di destra chiesero ripetutamente al duce la rimozione del monumento

Mussolini però, consigliato dal filosofo Giovanni Gentile decise di soprassedere e la statua di Bruno ancora oggi è il punto di ritrovo di militanti del pensiero laico e anticattolico che nel giorno della morte del filosofo 17 febbraio si riuniscono a Campo de' Fiori intorno al grande ribelle per perpetuare la memoria e il sacrificio. 

25/10/21

La meraviglia della Galleria Prospettica del Borromini a Palazzo Spada


La magica prospettiva di Borromini e il piano nobile di Palazzo Spada.
 

Quello che per tutti i romani è Palazzo Spada, in Piazza di Capodiferro, prese il nome con cui è conosciuto oggi soltanto a partire dal 1632 quando il cardinale Bernardino Spada lo acquistò per quasi trentaduemila scudi dalla famiglia Capodiferro che per iniziativa di uno dei suoi membri più illustri, il cardinale Gerolamo, lo aveva fatto costruire nel 1540 su progetto dell’architetto Giulio Merisi da Caravaggio. 

Il cardinale Spada trasformò totalmente il Palazzo rendendolo una vera e propria reggia, degna del potere che quella famiglia rappresentava nelle gerarchie papaline dell’epoca. 

L’architetto al quale Bernardino Spada si rivolse fu nientemeno che Francesco Borromini, il genio più grandioso ed eccentrico di quegli anni, carattere tempestoso e irrequieto sempre preda dei suoi fantasmi e della sua febbrile creatività. 



Fu Borromini a creare quella stupefacente galleria prospettica che ancora oggi rappresenta una delle attrattive della visita ai Palazzi di Roma, come dimostrano anche le continue citazioni cinematografiche, con quel colonnato nel quale le pareti convergono mano a mano che si avanza, il pavimento sale, i quaranta riquadri del pavimento si impiccioliscono insieme alle colonne: quando si giunge al termine della galleria si scopre infatti che l’ultima colonna è alta soltanto un metro e mezzo, meno della metà rispetto alla colonna della prima fila, e che quella galleria che vista dall’esterno sembra lunghissima – almeno cinquanta metri – si percorre invece in appena dieci passi. 

E’ un gioco prospettico, una illusione ottica inventata da Borromini che dovette divertire e non poco il suo committente, con quella statua del dio Marte, collocata in fondo alla galleria, alta soltanto sessanta centimetri. 



E’ solo una delle molte invenzioni del genio ticinese: molto si è scritto su un Borromini esoterico, a causa di quella incredibile propensione a giocare con i simboli e le forme che ne hanno fatto uno dei protagonisti più grandi del Barocco. 

Ma le attrattive e i segreti di Palazzo Spada non si esauriscono con la formidabile bizzarria borrominiana. 

Oggi il celebre palazzo ospita la splendida Galleria di dipinti dove si possono ammirare Guido Reni, Guercino, Andrea Del Sarto, Brueghel, Parmigianino e tanti altri, ma anche il grandioso piano nobile occupato dagli uffici del Consiglio di Stato che è attualmente visitabile solo la prima domenica del mese. 

Qui è tutto una esplosione di decorazioni a stucco e pitture che insieme alle finte prospettive architettoniche del Salone di Pompeo, alla Sala delle Quattro Stagioni e al Corridoio della Meridiana testimoniano la grande passione del Cardinale Bernardino Spada per l’astronomia e per l’ottica. 

In particolare in quest’ultimo – il Corridoio della Meridiana – è possibile ancora oggi misurarsi con la geniale invenzione del gesuita Emmanuel Maignan (nato a Tolosa nel 1601): una specie di meridiana alla rovescio, ottenuta attraverso il riflesso della luce del sole che, filtrando attraverso una finestrella, colpisce la superficie di uno specchio inclinato e rimbalza sul soffitto dove sono disegnati i simboli celesti zodiacali. E’ solo una delle tante meraviglie segrete di quello che è stato definito il palazzo storico più bello d’Italia.



