24/03/20

Perché i tabaccai aperti e le librerie chiuse??



I tabaccai sono aperti, ma le librerie no

Eppure sappiamo che anche la lettura da' dipendenza e che in certi frangenti e' assolutamente un bene necessario. 

E' vero che siamo tutti chiusi in casa e ce la passiamo molto, molto meglio di quel che sarebbe stato non molto tempo fa, quando non c'era il web con le sue infinite possibilita' di contatti a distanza, di gioco, di svago o l'enorme offerta tv, ma la lettura, il perdersi attraverso una pagina in mondi, storie, sentimenti virtuali coinvolgenti resta ancora uno "strumento" essenziale per vivere queste giornate

I librai protestano, molti ricordano come, prima dell'ultimo decreto, fossero rimasti aperti "per impegno e testimonianza di civilta'" in gran parte d'Italia. 

"Si deve essere trattato di un errore nella drammatica concitazione di questi giorni" dice Ambrosetti, presidente dell'Ali - Associazione Librai Italiani, cui si affiancano ovviamente gli editori, che chiedono aiuti come ogni altra attivita' produttiva, ma unendosi anche al coro di tutte le istituzioni culturali, dai cinema ai teatri e musica, che usciranno da questa situazione in gravissima sofferenza. Chi ha avuto un libro uscito nei giorni scorsi e' come non avesse pubblicato nulla e le case editrici hanno sospeso le nuove uscite in programma. Il pericolo e' in particolare per le librerie indipendenti, che gia' vivono un periodo difficile e devono puntare tutto sul rapporto personale col cliente, assediate come sono dalle grandi catene e soprattutto dalle vendite online

C'e' qualcuno che pare stia provando a tenere i contatti con i clienti via telefono o internet e recapitare i libri a domicilio nel quartiere, che e' un metodo di cui e' stata lasciata liberta' alle pizzerie, per esempio. 

"E' tutto vero, ma e' inevitabile che in questo momento si finisca per puntare sull'elettronica e vengano spinti in ogni modo gli ebook e sulle piattaforme di vendita come Ibs ce ne sono molti gratuiti, specie di titoli classici che gli editori hanno messo a disposizione, e per i piu' tradizionali si ordinano ovviamente anche i libri cartacei che arrivano veloci sino a casa o ci si rivolge a supermercati e edicole, che pero' hanno un'offerta limitata in genere ai bestseller", spiega Sandro Ferri, fondatore e patron con la moglie Sandra Ozzola delle Edizioni E/O e di Europa Editions Usa e UK, celebri come scopritori e editori di Elena Ferrante, ma noti anche per aver ritirato i propri titoli cartacei da Amazon che chiedeva sconti e percentuali "offensivi e insostenibili". 

Questo non ha impedito pero' che nelle settimane appena passate la E/O sia stata la seconda per vendite nella grande distribuzione (appunto supermercati e edicole) dopo il colosso Mondadori, proprio grazie ai volumi dell'Amica geniale'. 

Le piattaforme di vendita online, a conferma di tutto questo, pare abbiano avuto un'impennata di ordinazioni di circa il 50%. E in mezzo comunque restano gli autori, che si sono viste annullate tutte le presentazioni. Se di un libro si comincia a parlare, ora che si legge di piu', diventa pero' difficile reperirlo. Non parliamo poi di autori debuttanti, che spariscono nella confusione generale. 

Molti, come fanno appunto alla E/O, invitano e guidano i propri autori all'uso dei social, a farsi vedere, a parlare, a leggere brani dei propri libri, a colloquiare coi lettori, a partecipare alle iniziative collettive per far vedere che sono presenti in questo momento e partecipano alla particolare situazione mettendo in gioco la loro creativita', il loro carisma. 

22/03/20

Poesia della Domenica: "L'Ombra della Luce" di Franco Battiato


L'ombra della luce

Difendimi dalle forze contrarie, 
la notte, nel sonno, quando non sono cosciente; 
quando il mio percorso, si fa incerto. 

E non abbandonarmi mai
Non mi abbandonare mai 
Riportami nelle zone più alte 
in uno dei tuoi regni di quiete: 
E' tempo di lasciare questo ciclo di vite. 

E non abbandonarmi mai
Non mi abbandonare mai 
Perché le gioie del più profondo affetto, 
o dei più lievi aneliti del cuore, 
sono solo l'ombra della luce. 

Ricordami, come sono infelice 
lontano dalle tue leggi; 
come non sprecare il tempo che mi rimane. 

E non abbandonarmi mai
Non mi abbandonare mai 
Perché la pace che ho sentito in certi monasteri, 
o la vibrante intesa di tutti i sensi in festa, 
sono solo l'ombra della luce



21/03/20

Le cinque streghe avvelenatrici e la Peste a Roma



C’era un tempo in cui anche a Roma esisteva la caccia alle streghe. Il 5 luglio del 1659 cinque donne, Gerolama Spana, Maria Spinola, Graziosa Farina, Cecilia Bossi Verzellini e Laura Crispolti furono condannate a morte per “fabbricazione di liquido velenoso, detto Acquetta, avvelenamento di congiunti e spaccio del veleno ad altre donne.”

