15/03/20

La Lettura della Domenica: "Cecità" di Josè Saramago - un romanzo profetico

José Saramago (1992-2010)

Riporto qui Incipit ed Explicit del profetico romanzo - bellissimo, uno dei migliori in assoluto degli ultimi 50 anni - di Josè Saramago, Cecità, pubblicato nel 1995. Saramago ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura nel 1998. 


Incipit 


Il disco giallo si illuminò. Due delle automobili in testa accelerarono prima che apparisse il rosso. Nel segnale pedonale comparve la sagoma dell'omino verde. La gente in attesa cominciò ad attraversare la strada camminando sulle strisce bianche dipinte sul nero dell'asfalto, non c'è niente che assomigli meno a una zebra, eppure le chiamano così. Gli automobilisti, impazienti, con il piede sul pedale della frizione, tenevano le macchine in tensione, avanzando, indietreggiando, come cavalli nervosi che sentissero arrivare nell'aria la frustata. Ormai i pedoni sono passati, ma il segnale di via libera per le macchine tarderà ancora alcuni secondi, c'è chi dice che questo indugio, in apparenza tanto insignificante, se moltiplicato per le migliaia di semafori esistenti nella città e per i successivi cambiamenti dei tre colori di ciascuno, è una delle più significative cause degli ingorghi, o imbottigliamenti, se vogliamo usare il termine corrente, della circolazione automobilistica.

Finalmente si accese il verde, le macchine partirono bruscamente, ma si notò subito che non erano partite tutte quante. La prima della fila di mezzo è ferma, dev'esserci un problema meccanico, l'acceleratore rotto, la leva del cambio che si è bloccata, o un'avaria nell'impianto idraulico, blocco dei freni, interruzione del circuito elettrico, a meno che non le sia semplicemente finita la benzina, non sarebbe la prima volta.

Il nuovo raggruppamento di pedoni che si sta formando sui marciapiedi vede il conducente dell'automobile immobilizzata sbracciarsi dietro il parabrezza, mentre le macchine appresso a lui suonano il clacson freneticamente. Alcuni conducenti sono già balzati fuori, disposti a spingere l'automobile in panne fin là dove non blocchi il traffico, picchiano furiosamente sui finestrini chiusi, l'uomo che sta dentro volta la testa verso di loro, da un lato, dall'altro, si vede che urla qualche cosa, dai movimenti della bocca si capisce che ripete una parola, non una, due, infatti è così, come si viene a sapere quando qualcuno, finalmente, riesce ad aprire uno sportello, Sono cieco.


Explicit

Perché siamo diventati ciechi, Non lo so, forse un giorno si arriverà a conoscerne la ragione, Vuoi che ti dica cosa penso, Parla, Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono. La moglie del medico si alzò e andò alla finestra. Guardò giù, guardò la strada coperta di spazzatura, guardò le persone che gridavano e cantavano. Poi alzò il capo verso il cielo e vide tutto bianco, è arrivato il mio turno, pensò. La paura le fece abbassare immediatamente gli occhi. La città era ancora lì.

14/03/20

Covid-19: L'inattività come prova collettiva



Costretti all'inattività. Questo cui stiamo partecipando - con la pandemia da Covid-19 - è un interessante (oltre che angoscioso) - e inedito - esperimento sociale collettivo

Blaise Pascal in uno dei suoi famosi Pensieri, scriveva impietosamente che "Tutta l'infelicità dell'uomo deriva dalla sua incapacità di starsene nella sua stanza da solo." 

Ora siamo costretti obtorto collo, a farlo, come non era mai stato fatto prima, almeno qui. 

Certo, non è la solitudine invocata da Pascal. 

La solitudine obbligata e ritirata del Covid-19 è attenuata parecchio dall'onnipresente schermo dello smartphone, che consola, accompagna, fa viaggiare virtualmente ovunque, intrattiene, diverte, riempie gli spazi, non lascia mai soli, proibisce di annoiarsi, esaudisce ogni desiderio e soprattutto come scriveva Pascal proibisce di starsene nella propria stanza da solo.

Perché come sappiamo, chi è dotato di quella protesi - TUTTI - ormai non è mai VERAMENTE solo. 

E però stavolta, la prova è assai interessante. Perché la versatilità infinita del nostro apparato tecnologico potrebbe - alla lunga - non bastare

Cominciamo ad avvertire, avvertiamo la nostalgia della non virtualità, del contatto soprattutto. Il famoso contatto umano. 

Che abbiamo dato per scontato, ma non lo è.

L'inattività obbligata, alla lunga ci trasformerebbe tutti come gli omini obesi nell'astronave di Wall-E, che vivono mangiando e guardando uno schermo. Non sembra una prospettiva allettante.

Fabrizio Falconi
marzo - 2020 


13/03/20

100 film da salvare alla fine del mondo: 58: Kolya (Kolja) di Jan Sverak, Repubblica Ceca, (1996)



Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo". Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 58: Kolya (Kolja) di Jan Sverak, Repubblica Ceca, (1996) 

Louka Frantisek, violoncellista praghese dissidente squattrinato, durante la perestrojka accetta di sposare per soldi una donna russa, soltanto per farle avere la cittadinanza. 

La donna però fugge all'Ovest e Louka rimane da solo con Kolya, il figlio della donna, un bambino russo di 5 anni, che non parla la sua lingua.

Louka, scapolo impenitente, si industria a far da padre dopo molte riluttanze, e quando finisce per stringere con il bambino un legame profondo, deve riportarlo alla madre. 

E' delicato, poetico il tocco di Jan Sverak e ricorda quello di Jaco Van Dormael con Totò le Heros, o di Kusturica in Papà è in viaggio d'affari. 

Un film magnificamente girato, con interpreti che non si dimenticano e che ha ricevuto numerosi premi tra cui l'Oscar per il miglior film straniero nel 1996. Che scalda il cuore, senza essere mai ricattatorio. 

05/03/20

Perché la serialità tv italiana è così sterile e asfittica?



E' piuttosto inspiegabile - e indice di un paese a corto di ispirazione o di iniziativa - il fatto che in Italia - con il bendiddio rappresentato da 3000 anni di retaggi storici e civiltà patrie - si producano  soltanto serie tv e film sulle gomorre, ndranghete, suburre, oppure rassicuranti polpettoni biopic o don mattei, o al massimo della creatività, gli infiniti papi sorrentiniani.  

