08/02/21

Alla Casa del Cinema di Roma una grande mostra su Mario Monicelli

 

Mario Monicelli al lavoro (alla sua sinistra si riconosce un giovanissimo Carlo Vanzina, assistente alla regia)



Debutta oggi,  lunedi' 8 febbraio alla Casa del Cinema la mostra "Mario Monicelli" realizzata dal Centro Sperimentale di Cinematografia.

La mostra e' allestita nelle sale della Casa del Cinema intitolate a due grandi sceneggiatori del cinema italiano come Sergio Amidei e Cesare Zavattini. 

Si tratta di una spettacolare galleria di immagini provenienti dall'archivio fotografico della Cineteca Nazionale, che ripercorrono passo passo tutta la storia artistica di Mario Monicelli, dagli esordi in coppia con Steno alla fine degli anni '40 (Toto' cerca casa) fino al film del commiato, Le rose del deserto (2006)

In attesa della riapertura degli spazi espositivi di Casa del Cinema sarà possibile "vedere" questa straordinaria storia artistica per immagini grazie alle riprese della mostra con la regia di Stefano Landini e agli approfondimenti su singoli momenti del cinema di Monicelli, accompagnati da un anomalo "Virgilio" come il critico Alberto Crespi che raccontera' insieme al direttore della Casa del Cinema, Giorgio Gosetti e ad altri ospiti - tra i quali lo scrittore Paolo Di Paolo, autore di un saggio presente nel numero di "Bianco e Nero" dedicato a Monicelli - alcuni titoli memorabili nella filmografia del regista, da "L'armata Brancaleone" a "La grande guerra", dagli esordi sul set alle collaborazioni con gli sceneggiatori, gli attori, i produttori, i tecnici di un cinema italiano applaudito in tutto il mondo. 

Appuntamento ogni lunedi', dall' 8 febbraio sui social network della Casa del Cinema (Facebook, Twitter, Instagram) e sui profili Facebook del Centro Sperimentale di Cinematografia e della Cineteca Nazionale, in attesa di una visita dal vivo della mostra.

07/02/21

Libro del Giorno: "La casa di Parigi" di Elizabeth Bowen

 


Pubblcato anni fa in una versione tagliata dalla casa editrice Essedue, “La casa di Parigi”  è tornato in libreria pubblicato da Sonzogno nella collana diretta da Irene Bignardi e in  versione integrale, tradotto da Alessandra di Luzio accompagnato da una postfazione di Leonetta Bentivoglio.

Da molti considerato il capolavoro di Elizabeth Bowen (1899-1973) una delle più raffinate e importanti scrittrici del novecento anglosassone, irlandese che visse molto a Londra, affiliandosi al celebre circolo di Bloomsbury, profondamente ammirata da Virginia Woolf, "La casa di Parigi" è un romanzo vischioso, che avvolge come un incantesimo e conduce il lettore attraverso un misterioso viaggio nella psicologia e nei destini di pochi personaggi.

Siamo a Parigi, in inverno, la Grande guerra è finita da poco, aleggia sulla città un'atmosfera cupa e grigia. Alla Gare du Nord scende Henrietta, undici anni, con in mano la sua scimmietta di pezza. Viene a prenderla la signorina Fisher, un'amica di famiglia che la ospiterà per una intera giornata in un elegante appartamento, in attesa di farla ripartire per il Sud della Francia. 

In quella casa borghese, dal confortevole odore di pulito, Henrietta si imbatte in una gradita sorpresa: c'è un suo coetaneo, il fragile Leopold, avviato verso un futuro incerto. 

Tra i due bambini, estremamente sensibili e inquieti, dopo l'iniziale diffidenza, si accende la curiosità: di ciascuno nei confronti dell'altro, e di entrambi verso il misterioso mondo degli adulti. 

I due fanciulli, grazie agli indizi disseminati attorno a loro, rivivono, tra immaginazione e realtà, le tormentate storie d'amore dei grandi, in particolare quella scandalosa tra la madre di Leopold e il suo padre naturale. 

Acclamato come un classico al momento della pubblicazione (1935), "La casa di Parigi", oltre a mettere in scena una passione sentimentale, è un acuto studio psicologico e un esercizio di finezza letteraria sulla prima irruzione del dolore, sulla scoperta del sesso, sulla perdita dell'innocenza e sull'intrico delle conseguenze e del danno. 

Un romanzo importante, dalla cadenza solenne e dalla prosa jamesiana che desta ammirazione per la profondità psicologica e la capacità descrittiva, dei paesaggi naturali e umani.

Elizabeth Bowen

La Casa di Parigi

Sonzogno, Venezia 2016

Traduzione di Alessandra Di Luzio

Postfazione di Leonetta Bentivoglio

286 pagine, Euro 15

05/02/21

Una nuova mostra a Roma su Federico Fellini, nella sua Cinecittà


Federico Fellini fotografato da Elisabetta Catalano


A suggello delle celebrazioni per il suo Centenario, Federico Fellini ritorna nella 'sua' Cinecitta', con una grande mostra fotografica e multimediale, all'interno dello storico Teatro 1, che si inaugurerà il 10 febbraio e sarà visitabile fino al 21 marzo 2021. 

