04/10/20

La Capanna di Heidegger nella Foresta Nera

 

Martin Heidegger nella baita a Todtnauberg, 1968 FotoDigne Meller MarcoviczCourtesy Bildportal der Kultur-einrichtungen, Berlin © bpk / Digne Meller Marcovicz

LA CAPANNA DI HEIDEGGER NELLA FORESTA NERA

Nel corso del 1922 la moglie di Heidegger, Elfride, fece costruire a Todtnauberg (nella Foresta Nera) una baita (Hütte) dallo stile semplice. Il grande filosofo cominciò così a trascorrervi i periodi liberi dagli impegni accademici.
Qui, fra le altre cose, Heidegger compose la gran parte della sua opera capitale, "Essere e Tempo" (1927) al suono del vento che soffiava tra gli abeti della foresta intorno e sulle travi del tetto.
Heidegger amava visceralmente la Foresta, che utilizzò anche come metafora nella celebre descrizione dell'Essere:
L'Essere scrive è simile a una foresta buia e intricata, dentro la quale si è costretti a vagare lungo i suoi sentieri senza poterla cogliere in maniera oggettiva e distaccata. Saltuariamente, tuttavia, si approda a un diradamento, una «radura» che consente di averne una visuale più ampia pur dal suo interno.
A questa casa-capanna, il filosofo tornò durante tutta la vita, e ancor di più negli anni - difficili - del dopoguerra.
La baita nella foresta nera dove il filosofo scriveva le sue opere esiste ancora: è una modesta costruzione di circa 50 metri quadrati, realizzata tutta in legno poggiante su un basamento di pietre, senza acqua corrente.
Il filosofo e la moglie attingevano l’acqua da un piccolo fontanile poco distante.
Sulla fontana era incisa una stella scolpita nel legno posta come simbolo del sacro collegato ad ogni fonte.
La baita appartiene oggi agli eredi e non è possibile visitarla nell'interno.
E' comunque di semplicità spartana (poco più di una capanna), composta all’interno di quattro stanzette, con una stufa a legna centrale per riscaldarla e per cucinare.
Una piccola scrivania posta davanti ad una finestra che da sulla vallata è il luogo in cui il filosofo scriveva.
La baita è centrale, nel pensiero di Heidegger: simbolo per riflettere sul concetto di sradicamento; l’uomo moderno ha perso il suo rapporto con la terra, e non riesce nel mondo di oggi a ritrovare origine, appartenenza, casa.
Un razionalismo astratto e privo di radici è alla base del consumismo e della commercializzazione di ogni cosa e minaccia nelle fondamenta questo sentimento di appartenenza e con l'ambiente naturale.
Ad Heidegger comunque non riuscì, come avrebbe desiderato, morire in questo luogo. Morì invece a Friburgo a 87 anni nel 1976, poco dopo la morte di Hannah Arendt (1975).

Fabrizio Falconi - 2020
La capanna di Heidegger a Todtnauberg



03/10/20

Il destino tragico di Carole Lombard e l'amore di Clark Gable

 