Ma di cosa si trattava, esattamente ?

L’accusa per le cinque donne romane era quella di aver utilizzato la famosa Acqua Tofana (conosciuta con mille nomi diversi nelle diverse regioni italiane),  un liquido velenoso brevettato per la prima volta da una certa Giulia Tofana, palermitana, che nel 1640 realizzò una pozione incolore, inodore e insapore – simile ad acqua, appunto – destinata ad alimentare il mercato delle vedove o dei vedovi, in un’epoca in cui non esisteva ovviamente il divorzio: per eliminare definitivamente cioè il proprio coniuge.

La pozione segreta ebbe un tale successo che il suo uso si diffuse rapidamente in molte città italiana: essa conteneva principalmente arsenico, piombo e probabilmente una essenza di belladonna.  Giulia Tofana era riuscita a produrre la micidiale soluzione facendo bollire in una pentola chiusa ermeticamente, acqua insieme ad una miscela di limatura di piombo, antimonio e anidride arseniosa.
L’assenza di qualsiasi odore o sapore permetteva di usarlo praticamente senza lasciare traccia, versando una piccola quantità in un bicchiere di vino, o direttamente sul cibo.

La persona che lo inghiottiva moriva in pochi minuti tra atroci spasmi.

Lo smercio dell’Acqua Tofana avveniva ovviamente clandestinamente, e soprattutto per via femminile. La pozione era accompagnata da un minuzioso manuale che ne spiegava l’uso.

Ad essa dunque fecero ricorso anche le cinque donne romane, pochi anni dopo la sua invenzione.

Le autorità ecclesiastiche ricostruirono una sordida vicenda di avvelenamenti multipli, che aveva coinvolto, come protagoniste, anche donne di alto lignaggio, tra cui la duchessa di Ceri, una Vitelleschi e altre patrizie allettate dalla possibilità di sbarazzarsi di scomodi mariti e di ereditarne le ricchezze.

I giudici dell’Inquisizione, però, come accadeva spesso, mentre non ebbero pietà con le cinque donne che appartenevano ad un ceto inferiore, risparmiarono le donne dell’alta società, liberandole da qualunque accusa.

Per le streghe dedite all’uso dell’Acqua Tofana, le condanne erano durissime e spaventose. L’Inquisizione aveva introdotto infatti la condanna della muratura a vita, una sorta di condanna a morte dilazionata nel tempo, nelle condizioni sepolte vive; oppure l’impiccagione, che veniva eseguita nella pubblica piazza.

Sorte che toccò alle cinque donne, giustiziate in Campo de’ Fiori.

Nelle cronache dell’epoca c’è il racconto dettagliato dell’esecuzione.

Il 5 luglio del 1659, riporta Giacinto Gigli, dopo pranzo furno fatte morire cinque donne in Campo de’ Fiore le quali nelli anni passati nel tempo del contaggio (l’epidemia di peste del 1656) havevano carafe d’acqua distillata con veleni d’arsenico e sollimato (sublimato di mercurio e cromo) per far morire la gente con la quale acqua molte donne havevano uccisi li mariti et altri parenti, delle quali donne ne furono murate molte nelle carceri dell’Inquisizione. (5)

La scelta del luogo di Campo de’ Fiori al posto dell’usuale Ponte Sant’Angelo fu dovuta proprio allo scandalo derivato dalla vicenda e dal fatto che riguardasse cinque donne: il che si costuma verso i malfattori più enormi per celebrità, era la motivazione che si lesse nelle cronache dell’epoca.

Alle cinque donne avvelenatrici fecero seguito, per altri due secoli molte altre condanne ai danni di donne: l’ultima in assoluto, una certa Michelina Cimini, fu giustiziata – per omicidi – il 20 luglio del 1841 con il taglio della testa mediante ghigliottina a Ponte Sant’Angelo.



Tratto da Fabrizio Falconi - Roma Segreta e Misteriosa, Newton Compton Editore, Roma, 2015

20/03/20

Covid-19 - La felicità di appartenere a questa Italia


Lo dico da uno che è stato sempre allergico, da quando ero piccolo, al patriottismo italiano, che spesso (quasi sempre) ho sentito come abito impossibile da indossare e da condividere: troppo  spesso ipocrita e ridicolmente vanaglorioso, provinciale e inautentico, buono solo quando si vincono i mondiali o bisogna mostrare i muscoli facendo gli sberleffi ai francesi. 

La patria, ho sempre pensato, se esiste nella realtà, è un senso di comunità tra simili. E gli italiani non sono mai una vera comunità (che significa avere veramente cura e interesse per gli altri, e soprattutto per la cosa pubblica) , ma sempre gruppo, fazione, o purtroppo gregge. 

E però ci sono state e ci sono diverse circostanze in cui sento orgoglio o quantomeno dignità, grande dignità di appartenere a questo popolo, a questa (incompleta e mai compiuta) comunità. 

E questa è una di quelle. 

In questa circostanza - come nel dopoguerra - gli italiani stanno tirando fuori il meglio. 