Un inedito percorso iconico che racconta il rapporto elettivo tra il geniale regista ed Elisabetta Catalano, regina del ritratto fotografico

Curata da Aldo E. Ponis con la direzione artistica di Emanuele Cappelli, testi, ricerca scientifica e iconografica a cura di Laura Cherubini e Raffaele Simongini, la mostra e' stata realizzata da Istituto Luce-Cinecitta' con il contributo della DG Cinema e Audiovisivo, e vive delle immagini dello straordinario Archivio Elisabetta Catalano. 

Fellini, che per le questioni dello sguardo aveva una precisione pressoché infallibile, amò farsi fotografare da Elisabetta Catalano lungo tutto un arco della sua vita, tra il 1963 e gli ultimi anni, stabilendo un'affinità elettiva fondata sui clic, sulla capacità comune di afferrare l'anima di un personaggio (di una persona) in un rapido movimento di camera

Un percorso di oltre 60 immagini, videoproiezioni, oggetti, spiegano gli organizzatori, che non vuole essere il semplice racconto di Fellini al lavoro sul set, ma fa vedere piuttosto il regista che diventa lui stesso soggetto dell'arte nelle mani di un'artista che lo capi' come solo un'immagine puo' fare. 

Ne emerge il ritratto di un Fellini inedito insieme a quello di una fotografa straordinaria, ritrattista di tutti i piu' grandi da Michelangelo Antonioni ad Anouk Aimee, da Susanna Agnelli ad Alighiero Boetti, da Bernardo e Attilio Bertolucci a Italo Calvino , da Claudia Cardinale a Gerard Depardieu Giangiacomo ed Inge Feltrinelli, Amintore Fanfani. Dustyn Hoffman, Audrey Hepburn fino ad Andy Warhol e Zaha Hadid, solo per citarne alcuni. 

Occhi unici, quelli di Elisabetta, ai quali Fellini più di altri amò far vedere il proprio sguardo. 

03/02/21

Scoperte in Egitto Mummie dalla lingua d'oro !




"Foglie d'oro a forma di lingua" piazzate nella bocca di mummie di epoca greco-romana "in un uno speciale rituale per assicurare" ai defunti "la capacita' di parlare nell'Aldila' davanti al tribunale d Osiride", dio egizio della morte e dell'Oltretomba, sono state rinvenute in scavi condotti a ovest di Alessandria. 

Lo riferisce un post su Facebook pubblicato dal ministero delle Antichita' egiziano.

La scoperta e' stata fatta da "una missione egitto-dominicana dell'Universita' di Santo Domingo guidata da Kathleen Martinez", premette il post precisando che gli scavi sono stati condotti presso il "tempio di Taposiris Magna". 

Sono state rinvenute 16 tombe scavate nella roccia, "popolari in era greco-romana", con all'interno "un certo numero di mummie in cattivo stato di conservazione". 

 Taposiris Magna, come noto, e' una citta' fondata dal faraone Tolomeo II Filadelfo tra il 280 e il 270 a.C e il cui nome significa "grande tomba di Osiride", che Plutarco identifica con un tempio egizio della citta'. 


02/02/21

Che fine ha fatto il famoso Colosso di Nerone - alto 35 metri - che si trovava di fianco al Colosseo?

 

Ricostruzione del Colosso di Nerone 


Il Colosso di Nerone andato perduto

 

Un basamento rettangolare in peperino (roccia magmatica che i romani trasportavano dalla Tuscia) di grandi dimensioni (17 metri per 15) è quanto rimane del sito dove sorgeva l’imponente statua dedicata a Nerone, la più grande mai realizzata in bronzo.

Il parallelepipedo, provato dalle ingiurie del tempo, oggi praticamente ignorato dai turisti e dai visitatori che a migliaia ogni giorno si mettono in fila per visitare l’Anfiteatro Flavio, reca una iscrizione in marmo: “Area del basamento del Colosso di Nerone”. In effetti non si tratta (e non si trattava) propriamente del basamento, ma delle fondamenta di quella possente struttura di supporto che doveva sostenere la gigantesca statua dell’imperatore.

Commissionata allo scultore greco Zenodoro, era alta ben 35 metri e costituiva il massimo tributo alla divinizzazione di sé che Nerone aveva voluto per autocelebrarsi.

Originariamente il colosso era posizionato nel vestibolo della Domus Aurea, la residenza imperiale, proprio per incutere soggezione e timore nei visitatori, e raffigurava l’imperatore con la testa radiata e nelle vesti del Sole. Dopo la sua caduta, la grande statua dalla Velia – dove Adriano fece innalzare il tempio di Venere e Roma – fu trasferita nell’area dell’anfiteatro che Vespasiano fece costruire.  Il trasporto eccezionale, riferiscono le cronache dell’epoca, fu effettuato grazie all’utilizzo di ben dodici elefanti, incaricati di trainare il Colosso. L’immagine del Sole divinizzata rimase così nella sua nuova collocazione per diversi secoli. L’imperatore Commodo decise perfino di “ritoccarla”, modificandone i lineamenti perché assomigliasse a lui.

Fu proprio comunque la presenza inconfondibile del Colosso – sembra – a conferire per assonanza il nome Colosseo all’enorme Anfiteatro Flavio, ancora oggi simbolo di Roma. Ma che fine ha fatto?

