15/09/18

Palestra della durezza.




Ci sono tanti modi per allevare un ragazzo o una ragazza alla palestra della durezza.  Nei primi anni di vita - Bettelheim sosteneva che fondamentali per la determinazione del carattere fossero i primi 6 - basta mettere in scena nel teatro famigliare comportamenti e modelli come: l'instaurazione del senso di colpa come dogma, la repressione, il rispetto di regole dogmatiche, la propensione all'istinto di fuga, la ribellione, la competizione, la freddezza o l'assenza. 

Certo, ha ruolo fondamentale anche la predisposizione, il carattere, quello che è il proprio destino personale, quello con cui si nasce. 

Ma non c'è dubbio che ciò che si assorbe nell'ambiente famigliare nei primi anni, soprattutto a livello di sofferenza interiore - quando il bambino e poi l'adolescente si sentono abbandonati a se stessi e obbligati a trovare una strada propria, una regola morale o non morale interna, indipendente - racconterà molto della vita di un adulto. 

Esercitato a lungo alla palestra della durezza, il bambino diventato adulto tenderà a ripetere quei modelli, a metterli nuovamente in scena, ciclicamente, periodicamente, nevroticamente per poterli poi smentire, tradire o con-traddire.  

Non servirà ricoprire questo adulto di rassicurazioni o bene, dispensato più o meno gratuitamente. Il carattere tenderà a imporsi non appena sarà libero di farlo, cioè non appena i vincoli o le sovrastrutture - un sentimento, un obbligo, un legame - si saranno spezzati. 

Il carattere anzi, segretamente, lotterà sempre, già da prima e durante, contro questi vincoli e queste "sovrastrutture". Remerà contro, per poter un giorno dire all'altro se stesso, trionfante: "ecco, vedi, io avevo ragione". 

La palestra della durezza lascia segni come cicatrici, che non si cancellano con il tempo.  Rifiutando, fingendo di accettarlo, ciò che è mansuetudine, malleabilità, comprensione, genuinità. 

E' come se - e la storia della letteratura mondiale e del cinema è piena di modelli/stereotipi di questo tipo - l'eroe della durezza avesse bisogno di dimostrare a se stesso molto prima che al mondo, che occorre essere duri, non lasciarsi ingannare, non scendere a patti.  Jake La Motta prenderà a testate le pareti della prigione (come avviene nel finale di Toro Scatenato), pur di non dover ammettere con/a se stesso - che è stato, per molto tempo, forse per tutta la vita, il principale, inutile nemico di se stesso. 

Fabrizio Falconi



14/09/18

Libro del Giorno: "Il Falco" di Hernan Diaz.




Hernan Diaz, l'autore di Borges, Between History and Eternity (Bloomsbury, 2012), direttore associato dell'Istituto spagnolo presso la Columbia University, ma americano di nascita, ha giocato una bella battaglia con questo romanzo, Il falco (In the distance il titolo originale), uscito l'anno scorso, ma non l'ha vinta. 

L'idea era molto interessante: rivalutare il genere western, da troppo tempo abbandonato dalla grande narrativa americana, rivitalizzandolo da una prospettiva nuova, immaginandone protagonista nientemeno che un gigante svedese, Hakan, sfuggito nel mezzo dell'Ottocento dalla miseria della sua terra e della sua famiglia e imbarcatosi su una nave diretta verso il Nuovo Mondo. 

Il romanzo, che pure ha avuto successo in patria, giungendo finalista al Pulitzer e al Pen/Faulkner Award, non convince, nonostante - o forse proprio per questo - il talento narrativo di Diaz. 

La vicenda di Hakan coinvolge subito dalle prime pagine: in un immediato e lunghissimo flashback - che dura per tutto il libro - scopriamo l'incubo del viaggio di Hakan: partito per l'Inghilterra insieme al fratello per imbarcarsi da Portsmouth per l'America, Hakan perde Linus. I due si mischiano alla folla, e Hakan, sicuro che il fratello sia salito a bordo della stessa nave, si imbarca per scoprire che invece il fratello non c'è.  E probabilmente ha preso una differente nave diretta a New York. 

Lungo il percorso Hakan scopre anche - complici le difficoltà della lingua (parla solo lo svedese e non capisce una parola di inglese) che la sua nave non è diretta a New York, ma a San Francisco, doppiando il capo Horn e la Terra del Fuoco.

Da qui ha inizio il lunghissimo e allucinante viaggio - a cavallo, a piedi, sull'asino - del povero Hakan verso oriente, nel tentativo di raggiungere New York e ricongiungersi con Linus. 