Sono felice di non appartenere a un paese e a un popolo dove i malati vengono nascosti (Russia, Turchia, Egitto), dove nessuno sa e saprà quanti moriranno per una spaventosa epidemia. Sono felice di non appartenere a un paese e a un popolo (Usa, Gran Bretagna) in cui si accetta che in nome del populismo più becero, si lascino i malati malati, si dica loro di rimanere a casa e di curarsi a casa, e poi se tirano le cuoia, meglio così: meno pensioni da pagare per tutti, e una parte scomoda e inutile di popolazione si toglie dalla balle. 

E se proprio qualcuno si deve curare, si curino quelli che hanno il denaro. 

Sono felice di appartenere a un popolo in cui fino all'ultimo novantenne, sarà concessa la possibilità di curarsi, in cui verranno fatti tamponi fino alla fine, in cui non si nasconderà il numero impressionante dei morti, dei contagiati, di una cosa che si fa fatica ad arginare perché é una nuova peste sottile e subdola. Un paese e un popolo in cui non ci si vergognerà e non ci si vergogna della debolezza e si fa tutto il possibile - anche quello che lo Stato o uno stato non sa fare - per assicurare che l'umanità venga rispettata, anche nella malattia, anche nella morte.

Fabrizio Falconi
marzo 2020 

17/03/20

The Koln Concert: Come nacque il capolavoro (immortale) di Keith Jarrett




The Köln Concert è la celebre registrazione del pianista Keith Jarrett pubblicata dall'etichetta ECM, frutto di una improvvisazione solista eseguita all'Opera di Colonia nel 1975

È considerato il più famoso album di jazz solo, con 3 milioni e mezzo di copie vendute.

Diventato un must per un pubblico internazionale, di ogni confine, censo e età, The Köln Concert è stato definito da un critico, un capolavoro "che scorre con calore umano".

Con il passare degli anni si sono diffuse molte leggende intorno a questa esecuzione improvvisata, che non ebbe alcuna registrazione video, e nemmeno immagini fotografiche. 

Il concerto a Colonia faceva parte del suo tour europeo solista iniziato nel 1973.

Precedentemente, Jarrett aveva suonato in formazioni di tre o quattro elementi, poi si era aggregato al gruppo di Miles Davis. Per richiesta di quest'ultimo aveva abbandonato il piano acustico per passare al piano e l'organo elettrici, cosa che non gli piaceva.

Il tour da solista fu quindi un ritorno alla sua vena artistica più naturale. 

Giunto al teatro poche ore prima del concerto per provare il piano, Jarrett constatò che non vi era lo strumento pattuito, un Bösendorfer 290 Imperial, bensì un altro pianoforte, della stessa fabbrica, ma molto più piccolo

Peraltro lo strumento, usato dal coro del teatro, aveva un pedale rotto e non era accordato correttamente. 

Jarrett, pertanto, andò a cena e disse all'organizzatrice dell'evento che, se non fosse riuscita a rimediare sostituendo il pianoforte con quello pattuito, non avrebbe suonato. 

L'organizzatrice riuscì a sistemare l'accordatura dello strumento, ma il pianista non fu soddisfatto. Solo a causa dell'insistenza della stessa, decise di effettuare lo stesso il concerto.

La registrazione del concerto è divisa in tre parti, che durano rispettivamente 26, 33 e 7 minuti. 

Originariamente il disco fu distribuito come LP, perciò la seconda parte fu divisa in ulteriori due parti, chiamate "II a" e "II b". La terza parte, chiamata "II c", è l'encore eseguito alla fine del concerto. 

Un importante aspetto di questo album è la capacità di Jarrett di eseguire un gran numero di improvvisazioni su una vamp (equivalente jazzistico dell'ostinato) di uno o due accordi per periodi piuttosto prolungati di tempo. 

Ad esempio, nella parte I, Jarrett esegue ben 12 minuti di improvvisazione utilizzando praticamente due soli accordi, il la minore settima e il sol maggiore. 

A volte lo stile è calmo, a volte affine al blues, a volte vicino al gospel e alla musica classica

Per gli ultimi sei minuti della parte I inoltre rimane su un tema sull'accordo di la maggiore. 

Nella parte IIA, gli ultimi otto minuti si sviluppano sul re maggiore, mentre nella parte IIB i primi sei minuti sono un'improvvisazione sull'accordo di fa diesis minore. 

Fin dall'uscita dell'album, furono pressanti le richieste su Jarrett di pubblicare una trascrizione della musica.

Inizialmente Jarrett si rifiutò di soddisfare la richiesta, perché disse che: il concerto era completamente improvvisato e secondo lui "doveva andarsene così come era venuto"; alcune parti del concerto non sono possibili da trascrivere, in quanto completamente fuori dal tempo metronomico. 

Alla fine Jarrett cambiò idea, ma pose la condizione di poter controllare tutte le fasi del processo di trascrizione.

Successivamente è stata pubblicata anche una trascrizione per chitarra classica, dovuta a Manuel Barrueco. 

All'inizio della Parte 1 è possibile udire una risata di uno spettatore dovuta al fatto che Jarrett iniziò l'esecuzione citando una melodia dell'opera di Colonia, che avvisava gli spettatori dell'inizio dello spettacolo.