Ora non si pretende certo, in questo clima, un riaffacciarsi di produttori come quelli che hanno fatto grande il cinema e la serialità italiana in passato, che erano sperimentatori geniali, non si pretendono certo gli Otto e Mezzo, i Blow up, i Gattopardi, e nemmeno di certo le Anna Karenina di Bolchi o le Mani Sporche di Sartre-Petri, che andavano in onda sulla RAI nazionale, ma qualcosa di minimamente creativo che riguardi le nostre meravigliose storie - La Storia di Elsa Morante? Gli Indifferenti di Moravia? Il nostro ventennio fascista? Gli anni di piombo? Il sequestro Moro? Oppure, che so, se vogliamo essere sicuri di vendere una serie all'estero: una grande serie sulla moda italiana? Una serie tv sulla vita avventurosa di Caravaggio? Un film sulla epoca d'oro di Cinecittà a Roma? Un film sullo sbarco ad Anzio vissuto dagli italiani che vivevano su quella costa? Un bel filmetto sul furto della Gioconda? Una serie storica sulla Sindone? Una serie sulla epopea di Enzo Ferrari? Un divertente serial-commedia ambientato nei retroscena di un grande ristorante di alta cucina italiana?  

Forse è troppo chiederlo? Il fatto è che si guardano le cose prodotte e sfornate ogni mese dalla BBC e dagli altri canali britannici - non parliamo di Netflix, HBO o Amazonvideo - e cascano le mani.


Fabrizio Falconi
- marzo 2020

04/03/20

L'attaccamento alla vita ai tempi del Coronavirus






La cosa che più mi colpisce, ai tempi del Covid-19, è quanto le persone- anche quelle che si lamentano ogni giorno della propria esistenza, che sembrano maledirla o che comunque la valutano priva di significato - siano voracemente attaccate alla vita, a ogni costo, con le unghie e con i denti, quando la sentono minacciata, anche indirettamente, anche come remota possibilità, da una epidemia di un nuovo virus che per ora ha un assai basso indice di mortalità.



In queste circostanze si dimostra un attaccamento alla vita - alla propria vita individuale, sostanzialmente - e un terrore cieco di vederla minacciata, che se fosse applicato al vivere civile di ogni giorno e soprattutto alle future condizioni di benessere collettivo, prima che di se stessi, potrebbe portare frutti immensi, nella cura del pianeta, del prossimo, del vivere in comunità.


Invece, appena l'allarme sarà rientrato e la paura sarà passata, è ipotizzabile che tutto tornerà come prima, ci si ricomincerà a lamentarsi in pace, e a vivere con il solito scialo e il solito scontento, come se niente fosse, immemori di questa lezione arrivata imponderabilmente, forse proprio per costringerci a fermarci e a pensare.

Fabrizio Falconi
marzo - 2020

03/03/20

Libro del Giorno: "Onori" di Rachel Cusk




L'Editore Einaudi manda in libreria l'ultimo episodio della trilogia, con la quale la scrittrice Rachel Cusk, 53 anni, nata in Canada, ma inglese di adozione, ha compiuto una piccola grande rivoluzione nei canoni classici della narrativa e del romanzo. 

Cusk infatti, dopo una serie di romanzi e saggi pubblicati con alterne fortune, si è presa una pausa, ripensando completamente il suo modo di scrivere e inaugurando nel 2015 una trilogia di romanzi brevi iniziata con Resoconto (in orginale Outline), cui ha fatto seguito Transiti (Transit), nel 2017 e ora l'ultimo, Onori (Kudos), pubblicato in Inghilterra nel 2019. 

In cosa consiste la novità di Cusk?

Innanzitutto nel suo stile, di alta, o altissima qualità. Nessuna frase di quelle scritte da Cusk è mai banale. Ogni frase anzi, dei suoi densi racconti, rivela una sorpresa, terminando quasi sempre nel modo opposto - o diverso - a quello che si aspetterebbe il lettore. 

Questo tono spiazzante, si riflette nella struttura stessa dei 3 romanzi, che sono singolari perché non ospitano affatto una vera trama, nel senso tradizionale del termine. 

Il centro della narrazione è infatti la scrittrice stessa, un alter ego della stessa, di cui conosciamo soltanto in nome Faye. 

Il punto di vista quindi è sempre quello soggettivo di Faye, ma la "trama" è intessuta, in Onori, come negli altri due romanzi, degli incontri, delle persone che incontrano la scrittrice, che interagiscono con lei, e che decidono di confessare le loro vite, o parti di esse, ad un ascoltatore ingiudicante; senza soluzione di qualità, una via l'altra. 

In Onori, una donna in viaggio in aereo, per raggiungere una località della vecchia Europa dove è previsto un convegno a cui dovrà partecipare, ascolta un estraneo di fianco a lei mentre parla del suo lavoro, della famiglia, e dell'angosciosa notte precedente alla partenza, trascorsa a seppellire il suo cane. 

Sbarcata e tra le strade in un caldo afoso, tra pause caffè e lunghe attese di navette che fanno la spola tra il ristorante alla sede dei meeting, incontra colleghi, giornalisti, organizzatori culturali, stewards. 

Da queste sue conversazioni - che sembrano e sono riempitivi, pause di tempi morti, dove sembra non succedere nulla esteriormente - emerge un quadro variegato, lieve e profondo, lacerante e confuso di una umanità scissa tra ciò che vorrebbe sembrare e ciò che si trova a dover essere.

Una bella sorpresa e di grande qualità, una scrittura limpida e neutra, ma non priva di compassione, che ricorda la lezione formale di J.M. Coetzee e che ha già ricevuto elogi e premi in tutto il mondo. 

29/02/20

Sabato d'Arte: "Autoritratto come Gesù sul Monte degli Ulivi" di Paul Gauguin, 1889


E' complessa l'opera di Paul Gauguin il cui lavoro nella corrente del postimpressionismo, influenzò il movimento simbolista e tutta l'arte moderna per molti anni dopo la sua morte. 

Persona estremamente religiosa, Gauguin ha concentrato la maggior parte del suo lavoro su temi di religione e Dio. 

Come scrive lo storico dell'arte Thomas Buser, "Sembra che Gauguin credesse in un Dio che respirava la vita in un caos originale di atomi privi di sostanza e quindi stabiliva la sua rotta. In tal modo, Dio si materializzò da solo."  

Avendo quella che all'epoca era considerata una credenza non convenzionale sulla religione, il modo in cui Gauguin trattava temi religiosi all'interno del suo lavoro era diverso dai suoi contemporanei. 

Come un Teosofo, Gauguin usava il rapporto tra Cristo e il mondo come metafora del proprio rapporto con l'arte. 