Icona del cinema americano di sempre, Clark Gable, con il suo sguardo ammiccante e i baffetti così alla moda, all'epoca, era uno dei divi in assoluto più famosi a Hollywood, quando nel 1939 sposò Carole Lombard, attrice anche lei, ma più di tutto - nel clima di guerra di quegli anni - "patriota incandescente".
Fu proprio Carole a convincere il marito, Clark Gable, a "offrire i propri servigi" alla Casa Bianca, avviando insieme un tour di raccolta fondi in favore delle forze armate.
Alla fine del 1941, quando anche gli Stati Uniti d'America erano ormai coinvolti nella seconda guerra mondiale, Carole intraprese un giro propagandistico nell'Indiana, lo Stato nel quale era nata, per vendere obbligazioni di guerra.
Dopo qualche giorno, impaziente di tornare dal marito, decise di far ritorno a casa in aereo, rinunciando al treno, contrariamente a quanto avrebbe voluto sua madre Elizabeth Peters, che la accompagnava.
Era il 16 gennaio 1942 quando il velivolo si schiantò sulle Potosi Mountain, nei pressi di Las Vegas. Carole Lombard e sua madre morirono sul colpo; l'attrice aveva trentatré anni.
Sconvolto, Clark Gable pochi mesi dopo si arruola proprio nell'Aeronautica, forse inconsciamente per cercare di realizzare la stessa morte della moglie.
Nel 1943 partecipa a cinque missioni di bombardamento a bordo dei B-17 sulla Germania, sull'Olanda occupata e anche sul quartiere di San Lorenzo a Roma.
A ogni volo, sotto la tuta d'ordinanza, Gable indossa al collo una scatolina che contiene un gioiello della moglie.
Sopravvissuto alle missioni, ricevette due decorazioni, un'Air Medal ed una Distinguished Flying Cross.
Rientrato in patria al termine del conflitto, Gable non fu più la stessa persona. Anche se riprese a recitare, i suoi personaggi non erano più spensierati e spavaldi: la vitalità di un tempo era perduta. Lo scarso successo di film come Avventura (1945), I trafficanti (1947), Mogambo (1953) portò la Metro-Goldwyn-Mayer a non rinnovargli il contratto.
Fu un periodo negativo per l'attore, sia nel lavoro che nella vita privata.
Nel 1949 sposò Sylvia Ashley, dalla quale divorzierà dopo poco più di un anno di matrimonio, nel 1951. Poco più tardi conobbe Kay Spreckels, una donna che in qualche modo gli ricordava l'amata Carole Lombard, e la sposò nel 1955; fu un matrimonio riuscito e per Gable iniziò un nuovo periodo felice nella vita privata, che lo aiutò a ritrovare serenità e successo anche nella professione.
Clark Gable morì il 16 novembre del 1960 ed è attualmente sepolto accanto a Carole Lombard al Forest Lawn Memorial Park di Los Angeles.

Fabrizio Falconi - 2020

Fonti: Francesca Meloni, Quelle vite vissute ad alta quota, Domenica - Il sole 24 ore, 12 maggio 2019

02/10/20

Come Andy Murray scampò da bambino al Massacro della Scuola di Dunblane

 



Pochi sanno che il celebre Andy Murray, uno dei più grandi tennisti dell'ultimo decennio, e vincitore di tre tornei dello Slam (2 volte Wimbledon e un US Open), si salvò quando aveva solo 8 anni, dal massacro della scuola di Dunblane, la strage avvenuta il 13 marzo 1996 alla Primary School di Dunblane, in Scozia, dove un uomo armato, Thomas Watt Hamilton, uccise a colpi di pistola 16 scolari di età compresa tra i 5 e i 6 anni e la loro insegnante, prima di suicidarsi. Si tratta di uno dei peggiori massacri di questo genere avvenuti nel Regno Unito.
Alle 9.30 del mattino di quel giorno, un uomo di 42 anni, Thomas Watt Hamilton, armato di quattro pistole e munito di paraorecchie, fece irruzione nella palestra della Primary School di Dunblane, dove 29 bambini della prima elementare avevano da poco cominciato l'ora di ginnastica. Hamilton estrasse una dopo l'altra le pistole che aveva in dotazione, iniziando a sparare quasi immediatamente e facendo fuoco sui bimbi e sul personale docente: la mattanza durò circa due-tre minuti. Compiuta la strage, l'uomo rivolse la pistola contro di sé e si tolse la vita. Si calcola che Hamilton usò in tutto 105 proiettili.
Nel pomeriggio, il portavoce della polizia Louis Mann comunicò che i morti, oltre all'assassino, erano 17, 16 bambini e la loro maestra, Gwen Mayor. L'insegnante, che fu uccisa con sei pallottole (di cui una le aveva sfondato l'occhio destro), e 15 bambini erano morti sul colpo, mentre un altro bambino era deceduto dopo il ricovero in ospedale.
Per questo massacro la regina Elisabetta II d'Inghilterra proclamò il lutto nazionale.
L'esecutore della strage, Thomas Watt Hamilton, covava l'idea di vendicarsi dal 1975, anno in cui, ventunenne, fu cacciato dalla Stirling Scout Group, dov'era capo scout, per il sospetto di "attenzioni particolari" nei confronti dei bambini. Da allora, Hamilton iniziò a dedicarsi all'hobby delle armi da fuoco, anche se in questo passatempo incontrò spesso la diffidenza delle società di tiro, che sovente gli negarono la tessera. Dalla testimonianza di una vicina, che era entrata nella casa dell'assassino, si apprese che nella stanza di quest'ultimo stavano appese foto di ragazzini seminudi. Altri vicini raccontarono di aver visto molti giovani entrare ed uscire ogni giorno dalla casa di Hamiton.
Lo stesso Hamilton, cinque giorni prima della strage, aveva inviato un messaggio alla regina Elisabetta II, in cui c'era scritto: "Odio il mondo".
Tra i superstiti della strage, vi furono anche due future star del tennis, i fratelli Andy e Jamie Murray, all'epoca rispettivamente di otto e nove anni. I due fratelli Murray al momento della sparatoria si trovavano in palestra, ma riuscirono a salvarsi, nascondendosi sotto una cattedra. Nel 2004, Andy Murray dedicò la sua vittoria nel torneo juniores di Flushing Meadows proprio alle vittime della strage, che accomunò ai bambini caduti nella strage di Beslan.
Il tennista dichiarò:
«Di quel giorno ricordo poco. So che ho realmente capito l'enormità di quello che era successo - ha raccontato - solo tre o quattro anni dopo, quando il peggio era passato, la gente cominciava pian piano a riprendersi e la vita a tornare alla normalità.»
Andy Murray tornò a parlare del massacro di Dunblane nella sua autobiografia Hitting Back, pubblicata nel 2009. Parlò dell'omicida in questi termini:
«La cosa più orrenda è che conoscevamo tutti quel ragazzo. Mia madre gli dava spesso un passaggio. È stato nella sua auto. È ovviamente qualcosa di terribile sapere che hai avuto un omicida seduto nella tua auto. Accanto a tua madre. »
Andy Murray decise però di raccontare in pubblico quanto successo il 13 marzo 1996 per la prima volta soltanto nel 2013, in un documentario della BBC.
Fabrizio Falconi - 2020