16/03/20

Cosa sono i virus? Quel poco che ne sappiamo



Quando sentite parlare di relativismo, ricordatevi che - ce lo insegna la pandemia attuale - il relativismo riguarda da vicino anche la scienza, che non è portatrice di verità assolute, ma solo di risultati parziali, validi fino a prima della prossima scoperta scientifica. 

Il fatto è che l'uomo - e dunque la scienza -  sa ancora pochissimo dei virus, che sono l'entità biologica in assoluto di gran lunga più abbondante sulla Terra.

Ma anche il concetto di "entità biologica" applicato ai virus è fonte di parecchi problemi: 

I virus infatti sono acellulari. Nel senso che non sono fatti di cellule, ma si replicano solo all'interno di altre cellule.

Il primo virus è stato scoperto nel 1892.

Attualmente si conoscono SOLO 5.000 specie di virus, descritte in dettaglio. Si ritiene però che ne esistano MILIONI di diversi tipi e che esistano in tutti gli ecosistemi della terra, anche i più estremi.

Nella storia dell'evoluzione, le origini del virus sono sconosciute.

I virus sono considerati da alcuni biologi come forme di vita, anche se in effetti, non essendo dotati  né di cellule proprie, né di metabolismo, sono spesso indicati come organismi "ai margini della vita", qualunque cosa questo significhi. 

I virus possono infettare tutti i tipi di forme di vita, dagli animali, alle piante, ai microrganismi (compresi batteri e archeobatteri).

La gran parte dei virus sono talmente piccoli da essere invisibili anche al microscopio, essendo dell'ordine di  grandezza di un centesimo di un normale batterio.

I virus, come è noto, pur aggregandosi a forme biologiche - cellule - sono immuni dagli antibiotici. E un piccolissimo, quasi insignificante organismo "ai margini della vita" è ancora oggi in condizione di mettere in ginocchio una intera comunità - mondiale - di esseri umani.

In conclusione, la scienza sa ancora pochissimo di cosa sono e come funzionano i virus. Dovremmo tenerlo a mente quando sovraccarichiamo la scienza di aspettative quasi fosse la nuova divinità.

Fabrizio Falconi
marzo - 2020 

15/03/20

La Lettura della Domenica: "Cecità" di Josè Saramago - un romanzo profetico

José Saramago (1992-2010)

Riporto qui Incipit ed Explicit del profetico romanzo - bellissimo, uno dei migliori in assoluto degli ultimi 50 anni - di Josè Saramago, Cecità, pubblicato nel 1995. Saramago ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura nel 1998. 


Incipit 


Il disco giallo si illuminò. Due delle automobili in testa accelerarono prima che apparisse il rosso. Nel segnale pedonale comparve la sagoma dell'omino verde. La gente in attesa cominciò ad attraversare la strada camminando sulle strisce bianche dipinte sul nero dell'asfalto, non c'è niente che assomigli meno a una zebra, eppure le chiamano così. Gli automobilisti, impazienti, con il piede sul pedale della frizione, tenevano le macchine in tensione, avanzando, indietreggiando, come cavalli nervosi che sentissero arrivare nell'aria la frustata. Ormai i pedoni sono passati, ma il segnale di via libera per le macchine tarderà ancora alcuni secondi, c'è chi dice che questo indugio, in apparenza tanto insignificante, se moltiplicato per le migliaia di semafori esistenti nella città e per i successivi cambiamenti dei tre colori di ciascuno, è una delle più significative cause degli ingorghi, o imbottigliamenti, se vogliamo usare il termine corrente, della circolazione automobilistica.

Finalmente si accese il verde, le macchine partirono bruscamente, ma si notò subito che non erano partite tutte quante. La prima della fila di mezzo è ferma, dev'esserci un problema meccanico, l'acceleratore rotto, la leva del cambio che si è bloccata, o un'avaria nell'impianto idraulico, blocco dei freni, interruzione del circuito elettrico, a meno che non le sia semplicemente finita la benzina, non sarebbe la prima volta.

Il nuovo raggruppamento di pedoni che si sta formando sui marciapiedi vede il conducente dell'automobile immobilizzata sbracciarsi dietro il parabrezza, mentre le macchine appresso a lui suonano il clacson freneticamente. Alcuni conducenti sono già balzati fuori, disposti a spingere l'automobile in panne fin là dove non blocchi il traffico, picchiano furiosamente sui finestrini chiusi, l'uomo che sta dentro volta la testa verso di loro, da un lato, dall'altro, si vede che urla qualche cosa, dai movimenti della bocca si capisce che ripete una parola, non una, due, infatti è così, come si viene a sapere quando qualcuno, finalmente, riesce ad aprire uno sportello, Sono cieco.


Explicit

Perché siamo diventati ciechi, Non lo so, forse un giorno si arriverà a conoscerne la ragione, Vuoi che ti dica cosa penso, Parla, Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono. La moglie del medico si alzò e andò alla finestra. Guardò giù, guardò la strada coperta di spazzatura, guardò le persone che gridavano e cantavano. Poi alzò il capo verso il cielo e vide tutto bianco, è arrivato il mio turno, pensò. La paura le fece abbassare immediatamente gli occhi. La città era ancora lì.