E' quello che accade in Cristo sul Monte degli Ulivi, dove Gauguin si colloca direttamente al posto di Gesù Cristo.

Oltre a Cristo e ad altri temi religiosi, verso l'ultima parte della sua carriera e vita, una grande parte delle opere create da Gauguin si occupava della sua comprensione e feticismo di "popoli anormali". Facendo molto affidamento sull'astrazione, una grande distinzione tra Gauguin e altri postimpressionisti durante questo periodo, come Vincent Van Gogh , era sua convinzione che gli artisti non dovessero fare affidamento su immagini di riferimento, ma piuttosto sulla propria immaginazione. 

Allo stesso tempo con la sua amara sensazione che nessuno lo capisse, crebbe in lui la convinzione che fosse il" prescelto "," il salvatore "e" il redentore "della pittura moderna".

Gauguin credeva di essere stato scelto per essere il salvatore della pittura moderna e dipinti come Autoritratto e Cristo sul Monte degli Ulivi mostrano come egli combini  la sua figura con quella di Cristo nel tentativo di rafforzare questa argomentazione.

Un dipinto ad olio stranamente accattivante, il Cristo sul Monte degli Ulivi: un autoritratto che pone l'artista al posto di Cristo mentre intraprende un viaggio verso l'ignoto. 

Creando sia un senso di profondità che una gerarchia, si possono vedere due figure che sembrano seguire il personaggio in primo piano

Oltre alle dimensioni e alla spaziatura delle figure nell'opera creando una gerarchia implicita, Gauguin raffigura intenzionalmente le figure sullo sfondo senza facce, al fine di garantire che non attirino l'attenzione dalla figura centrale. 

Gauguin sceglie con cura ogni tratto di pennello per creare una trama sfumata, facendo apparire il lavoro quasi come una visione. 

Nonostante utilizzi colori caldi per costruire la figura centrale, lo sfondo dell'opera, un terreno all'aperto, è composto quasi interamente da colori freddi. 

Dipinto a Le Pouldu in Bretagna nel novembre del 1889, Gauguin era a quel tempo emotivamente sconvolto a causa dei suoi recenti fallimenti nelle esposizioni di Parigi.

In una lettera a Emil Schuffenecker scrisse: "Le notizie che ricevo da Parigi mi scoraggiano così tanto che mi manca il coraggio di dipingere e trascino il mio vecchio corpo, esposto al vento del nord, lungo la riva del mare a Le Pouldu. Automaticamente faccio qualche studio. Ma la mia anima è lontana e guarda tristemente in un abisso nero che si apre di fronte a me. " 

La figura centrale nell'immagine, Gauguin è raffigurata con la testa rivolta verso il suolo e una faccia piena di dolore e disperazione a causa del rifiuto che ha dovuto affrontare. Mettendosi nella posizione di Cristo, Gauguin tenta di paragonare la sua sofferenza a quella del salvatore e continua a ritrarsi come qualcuno che alla fine sarà un messaggero per i suoi contemporanei, nonostante sia stato respinto da loro.

Interrogato sul senso del quadro, Gauguin disse: "deve simboleggiare il fallimento di un ideale, la sofferenza che era sia divina che umana, Gesù abbandonato da tutti i discepoli e l'ambiente circostante è triste come la sua anima ". 

Palm Beach

28/02/20

Smartphone e ragazzi: Le parole di fuoco di Zadie Smith



Passerò per luddista, ma sapere che prima o poi, attorno ai 13/14 anni (ah, ottimista! nota mia), dovrò dare ai miei figli degli smartphone mi fa imbestialire. 

Ora resisto, ma non c'è via di uscita, sarebbero emarginati dal sistema scolastico e poi universitario. 

Odio questi telefoni, penso siano letali per lo sviluppo dei giovani: ti localizzano, sono progettati per creare dipendenza... come se un'intera società, un governo e un'istituzione privata mi dicessero: "A 14 anni tuo figlio deve assumere eroina, tutti sono dipendenti dall'eroina." 

Lo trovo vergognoso! Ma non ho scelta ed è lesivo della mia libertà.

Zadie Smith, intervista di Luca Mastrantonio, il Corriere della Sera, Sette, 21.02.2020

26/02/20

Libro del Giorno: "Sopruso: Istruzioni per l'uso" di Valerio Magrelli




Un pamphlet, un j'accuse, un ironicissimo ma tremendamente reale cahier de doléance.

E' questo l'ultimo libro di Valerio Magrelli: poco più di 100 pagine che si leggono in un soffio, ma che fanno arrabbiare, indignare anche ridere molto. 

Il poeta si libera del principale dei suoi incubi: quello di avere a che fare, in Italia e maggiormente a Roma - la città in cui è nato e abita - con i cosiddetti alterprivi: persone che vivono ignorando completamente la presenza dell'altro, anzi, non calcolandola proprio, assumendo atteggiamenti di brutale noncuranza, di prevaricazione, sopraffazione, umiliazione.

Non si tratta soltanto dei risaputi orrori della burocrazia e dell'autorità costituita (per quanto può esserlo in Italia), ma di qualcos'altro: di atteggiamenti diffusi capillarmente in quello che è chiamato prossimo: nel veloce e tagliente librino Magrelli ne passa in rassegna una schiera: il saltafila alla posta, il medico che umilia il paziente, gli autisti infestanti con le loro sirene antifurto, la musica sparata ad alto volume nei parchi e nei bar, i vivavoce dei cellulari aizzati a tutta birra nei vagoni dei frecciarossa, i padroni di cani lasciati ad abbaiare per otto ore di seguito sui balconi condominiali, addirittura le bande di Hare Krishna che arrivano ad occupare militarmente un appartamento dello stabile dove Magrelli vive, con i loro ritornelli mistici cantati a tutto volume dalle finestre aperte dalla mattina alla sera e perfino l'apertura di un ristorantino adeguato ai gusti della setta, al piano terra, con effluvi e mondezza che si disperdono in ogni dove. 

Magrelli autoproclama nel libello la sua parzialità, la sua propensione "genetica" alla reazione al sopruso e lo fa con un fulminante breve saggio finale dedicato alla roscitudine, cioè alla condizione di essere rosso di capelli - e quindi discriminato e soggetto naturale di soprusi - che appartiene sin da bambino al poeta romano. 

Proprio questa propensione è però forse la molla che agita in Magrelli la spinta ad una ribellione che - come nell'episodio degli Hare Krishna nel quale un unico abitante esasperato innesca la protesta dell'intero quartiere contro gli "infestatori" arancioni - egli spera si propaghi, trovi coscienza nelle persone, porti ad una riappropriazione degli spazi di libertà personali, così miserabilmente travolti dal vivere sguaiato e prepotente che abita le nostre città. 