Nelle foto, sopra: Andy Murray oggi e sotto: una foto di Murray bambino a otto anni, con la maglietta della scuola di Dunblane.






30/09/20

Herbert Von Karajan e l'ispirazione tra le nuvole

 


Herbert Von Karajan e l'ispirazione tra le nuvole

E' piuttosto nota la grande passione di Herbert Von Karajan per gli aerei. Era un pilota provetto.
Un episodio della sua vita è piuttosto illuminante:
Nel 1977 il grande direttore d'orchestra parte da Vienna a bordo del suo bireattore, diretto a Parigi, dove lo aspettano per un concerto di musica sinfonica dedicato a Beethoven.
L'aereo però attraversa una cellula temporalesca e tra quegli spaventosi tuoni, quei lampi, quella pioggia battente, Karajan trova l'ispirazione per eseguire la Quinta Sinfonia.
Mentre l'aereo sobbalza, il maestro tira fuori dal cruscotto il foglio delle carte aeronautiche e vi appunta sopra alcune annotazioni.
Il foglio fu poi ritrovato dall'assistenza di sala sul leggio, al termine di quella che molti descrissero come un'esecuzione straordinaria, com'è straordinario un temporale che arriva all'improvviso e sembra ingoiarti.

informazioni tratte da: Francesca Milano, Quelle vite vissute ad alta quota, Domenica - Sole 24 ore, 12 maggio 2019, p.33



29/09/20

L'Autunno del Patriarca. L'ultimo grande amore di Ungaretti, la giovane Bruna Bianco.

 


L'Autunno del Patriarca. L'ultimo grande amore di Ungaretti, la giovane Bruna Bianco.