14/03/20

Covid-19: L'inattività come prova collettiva



Costretti all'inattività. Questo cui stiamo partecipando - con la pandemia da Covid-19 - è un interessante (oltre che angoscioso) - e inedito - esperimento sociale collettivo

Blaise Pascal in uno dei suoi famosi Pensieri, scriveva impietosamente che "Tutta l'infelicità dell'uomo deriva dalla sua incapacità di starsene nella sua stanza da solo." 

Ora siamo costretti obtorto collo, a farlo, come non era mai stato fatto prima, almeno qui. 

Certo, non è la solitudine invocata da Pascal. 

La solitudine obbligata e ritirata del Covid-19 è attenuata parecchio dall'onnipresente schermo dello smartphone, che consola, accompagna, fa viaggiare virtualmente ovunque, intrattiene, diverte, riempie gli spazi, non lascia mai soli, proibisce di annoiarsi, esaudisce ogni desiderio e soprattutto come scriveva Pascal proibisce di starsene nella propria stanza da solo.

Perché come sappiamo, chi è dotato di quella protesi - TUTTI - ormai non è mai VERAMENTE solo. 

E però stavolta, la prova è assai interessante. Perché la versatilità infinita del nostro apparato tecnologico potrebbe - alla lunga - non bastare

Cominciamo ad avvertire, avvertiamo la nostalgia della non virtualità, del contatto soprattutto. Il famoso contatto umano. 

Che abbiamo dato per scontato, ma non lo è.

L'inattività obbligata, alla lunga ci trasformerebbe tutti come gli omini obesi nell'astronave di Wall-E, che vivono mangiando e guardando uno schermo. Non sembra una prospettiva allettante.

Fabrizio Falconi
marzo - 2020 


13/03/20

100 film da salvare alla fine del mondo: 58: Kolya (Kolja) di Jan Sverak, Repubblica Ceca, (1996)



Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo". Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 58: Kolya (Kolja) di Jan Sverak, Repubblica Ceca, (1996) 

Louka Frantisek, violoncellista praghese dissidente squattrinato, durante la perestrojka accetta di sposare per soldi una donna russa, soltanto per farle avere la cittadinanza. 

La donna però fugge all'Ovest e Louka rimane da solo con Kolya, il figlio della donna, un bambino russo di 5 anni, che non parla la sua lingua.

Louka, scapolo impenitente, si industria a far da padre dopo molte riluttanze, e quando finisce per stringere con il bambino un legame profondo, deve riportarlo alla madre. 

E' delicato, poetico il tocco di Jan Sverak e ricorda quello di Jaco Van Dormael con Totò le Heros, o di Kusturica in Papà è in viaggio d'affari. 

Un film magnificamente girato, con interpreti che non si dimenticano e che ha ricevuto numerosi premi tra cui l'Oscar per il miglior film straniero nel 1996. Che scalda il cuore, senza essere mai ricattatorio. 

05/03/20

Perché la serialità tv italiana è così sterile e asfittica?



E' piuttosto inspiegabile - e indice di un paese a corto di ispirazione o di iniziativa - il fatto che in Italia - con il bendiddio rappresentato da 3000 anni di retaggi storici e civiltà patrie - si producano  soltanto serie tv e film sulle gomorre, ndranghete, suburre, oppure rassicuranti polpettoni biopic o don mattei, o al massimo della creatività, gli infiniti papi sorrentiniani.  

Ora non si pretende certo, in questo clima, un riaffacciarsi di produttori come quelli che hanno fatto grande il cinema e la serialità italiana in passato, che erano sperimentatori geniali, non si pretendono certo gli Otto e Mezzo, i Blow up, i Gattopardi, e nemmeno di certo le Anna Karenina di Bolchi o le Mani Sporche di Sartre-Petri, che andavano in onda sulla RAI nazionale, ma qualcosa di minimamente creativo che riguardi le nostre meravigliose storie - La Storia di Elsa Morante? Gli Indifferenti di Moravia? Il nostro ventennio fascista? Gli anni di piombo? Il sequestro Moro? Oppure, che so, se vogliamo essere sicuri di vendere una serie all'estero: una grande serie sulla moda italiana? Una serie tv sulla vita avventurosa di Caravaggio? Un film sulla epoca d'oro di Cinecittà a Roma? Un film sullo sbarco ad Anzio vissuto dagli italiani che vivevano su quella costa? Un bel filmetto sul furto della Gioconda? Una serie storica sulla Sindone? Una serie sulla epopea di Enzo Ferrari? Un divertente serial-commedia ambientato nei retroscena di un grande ristorante di alta cucina italiana?  

Forse è troppo chiederlo? Il fatto è che si guardano le cose prodotte e sfornate ogni mese dalla BBC e dagli altri canali britannici - non parliamo di Netflix, HBO o Amazonvideo - e cascano le mani.