Fabrizio Falconi 


25/02/20

La difficoltà di percepire e accettare le devastazioni sul Clima




Il motivo principale per cui la maggioranza delle persone è restia o indifferente alla percezione dei rapidissimi cambiamenti climatici che investono il pianeta nell'età dell'antropocene (l'età cioè in cui il supersviluppo umano diventa determinante per il destino del pianeta), consiste nel fatto che la stragrande maggioranza della popolazione - almeno in occidente - risiede in centri urbani grandi o grandissimi o spaventosamente grandi.

Fino ad appena 100-150 anni fa non era così. La maggior parte degli esseri umani viveva in diretto contatto - o totalmente immersa - nella natura.

Essi quindi percepivano ed erano sensibili - molto, molto, molto - più di noi ai minimi cambiamenti del clima. Perché questi determinavano la loro vita e la loro sopravvivenza.

Oggi che viviamo ingabbiati in città chiuse - case, automobili, uffici - possiamo far finta che il clima sia solo la diversità di sfondo del cielo - azzurro o grigio - e la scomodità del doversi preoccupare quando piove o fa caldo di come vestirsi e se si può o no andare al mare.

Purtroppo per noi però la nostra percezione conta poco, perché intanto il processo va avanti inesorabilmente.

Solo che noi, come facevano quelli dell'orchestrina sul Titanic, continuiamo allegramente a ballare.

Fabrizio Falconi
- febbraio 2020

24/02/20

100 film da salvare alla fine del mondo: 57. Fino all'ultimo respiro (À bout de souffle) di Jean-Luc Godard (1960)


Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 57. Fino all'ultimo respiro (À bout de souffle) di Jean-Luc Godard (1960)

Uno dei più bei film di sempre del cinema francese. Michel Poiccard (Jean-Paul Belmondo) è un gangster che lascia la Cote d'Azur per andare a prendere dei soldi a Parigi; lungo il percorso uccide  un poliziotto che lo vuole fermare per un controllo; a Parigi ritrova l'amante americana (Jean Seberg) e si dà da fare per rintracciare l'emissario, sempre braccato dalla polizia.

Jean-Luc Godard firma con quest'opera, il cui soggetto gli venne ceduto da François Truffaut nel 1959, (anno in cui quest'ultimo presentò a Cannes I 400 colpi), una sorta di manifesto della Nouvelle Vague, movimento formato da giovani e promettenti registi francesi, che nacque alla fine degli anni '50 con spirito di contestazione e innovazione di quelle categorie ormai solidificate del cinema del passato. 

Sfruttando la lezione dell'esperienza neorealista del cinema italiano e del cinema di genere noir americano, A' bout de souffle rivoluziona ogni canone, facendosi bandiera, filologicamente, di una estetica esistenzialista, alla quale il mezzo cinematografico - riprese sempre mobili e sconnesse, montaggio frammentato, particolari iperrealistici, attenzione maniacale per gesti e movimenti degli attori - presta al pieno le sue possibilità tecnico/espressive. 

Anche filosoficamente, il film, è un tributo alle tematiche esistenzialiste: Belmondo e Seberg incarnano i ruoli di due irregolari, che non possono e non vogliono, non potendo, sottostare alle regole grigie della società, e che scelgono di vivere con piena consapevolezza le loro volatili esistenze fino alla fine, fino alla reale eventualità che siano bruciate del tutto. 


Una lezione di stile e di coerenza che ancora oggi appassiona e non perde colpi.