Il motore del romanzo dunque, è quello giusto (quello che Hitchcock chiamava il Mc Muffin), ma l'attenzione del lettore è tradita dall'estenuante sviluppo della vicenda che si snoda in bizzarri incontri, stermini altrettanto casuali, sezionamenti di cadaveri, sete, fame, caccia all'uomo attraverso il deserto, una fuga interminabile in cui al centro c'è soltanto il paesaggio.  

Una specie di Into the wild  tradotto sulla pagina (e riecheggiato anche nel titolo originale), che però scolorisce e non avvince, pagina dopo pagina; verso un malinconico finale che non termina nulla e tradisce ogni aspettativa del lettore. 

Insomma, una occasione mancata.  Forse, per poter diventare un grande romanzo, a questo Falco (il titolo italiano si riferisce al soprannome dato a Hakan dagli americani che non sanno pronunciare il suo nome svedese lo arrangiano in Hawk, cioè Falco), mancava poco. 

Forse un po' più di coraggio all'autore, troppo occupato ad esibire la sua bravura. 

P.S. l'edizione italiana del libro è macchiata da un clamoroso errore tipografico, laddove a pag. 236 viene ripetuto per intero un lungo brano contenuto in un paio di pagine precedenti del romanzo. Una gaffe non degna di un editore come Neri Pozza. 

Fabrizio Falconi



12/09/18

Il manifesto programmatico di Paolo di Tarso. Dalla Lettera ai Romani.



Sono passati duemila anni, ma questo resta il programma di vita (e quindi anche politico) migliore partorito dalla storia dell'Occidente. Qualcuno dice utopistico. Solo dall'utopia nasce la civiltà.


Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.

La carità non sia ipocrita: detestate il male, attaccatevi al bene; 

amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda

Non siate pigri nel fare il bene, siate invece ferventi nello spirito; servite il Signore. 

Siate lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera

Condividete le necessità dei santi; siate premurosi nell’ospitalità. 

Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite. 

Rallegratevi con quelli che sono nella gioia; piangete con quelli che sono nel pianto. 

Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non nutrite desideri di grandezza; volgetevi piuttosto a ciò che è umile. Non stimatevi sapienti da voi stessi

Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. 

Se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti.

11/09/18

Il Tesoro di Monete Romane d'Oro scoperto a Como: "Un ritrovamento epocale!"


Un ritrovamento epocale, che potrebbe portare novità di rilievo sulla storia romana

E' stata presentata cosi' a Milano, la scoperta di un vaso contenente centinaia di monete d'oro perfettamente conservate  - la cui vista lascia senza fiato - nel corso dei lavori di scavo privati, a Como.

"Per me questo e' un caso epocale, uno di quelli che segna il percorso della storia. Non siamo ancora in grado di capirlo, ma e' un messaggio che ci arriva dai nostri antenati", ha detto il ministro dei Beni Culturali, Alberto Bonisoli, alla conferenza stampa di presentazione che si e' tenuta nella sede della Soprintendenza lombarda. 

Dopo il fragore suscitato dalle anticipazioni di stampa, e' stato annunciato oggi che nel contenitore, un vaso in pietra ollare raro per forma e fattura, non ci sarebbero solo monete d'oro romane, ma dalle prime ispezioni sarebbero stati individuati almeno altri tre oggetti

"Di certo abbiamo intravisto una barretta d'oro (una sorta di lingotto', ndr) - hanno spiegato Barbara Grassi, responsabile della direzione scientifica dello scavo comasco, e la collega Grazia Facchinetti, esperta di numismatica - e altri due oggetti.


Ma al momento, nel microscavo abbiamo rimosso solo il primo strato di 27 monete. Si tratta di 'solidi' romani da circa 4 grammi e mezzo d'oro, coniati nel periodo degli imperatori Onorio, Valentiniano III, Leone I e Livio Severo, quindi non collocabili oltre il 474 d.C

"L'insieme deporrebbe per il deposito di una cassa pubblica, poco probabilmente del tesoro di un privato": ed e' questa, al momento, l'ipotesi archeologica prevalente, suffragata anche dal fatto che le monete erano originariamente "impilate" grazie a qualche contenitore che si e' disintegrato col passare dei secoli. 

Una "disposizione ordinata" che, appunto, insieme alla presenza di resti romani, farebbe pensare "a una cassa pubblica nascosta con l'intenzione poi di riprenderla, in un luogo rintracciabile".