Giuseppe Ungaretti incontrò l'attraente e intelligente "signorina" nel settembre del 1966 a San Paolo del Brasile, al termine di una lezione all'Università. La ragazza si era avvicinata, consegnando al professore/poeta un fascio di sue poesie
E un inaspettato amore si instaura e si declina in tutte le sue forme nonostante l'inaudita differenza d'età: Ungaretti aveva infatti 78 anni, Bruna soltanto ventisei.
Le 377 lettere scritte dal poeta a Bruna sono state fra l'altro di recente raccolte e composte in un volume ( G. Ungaretti, Lettere a Bruna, a cura di Silvio Ramat, Mondadori).
Bruna Bianco era una ragazza tutt'altro che eccentrica. Aveva vissuto a Canelli, in Piemonte, per poi trasferirsi con la famiglia a San Paolo del Brasile, dove si occupava della piccola azienda di famiglia.
Tra i due, il sentimento scoppia naturalmente e senza filtri. Bruna non ascolta le amiche che vogliono dissuaderla. Non calcola né prevede nulla per sé.
Ungaretti è felicemente scosso, si sente tornato fanciullo: "Sono un vecchio uomo che ha ancora un cuore caldo come quello di un fanciullo", scrive, " non ho mai provato una felicità tanto profonda, mai."
Le lettere che scrive a Bruna sono meravigliose, piene di incanto poetico, di essenziali descrizioni, di gioia quasi metafisica.
"Ho mutato la mia notte in prima mattina ai tuoi occhi", le scrive.
"Bruna Bianco, che oggi ha 80 anni e vive in Brasile, dove è diventata un importante avvocato, ha dato il consenso per la pubblicazione delle lettere, raccontando in una intervista:
"L'amore con Ungaretti è stato luce illuminante, fulminante e così ardente fisicamente che porto ancora oggi la fiamma di una passione vera, costante, che da allora ad oggi dà impulso a tutto quello che faccio, con gioia immensa di vita e sicurezza di raggiungere gli obbiettivi proposti."
Ungaretti definì Bianca, in una delle sue lettere: "mio vivente amore di Poesia".
La loro storia d'amore durò fino alla morte del poeta, tre anni dopo.
Ungaretti morì a Milano, nella notte tra il 1º e il 2 giugno del 1970, per una broncopolmonite. Il 4 giugno si svolse il suo funerale a Roma, nella Chiesa di San Lorenzo fuori le Mura, ma non vi partecipò alcuna rappresentanza ufficiale del Governo italiano.

notizie tratte in parte da: G.Ficara, "L' ''Antico" Ugaretti tra vita e poesia, in Domenica Sole 24 Ore, 26 novembre 2017, p. 27

28/09/20

Quando Steinbeck andò in Vietnam (e tornò disilluso)

 


Il 30 aprile 1975 la caduta di Saigon pone fine alla lunga guerra del Vietnam, un conflitto che nel corso degli anni '60 vide gli Stati Uniti sempre piu' direttamente coinvolti nel contenimento dell'espansione comunista nel sud est asiatico e che si concluse con la piu' grande sconfitta militare della storia degli Stati Uniti con costi umani altissimi

Nel conflitto perdono la vita 58 mila soldati americani, 250 mila soldati sudvietnamiti, 1 milione di combattenti tra vietcong e soldati nordvietnamiti, 2 milioni di civili

Tra il dicembre del 1966 e l'aprile del 1967 lo scrittore John Steinbeck, premio Nobel per la letteratura nel 1962, segue da vicino il conflitto al fianco dei militari americani in Vietnam, come inviato di guerra. 

Il suo reportage, 58 dispacci dal fronte, viene pubblicato sul quotidiano Newsday, sotto forma di lettere indirizzate ad Alicia, moglie di Harry Frank Guggenheim, proprietario ed editore del giornale. 

Anni dopo, le lettere di Steinbeck sono raccolte e pubblicate in un libro: "Vietnam in Guerra. Dispacci dal fronte".

Dal quale oggi è stato tratto un documentario: "Steinbeck e il Vietnam in guerra" (in onda stasera alle 22.10 su Rai Storia), che ruota intorno al reportage dello scrittore sulla guerra in Vietnam "vista da vicino", alla sua volonta' di raccontarla "in maniera oggettiva". 

Steinbeck e' convinto, come molti americani, che l'intervento militare in Vietnam serva a "difendere la liberta' di una piccola nazione coraggiosa dall'invasione comunista". 

Quella guerra avrebbe inoltre fatto emergere il meglio dell'America, e il Paese, affrontando quella sfida, si sarebbe rigenerato. 