24/10/21

Cagliostro a Roma: Una incredibile avventura

 



L’eretico Conte Cagliostro e il rogo di libri maledetti a Santa Maria Sopra Minerva


Uno dei personaggi più controversi del Settecento fu sicuramente quel Giuseppe Balsamo, palermitano, passato alla storia con il ben più famoso appellativo di Conte di Cagliostro. 

La storia di Cagliostro a Roma nasce quando Giuseppe – alias Alessandro, come scelse di chiamarsi in seguito il sedicente Conte – sposò Lorenza, la figlia analfabeta e a quanto pare bellissima di un orafo. Il matrimonio si consumò nel giorno dell’anniversario della fondazione di Roma – il 21 aprile del 1768 -  in una storica chiesa del rione Regola: San Salvatore in Campo. 

Cagliostro all’epoca aveva venticinque anni,  ma si era già lasciato alle spalle  un passato turbinoso fatto di fughe, ribellioni, piccole truffe che dalla sua Sicilia lo avevano poi portato, dopo viaggi avventurosi,  a Roma.  Qui l’intraprendente giovane aveva aperto una fiorente bottega di falsario (i documenti erano la sua specializzazione) al Vicolo delle Grotte, sempre in quel quartiere della Regola, a due passi da Via dei Giubbonari.

A Roma, il futuro Conte di Cagliostro non si fece certo passare inosservato: venne arrestato per una rissa scoppiata in una taberna al Pantheon,  e dopo qualche giorno venne rilasciato soltanto grazie all’interessamento di un amico che svolgeva le mansioni di maggiordomo in una delle case più importanti di Roma, quella abitata dal Cardinale Orsini

Lorenza e Giuseppe, sposandosi, stipularono una specie di patto di sangue che li portò nel giro di un trentennio  a sconquassare le nobili corti di mezza Europa: lui imbastendo improbabili traffici, stregonerie, guarigioni miracolose,  pseudo artifici alchemici, riti esoterici, che gli guadagnarono la fama del più grande furfante del secolo, lei mettendo a disposizione le sue arti amatorie per sedurre e ammorbidire mecenati, conti (veri) e marchesi, ricchi gentiluomini, e farli diventare strumenti in mano all’ingegnoso e mai domo marito. E ciò ovunque: nel nord Italia – a Bergamo vengono arrestati e poi rilasciati – in Francia,  Spagna, a Lisbona, Londra, e ancora in Francia, Belgio, Germania, Malta, Olanda, Lettonia, San Pietroburgo. Non c’è angolo della vecchia Europa che non li veda protagonisti di qualche intrigo, di qualche teatrale messinscena, di qualche fuga rocambolesca, magari seguita ad un arresto, di qualche scandalo sessuale.

Giuseppe, chimico e ipnotizzatore, inventore e alchimista, trasforma anche la sua identità: comincia a farsi chiamare Alessandro e si inventa il titolo di Conte di Cagliostro. Conosce le grandi personalità del secolo, da Casanova ai sovrani di Francia e di Russia, si mette in testa anche l’idea di fondare un nuovo rito massonico egizio che pretende addirittura sia riconosciuto dal papa, organizza la clamorosa truffa della collana ai danni della Regina Maria Antonietta, finisce nuovamente in carcere, alla Bastiglia, quattro anni prima della Rivoluzione Francese, da cui riesce ad uscire grazie all’intervento dei migliori avvocati del Paese che perorano la sua causa presso il Parlamento.

Ma anche dalla Bastiglia, Cagliostro riesce a fuggire. Ripara a Londra, e per la prima volta Lorenza comincia a prendere le distanze da quell’uomo impossibile, fosco e tiranno.

Qualche anno più tardi, quando Giuseppe si presenta di nuovo a Roma con un prezioso salvacondotto predisposto per lui dal potente principe di Trento, Pietro Virgilio Thun, il vero scopo di Cagliostro è quello di ottenere udienza dal papa e di riuscire nell’intento folle di ottenere il suo riconoscimento dell’ordine egizio da lui fondato. 