Purtroppo non si sa esattamente. L’ultima citazione che lo riguarda è nel Cronografo del 354 d.C., il calendario illustrato opera di Furio Dionisio Filocalo. 

Nessuna cronaca successiva lo riporta, facendo propendere per l’ipotesi che il Colosso, vero simbolo del potere imperiale romano, e della sua tracotanza, sia stato abbattuto e distrutto già all’epoca delle prime invasioni barbariche, e le enormi parti in bronzo subito fuse per realizzarne armi. Della statua si persero definitivamente le tracce, come della sua omologa di Rodi considerata una delle sette meraviglie dell’umanità.


Tratto da: Fabrizio Falconi, Roma Segreta e Misteriosa, Newton Compton, Roma, 2015


La targa marmorea dell'Area del Basamento del Colosso di Nerone, nei pressi del Colosseo


01/02/21

Imparare a gestire le frustrazioni, non a evitarle

 


Dal momento in cui l'uomo, l'essere umano viene gettato nell'esistenza, per dirla con Heidegger, egli è chiamato a partecipare a una partita impari, che non potrà mai vincere contro tre avversari che hanno mezzi più potenti dei suoi: la natura (ivi compreso "il caso"), la massa degli altri uomini e se stesso.
Dal momento che gli avversari sono così potenti, l'uomo può aspirare solo a parziali - e molto limitate - vittorie, con esclusione degli eroi e dei santi che suppliscono al fallimento con un sovradimensionamento della parte dell'onore e della moralità.
E dal momento che le sconfitte saranno molte, l'esperienza più comune dell'essere umano è quella della frustrazione (cioè del non esaudimento dei propri desideri/aspirazioni).
Ecco dunque che nella vita la cosa più importante da insegnare non sarebbe la fuga o la rimozione dalle/delle frustrazioni. Ma la loro gestione.
Saper gestire le frustrazioni è ciò che rende un essere umano evoluto nel suo cammino durante la vita.
Ci sono molti modi per imparare a gestire le frustrazioni. La tradizione orientale punta alla radice: per eliminare le frustrazioni si punta alla riduzione crescente fino alla totale eliminazione dei desideri, ritenuti inganni della mente e dell'io.
In Occidente tutto è più complicato, perché l'occidentale non sa - o non può - rinunciare facilmente alle aspirazioni e ai desideri.
L'occidentale è antropologicamente aduso a costruire la propria individualità sulla realizzazione dei desideri e delle aspirazioni.
L'unica via che si presenta allora davanti all'essere occidentale è quella del discernimento, dell'imparare a districarsi nella giungla dei desideri e delle aspirazioni (e delle relative frustrazioni).
La saggezza risiede in questa lezione che si impara giorno per giorno, che insegna a giocare con la propria frustrazione come con l'istinto di un animale che si deve con dolcezza e fermezza addomesticare realizzando il prototipo di una giusta misura.


Fabrizio Falconi - 2021 

31/01/21

Poesia della Domenica - "Profezia" di Pier Paolo Pasolini





Essi sempre umili 
Essi sempre deboli 
essi sempre timidi 
essi sempre infimi 
essi sempre colpevoli 
essi sempre sudditi 
essi sempre piccoli, 
essi che non vollero mai sapere, essi che ebbero occhi solo per implorare, 
essi che vissero come assassini sotto terra, essi che vissero come banditi 
in fondo al mare, essi che vissero come pazzi in mezzo al cielo, 
essi che si costruirono 
leggi fuori dalla legge, 
essi che si adattarono 
a un mondo sotto il mondo 
essi che credettero 
in un Dio servo di Dio, 
essi che cantavano 
ai massacri dei re, 
essi che ballavano  
alle guerre borghesi , 
essi che pregavano 
alle lotte operaie...

Pier Paolo Pasolini (1951)

30/01/21

Dopo 3 lunghi mesi riapre finalmente da lunedì 1 febbraio la splendida Galleria Borghese!


La Galleria Borghese riapre al pubblico da lunedi' 1 febbraio e lo farà con Ci siete mancati, una rassegna di due settimane di eventi speciali.

Tutte le mattine alle ore 12 la direttrice Francesca Cappelletti, in alternanza con uno storico dell'arte o un restauratore del Museo, racconta brevemente il dipinto Danza campestre di Guido Reni, appena acquisito, le sue vicende e la riscoperta sino al ritorno nella collezione del cardinale Scipione Borghese.

L'appuntamento quotidiano è nella Loggia del Lanfranco dove il quadro è temporaneamente allestito prima della sua collocazione definitiva che avverrà nei prossimi giorni per contestualizzare l'opera accostandola a quelle di artisti bolognesi, da Annibale Carracci a Domenichino, fondamentali per comprendere la fase di sperimentazione sul paesaggio come genere pittorico nei primi anni del Seicento. 

Inoltre, tutti i pomeriggi alle ore 16 sono previste delle mini visite tematiche a sorpresa nelle sale del museo, tutte riaperte, realizzate dai funzionari della Galleria, in attesa di riprendere al piu' presto l'attività didattica. 