Fino alla fine della sua permanenza al fronte e al suo ritorno a casa quando il grande scrittore cambia il suo giudizio su quella guerra, cresce la sua perplessità sulla necessita' di quel conflitto e nasce una nuova consapevolezza sulla sua illegittimità

Il documentario, ideato e diretto da Francesco Conversano e Nene Grignaffini, realizzato da Movie Movie per Rai Cultura, raccoglie le testimonianze di tre protagonisti italiani di quella stagione: il giornalista Furio Colombo che per anni, come corrispondente della Rai dagli Stati Uniti, ha raccontato la guerra in Vietnam attraverso una serie di reportage; Francesco Guccini che, ispirato da Bob Dylan, diventa presto in Italia "la voce della protesta", dell'antimilitarismo e del pacifismo, della cultura libertaria e punto di riferimento di una intera generazione; e, infine, la scrittrice Lidia Ravera che, ancora giovanissima e' partecipe, insieme a migliaia di giovani donne, delle lotte e delle manifestazioni di protesta che portano nell'Italia di quegli anni grandi cambiamenti sociali, civili e culturali, alla nascita del femminismo e alla rivoluzione sessuale.




27/09/20

La morte scampata (per miracolo) di Andy Warhol


La morte scampata (per miracolo) di Andy Warhol

La mattina del 3 giugno 1968 Andy Warhol si trovò puntata addosso una calibro 22 impugnata dalla ventottenne Valerie Solanas.
Solanas aveva scritto il manifesto (intitolato "Scum", cioè "Feccia" di un movimento che aveva come obiettivo lo smantellamento della società dominata dai maschi, che non fece mai proseliti e di cui rimase unico membro.
Solanas, dopo l'attentato identificata come femminista radicale affetta da schizofrenia paranoide, aveva avvicinato nelle settimane precedenti Warhol nella sua Factory, che si trovava al secondo piano di un edificio in Union Square.
La Factory era una sorta di tempio aperto delle arti, ed era facilissimo accedervi senza controllo. Nel grande spazio centrale dell'edificio Warhol lavorava alle sue grandi tele e ai set fotografici. Per molti era facile presentarsi, senza essere invitati, e provare ad avvicinare Warhol: aspiranti attori e artisti, poeti e originali di ogni specie.
Alla Solanas, Warhol aveva affidato una piccola parte al film "I, a man", ma non aveva dato nessuna risposta a un copione che lei gli aveva sottoposto, intitolato ("Up your ass", "In culo a te").
In preda alla rabbia dunque Valerie si presentò alla Factory intrufolandosi nell'ascensore insieme a un assistente di Warhol. Questi, appena vide ala Solanas tentò di liquidarla e tornò alla sua scrivania. Valerie gli si avvicinò ed estrasse il revolver. Warhol la implorò di non sparare, ma la ragazza fece fuoco per due volte.
Warhol cercò scampo sotto la scrivania, ma la Solanas gli esplose addosso un terzo colpo, con l'intenzione di finirlo.
La Solanas si rivolse poi a Mario Amaya, il compagno di Warhol e gli sparò. Poi, puntò il revolver contro Fred Hughes, il manager dell'artista, il quale la supplicò di non sparare.
Per fortuna la pistola di Valerie a quel punto si inceppò e la ragazza prese la via della fuga.
In ospedale, Warhol venne dichiarato clinicamente morto.
I proiettili avevano perforato i polmoni, l'esofago, il fegato e la milza.
Un medico italiano del Columbus Hospital, Giuseppe Rossi, riuscì a salvare con un intervento lunghissimo e miracoloso, Warhol.
Solanas rivendicò con orgoglio il suo gesto. Warhol rifiutò di deporre contro di lei e questo valse alla ragazza un grosso sconto della pena, che si ridusse a 3 anni di carcere per tentato omicidio, aggressione e detenzione d'arma da fuoco.
Warhol non la perdonò, ma non volle infierire.
L'attentato e la miracolosa salvezza rinforzarono il senso religioso di Warhol ma ne cambiarono il carattere: da allora in poi divenne schivo, riservatissimo, e secondo alcuni cinico e crudele.
Cosa che stride fortemente con la descrizione dell'uomo che ne fecero i suoi amici più intimi, in primis Lou Reed e John Cale nell'album celebrativo che gli dedicarono dopo la morte.
(nella foto, Warhol fotografato da Avedon qualche anno dopo l'attentato)

Fabrizio Falconi - 2020

(fonti: Demetrio Paparoni, Il senso religioso di Andy Warhol oltre i colori della Pop Art, Domani, 22 settembre 2020)

Valerie Solanas fotografata dopo l'arresto


25/09/20

Stanley Withney al Gagosian di Roma fino al 17 ottobre: "Non mi stanco mai di contemplare Roma"


I blocchi di colori vivaci che compongono le griglie delle grandi tele rimandano al clima artistico della New York degli Anni Sessanta. 