21/02/20

"Porpora e Nero" di Fabrizio Falconi - La Mummia di Tollund



“Mi dica, allora”.
“Ecco: tutta la spiegazione si ricava da quel riferimento al ‘Borgo di Silke’. Vede, c’è già un accenno preciso quando, prima, nomina lo spirito di Amleto. La Danimarca… Io non ho fatto altro che inserire nel motore di ricerca la parola Silke, e poi la parola ‘mummia’, perché mi sembra che si parli di una mummia, che deve ‘consegnare il messaggio con la destra’.
Allora, è subito venuto fuori!”.
“Venuto fuori cosa?”.
Laura, prima di rispondere, estrasse dalla voluminosa borsa il computer portatile, divaricò lo schermo e spinse delicatamente il pulsante di accensione. Poi piantò i gomiti sul tavolo e guardò negli occhi il vecchio studioso: “In Danimarca esiste una mummia, chiamata L’uomo di Tollund. È stata scoperta nel 1950, in una torbiera, a pochi chilometri dalla città di Silkeborg, nello Jutland”.
“Non mi dica, ” borbottò Bonnard incredulo, “che la nostra sorgente di facezie pretenda ora di portarci davvero fino in Danimarca!”.
“Sembrerebbe proprio di sì, Bonnard”, disse Laura, perentoria, “il riferimento alla torba parla chiaro. È una mummia molto famosa. Il corpo fu ritrovato casualmente da due fratelli che erano andati a tagliare un po’ di torba in una zona di campagna. Mentre scavavano, affiorò dal terreno un cadavere, e loro, inorriditi, pensarono ad una recente sepoltura seguita a qualche fatto criminoso. Chiamarono la polizia. Ma una volta arrivati sul posto, gli inquirenti si resero conto che si trattava di un repertoarcheologico, straordinariamente conservato. Furono convocati studiosi, che prelevarono il corpo e lo portarono in un laboratorio per analizzarlo. E si scoprì così, dopo lunghi esami, che apparteneva ad un uomo vissuto circa 400 anni prima di Cristo!”.
Bonnard la interruppe: “Una mummia in Danimarca! Questa è bella. Ne è sicura?”.
“Sì, adesso il reperto è conservato nel museo di Silkeborg, un corpo intero ranicchiato in posizione fetale. L’uomo è stato impiccato e c’è ancora la corda al collo. Ma guardi qui, non è impressionante?”.
Finalmente sullo schermo del computer si materializzò una foto che Laura aveva trovato nel sito web del museo danese: ritraeva la testa di un uomo, con gli occhi chiusi, come dormiente, e i dettagli più minuti del volto straordinariamente realistici, come quelli di una maschera di cera perfettamente
disegnata.
“La nostra Ester non smette di sorprenderci!” esclamò Bonnard, avvicinandosi allo schermo per osservare meglio i particolari.
Dopo qualche secondo si alzò, armeggiò nel cassetto del secretaire, e tornò a sedersi, con la pipa in mano. 
“Le dispiace se fumo?”.
“No, certo”, rispose Laura ipnotizzata dalla faccia marrone dell’uomo di Tollund, pietrificato dopo la sua agonia. 
“Perché è stato impiccato?” chiese Bonnard.
“Non si sa, nessuno lo sa. È una mummia di più di duemila anni fa, come le ho detto. Ci sono diverse ipotesi, da quanto ho letto, su come sia stato ucciso. Nel suo stomaco sono state ritrovate diverse sementi e verdure, tra cui grani di segale cornuta, un particolare che ha fatto pensare ad un sacrificio. Tacito parla nel De Origine et situ Germanorum dei riti pagani germanici dedicati alla dea Nerthus, la dea della fertilità”. 
“Parliamo di quali Germani per l’esattezza?”.
“Non lo so bene, Reudigni, Eudosi…”. ribattè Laura, “non ho avuto il tempo di approfondire. Quel che è certo è che la nuova traccia porta lì. Gliela rileggo: Proviene dal borgo di Silke quel lamento. La bocca è chiusa, ma canta ugualmente. Guarda i suoi occhi: non dorme, riposa. Il messaggio consegna alla destra, e della mummia non resta che un pezzo di torba, la testa. Mi sembra piuttosto chiaro”.
Bonnard, piuttosto disorientato di fronte all’idea di una trasferta all’estero, alla quale non aveva proprio pensato, prese tempo, accendendo con calma il braciere della pipa. Aspirò diverse boccate del buon tabacco – per fatalità di produzione danese – che aveva estratto dalla scatolina d’argento,
regalo di Elena di tanti anni prima.
“Che intende fare, allora?” chiese alla fine, sorvegliando le mani di Laura, che trafficavano senza posa tra i fogli sparsi sul tavolo.
Lei lo guardò a lungo, prima di rispondere. Bonnard si accorse che le tremava leggermente la palpebra dell’occhio destro.
“Dovremo andare, mi sembra chiaro”.
“Ha già detto qualcosa a Montenegro?”.
“È per questo che sono venuta subito qui. L’ho trovato, uscendo di casa, fuori della porta, mi aspettava sull’altro lato del marciapiede”.
“Davvero? Era da solo?”.
“Sì”.
“Che le ha detto?”.
“Mi ha fatto paura, aveva uno sguardo diverso dal solito. Con un cenno mi ha fatto segno di avvicinarsi e di seguirlo. Camminava velocemente, non riuscivo a stargli dietro”.
“Che le ha detto?”.
“Che anche loro hanno decifrato la traccia”.
“Oh questa è proprio bella!” sghignazzò Bonnard, “e allora che ci pagano a fare?”.
“Mi ha detto che i tempi si stanno accorciando, e che vogliono fare in fretta. Perciò, senza aggiungere altro, e presupponendo che io, cioè noi, sapessimo già tutto, mi ha detto che domani mattina alle undici c’è un volo per Copenhagen. Torneremo già in serata. Ci sono due biglietti a nostro nome,
l’appuntamento è alle dieci in punto, al gate 323. Noi dovremo arrivare separatamente, ha detto”.
“Un momento! Un momento!” fece Bonnard, agitando la mano con la pipa, diradando la nube di fumo azzurro sospesa nell’aria, “un momento, Laura! Analizziamo per bene la cosa”.
“In che modo ancora?”.
Sembrava impaziente di convincerlo della necessità di quella partenza, e della necessità di non contravvenire agli ordini di Montenegro.
“Se le cose stanno così, non c’è alcuna necessità che venga anch’io fin laggiù!”.
Laura lo spiò per capire se stesse dicendo sul serio. 
“Ho una certa età”, aggiunse bonariamente Bonnard, “se si tratta soltanto di fare una visita in questo museo danese, di dare un’occhiata alla mummia in questione e prelevare l’ennesimo regalino in forma di biglietto, predisposto dal nostro misterioso tessitore di trame, non c’è alcuna necessità di andare in due”.
Laura, scrollò la testa:
“Non mi dirà che vuole lasciarmi da sola con Montenegro”.


Tratto da Fabrizio Falconi - Porpora e Nero - Edizioni Ponte Sisto, 2019
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19/02/20

Come la paura dei nuovi virus alimenta la paura per il diverso

Immagine ingrandita del Coronavirus


La paura/fobia dei nuovi virus è da sempre strettamente collegata alla diffidenza/paura dello straniero. 

È un vecchio rito umano quello di "ungere" i diversi per preservarsi

Nei tempi dell'Aids (che comunque è ancora vivo; nei paesi dell'Europa dell'Est e dell'Asia centrale si stima che vi siano, nel 2010, 1,5 milioni di persone sieropositive e che nello stesso anno 160.000 siano stati i nuovi casi di infezione e 90.000 i decessi a causa dell'AIDS) era rassicurante sentirsi al sicuro perché eterosessuali e esenti da droghe.

E in qualche modo era conseguente immaginare una sorta di punizione divina- come è sempre stato - per i diversi.

Il meccanismo è simile per gli stranieri.

La città è al sicuro dentro le sue mura e perciò salva. È quello che proclama Trump con i suoi muri e le famiglie messicane separate a forza alle frontiere. È quello che alimenta psicologicamente i sovranismi esplosi in tutto il mondo dopo l'11 settembre.

Se stranieri e diversi restano fuori, tutto andrà bene. O comunque meglio. La storia dell'umanità però, come scrisse Jared Diamond, non l'hanno fatta solo le armi e l'acciaio, ma anche le malattie.

La circolazione delle malattie tra stirpi diverse ha enormemente rafforzato la razza umana. Mentre comunità chiuse, "protette", racchiuse, si sono rapidamente indebolite e alla fine estinte.

Un mondo di muri e di recinti dove tutti si sentono altri da altri, migliori, diversi, separati, "al sicuro", o peggio ancora predestinati, è un mondo che assomiglia molto all'inferno.

Fabrizio Falconi

18/02/20

La buona vita non è non avere rimpianti, non avere rimorsi




Non il dire che si è vissuta una vita senza rimpianti o senza rimorsi, ma il contrario, è secondo me l'indice dell'aver vissuto una buona vita

Viviamo immersi dentro una retorica narcisistica che ci esalta sulla chimera dell'essere noi "padroni assoluti del nostro destino", insufflata da quell'altra finta epica esistenzialista delle canzoni - da My way a Je ne regrette rien - che decreta il trionfo assoluto delle scelte - giuste o sbagliate che siano non importa - come orgoglio di una vita degna di essere vissuta

Ma invece non la mancanza di rimpianti o rimorsi, ma il fatto di averli vissuti, elaborati e superati (quelli che possono esserlo) è motivo di gioia e di vanto, nella economia di una vita. 