A Roma comunque Cagliostro ricevette la massima attenzione dai circoli massonici dell’epoca (frequentati in gran parte da diplomatici stranieri) e in particolare dai Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme che avevano la loro sede a Villa Malta, nell’odierno quartiere pinciano.

A Villa Malta Cagliostro diede spettacolo: organizzando sedute massoniche, dando prova delle sue doti di medium e di veggente, convertendo nuovi adepti al neo ordine da lui fondato.

Questi movimenti però non passarono inosservati agli emissari della Inquisizione, nei cui ambienti si sospettava fortemente che Cagliostro fosse un agente segreto (o un commissario mandato dagli Illuminati di Weishaupt) inviato nella capitale per sobillare le migliaia di massoni che, nascosti, attendevano un segnale per ribellarsi al potere papale.

Non contento, nello studio del pittore francese Augustin Belle, Cagliostro allestì una specie di tempio della sua nuova religione: una stanza completamente ricoperta di drappi neri, e ornata di colonne e simboli massonici, nella quale venivano compiuti i riti di iniziazione.

Ed è a questo punto della vicenda, nel settembre del 1789, quando il conte si sente ormai spiato e seguito ovunque, che Lorenza rompe gli indugi e lo denuncia ad un chierico, parroco della chiesa di Santa Caterina della Rota, a due passi dalla sua casa avita.

La denuncia viene immediatamente spedita al temibile Sant’Uffizio. Lorenza, in un estremo empito di pentimento si rifiuta di firmarla, ma ormai è troppo tardi; le autorità pontificie hanno già deciso la sorte del Conte: bisogna mettere fine alla sua pericolosa intraprendenza, alle sue scandalose e oscure trame.

Il 27 dicembre di quell’anno il Papa (Pio VI) firmò l’istanza speciale per l’arresto di Cagliostro e un manipolo di soldati pontifici fece irruzione negli alloggi del pittore Belle e prese il Conte in flagranza di reato, incatenandolo e portandolo a Castel Sant’Angelo.

Le accuse contenute dalla denuncia della moglie e quelle derivate dagli stessi scritti del Conte, sequestrati, oltre che le delazioni dei molti nemici, causarono al Conte l’imputazione per reati gravissimi che andavano dall’eresia alla pratica di magia nera, al falso contro la Chiesa. 

Per scongiurare il pericolo di una nuova fuga, venne raddoppiata la guardia alle segrete di Castel Sant’Angelo, dove Cagliostro era detenuto in totale isolamento.

Nel processo di fronte al Sant’Uffizio l’imputato viene anche coinvolto in dispute teologiche delle quali egli non poteva minimamente disquisire.

Cagliostro fu interrogato, nel corso di un anno, per ben quarantatre volte e torturato a fuoco dagli inquisitori.

La sua rovina era ormai completa, e il Conte cercò di difendersi in ogni modo  riversando ogni colpa sulla moglie, e sui suoi costumi licenziosi, e giunse fino al punto di scrivere direttamente al Papa, negando ogni accusa di massoneria e chiedendo la grazia. 

Ma la sentenza, pronunciata il 21 marzo 1791 fu di colpevolezza, con la pena prescritta per eretici, eresiarchi e maestri di magia nera, ovvero il rogo.

Pio VI però, per evitare di trasformare il truffatore in un martire, decise di trasformare la sentenza di morte in ergastolo.  Il frate cappuccino Fra’ Giuseppe di San Maurizio, ritenuto corresponsabile (si era fatto convincere ad aderire alla società massonica dal Conte) viene condannato a dieci anni, mentre una assoluzione piena viene dispensata a Lorenza, la cui testimonianza è stata decisiva per l’arresto e la condanna del furfante.

I documenti del processo però sono rimasti segreti per secoli e gli archivi del Vaticano non hanno mai messo a disposizione i documenti: quel che sembra certo è che il Conte arrivò anche a confessare un incontro segreto con gli Illuminati di Weishaupt allo scopo di convertire la massoneria francese alla nuova causa.