Danza Campestre, attribuito a Guido Reni



29/01/21

"Quando ho cominciato ad amarmi" di Charles Chaplin

 


Quando ho cominciato ad amarmi -  Charles Chaplin

Quando ho cominciato ad amarmi davvero e ad amare,
mi sono reso conto che il dolore e la sofferenza emotiva
servivano a ricordarmi che stavo vivendo in contrasto con i miei valori.
Oggi so che questa si chiama autenticità.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero e ad amare,
ho capito quanto fosse offensivo voler imporre a qualcun altro i miei desideri,
pur sapendo che i tempi non erano maturi e la persona non era pronta,
anche se quella persona ero io.
Oggi so che questo si chiama rispetto.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero e ad amare,
ho smesso di desiderare una vita diversa
e ho compreso che le sfide che stavo affrontando erano un invito a migliorarmi.
Oggi so che questa si chiama maturità.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero e ad amare,
ho capito che in ogni circostanza ero al posto giusto e al momento giusto
e che tutto ciò che mi accadeva aveva un preciso significato.
Da allora ho imparato ad essere sereno.
Oggi so che questa si chiama fiducia in sé stessi.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero e ad amare,
non ho più rinunciato al mio tempo libero
e ho smesso di fantasticare troppo su grandiosi progetti futuri.
Oggi faccio solo ciò che mi procura gioia e felicità,
ciò che mi appassiona e mi rende allegro, e lo faccio a modo mio, rispettando i miei tempi.
Oggi so che questa si chiama semplicità.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero e ad amare,
mi sono liberato di tutto ciò che metteva a rischio la mia salute: cibi, persone, oggetti, situazioni
e qualsiasi cosa che mi trascinasse verso il basso allontanandomi da me stesso.
All’inizio lo chiamavo “sano egoismo”, ma
oggi so che questo si chiama amor proprio.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero e ad amare,
ho smesso di voler avere sempre ragione.
E cosi facendo ho commesso meno errori.
Oggi so che questa si chiama umiltà.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero e ad amare,
mi sono rifiutato di continuare a vivere nel passato
o di preoccuparmi del futuro.
Oggi ho imparato a vivere nel momento presente, l’unico istante che davvero conta.
Oggi so che questo si chiama benessere.

Quando ho cominciato ad amarmi davvero e ad amare,
mi sono reso conto che il mio Pensiero può
rendermi miserabile e malato.
Ma quando ho imparato a farlo dialogare con il mio cuore,
l’intelletto è diventato il mio migliore alleato.
Oggi so che questa si chiama saggezza.

Non dobbiamo temere i contrasti, i conflitti e
i problemi che abbiamo con noi stessi e con gli altri
perché perfino le stelle, a volte, si scontrano fra loro dando origine a nuovi mondi.
Oggi so che questa si chiama vita.


Charles Chaplin

27/01/21

Oggi, il 27 gennaio di 264 anni fa nasceva a Salisburgo il grande genio di Wolfang Amadeus Mozart


Oggi, 27 gennaio, la data di nascita - e l'anniversario -  del grande Wolfgang Amadeus Mozart.  Lo ricordiamo con questo articolo di di Antonino Gulisano di QDC 


Wolfgang Amadeus Mozart è nato il 27 gennaio 1756 a Salisburgo ed era già considerato un genio da bambino. Fece i suoi primi tentativi di composizione alla tenera età di sei anni. Era figlio di Leopold Mozart, istruttore di violino, compositore di corte e vicedirettore musicale alla corte del principe arcivescovo di Salisburgo. 

Uno dei più grandi compositori di tutti i tempi. Ha creato uno stile distinto, fondendo tradizione e contemporaneità. Una musica che lo fa amare ancora oggi. 

Creatore di composizioni di straordinario valore, viene annoverato tra i più grandi geni della storia della musica per via del suo eccezionale talento, tanto raro quanto precoce. 

Incluso nei massimi esponenti del classicismo musicale settecentesco, insieme a Franz Joseph Haydn e Ludwig van Beethoven costituisce la triade alla quale, nella letteratura musicologica, alcuni autori fanno riferimento come prima scuola di Vienna. 

Mozart ha creato ventiquattro opere tra cui Il flauto magico, Don Giovanni, Le nozze di Figaro, diciassette messe e oltre cinquanta sinfonie. Ma il lavoro di Mozart si è esteso a tutti gli stili e i tipi di musica. Ha saputo fondere elementi tradizionali e contemporanei per creare il proprio stile distintivo, caratterizzato da una varietà tematica e tonale, combinata con un alto grado di disciplina formale. Le composizioni di Mozart vivono dei loro contrasti melodici, ritmici e dinamici. 

Dopo la sua rottura con l’arcivescovo di Salisburgo, Mozart si trasferì a Vienna nel 1781, dove un anno dopo sposò la cantante Constanze Weber. Nel 1787 fu nominato compositore della camera di corte. Mozart morì nel 1791 mentre lavorava al suo famoso Requiem

A Salisburgo, al terzo piano di Getreidegasse n. 9, il 27 gennaio 1756, ebbe inizio una storia ricca di eventi prodigiosi: Wolfgang Amadeus Mozart emise i suoi primi… suoni. Motivo sufficiente, già nel 1880, per trasformare la Hagenauer Haus in un museo che rende omaggio ai primi anni di vita del maestro. 