I lavori di Stanley Whitney, invece, hanno dentro l' impronta degli edifici della Citta' Eterna. 

"Il colore, la luce, l'architettura antica; non mi stanco mai di contemplare Roma - spiega - . Da sempre illumina ed ispira il mio lavoro. La mia tecnica pittorica attuale ha iniziato a prendere forma negli anni novanta, quando, immerso nella citta', mi guardavo intorno ammirando l'architettura antica e rinascimentale. A Roma vige un ordine e un ritmo antico che voglio nei miei dipinti". 

La GalleriaGagosian, nel cuore della citta', dedica all' artista afroamericano fino al 17 ottobre la prima mostra personale - che e' anche la riapertura al pubblico dopo i mesi di lockdown - con una decina di opere di grandi dimensioni realizzate espressamente per questo appuntamento.

"Stanley Whitney - dice Pepi Marchetti Franchi, direttrice della Galleria -. gia' da decenni lavora sull' astrazione geometrica. Nel suo periodo a Roma ha insegnato in una universita' americana e ha cristallizzato la sua ricerca nel formato quadrato, con la serie di riquadri a fasce ispirata dall' architettura di Roma, dal Colosseo a Palazzo Farnese, e dall' archeologia etrusca".

E' una influenza che non e' legata al colore ma alla struttura compositiva con elementi sovrapposti.

Una trasposizione pop dell' archeologia classica? "Non so se lui la chiamerebbe cosi' ma, certo, e' una definizione che diverte", osserva Marchetti Franchi. I segni delle pennellate, le sbavature, i colori luminosi e brillanti applicati con densita' differenti, le geometrie disegnate a mano libera; nei lavori di Whitney, che hanno quotazioni dai 40 mila ai 300 mila euro, il risultato del gioco cromatico e' di forte impatto. L' artista, nato nel 1946 a Philadelphia, si divide tra New York e lo studio aperto da tempo nelle campagne di Parma. Amante della musica, soprattutto il jazz, Whitney riversa nella sua ricerca la passione per il ritmo e l' improvvisazione

Sue opere figurano a New York nelle collezioni del Metropolitan, al Guggenheim e al Whitney Museum of American Art, e in altre prestigiose strutture espositive degli Stati Uniti.


Stanley Withney




23/09/20

Il lato religioso di Andy Warhol

 


Il senso religioso di Andy Warhol

Anche se pochi lo sanno, in Andy Warhol esisteva un profondo lato spirituale, o meglio, religioso.
Le cui radici affondavano nel rapporto viscerale che aveva con la religiosissima madre cattolica Julia. Appartenendo all'élite dello star system, Warhol evitava di parlarne, temendo che avrebbe danneggiato la sua immagine pubblica rivelare che teneva un libro di preghiere sul comodino, un crocefisso a fianco del letto a baldacchino, immagini sacre ovunque e addirittura una cappella privata nella quale recitava ogni mattina le preghiere insieme alla madre, quando lei veniva a trovarlo nella sua casa di New York.
Non era insolito che si fermasse il pomeriggio a pregare nella chiesa di Saint Vincent Ferrer di Lexington Avenue, dove accendeva sempre una candela.
La pietà segreta di Warhol si concretizzava anche nell'aiuto ai poveri: donava con regolarità il suo tempo a una mensa di senzatetto e bisognosi e provava grande orgoglio nel finanziare gli studi dell'adorato nipote in seminario.
Solo gli amici più stretti erano a conoscenza della sua religiosità.
Accuratamente nascosta dietro la parrucca nascosta e il modo particolarissimo, eccentrico di parlare che erano la sua maschera.
Il suo rapporto con la fede si consolidò dopo l'attentato del 3 giugno 1968, in cui la ventottenne Valerie Solanas gli scaricò addosso diversi colpi di pistola, al torace e al ventre. Si salvò per miracolo, dopo giorni di agonia.