Fabrizio Falconi
- marzo 2020

04/03/20

L'attaccamento alla vita ai tempi del Coronavirus






La cosa che più mi colpisce, ai tempi del Covid-19, è quanto le persone- anche quelle che si lamentano ogni giorno della propria esistenza, che sembrano maledirla o che comunque la valutano priva di significato - siano voracemente attaccate alla vita, a ogni costo, con le unghie e con i denti, quando la sentono minacciata, anche indirettamente, anche come remota possibilità, da una epidemia di un nuovo virus che per ora ha un assai basso indice di mortalità.



In queste circostanze si dimostra un attaccamento alla vita - alla propria vita individuale, sostanzialmente - e un terrore cieco di vederla minacciata, che se fosse applicato al vivere civile di ogni giorno e soprattutto alle future condizioni di benessere collettivo, prima che di se stessi, potrebbe portare frutti immensi, nella cura del pianeta, del prossimo, del vivere in comunità.


Invece, appena l'allarme sarà rientrato e la paura sarà passata, è ipotizzabile che tutto tornerà come prima, ci si ricomincerà a lamentarsi in pace, e a vivere con il solito scialo e il solito scontento, come se niente fosse, immemori di questa lezione arrivata imponderabilmente, forse proprio per costringerci a fermarci e a pensare.

Fabrizio Falconi
marzo - 2020

03/03/20

Libro del Giorno: "Onori" di Rachel Cusk




L'Editore Einaudi manda in libreria l'ultimo episodio della trilogia, con la quale la scrittrice Rachel Cusk, 53 anni, nata in Canada, ma inglese di adozione, ha compiuto una piccola grande rivoluzione nei canoni classici della narrativa e del romanzo. 

Cusk infatti, dopo una serie di romanzi e saggi pubblicati con alterne fortune, si è presa una pausa, ripensando completamente il suo modo di scrivere e inaugurando nel 2015 una trilogia di romanzi brevi iniziata con Resoconto (in orginale Outline), cui ha fatto seguito Transiti (Transit), nel 2017 e ora l'ultimo, Onori (Kudos), pubblicato in Inghilterra nel 2019. 

In cosa consiste la novità di Cusk?

Innanzitutto nel suo stile, di alta, o altissima qualità. Nessuna frase di quelle scritte da Cusk è mai banale. Ogni frase anzi, dei suoi densi racconti, rivela una sorpresa, terminando quasi sempre nel modo opposto - o diverso - a quello che si aspetterebbe il lettore. 

Questo tono spiazzante, si riflette nella struttura stessa dei 3 romanzi, che sono singolari perché non ospitano affatto una vera trama, nel senso tradizionale del termine. 

Il centro della narrazione è infatti la scrittrice stessa, un alter ego della stessa, di cui conosciamo soltanto in nome Faye. 

Il punto di vista quindi è sempre quello soggettivo di Faye, ma la "trama" è intessuta, in Onori, come negli altri due romanzi, degli incontri, delle persone che incontrano la scrittrice, che interagiscono con lei, e che decidono di confessare le loro vite, o parti di esse, ad un ascoltatore ingiudicante; senza soluzione di qualità, una via l'altra. 

In Onori, una donna in viaggio in aereo, per raggiungere una località della vecchia Europa dove è previsto un convegno a cui dovrà partecipare, ascolta un estraneo di fianco a lei mentre parla del suo lavoro, della famiglia, e dell'angosciosa notte precedente alla partenza, trascorsa a seppellire il suo cane. 

Sbarcata e tra le strade in un caldo afoso, tra pause caffè e lunghe attese di navette che fanno la spola tra il ristorante alla sede dei meeting, incontra colleghi, giornalisti, organizzatori culturali, stewards. 

Da queste sue conversazioni - che sembrano e sono riempitivi, pause di tempi morti, dove sembra non succedere nulla esteriormente - emerge un quadro variegato, lieve e profondo, lacerante e confuso di una umanità scissa tra ciò che vorrebbe sembrare e ciò che si trova a dover essere.

Una bella sorpresa e di grande qualità, una scrittura limpida e neutra, ma non priva di compassione, che ricorda la lezione formale di J.M. Coetzee e che ha già ricevuto elogi e premi in tutto il mondo. 

29/02/20

Sabato d'Arte: "Autoritratto come Gesù sul Monte degli Ulivi" di Paul Gauguin, 1889


E' complessa l'opera di Paul Gauguin il cui lavoro nella corrente del postimpressionismo, influenzò il movimento simbolista e tutta l'arte moderna per molti anni dopo la sua morte. 

Persona estremamente religiosa, Gauguin ha concentrato la maggior parte del suo lavoro su temi di religione e Dio. 

Come scrive lo storico dell'arte Thomas Buser, "Sembra che Gauguin credesse in un Dio che respirava la vita in un caos originale di atomi privi di sostanza e quindi stabiliva la sua rotta. In tal modo, Dio si materializzò da solo."  

Avendo quella che all'epoca era considerata una credenza non convenzionale sulla religione, il modo in cui Gauguin trattava temi religiosi all'interno del suo lavoro era diverso dai suoi contemporanei. 

Come un Teosofo, Gauguin usava il rapporto tra Cristo e il mondo come metafora del proprio rapporto con l'arte. 