A Vienna, Wolfgang Amadeus Mozart raggiunse l’apice del successo nella capitale austriaca e molti monumenti viennesi sono legati al suo mito. A iniziare dalla reggia di Schönbrunn, dove, nel 1762, i bambini Mozart furono ammessi a suonare al cospetto dell’imperatrice Maria Teresa. Dopo il concerto il piccolo Wolfgang saltò in braccio all’imperatrice, l’abbracciò e la baciò. Nel 1768 Maria Teresa concesse al dodicenne Mozart un’udienza di due ore nella Hofburg, la residenza degli Asburgo. Nello stesso luogo, nel 1781, il musicista diede un concerto in onore del duca di Württemberg e trascorse la notte di Natale dello stesso anno con l’imperatore Giuseppe II, figlio di Maria Teresa, negli appartamenti imperiali. 

In Austria sono tante le occasioni in cui godere la musica del grande genio. A iniziare ovviamente da Salisburgo. Qui, ogni anno, tra fine gennaio e inizio febbraio, il periodo intorno all’anniversario della nascita di Mozart, la Fondazione Mozarteum organizza la Settimana Mozartiana. 



26/01/21

David Bowie, Sukita e la storia della iconica foto di copertina dell'album "Heroes"



David Bowie non lo conosceva nemmeno, non sapeva chi fosse. Ma decise comunque di andare ad un suo concerto.

E lo fece perché rimase colpito, attratto, dal manifesto dell'evento: c'era Bowie, con una gamba alzata e su uno sfondo nero

Inizia tutto da li'.

E' da quel giorno che le foto di Masayoshi Sukita hanno iniziato a raccontare i 'volti' di Bowie. Foto che qualche tempo fa sono state esposte a Palazzo Fruscione, a Salerno, in una retrospettiva, "Stardust Bowie by Sukita", che raccontava non solo il quarantennale rapporto professionale tra i due ma anche il tempo che Bowie ha vissuto e in parte ha anticipato. 

"Vedere David Bowie sul palco mi ha aperto gli occhi sul suo genio creativo. In quella circostanza osservai Bowie esibirsi con LouReed ed era davvero potente. Bowie era diverso dalle altre rock star, aveva qualcosa di speciale che dovevo assolutamente catturare con la mia macchina fotografica", racconto' Sukita che, dopo quel concerto, riuscì ad incontrare Bowie di persona grazie all'aiuto dell'amica e stylist Yasuko Takahashi, pioniera di questo mestiere in Giappone nonche' mente dietro alle prime sfilate di londinesi di Kansai Yamamoto, lo stilista che disegno' i costumi di scena di Bowie durante il periodo di Ziggy Stardust, ritratti anche nelle foto in mostra. 

I due si incontrarono, non si parlarono quasi durante il servizio fotografico, divisi dalla lingua. Ma scattò qualcosa. 

Nel 1973 Sukita ritrae di nuovo Bowie, sia negli Stati Uniti che durante il suo primo tour in Giappone, ma l'incontro indubbiamente piu' significativo avviene nel 1977 quando Bowie torna a Tokyo per la promozione dell'album "The Idiot" di Iggy Pop, che aveva prodotto. 

Sukita segue i due per la conferenza stampa promozionale e i concerti, ma durante un day off chiede a Bowie e Iggy Pop di posare per lui in una breve sessione fotografica

In appena due ore, una per ogni artista, Sukita scatta 6 rullini e realizza anche la fotografia che non sapeva sarebbe divenuta la celebre copertina dell'album "Heroes". 


25/01/21

E' morto Alberto Grimaldi, uno dei più grandi produttori del Cinema Italiano

Alberto Grimaldi con Marlon Brando ai tempi di Queimada, 1969


All’età di 95 anni è morto il produttore Alberto Grimaldi. Ritiratosi a Miami, era nato a Napoli nel 1925.

Fondatore della PEA, Grimaldi si affermò negli anni Sessanta con gli Spaghetti Western, realizzando quelli che ormai sono classici del genere come Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto, il cattivo (1966) di Sergio Leone, La resa dei conti (1966) e Faccia a faccia (1967) di Sergio Sollima.

Dalla fine degli anni Sessanta Grimaldi divenne uno dei principali produttori del cinema d’autore. Dal 1968, a partire dall’episodio Toby Dammit di Tre passi nel delirio, iniziò a lavorare con Federico Fellini, un sodalizio che proseguì con Fellini Satyricon (1969), Il Casanova di Federico Fellini (1976) e Ginger e Fred (1986). Fondamentale la collaborazione con Pier Paolo Pasolini, di cui Grimaldi produsse tutti i film da Il Decameron (1970) all’ultimo Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975).

Un capitolo a parte merita l’avventura con Bernardo Bertolucci. Con la United Artists, Grimaldi realizzò Ultimo tango a Parigi (1972) e fu coinvolto, insieme a Bertolucci, nella lunga e tormentata vicenda legale, dal sequestro della pellicola alla condanna fino al rocambolesco salvataggio di una copia. Nonostante lo scandalo internazionale, il film riuscì a incassare 36 milioni sul mercato americano e oltre 90 in tutto il mondo, ottenendo due nomination all’Oscar. Nel 1976 fu la volta del kolossal Novecento.