Fabrizio Falconi - 2020

(fonti: Demetrio Paparoni, Il senso religioso di Andy Warhol oltre i colori della Pop Art, Domani, 22 settembre 2020)

22/09/20

Il misterioso viaggio di Fellini in Messico e l'incontro con il mito Castaneda


Lo scrittore Andrea De Carlo, 67 anni, parla sul Venerdì di Repubblica di Federico Fellini, rivelando particolari inediti del famoso viaggio, compiuto insieme al grande maestro riminese in Messico, sulle tracce di Castaneda.

Fellini aveva chiamato De Carlo come aiuto regista sul set de La Nave Va, nel 1983, e l'amicizia tra i due era culminata nel viaggio messicano che Fellini voleva fortemente compiere sull'onda delle suggestioni esoteriche che aleggiavano intorno a Carlos Castaneda, scrittore di origini peruviane, trasferitosi negli USA e poi in Messico, personaggio fantomatico e inafferrabile, letterato eclettico e iniziato allo sciamanesimo mesoamericano.
Il viaggio si rivelò, come prevedibile, un fallimento: Castaneda dopo un paio di brevi incontri, si dileguò, rendendosi irrintracciabile come era il suo stile: non solo. Nell'albergo dove dormivano Fellini e De Carlo, all'indirizzo del regista cominciarono ad arrivare messaggi misteriosi e minacciosi.
Racconta oggi De Carlo: "C'è Frank Horton, un giornalista americano, che ha ricostruito la storia; secondo lui fu proprio Castaneda a organizzare le minacce per troncare il progetto (di un film sceneggiato proprio da Castaneda e girato da Fellini). Chissà. Certo fu l'incontro tra due grandi bugiardi affascinati dell'esoterico, in un momento critico della carriera di tutti e due."
Al ritorno dal Messico, l'amicizia tra De Carlo e Fellini si incrinò quando lo scrittore decise di scrivere un romanzo, "Yucatan" ispirato a questo viaggio, "bruciando" di fatto l'idea di Fellini, che non glielo perdonò.
Il film comunque, secondo De Carlo, difficilmente si sarebbe realizzato: " Fellini era troppo inquietato da tutta la storia. A Chichen Itzà, camminando intorno a quelle piramidi maya, dove un tempo si svolgevano sacrifici umani, e il sangue colava dalle gradinate di pietra, era sconvolto.
In lui c'era anche l'umiltà che incontri solo negli artisti veri, di chi sa che rispetto ai misteri dell'universo non siamo nulla. In quel viaggio non era giovane, non era in forma, forse fu l'episodio di maggior coraggio fisico della sua vita. Prendere l'aereo, arrivare a Cancùn, girare in jeep seguendo indicazioni misteriose..."
Insomma, sarebbe bello ricostruire per bene, un giorno questo viaggio. La cosa ancor più sorprendente - e in perfetto climax con la vicenda e con il personaggio di Castaneda - è che non esiste una sola foto pubblica di questo viaggio, e di Fellini in Messico (io almeno non sono riuscito a trovarla).

Fabrizio Falconi - 2020

21/09/20

A proposito delle minigonne e della professoressa del Liceo Socrate


Sono, in totale controtendenza col plebiscito del pensiero conformista, dalla parte della professoressa del liceo Socrate di Roma che è stata linciata in nome della cancel culture e del politically correct: la quale professoressa ha detto, goffamente, quella che è una semplice verità.