Una vita senza rimpianti e senza rimorsi non è possibile, non è autentica e non è nemmeno una bella vita, perché non è umana

Essere umani vuol dire essere fragili, vuol dire anche cadere e sbagliare, vuol dire spesso giudicare male le persone che si hanno vicine, vuol dire non essere grati, non mostrare l'amore che serve, fare del male anche quando non si vorrebbe farlo

Non nutrire rimpianto o rimorso per questo è, questo sì, inumano. La vita non è NON AVERE RIMPIANTI. La vita- il senso vero della vita - è avere e avere avuto una vita consapevole, cioè autentica; anche nel rimorso, anche nel rimpianto.

Fabrizio Falconi
- febbraio 2020

17/02/20

100 film da salvare alla fine del mondo: 56. Il coltello nell'acqua (Nóż w wodzie) di Roman Polański (1962)



Questo blog dedica, ad appuntamenti fissi - ogni lunedì - un catalogo personale dei miei 100 film da salvare "alla fine del mondo".  Non saranno ovviamente vere e proprie recensioni, ma un piccolo campionario degli affetti per queste opere che hanno segnato epoche e vite di molti, se non di tutti. 

100 film da salvare alla fine del mondo: 56. Il coltello nell'acqua (Nóż w wodzie) di Roman Polański (1962)

E' difficile scegliere nella filmografia di Roman Polanski, uno dei più geniali e prolifici autori/registi degli ultimi 50 anni.

Optiamo, obtorto collo, per il suo film d'esordio, realizzato dall'allora ventinovenne regista, quando era ancora nel suo paese di origini, in Polonia (in realtà Polanski nacque a Parigi da genitori ebrei polacchi, ma dall'età di 3 anni, fece ritorno nella madrepatria, mentre era nell'occhio del ciclone dell'occupazione nazista), anche perché si tratta di uno dei più fortunati debutti della storia cinematografica: il film fu presentato in concorso alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, dove ricevette il Premio FIPRESCI, ma soprattutto fu il primo film polacco ad ottenere una candidatura all'Oscar al miglior film straniero (battuto nientemeno che da 8½ di Federico Fellini).

L'esordiente Polanski si guadagnò dunque una immediata notorietà internazionale, ben rappresentata dalla copertina del settimanale statunitense TIME a lui dedicata.

Emigrato in Francia, poi in Gran Bretagna e quindi negli Stati Uniti, solo ben quarant'anni dopo il regista tornerà a girare un film in Polonia, Il pianista, in cui mise in scena molto del suo tragico passato e del tragico passato della sua famiglia, ebrea, sterminata dall'Olocausto nazista.

Due dei tre attori protagonisti del film (Jolanta Umecka, che interpreta Cristina, e Zygmunt Malanowicz, che interpreta il ragazzo) non avevano pressoché alcuna precedente esperienza professionale.

In tutto il film non viene impiegata nemmeno una comparsa (sono solo 3 gli attori coinvolti); in nessun momento della pellicola, infatti, appare qualcuno al di fuori dei tre protagonisti. 

In due scene del film vengono mostrati quasi integralmente i seni della protagonista (mentre si asciuga a bordo della barca), la qual cosa fece scalpore, in quanto per niente d'uso nel cinema conservatore del tempo.

Il film è stato anche definito un "thriller", anche se in realtà mancano alcuni elementi per annoverarlo pienamente in quel genere cinematografico.


La trama è semplice e inquietante - come molto del cinema di Polanski: il giornalista sportivo Andrea e la moglie Cristina (da cui prende il nome la loro barca) si stanno recando in auto nella zona dei laghi, per trascorrere un weekend in barca a vela, quando s'imbattono in un giovane autostoppista, fermo in mezzo alla strada, che solo all'ultimo momento Andrea evita d'investire. 

Irritato ma anche colpito dalla sua sfrontatezza, l'uomo lo invita in modo sarcastico a salire in auto e poi, una volta arrivati a destinazione, gli propone addirittura di unirsi a loro per la gita sul lago. Il giovane, che sostiene di non saper nuotare, accetta quella che appare una sfida beffarda più che un invito amichevole. 

Nel corso della giornata in barca, Cristina assiste alla crescente tensione del rapporto (di reciproca ostilità, ma anche di sotterranea attrazione) tra i due uomini. 

Fino al culmine: il giovane, ormai prossimo a sbarcare, lamenta la scomparsa del suo notevole coltello a serramanico, che in precedenza ha esibito con orgoglio come uno strumento indispensabile per i suoi vagabondaggi. 

Andrea glielo restituisce in malo modo, come fosse stato accusato di averglielo sottratto di proposito, e l'oggetto conteso finisce inavvertitamente in acqua. Quando il giovane gli chiede di tuffarsi a recuperarlo e l'altro si rifiuta, i due vengono alle mani e il giovane finisce fuori bordo, sparendo sott'acqua

Cristina si lancia subito a soccorrerlo e Andrea, pur convinto che il giovane abbia mentito e in realtà sappia nuotare, si unisce alla ricerca che si rivela inutile. 

 Tornati sulla barca, litigano violentemente, la donna rinfaccia al marito la sua arroganza e lo accusa di essere interamente responsabile del tragico incidente e lui, non sopportando ulteriormente il confronto, si getta in acqua e si avvia a nuoto verso la riva non lontana. 

Poco dopo, il giovane, che si era nascosto dietro una boa, risale a bordo della barca. Cristina prima lo schiaffeggia, disgustata dall'inganno, poi, resa vulnerabile dall'ira verso il marito e dall'attrazione verso il giovane, lo bacia e fa l'amore con lui

Dopo aver sbarcato il giovane, Cristina arriva al porticciolo dove ritrova Andrea, che è determinato a presentarsi alla polizia e raccontare quanto accaduto. Lei gli rivela che il giovane non è annegato, ma il marito non le crede e pensa si tratti solo di una pietosa menzogna a suo beneficio; allora lei, sprezzante, rivela anche il proprio tradimento, di nuovo non creduta. 

Il film si conclude con l'auto ferma davanti al bivio che può condurli a casa o alla stazione di polizia.

Firmato da Polanski insieme a Jerzy Skolimowski, altro astro nascente della cinematografia polacca e internazionale, che scrissero insieme la sceneggiatura, Il coltello nell'acqua è un film perfetto, teso e memorabile, da rivedere. 