Grimaldi produsse anche Un tranquillo posto di campagna di Elio Petri (1969), Storie scellerate di Sergio Citti (1973), Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi (1976), Viaggio con Anita di Mario Monicelli (1979). L’ultimo suo grande progetto è Gangs of New York di Martin Scorsese (2002).

fonte: il cinematografo.it

Alberto Grimaldi con Federico Fellini 



22/01/21

Platone esoterico: le incredibili proprietà del numero 5040


Nei Dialoghi di Platone, diversi sono i brani in cui affiora una concezione pitagorica del numero. Il più celebre è quello del Timeo, che, in accordo con l’astronomia pitagorica, vede nella struttura del cosmo un’armonia retta da proporzioni matematiche.

Nel Libro V de Le Leggi, in cui Platone descrive la sua Città Ideale, viene indicato 5040 come numero di abitanti. E così egli giustifica la sua scelta:

“Adottiamo questo numero per le ragioni di convenienza ch’esso ci offre. Territorio e abitazioni siano del pari divisi nel medesimo numero di parti, in modo che ad ogni uomo corrisponda una parte di essi. L’intiero numero si divida dapprima in due parti, poi in tre: esso è divisibile anche per quattro, per cinque, e così di seguito fino a dieci. In fatto di numeri bisogna che ogni legislatore sappia per lo meno quale numero riesca maggiormente utile a tutti gli stati. Orbene questo numero è quello che contiene moltissimi divisori e soprattutto consecutivi. Il numero infinito è pienamente suscettibile di tutte le divisioni; il numero cinquemila e quaranta non può offrire, sia per la guerra sia per ogni sorta di convenzioni e commerci del tempo di pace, così per le contribuzioni come per le distribuzioni, più di cinquantanove divisori, di cui consecutivi quelli da uno fino a dieci.”

(cit. da Platone, Tutte le opere, trad. di G. Pugliese Carratelli, Sansoni, Firenze 1974, pag. 1249).

Il numero 5040 è pari a 7!, il prodotto dei numeri interi da 1 a 7, che poi è anche il numero delle permutazioni di 7 elementi. Platone ne apprezza la divisibilità per tutti i numeri da 1 a 10, che costituisce un grande vantaggio al fine della spartizione dei beni tra gli abitanti

Lo storico E.T. Bell va oltre nell’interpretazione del 5040, che egli chiama un “numero enciclopedico”. 

Egli sottolinea che esso comprende, fra i suoi divisori, il “7 super-sacro, per non parlare del femminile 2, del maschile 3, del giusto 4, dei 5 solidi regolari, e del perfetto 6.” I significati dei numeri sono tratti dal misticismo pitagorico. 

Bell rileva anche che 7 sono i colli che, secondo Platone, devono essere superati per giungere alla sapienza. Ed inoltre “Ogni numerologo cosmico osserverà che 5040 ha esattamente 60 divisori, mentre 60 ne ha esattamente 12, e 12 ne ha il numero perfetto di 6, e 6 ne ha il numero giusto di 4, mentre 4 ne ha esattamente 3, e 3 ne ha esattamente il numero femminile di 2, che ne ha esattamente 2, e così via, 2-2-2…”

Questa sequenza, piena di numeri cari ai Pitagorici, termina con una ripetizione infinita, una “eterna ricorrenza”: la circolarità del tempo, incarnata dal serpente che si morde la coda, apparteneva alla visione babilonese dell’universo, e venne ripresa da Platone. È anche significativo il fatto che la successione numerica descritta sopra si stabilizzi esattamente dopo il quarto passo, in corrispondenza, cioè, del simbolo della giustizia. Il numero 3 rappresenterebbe la Famiglia Ideale della Città Ideale, il 12 sarebbe un’esplicita allusione allo zodiaco.

Bell vuole vedere, inoltre, un riferimento al numero nuziale, che secondo alcuni è da identificare con 12.960.000, cioè la quarta potenza di 60, e di cui 5040 è un divisore. 

Quel numero, che figura anche nella matematica babilonese, possedeva un notevole valore cosmologico, in quanto divisibile per 360 (la durata in giorni dell’anno degli antichi) e per 36.000 (il numero di giorni di 10´10 anni, dove 10 è il sacro numero della tetractys). Secondo l’astronomia pitagorica (e forse già per l'astronomia babilonese), 36.000 anni era la durata dell’anno cosmico, ossia la durata di un ciclo completo di precessione degli equinozi.  

Come osserva il Chambry, inoltre, 60 è il prodotto di 3, 4 e 5, cioè dei numeri della prima terna pitagorica. Come Platone asserisce nella Repubblica, l’altra sua opera a contenuto politico, questi tre numeri governerebbero, secondo un complesso calcolo aritmetico, i periodi favorevoli alla generazione dei figli

Un altro brano dello stesso dialogo descrive la struttura del cosmo, che Platone immagina formata da una serie di sfere cave, che si incastrano perfettamente l’una nell’altra, e rappresentano i cieli dei pianeti, secondo l’ordine stabilito da Pitagora: dall’esterno verso l’interno si trovano le stelle fisse, Saturno, Giove, Marte, Mercurio, Venere, il Sole, la Luna. 