Ovvero che nel rapporto insegnanti-alunni bisognerebbe fossero evitati inutili sovraesposizioni, abbigliamenti estremi, oltre che naturalmente atteggiamenti sconsiderati.
L'uso della minigonna rientra nella totale libertà della donna, ma è perfino ovvio - anche se l'ipocrisia al contrario oggi dominante vieta di dirlo - che essa viene indossata per essere belle, cioè attraenti. Comportamento che anche tutti i maschi fanno oggi in altri modi, evidenziando anche in modo esagerato i propri tratti attrattivi, in nome dell'unica religione oggi dominante: il narcisismo personale, che si impara da piccoli o da piccolissimi.
E pretendere che un uomo o una donna - solo perché (in)vestiti di un camice o di un ruolo - dimentichino o elidano i propri istinti erotici/sessuali è cosa che farebbe sorridere non soltanto il Dr. Freud, ma qualunque studioso della natura biologica umana.
E' per questo motivo che nelle università serie di tutto il mondo si usano norme molto severe preventive, come la regola che un professore NON PUO' MAI chiudere la stanza del suo ufficio quando riceve uno studente, oppure le rigide regole di dress-code che vengono imposte dai più prestigiosi istituti del mondo (pubblico qua sotto quelle di Stanford - cliccando su 'traduci' si possono leggere in italiano, per chi vuole).
Il rispetto insomma, viene richiesto da entrambe le parti e in senso biunivoco: i professori devono fare i professori e stare al loro posto, ma gli studenti devono fare gli studenti e non le pin-ups o i tronisti, quando entrano in luogo dove si studia.

20/09/20

Quella volta che anche un poeta come Leonard Cohen si comportò ... in modo inelegante


Una volta anche un principe come Leonard Cohen si è comportato come un cafone.
La storia riguarda la nascita di una delle sue più celebri (e struggenti) canzoni: Chelsea Hotel #2
La canzone fu scritta nel 1974 e inserita nell'album New Skin for Old Ceremony.
Era dedicata a una ragazza incontrata qualche anno prima, che veniva rievocata subito molto crudamente nei 4 versi iniziali:
I remember you well in the Chelsea Hotel,
you were talking so brave and so sweet,
giving me head on the unmade bed,
while the limousines wait in the street.
ovvero:
Mi ricordo bene di te al Chelsea Hotel
Mi parlavi con dolcezza e coraggio
E me lo succhiavi sul letto disfatto
Mentre in strada la limousine aspettava.
Subito sorse nei fan la curiosità di conoscere il nome di questa "Chelsea Girl" . E Cohen, solitamente molto riservato sulla sua vita privata, li accontentò.
In Greatest Hits del 1976 scrive:
«L’ho scritta per una cantante americana che è morta qualche tempo fa. Anche lei viveva al Chelsea.»
Il mistero fu dunque subito svelato, e lo stesso Cohen lo confermò:
La ragazza era proprio la cantante americana Janis Joplin, che negli anni del successo - ma anche dell'inizio del suo calvario personale di eroina e alcol che la portò alla morte a soli 27 anni - viveva nella suite 411 del Chelsea Hotel (Dylan era alla 2011, Cohen spesso alla 424 ma, come ricorda Stanley Bard – storico gestore del Chelsea Hotel – non disdegnava altre camere).
Cohen raccontò, evidentemente romanzando l’episodio, che a notte tarda («verso le tre del mattino», avrebbe anche specificato) era solito incontrare Janis in ascensore. Una volta, mentre lei cercava Kris Kristofferson («che è ben più alto di me) e Leonard sperava di incontrare Brigitte Bardot o Lili Marlene, caddero l’uno nelle braccia dell’altro («Sono io Kris Kristofferson» «Pensavo fossi più alto! «Lo sono, ma sono stato male…») – d’altronde a quell’ora del mattino non c’era più nessuno in giro…
Quell’unica notte d’amore fu, come Cohen ha più volte ammesso, “il seme” di questa canzone.
Cohen successivamente si è più volte pentito di aver rivelato il nome della protagonista. Janis Joplin era morta, sola e abbandonata da tutti, in condizioni terribili la notte per una overdose di eroina il 4 ottobre 1970 in uno squallido alberghetto di Los Angeles, perché la sua fortuna, proprio a causa della dipendenza dall'eroina aveva intrapreso una fortissima parabola discendente.
In un’intervista rilasciata a Radio 1 della BBC Cohen disse: «In quella canzone ho fatto il nome di Janis Joplin. Non so quando ho iniziato, ma ho associato il suo nome alla canzone, e da allora me ne sono sempre pentito. E’ un’indiscrezione per la quale mi sento molto in colpa. E se ci fosse un modo per chiedere perdono a un fantasma, vorrei chiedere perdono per aver commesso quest’indiscrezione.»
In un’altra occasione, disse che sua madre Masha non avrebbe certo gradito questa sua esternazione poco elegante.
Insomma, anche ai poeti capita di scivolare, e di brutto.