16/02/20

Libro del Giorno: "La ladra di frutta" di Peter Handke



Personalmente, come tanti elettori, ho accolto con gioia il riconoscimento del Premio Nobel per la Letteratura 2019 al grande Peter Handke, che ha segnato la letteratura degli ultimi 40 anni. 

Peter Handke, nato a Griffen (Austria), nel 1942, è romanziere, drammaturgo e poeta e le sue opere sono state formative per una intera generazione di lettori, non solo europei: Storie del dormiveglia, Falso movimento, Il peso del mondo, La storia della matita, Pomeriggio di uno scrittore, Epopea del baleno, Saggio sul luogo tranquillo, Saggio sul cercatore di funghi, Prima del calcio di rigore, I giorni e le opere, I calabroni oltre alla produzione poetica culminata nel celebre Canto alla durata.  

Ha vinto innumerevoli premi tra cui il premio Franz Kafka nel 2009 e ­l’International Ibsen Award nel 2014.
Famose e celebrate le sue collaborazioni con Wim Wenders, fino a Il cielo sopra Berlino.

Nelle motivazioni dell'Accademia Svedese per il conferimento del Premio Nobel per la Letteratura si legge: “la sua opera influente che ha esplorato con ingegnosità linguistica la periferia e la specificità dell’esperienza umana”.

E' quello che succede  anche nell'ultimo fluviale romanzo, scritto da Handke, e uscito nel 2019.

Ad aprire il nuovo libro di Peter Handke, definito dall’autore stesso «Ultimo Epos», è una puntura d’ape, la prima dell’anno, che in una giornata di mezza estate rappresenta per lui un segnale. È il momento di lasciare la «baia di nessuno», la casa nei pressi di Parigi, per mettersi in cammino verso la regione quasi disabitata della Piccardia, ripercorrendo l’itinerario compiuto, in un passato non meglio definito, dalla ladra di frutta.

La ragazza – un personaggio sfuggente, dai tratti leggendari – «afflitta dalla smania di vagare» e incline a scartare dalla strada maestra per «sgraffignare» e assaporare i frutti di orti e frutteti, è partita invece con un intento preciso: ritrovare la madre, scomparsa da circa un anno dopo aver lasciato senza preavviso il suo posto di dirigente in una banca.

Il viaggio della ladra di frutta e quello del narratore finiscono per sovrapporsi, per confondersi, per specchiarsi l’uno nell’altro: una serie di peripezie, incontri, folgorazioni ispirate dal contatto con la natura, che culminano in una grande festa.

E questa sarà un approdo e un ricongiungimento, ma anche l’occasione per celebrare il vagare, l’erranza fine a se stessa, tutte quelle deviazioni dal tracciato che regalano visuali e doni inaspettati, come i frutti presi di soppiatto dai frutteti altrui, tema da sempre centrale nella narrativa di Handke. 

Il «semplice viaggio nell’entroterra» è ricco di rivelazioni e scoperte, e diventa, o forse è sempre stato, anche un percorso interiore.

15/02/20

Libro del Giorno: "Sulle fiumane della Grand Central Station mi sono seduta e ho pianto" di Elizabeth Smart



E' un breve romanzo sul tormento e l'estasi dell'amore.  L'unico romanzo pubblicato da Elizabeth Smart, pubblicato in Italia anni fa dal Saggiatore e ripubblicato, molto recentemente dall'editore SE Assonanze, nella traduzione di J. Rodolfo Wilcock, con testo a fronte e una fulminante postfazione di Cesare Garboli. 

E' una vicenda molto semplice - e simile a quella di molte altre storie d'amore - ma raccontata in forma poetica, ed estrema, dando largo spazio agli impulsi emotivi e agli slanci incontrollabili della follia amorosa, che rende fuori da tutto, con continui riferimenti alle parole delle Sacre Scritture. 


Forse nessuno legge Sulle fiumane della Grand Central Station mi sono seduta e ho pianto, romanzo di Eli­zabeth Smart, uscito in Italia il mese scorso (novembre 1971) presso «Il Saggiatore», tradotto da quel traduttore ineguagliabi­le che è Rodolfo Wilcock. 

Forse nessuno lo legge. 

I giornali, che io sappia, non ne hanno parlato; se ne hanno parlato, ne hanno certo parlato poco. D'altron­de penso che in Italia pochi abbiano mai sentito nominare Elizabeth Smart. Io ignoravo la sua esistenza fino a qualche giorno fa, quando un mio amico mi ha detto di leggere Sulle fiu­mane perché era bellissimo. Difatti è bellissimo. 

Ora su Elizabeth Smart so quanto sta scritto nella prefa­zione. È nata in Canada. È oggi sulla quarantina. Ha sposato un poeta inglese e vive nell'Essex. 

Sulle fiu­mane l'ha scritto e pubblicato nel '45, in Inghilterra. È stato ristampato nel '66. Dopo Sulle fiumane non ha scritto altro. Sulle fiumane è un romanzo complesso e difficile. Questo all'inizio mi ha respinto. Io non amo i roman­zi difficili: è forse una mia limitazione. Ho sempre una gran paura che siano fintamente difficili, che l'oscurità sia creata di proposito per nascondere la povertà dell'ispirazione. 

Non mi piace quando chi scrive arruf­fa e aggroviglia di proposito il tempo e i fatti. Desi­dero che in un romanzo tutto sia disteso, aperto e lim­pido. Desidero sapere dove mi trovo, come sono e chi sono le persone, desidero sapere subito cosa sta suc­cedendo. 

Per un poco, leggendo Sulle fiumane, non mi orien­tavo, e ho creduto di trovarmi in mezzo a una vicenda fintamente oscura. Ho però provato a un certo punto una sensazione di estrema chiarezza. L'oscurità era qui originata non da un proposito ma da un'esigenza assoluta e vitale.

Nel '45, Smart era una ragazza di diciotto o vent'anni. Doveva essere una ragazza identica a quella del suo ro­manzo e doveva essere appena emersa da una storia iden­tica, Questo può sembrare un particolare secondario. Però non è tanto secondario. Leggendo questo romanzo abbiamo la sensazione assai strana di trovarci nel cuore di una confessione veritiera, bruciante e ossessiva, ma di respirare un'aria cristallina e gelida, come se chi racconta giacesse ancora in fondo a una palude e nello stesso tem­po contemplasse il mondo e se stesso da cime altissi­me e coperte di ghiacci. 