E' quello che accade in Cristo sul Monte degli Ulivi, dove Gauguin si colloca direttamente al posto di Gesù Cristo.

Oltre a Cristo e ad altri temi religiosi, verso l'ultima parte della sua carriera e vita, una grande parte delle opere create da Gauguin si occupava della sua comprensione e feticismo di "popoli anormali". Facendo molto affidamento sull'astrazione, una grande distinzione tra Gauguin e altri postimpressionisti durante questo periodo, come Vincent Van Gogh , era sua convinzione che gli artisti non dovessero fare affidamento su immagini di riferimento, ma piuttosto sulla propria immaginazione. 

Allo stesso tempo con la sua amara sensazione che nessuno lo capisse, crebbe in lui la convinzione che fosse il" prescelto "," il salvatore "e" il redentore "della pittura moderna".

Gauguin credeva di essere stato scelto per essere il salvatore della pittura moderna e dipinti come Autoritratto e Cristo sul Monte degli Ulivi mostrano come egli combini  la sua figura con quella di Cristo nel tentativo di rafforzare questa argomentazione.

Un dipinto ad olio stranamente accattivante, il Cristo sul Monte degli Ulivi: un autoritratto che pone l'artista al posto di Cristo mentre intraprende un viaggio verso l'ignoto. 

Creando sia un senso di profondità che una gerarchia, si possono vedere due figure che sembrano seguire il personaggio in primo piano

Oltre alle dimensioni e alla spaziatura delle figure nell'opera creando una gerarchia implicita, Gauguin raffigura intenzionalmente le figure sullo sfondo senza facce, al fine di garantire che non attirino l'attenzione dalla figura centrale. 

Gauguin sceglie con cura ogni tratto di pennello per creare una trama sfumata, facendo apparire il lavoro quasi come una visione. 

Nonostante utilizzi colori caldi per costruire la figura centrale, lo sfondo dell'opera, un terreno all'aperto, è composto quasi interamente da colori freddi. 

Dipinto a Le Pouldu in Bretagna nel novembre del 1889, Gauguin era a quel tempo emotivamente sconvolto a causa dei suoi recenti fallimenti nelle esposizioni di Parigi.

In una lettera a Emil Schuffenecker scrisse: "Le notizie che ricevo da Parigi mi scoraggiano così tanto che mi manca il coraggio di dipingere e trascino il mio vecchio corpo, esposto al vento del nord, lungo la riva del mare a Le Pouldu. Automaticamente faccio qualche studio. Ma la mia anima è lontana e guarda tristemente in un abisso nero che si apre di fronte a me. " 

La figura centrale nell'immagine, Gauguin è raffigurata con la testa rivolta verso il suolo e una faccia piena di dolore e disperazione a causa del rifiuto che ha dovuto affrontare. Mettendosi nella posizione di Cristo, Gauguin tenta di paragonare la sua sofferenza a quella del salvatore e continua a ritrarsi come qualcuno che alla fine sarà un messaggero per i suoi contemporanei, nonostante sia stato respinto da loro.

Interrogato sul senso del quadro, Gauguin disse: "deve simboleggiare il fallimento di un ideale, la sofferenza che era sia divina che umana, Gesù abbandonato da tutti i discepoli e l'ambiente circostante è triste come la sua anima ". 

Palm Beach

28/02/20

Smartphone e ragazzi: Le parole di fuoco di Zadie Smith



Passerò per luddista, ma sapere che prima o poi, attorno ai 13/14 anni (ah, ottimista! nota mia), dovrò dare ai miei figli degli smartphone mi fa imbestialire. 

Ora resisto, ma non c'è via di uscita, sarebbero emarginati dal sistema scolastico e poi universitario. 

Odio questi telefoni, penso siano letali per lo sviluppo dei giovani: ti localizzano, sono progettati per creare dipendenza... come se un'intera società, un governo e un'istituzione privata mi dicessero: "A 14 anni tuo figlio deve assumere eroina, tutti sono dipendenti dall'eroina." 

Lo trovo vergognoso! Ma non ho scelta ed è lesivo della mia libertà.

Zadie Smith, intervista di Luca Mastrantonio, il Corriere della Sera, Sette, 21.02.2020

26/02/20

Libro del Giorno: "Sopruso: Istruzioni per l'uso" di Valerio Magrelli




Un pamphlet, un j'accuse, un ironicissimo ma tremendamente reale cahier de doléance.

E' questo l'ultimo libro di Valerio Magrelli: poco più di 100 pagine che si leggono in un soffio, ma che fanno arrabbiare, indignare anche ridere molto. 

Il poeta si libera del principale dei suoi incubi: quello di avere a che fare, in Italia e maggiormente a Roma - la città in cui è nato e abita - con i cosiddetti alterprivi: persone che vivono ignorando completamente la presenza dell'altro, anzi, non calcolandola proprio, assumendo atteggiamenti di brutale noncuranza, di prevaricazione, sopraffazione, umiliazione.