Il ritrovamento del 'ripostiglio' e' avvenuto durante i lavori di ristrutturazione di un teatro, abbandonato da una ventina d'anni e prima cinema, teatro a cavallo del 1900, e in antichita', dal 1300 al 1700, area religiosa con la presenza di un convento e di una chiesa. 

"La ricerca archeologica a Como non nasce ieri - ha detto ancora la professoressa Grassi - e' un lavoro decennale".

Ma cosa c'era in quel punto, in epoca romana? Cosa ha spinto qualche ignoto funzionario pubblico a nascondere il tesoro? "Como era sede della prefettura di una flotta - ricordano gli archeologi - e forze ingenti presidiavano i confini a nord per difendere le vie che passavano dalle Alpi". 

A vigilare sul cantiere oggi, invece, penseranno i carabinieri del Nucleo tutela patrimonio culturale. Il tesoro, alla fine, finite le analisi, potrebbe tornare a Como. "Secondo me - ha detto infatti il ministro - se i reperti sono stati trovati in un posto, appartengono a chi in questo posto ci vive. Non a caso i Bronzi di Riace si trovano al museo archeologico di Reggio Calabria". Como quindi a breve potrebbe avere i suoi 'Bronzi', che pero' sono piccoli e d'oro.

FONTE: ANSA


10/09/18

E' possibile da oggi prenotare il Nuovo Libro: "Nessun pensiero conosce l'amore".




E' possibile da oggi, 10 settembre, prenotare il mio nuovo libro, "Nessun pensiero conosce l'amore", che sarà pubblicato da Interno Poesia.

Sono 53 poesie scritte nell'arco degli ultimi 10 anni.

Riporto un brano dalla nota editoriale di Olga Cirillo: la dimensione lirica del canto si adagia in un ritmo narrativo che sembra raccontare la storia di un solo uomo, pur accogliendo una moltitudine di ritratti.

Il progetto di Interno Poesia mi è parso di grande qualità: le edizioni sono molto raffinate, i libri curatissimi, e la novità è che i libri vengono pre-venduti nell'arco di 40 giorni. 

Se si raggiunge il budget fissato, verranno stampate tutte le copie previste, altrimenti, verranno stampate e diffuse soltanto le copie pre-vendute. 

Il libro rimarrà in offerta per questo periodo al prezzo di 10 euro e 35 centesimi

Ecco il link attivato dedicato alla prevendita del libro, dove è possibile da ora acquistare le copie del medesimo:

https://internopoesialibri.com/libro/nessun-pensiero-conosce-lamore/




grazie a chi vorrà sostenere questo progetto e questo nuovo libro. 

07/09/18

La magia di Torcello e le luci di Venezia - Una pagina da "Cieli come questo" di Fabrizio Falconi.