Nel dialogo La Repubblica Platone insiste molto sull’importanza dell’apprendimento della matematica nella formazione della classe politica e militare dello stato ideale. Ecco cosa fa dire a Socrate:

“Sarà perciò conveniente, Glaucone, di rendere obbligatoria questa conoscenza, e persuadere quelli, che nella città dovranno coprire i più alti uffici, di dedicarsi al calcolo e studiarlo non superficialmente, ma fino a pervenire con la pura intelligenza a contemplare la natura dei numeri, non già come i commercianti e i bottegai per servirsene a comperare e vendere, ma in vista della guerra, e per facilitare all’anima stessa la possibilità di volgersi dal mondo sensibile alla verità ed all’essenza.”[…]

E Glaucone:

“Per quanto almeno si riferisce […] alle operazioni guerresche, è evidente che ci conviene, giacché e nel porre gli accampamenti e nell’occupare certe posizioni e nell’ammassare o spiegare le truppe, come in tutte le altre formazioni che può assumere un esercito in battaglia o in marcia, un generale esperto di geometria sarà in miglior condizione di chi la ignora.

Risponde Socrate:

“Veramente […] per questo basterebbe anche una cognizione elementare di geometria e di calcolo. Bisogna però esaminare se la parte maggiore e più alta di questa scienza non tenda in qualche modo a quest’altro fine: a permetterci, intendo, di scorgere più facilmente l’idea del bene. E, secondo me, tende a tal fine tutto ciò che costringe l’anima a volgere lo sguardo verso quel luogo ov’è l’essere tra tutti gli altri sovranamente felice, che l’anima deve contemplare ad ogni costo.”

(cit. da Platone, Repubblica, Libro VII (525-527) in: Tutte le opere, trad. di G. Pugliese Carratelli, Sansoni, Firenze 1974, pagg. 1025-1026)



21/01/21

L'incredibile foto di James Dean davanti alla tomba del bisnonno - Un macabro scherzo del caso



Il destino a volte, ama davvero giocare in modo tragico e beffardo.

In una sorta di macabra premonizione, nell'inverno del 1953 James Dean si fa fotografare, per un documentario davanti alla tomba del bisnonno Cal Dean

Meno di due anni dopo il protagonista de La Valle dell'Eden chiamato ad essere interpretato da James Dean si chiama proprio 'Cal'. 

Al termine delle riprese di quel film, l'unico uscito durante la vita dell'attore, Dean muore in un incidente stradale.

Ma non basta.

Il documentario realizzato su James Dean era firmato dallo sceneggiatore Stewart Stern e diretto da Robert Altman, proprio all'inizio della sua carriera, ed era una occasione per approfondire la vita, l'arte e la leggenda del giovane attore.

Rivisto oggi, il documentario appare piuttosto noioso, con un larghissimo uso di fotografie in bianco e nero. E con interviste di testimoni, amici o familiari di Dean, intervistati dallo stesso Altman e dal co-regista George W. George. 

Ma il pezzo migliore di quel documentario resta proprio il nastro della registrazione in cui Dean, durante un colloquio seduto al tavolino con i suoi interlocutori.

La foto con la lapide e il nome di Cal diventa immediatamente famosa, al punto che finisce anche in un videoclip di Morrissey per la sua canzone "Suedehead" , che è un omaggio all'attore che fonde con i suoi personaggi per divenire una entità terza, uno completamente cinematografico. 


19/01/21

C'è ancora qualcuno che dice "Non so" ? Eppure è questa la saggezza



Viviamo tempi nei quali, obnubilati dalle proprie convinzioni su tutto, che difendiamo a ogni costo e sempre anche quando esse poggiano sul nulla, nessuno sembra essere più capace di dire "Non so".  Eppure ammettere la propria ignoranza o indecisione su questioni non semplici è una vera e propria fonte di saggezza come insegna questo antichissimo Detto dei Padri del Deserto.


Non so.

Una volta giunsero dall'abate Antonio dei vecchi e con loro c'era l'abate Giuseppe. Volendo l'anziano metterli alla prova, propose loro un passo delle Scritture e cominciò a chiedere, dal più giovane, di quale luogo si trattasse. Ognuno rispondeva come poteva. Il vecchio replicava: "Non ci siamo." Alla fine chiese all'abate Giuseppe: "Che ne pensi ?" . Egli rispose "Non so".

Allora l'abate Antonio disse: "Sicuramente l'abate Giuseppe ha trovato la via, perchè ha detto 'Non so' ".

Detti dei padri del deserto, Antonio, 17 (scritto verso 290 d.C.)

18/01/21

Che cos'è la coscienza umana? Perché l'uomo ha coscienza di se stesso? Dove ha sede la coscienza? Un grande mistero




Il mistero della coscienza, del fatto che l'essere umano possieda una coscienza resta uno di quelli più grandi, forse il più grande in assoluto che riguardi la vita biologica.  

Decenni di studi scientifici e di nuove incredibili acquisizioni e conoscenze da parte delle neuroscienze non hanno spostato di un centimetro la questione e soprattutto la nostra assoluta ignoranza sull'argomento, su cioè cosa sia la coscienza umana e da dove essa derivi. 