Non si tratta soltanto dei risaputi orrori della burocrazia e dell'autorità costituita (per quanto può esserlo in Italia), ma di qualcos'altro: di atteggiamenti diffusi capillarmente in quello che è chiamato prossimo: nel veloce e tagliente librino Magrelli ne passa in rassegna una schiera: il saltafila alla posta, il medico che umilia il paziente, gli autisti infestanti con le loro sirene antifurto, la musica sparata ad alto volume nei parchi e nei bar, i vivavoce dei cellulari aizzati a tutta birra nei vagoni dei frecciarossa, i padroni di cani lasciati ad abbaiare per otto ore di seguito sui balconi condominiali, addirittura le bande di Hare Krishna che arrivano ad occupare militarmente un appartamento dello stabile dove Magrelli vive, con i loro ritornelli mistici cantati a tutto volume dalle finestre aperte dalla mattina alla sera e perfino l'apertura di un ristorantino adeguato ai gusti della setta, al piano terra, con effluvi e mondezza che si disperdono in ogni dove. 

Magrelli autoproclama nel libello la sua parzialità, la sua propensione "genetica" alla reazione al sopruso e lo fa con un fulminante breve saggio finale dedicato alla roscitudine, cioè alla condizione di essere rosso di capelli - e quindi discriminato e soggetto naturale di soprusi - che appartiene sin da bambino al poeta romano. 

Proprio questa propensione è però forse la molla che agita in Magrelli la spinta ad una ribellione che - come nell'episodio degli Hare Krishna nel quale un unico abitante esasperato innesca la protesta dell'intero quartiere contro gli "infestatori" arancioni - egli spera si propaghi, trovi coscienza nelle persone, porti ad una riappropriazione degli spazi di libertà personali, così miserabilmente travolti dal vivere sguaiato e prepotente che abita le nostre città. 

Fabrizio Falconi 


25/02/20

La difficoltà di percepire e accettare le devastazioni sul Clima




Il motivo principale per cui la maggioranza delle persone è restia o indifferente alla percezione dei rapidissimi cambiamenti climatici che investono il pianeta nell'età dell'antropocene (l'età cioè in cui il supersviluppo umano diventa determinante per il destino del pianeta), consiste nel fatto che la stragrande maggioranza della popolazione - almeno in occidente - risiede in centri urbani grandi o grandissimi o spaventosamente grandi.

Fino ad appena 100-150 anni fa non era così. La maggior parte degli esseri umani viveva in diretto contatto - o totalmente immersa - nella natura.

Essi quindi percepivano ed erano sensibili - molto, molto, molto - più di noi ai minimi cambiamenti del clima. Perché questi determinavano la loro vita e la loro sopravvivenza.

Oggi che viviamo ingabbiati in città chiuse - case, automobili, uffici - possiamo far finta che il clima sia solo la diversità di sfondo del cielo - azzurro o grigio - e la scomodità del doversi preoccupare quando piove o fa caldo di come vestirsi e se si può o no andare al mare.

Purtroppo per noi però la nostra percezione conta poco, perché intanto il processo va avanti inesorabilmente.

Solo che noi, come facevano quelli dell'orchestrina sul Titanic, continuiamo allegramente a ballare.

Fabrizio Falconi
- febbraio 2020

24/02/20

100 film da salvare alla fine del mondo: 57. Fino all'ultimo respiro (À bout de souffle) di Jean-Luc Godard (1960)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 57. Fino all'ultimo respiro (À bout de souffle) di Jean-Luc Godard (1960)

Uno dei più bei film di sempre del cinema francese. Michel Poiccard (Jean-Paul Belmondo) è un gangster che lascia la Cote d'Azur per andare a prendere dei soldi a Parigi; lungo il percorso uccide  un poliziotto che lo vuole fermare per un controllo; a Parigi ritrova l'amante americana (Jean Seberg) e si dà da fare per rintracciare l'emissario, sempre braccato dalla polizia.

Jean-Luc Godard firma con quest'opera, il cui soggetto gli venne ceduto da François Truffaut nel 1959, (anno in cui quest'ultimo presentò a Cannes I 400 colpi), una sorta di manifesto della Nouvelle Vague, movimento formato da giovani e promettenti registi francesi, che nacque alla fine degli anni '50 con spirito di contestazione e innovazione di quelle categorie ormai solidificate del cinema del passato. 

Sfruttando la lezione dell'esperienza neorealista del cinema italiano e del cinema di genere noir americano, A' bout de souffle rivoluziona ogni canone, facendosi bandiera, filologicamente, di una estetica esistenzialista, alla quale il mezzo cinematografico - riprese sempre mobili e sconnesse, montaggio frammentato, particolari iperrealistici, attenzione maniacale per gesti e movimenti degli attori - presta al pieno le sue possibilità tecnico/espressive. 

Anche filosoficamente, il film, è un tributo alle tematiche esistenzialiste: Belmondo e Seberg incarnano i ruoli di due irregolari, che non possono e non vogliono, non potendo, sottostare alle regole grigie della società, e che scelgono di vivere con piena consapevolezza le loro volatili esistenze fino alla fine, fino alla reale eventualità che siano bruciate del tutto. 


Una lezione di stile e di coerenza che ancora oggi appassiona e non perde colpi.