Per umiliare in pubblico Cagliostro, fu deciso di costringere il condannato a camminare scalzo e con abiti laceri, tenendo una candela tra le mani, tra due file di monaci, lungo le vie di Roma, da Castel Sant’Angelo e fino a Santa Maria sopra Minerva, la chiesa sorta sui resti del tempio romano dedicato ad Iside.  Giunto nel sacro edificio, Cagliostro fu obbligato ad inginocchiarsi di fronte all’altare e a rendere pubblica abiura delle sue eresie.

Poi, in piazza, proprio di fronte all’Obelisco – il cosiddetto Pulcino della Minerva – fu dato alle fiamme il manoscritto di Cagliostro, nel quale enunciava i principi del suo nuovo Ordine, gli altri testi (andati perduti) e tutti gli emblemi massonici sequestrati nel Tempio del pittore Belle.

Questo rito fu particolarmente simbolico: l’Ordine di Cagliostro, tutto fondato sui crismi della sapienza massonica egizia, veniva eloquentemente distrutto proprio nel luogo di Roma che ricordava più da vicino i contenuti del paganesimo orientale-egizio.

Dopo l’umiliazione pubblica, il Conte venne trasferito a piedi (e al buio, temendo che la presenza del noto prigioniero fosse notata da qualcuno), nella fortezza di San Leo, in cima alle montagne di Montefeltro, la prigione più malfamata d’Italia, dove i detenuti si diceva impazzissero: la cella a lui destinata fu il terribile Pozzetto,  un cilindro di pietra sprovvisto di porta (il detenuto venne calato da una fessura in alto), con una sola misera feritoia e un nudo letto di paglia.

Qui, in questa oscura e spaventosa prigionia, Cagliostro trascorse gli ultimi cinque anni di vita, in un alternarsi di crisi mistiche ed estatiche (durante le quali finirà perfino nel credersi un santo, mandato sulla Terra per convertire gli infedeli), deliri disperati, e una febbrile attività di pittura delle pareti della sua stessa cella, con immagini sacre, e autoritratti.  

Nel giugno del 1795 riuscì a diffondere il suo ultimo annuncio profetico: “Sarò l’ultima vittima dell’Inquisizione, perché quando raggiungerò l’aldilà pregherò talmente tanto che su questa terra ci sarà un nuovo Ordine.”

Morì il 26 agosto del 1795, a cinquantadue anni, per un colpo apoplettico, dopo tre giorni di agonia, rifiutando la confessione e l’estrema unzione.  Il suo corpo fu sepolto nella nuda terra non consacrata, avvolto in un lenzuolo, e ancora oggi c’è qualcuno che rivendica il ritrovamento delle ossa del suo scheletro.

Quel che la leggenda tramanda è che nel dicembre del 1797 la fortezza di San Leo fu occupata dai soldati della legione polacca della repubblica cisalpina di Napoleone. Liberati tutti i prigionieri, i soldati si misero alla ricerca della sepoltura di Cagliostro, la cui fama continuava a propagarsi in tutta Europa, anche post-mortem, e  trovato il suo teschio, lo usarono come coppa per bere il vino.

Qualche tempo dopo, quando le truppe francesi del generale Massena fecero irruzione a Roma, a Castel Sant’Angelo scoprirono un misterioso manoscritto sequestrato a Cagliostro il giorno del suo arresto: un prezioso testo, decifrato nel XX secolo che conteneva e descriveva un rituale autentico della Confraternita dei Rosacroce, opera si disse, del Conte di Saint-Germain, pieno di riferimenti alchimistici e cabalistici.

Circostanza che alimentò a lungo la fama oscura del Conte e la leggenda del suo fantasma: di Cagliostro si continuerà a sostenere per decenni che il Pozzetto di San Leo non fu affatto la sua ultima dimora terrena, e che egli invece, riuscito a fuggire travestendosi con il saio del frate, venuto per confessarlo e ucciso a mani nude, continuò ad imperversare a lungo, sotto mentite spoglie, nelle corti nobili di Roma.  Ma di questo, ovviamente non v’è alcuna prova documentale.


Tratto da Fabrizio Falconi - Roma Segreta e Misteriosa, Newton Compton, 2015