Lo spiega come forse meglio non si potrebbe Arnaldo Benini (Ravenna, 1938), docente di neurochirurgia e neurologia all'Università di Zurigo e autorevole commentatore del Sole 24 Ore Domenicale, in queste poche righe: 

* La situazione molto semplicemente è questa: nel cervello non s'è trovato nessun organo con le caratteristiche che si attribuiscono all'Io, cioè alla coscienza. E dopo più di un secolo e mezzo di ricerche ci è rassegnati all'evidenza che l'autoreferenzialità della coscienza che indaga se stessa, non le consente di capirsi. Oggi è opinione largamente condivisa dai neuroscienziati che la natura della coscienza non è alla portata della scienza e ancora meno della filosofia della mente, che, secondo la neurobiologa e neurofilosofa Patricia S. Churchland, ha riempito biblioteche senza spiegare nulla. Ancora oggi è valido il limite conoscitivo della coscienza autoreferenziale (non sappiamo nulla di cosa sia la coscienza e più in generale di cosa sia la vita) che dal neurobiologo Emil du Bois Reymond fu sintetizzato con la parola: "Ignorabimus". *


17/01/21

La poesia della domenica: "Tutto si perde" di Angelo Maria Ripellino

 




Tutto si perde
  Tutto si perde in un vischioso, amorfo disperato brulichio di amebe, in un nauseante pantano di miele. Tutto s’ingolfa in un giallo, in un putrido magma di cisposa fanghiglia, naufraga nella morchia d’una gora, tra un funesto corale di gufi. Tutto il tuo fervore, la tua fretta d’incollare i frantumi della vita, tutto l’entusiasmo con cui edifichi in ore felici viadotti di immagini, teatrini di parole imbellettate, tutto è corroso dall’indifferenza, dalla pigrizia, dal cruccio di chi ti circonda. Tutto s’accartoccia e si deforma nello specchio ricurvo dell’accidia, tutto raggela in un abulico stupore, come una vecchia città spaventata. E intanto da ogni piega dello spazio ammicca, guercio e beffardo, il Burlesco, intanto squilla sempre più vicina la lunghissima tromba del Giudizio.


Angelo Maria Ripellino (Palermo, 4 dicembre 1923 – Roma, 21 aprile 1978)

15/01/21

Ma cos'era esattamente - e come era fatta - l'Arca dell'Alleanza?



Si continua a parlare, ovunque nei siti più o meno rigorosi sui temi di archeologia e misteri, della famosa Arca dell'Alleanza, sulla quale anche il cinema, dai tempi di Indiana Jones e anche prima, ha favoleggiato a lungo. 

Ma che cosa era esattamente l'Arca dell'Alleanza, in pochi veramente lo sanno. 

Sarà bene dunque ripassare: 

L'Arca dell'Alleanza (in ebraico ארון הברית, ʾĀrôn habbərît, pronuncia moderna /aˌʀon habˈʀit/), secondo la Bibbia, era una cassa di legno rivestita d'oro e riccamente decorata, la cui costruzione fu ordinata da Dio a Mosè, e che costituiva il segno visibile della presenza di Dio in mezzo al suo popolo.

L'Arca è descritta dettagliatamente nel libro dell'Esodo (25, 10-21; 37, 1-9): era una cassa di legno di acacia rivestita d'oro all'interno e all'esterno, di forma parallelepipeda, con un coperchio (propiziatorio) d'oro puro sul quale erano collocate due statue di cherubini anch'esse d'oro, con le ali spiegate (cherubini di tradizione ebraica, diversi da quelli di tradizione cristiana). 

Le dimensioni erano di due cubiti e mezzo di lunghezza, un cubito e mezzo di larghezza e altezza, ovvero circa 110×66×66 cm

Ai lati erano fissate con quattro anelli d'oro due stanghe di legno dorato, per le quali l'arca veniva sollevata quando la si trasportava

All'interno della cassa erano conservati un vaso d'oro contenente la manna, la verga di Aronne che era fiorita e le Tavole della Legge. (Ebrei 9:4;). 

Tuttavia, al momento dell'inaugurazione del Tempio di Salomone non conteneva altro che le Tavole della Legge (Deuteronomio 10, 1-5; 1 Re 8, 9; 2 Cronache 5, 2-10). 

Il compito di trasportare l'arca era riservato ai leviti: a chiunque altro era vietato toccarla

Quando Davide fece trasportare l'arca a Gerusalemme, durante il viaggio un uomo di nome Uzzà vi si appoggiò per sostenerla, ma cadde morto sul posto (2 Samuele 6, 1-8, 2 Cronache 13, 9-10). 

Secondo la tradizione l'arca veniva trasportata coperta da un telo di pelle di tasso coperto da un ulteriore telo di stoffa turchino (Num. 4:6) e, quando il popolo ebraico si fermava, veniva posta in una tenda specifica, definita "Tenda del Signore" o "Tenda del convegno" senza che venisse mai esposta al pubblico, se non in casi eccezionali. 

Inoltre la leggenda vuole che l'arca, in alcune situazioni, si adornasse di un alone di luce e che da essa scaturissero dei lampi di luce divini, delle folgori, capaci di incenerire chiunque ne fosse colpito e nel caso non avesse rispettato il divieto di avvicinarvisi; infine, tramite l'arca, Mosè era in grado addirittura di parlare con Dio che compariva seduto su un trono fra i due cherubini che ornavano il coperchio e che rappresentano l'angelo Metatron e l'angelo Sandalphon.

fonte: wikipedia