Questo romanzo, lo poteva scrivere solo una donna. Lo poteva scrivere solo una donna e solo la ragazza che ci appare davanti in queste pagine. 

Impossibile pensare che questa ragazza abbia inventato una sola sillaba. 

Raramente in un romanzo è così essenziale il fatto di essere scritto in prima persona. Pure l'identità femmini­le, onnipresente in ogni riga, e l'accento inconfondibi­le di autobiografia reale, non sono qui una limitazione. Pensiamo di solito che, quando uno scrive, non do­vrebbe essere né uomo, né donna, e pensiamo che l'au­tobiografia dovrebbe essere un fatto incidentale e lasciato alle spalle. 

Ma in Smart la natura femminile e l'accento autobiografico sono inseparabili dalla sua fi­sionomia intima, così come in alcuni scrittori il dialetto e la patria d'origine sono inseparabili dalla loro fisio­nomia e invece di immiserirli e circoscriverli si alzano con essi e li accompagnano nella loro essenza universale. 

Il fatto che Smart sia una donna e parli di sé è inseparabile dal suo scrivere così come è inseparabile da Italo Svevo la città di Trieste e nel suo linguaggio un fondo di dialetto triestino. 

Sulle fiumane ha una vicenda tenue, niente affatto insolita. La vicenda appare e scompare in un intrico di immagini. Smart, più che raccontarla, sembra inse­guirla. I personaggi non sono enunciati, commentati o descritti, ma li illuminano rapidi lampi.

Una ragazza ama un uomo sposato con un'altra donna e omosessua­le, Per un'estate, i tre se ne stanno uniti sulle coste della California, avviluppati nella loro vicenda privata, mentre in una Europa remota ma incombente infuria la guerra. 

Nelle sventure che colpiscono le collettivi­tà umane, le sventure dei singoli non diventano più inconsistenti ma più crudeli, le dilaniano dolori lonta­ni, un caso brutale e distratto le calpesta e le spinge alla cieca nella fossa comune. 

L'uomo e la ragazza se ne vanno insieme. Nella ragazza, la suprema felicità dell'amore e i presagi di un distacco irrimediabile e definitivo sono confusi e congiunti, così come sono confusi e congiunti nel suo spirito i paesaggi ricordati o percorsi, i sordidi alber­ghi, le spiagge solari, le squallide trattorie e i profili spettrali delle grandi città

Passato e presente si incro­ciano e si confondono, il futuro è una forma incredula non fioriscono decisioni o speranze ma il pensiero incontra soltanto presagi sibillini di devastazione per i destini dei singoli come per l'intiero universo. 

Ai confini dell'Arizona, l'uomo e la ragazza vengono arrestati. La ragazza è incinta. L'uomo tenta di uccidersi. Li­berati, l'uomo torna dalla moglie, la ragazza dai genitori

La ragazza riparte in cerca dell'uomo, nel corso del viaggio rinuncia a rivederlo mai, non c'è spiegazione, i nostri atti non hanno sempre una spiegazione o ne hanno infinite e incoerenti ma strazianti e irrevocabili, alla Stazione Centrale di New York si mette seduta e piange. 

È noto che ci sono due modi di scrivere i romanzi. Un modo è costruire, architettare, fare calcoli nella propria testa come in un pallottoliere, spostare luoghi e persone pesanti come macigni. Chi scrive si sente forte, stanco, prepotente, paziente, autoritario, aggres­sivo, virile. Si sente a pezzi come se avesse fatto un trasloco. Nella sua testa, le sue faticose costruzioni hanno una consistenza ferrea e pungente. Si sente la testa piena di chiodi e di spilli. 

 L'altro modo è non costruire nulla, non architettare nulla e restare se stesso. Chi scrive non si sente forte ma debole, languido e molle. Spera che la poesia e la vita fluiscano dal suo languore. La sera non si sente stanco, ma nervoso. Non si sente né paziente né prepotente ma attonito e stupefatto. Non si sente la forza nemmeno di strappare un filo d'erba. Ha solo voglia di starsene buttato per terra a piangere. Chi scrive sa che dovrà scegliere fra l'ordine e il disordine. Oggi noi di solito scegliamo il disordine. L'im­pulso a costruire e architettare in ordine e in armonia con noi stessi e con gli altri sembra scomparso dal mon­do. Abbiamo perduto le forze e ci sentiamo sopraf­fatti e infelici

Ci sentiamo vittime e le vittime non costruiscono. I romanzi che oggi scriviamo, sempre o quasi sempre, sono scritti nel disordine e in un lungo sfogo di lagrime

A volte qualcuno, fra le lagrime, afferra del mondo circostante qualche lembo reale. Non ha compagni o non li vede intorno a sé e non indirizza la sua angoscia ad anima vivente. 

Tutt'al più chiede un poco di attenzione ai rari passanti che si sof­fermano per un attimo e vanno oltre. 

Smart ha scritto il suo romanzo nel secondo modo. L'idea di costruire era quanto mai remota dal suo spi­rito. La ragazza che dice «io» rovescia la sua confes­sione in un lungo, doloroso soliloquio. 

Non sembra destinare la sua storia a nessuno. Scrive il suo roman­zo come uno che getta un messaggio in mare in una bottiglia. Sulle fiumane è la storia d'un'ossessione amorosa. 

Nessuno quanto una persona in preda a un'ossessio­ne amorosa è in genere meno in grado di dare parole e immagini alle vicende nelle quali si dibatte il suo pensiero. Le ossessioni amorose non hanno parole ma solo gemiti inarticolati. Gli occhi troppo annebbiati dalle lagrime non vedono il mondo. Vi gettano solo uno sguardo allucinato e distratto. La poesia invece non è mai né distratta, né allucinata, né annebbiata, si separa dalle ossessioni e si libera dalle catene che la imprigionano a terra. 

La cosa strana in questo romanzo è che vi sentia­mo ancora i pesi delle catene, la nebbia delle lagri­me, il disordine del dolore e il fluire liquido e transitorio delle giornate vissute e patite e non lasciate alle spalle. 

Ma su tutto si è stesa la struttura lineare, lim­pida, solida come le rocce e misteriosamente pura, ar­moniosa e impersonale dell'arte

Natalia Ginzburg
Articolo tratto dalla raccolta Vita immaginaria, Arnoldo Mondadori editore, Milano, 1974


Elizabeth Smart
Sulle fiumane della Grand Central Station mi sono seduta e ho pianto
Traduzione J. Rodolfo Wilcock
SE - Assonanze, Milano 2019
pag. 151 - Euro 20