Negli ultimi giorni non si era sentita bene. Era ancora piuttosto debole e continuava ad avere fitte all’addome. Giorgio la convinse a farsi controllare da uno specialista. Lei ci andò recalcitrante – perché si fidava ciecamente di Lidia  – e alla fine anche la nuova visita confermò che non c’erano problemi particolari,  il viaggio di lavoro a Venezia non era dunque sconsigliato.
Prima del convegno, i delegati vennero accompagnati per una prima visita alla Cattedrale di Santa Maria dell’Assunta, e alla chiesa di Santa Fosca, a Torcello.
Isabella, insieme a quattro hostess in divisa, li attendeva sul tappeto blu sul molo dell’isola, mentre cominciava a piovere.
Arrivavano alla spicciolata accademici e storici dell’arte infreddoliti, insieme a mogli e compagne, sotto l’ombrello. Isabella stringeva le mani, consegnava l’elegante cartellina di cuoio, contenente  tutte le informazioni e i gadgets preparati per il convegno.
Lavorò senza pause fino alle otto. Poi chiamò al telefono la figlia.
Diletta studiava per un esame, chiusa in casa.
“ Da quando sono ritornata, non hai avuto un attimo per parlare con me, “ disse alla madre, che la sentiva giù di tono, con la voce dimessa.
“ Lo so, “ rispose Isabella, “ ma lo sai, questo convegno è la cosa più importante della stagione, vedrai che quando torno sarò molto più libera. “
“ Voglio raccontarti delle cose. Anche per me non è facile, sai quanto ci metto ad... aprirmi. “
“ D’accordo, ma tu come ti senti, ora ? “
“ Non tanto bene... Questo viaggio mi ha cambiato, mi sento un’altra, ma anche più inquieta. Avrei bisogno di spiegarti tante cose, anche riguardo a Nicoletta e a quello che ha rappresentato questo incontro per me. A quello che ho scoperto dentro di me. Insomma mi sento un po’ sola adesso. Non sto al massimo, veramente“
“ Passerà, vedrai. “
“ E Venezia com’è ? “
“ Terribile. Piove e fa freddo. Lavorare così è duro. Noi l’avevamo detto che il periodo era sbagliato. Bisognava aspettare la primavera. Tuo padre ti ha chiamato ? Quando torna ?“
“ Non lo so. Oggi non l’ho nemmeno visto. “
“ Va bene, adesso devo salutarti .“
Un altro motoscafo si stava avvicinando al molo. Ne discese un uomo alto e stempiato, accompagnato da  una donna bionda, alta quasi quanto lui.
“ Michael  Husselbaink “, si  presentò.
Isabella sulle prime non lo aveva riconosciuto. Eppure sapeva benissimo chi era: un grande musicista, del quale aveva apprezzato soprattutto  la Suite per l’angelo -  Isabella adorava quel cd, l’aveva comperato appena uscito, ed era rimasto uno dei suoi preferiti. Due volte era anche andato a sentirlo suonare dal vivo, quando aveva fatto tappa a Roma insieme al suo ensemble.
“ Le presento mia moglie. Siamo arrivati in ritardo ? “
“ Sì, un po’. Credo che siate gli ultimi, ma la cattedrale dovrebbe essere ancora aperta. Venite, vi accompagno. “
Salirono a bordo di una vettura elettrica, che fungeva da navetta, mentre la pioggia continuava ad abbattersi sulla laguna senza sosta.
Isabella guidò i due ultimi ospiti dentro la Cattedrale. Husselbaink indugiava tra i banchi, fermandosi estasiato ad ammirare i mosaici, sembrava conoscere molto bene le immagini e tutte le interpretazioni cabalistiche. Indicava alla moglie le figure, traduceva per lei le indicazioni che Isabella forniva diligentemente.
Fermi di fronte al pronao, restarono a lungo ad osservare il grande mosaico raffigurante la Vergine.



“Cosa c’è scritto nella iscrizione, lì sopra ?" chiese Husselbaink, indicando la scritta in caratteri gotici che correva lungo la cornice dell’abside.
Isabella non era così preparata. Fece ricorso ad una ragazza, una guida del posto, che lesse ad alta voce senza indugi l’invocazione in versi latini:
              
                Sum deus atque caro, patris et sum matris imago,
                non piger ad lapsum set flentis proximus adsum

fornendo subito la traduzione della frase:

               Sono Dio e uomo, immagine del Padre e della Madre,
             dal colpevole non sono lontano, ma al pentito sono vicino.

Husselbaink sorrise soddisfatto, tradusse la frase in nederlandese per la moglie, trascrivendola poi in un quaderno di appunti.
Lasciarono la cattedrale quando era ormai vuota.
La ragazza spense le luci e si ritrovarono fuori nel buio quasi assoluto della piazza antistante la chiesa. Attesero il ritorno della vettura, sotto il porticato. Isabella e la ragazza da una parte, Husselbaink e la moglie dall’altra, addossati ad una delle colonne. Isabella percepiva le loro frasi sussurrate.
Finalmente la navetta tornò a prenderli. Durante il viaggio, il musicista raccontò di aver accettato l’invito di suonare nella serata di gala del convegno perché affascinato dai misteri di Venezia, e soprattutto dalle isole, da  Torcello e San Michele.
Il sovrintendente Loredan seduto a fianco di Husselbaink, intanto, elencava i nomi dei palazzi. Le hostess, infreddolite nei cappotti, fumavano negli ultimi sedili vicino ai finestrini. La moglie del musicista guardava fuori, con le labbra socchiuse, apparentemente distratta.  Il suo alito formava una leggera condensa sul vetro.
Husselbaink ascoltava la litania dei nomi elencati dal sovrintendente.  “Questi nomi sono come musica,” gli disse ad un certo punto, “ e io sono del tutto innamorato anche del suo cognome. Che fortuna sfacciata: portare lo stesso cognome del doge che è stato immortalato nel dipinto più bello del mondo! “
Giunsero all’albergo in leggero ritardo, ma in tempo per la cena, che era fissata alle dieci.
Isabella si accorse che alla lunga tavolata finemente imbandita le avevano riservato il posto libero tra Husselbaink e il sovrintendente.
La conversazione ristagnò a lungo, quando  verso la fine della cena, incoraggiati dall’ottimo vino, Loredan e Husselbaink cominciarono un prolungato scambio di opinioni sull’ispirazione artistica.
Isabella ascoltò a lungo, senza intervenire, poi in una pausa chiese ad Husselbaink:
“ Ho ascoltato spesso la sua musica, interrogandomi sull’origine della sua  ispirazione. Per esempio la Suite dell’angelo, che io trovo così ...bella, poetica.“
Husselbaink, che sembrava un po’ alticcio e divertito dall’attenzione generale,  si slacciò il colletto della camicia, e rispose  compiaciuto:
“ L’ho scritta in una settimana a Biarritz. Ma vede, signora, l’ispirazione non è come crede lei, e come crede forse anche il dottor Loredan. Ero ospite in una brutta villa e in quella settimana è piovuto tutti i giorni. Ero molto nervoso, e oltretutto schiavo di una colite atroce. “
Il sorriso del sovrintendente si pietrificò. Pensò ad una battuta,  ma Husselbaink andò avanti imperterrito:

“ La suite dell’angelo potrei dire di averla scritta seduto sulla tazza del gabinetto, e con mia enorme sorpresa alla fine tutti hanno detto che è una delle cose migliori che io abbia scritto..”  Rise di gusto, attirando lo sguardo di riprovazione di sua moglie,  “metà seduto sul gabinetto, e per l’altra metà seduto al pianoforte con la pancia gonfia come una cornamusa… “
Isabella cercò di non dare a vedere l’imbarazzo, e intanto Husselbaink proseguì imperterrito:
“ L’ispirazione, mia signora, non si accompagna per forza con il sublime," ma lei già non lo ascoltava più . Cambiò discorso, con i vicini di tavola e aspettò la prima occasione per alzarsi e raggiungere i divani nella hall.
Alla fine della cena, quando Husselbaink si ritirò con la moglie in camera, il sovrintendente manifestò il suo disappunto agli ospiti. Giurò che lo conosceva personalmente già da molto tempo, e non era mai stato così sgradevole.
Isabella commentò:  “Nessuna sorpresa. Solo, nessuno riesce a capire da dove traggano la loro arte certe persone. E’ come se  avessero due anime. Ma forse è meglio non conoscerli mai da vicino. Soltanto i veri grandi non deludono. “
Non si riferiva espressamente a Sri Rajakrishna. Non ci aveva pensato, ma più tardi, quando a letto, prima di addormentarsi lesse qualche riga del libro che le aveva regalato Lorenzo, gli capitò di ricordarsi di quello sguardo liquido,  degli occhi che era sempre come se guardassero oltre. L’ultimo capitolo del libro scritto dal misterioso Marchese de Saint-Germain, si intitolava:   L’unione.

                     Dimoro nel cuore
                     Nell’intimo più recondito
                     Di tutte le cose manifestate.
                    
                     Di coloro che discutono IO SONO l’argomento.

Chiuse il libro e spense la luce.
Dalla finestra riverberava la luce di fanali sulla Riva degli Schiavoni.
Si addormentò con il sottofondo del debole rumore dell’acqua.



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06/09/18

Pompei: riemergono gli scheletri di una coppia clandestina.




Padrone e schiava sepolti assieme a Pompei

E' quanto emerge da un eccezionale ritrovamento nella necropoli del fondo Pacifico presso la necropoli di Porta Nocera, mai esplorato prima. Gli archeologi di Lille, coordinati dal professor William Van Andringa durante lavori di scavo, hanno scoperto la tomba nella quale si trovavano Ciaus e Ciara, una coppia clandestina. 

Con loro era sepolto anche un figlio, tra i 12 ed i 14 anni. 

Lo riferisce Il Mattino. 

Secondo le norme dell'epoca, l'ancella non poteva andare a nozze con il suo padrone.

Gli esperti sono da tempo a lavoro su dei nuovi monumenti funerari, databili tra il 20 avanti Cristo e il 79 dopo Cristo

Gli studi del professor Van Andringa, su alcune ossa bruciate, hanno permesso di individuare 14 defunti, tutti appartenenti alla stessa famiglia

Nella prima tomba è stato trovato il capo famiglia, Quintus Verauis, patrizio romano. Sulla tomba è stato trovato un altro monumento funerario, costruito per VeraniaQI Ciara, una ex schiava liberata dal padrone, Caius figlio di Quintus. 

Lo stupore per gli esperti, però, è sopraggiunto quando la tomba della donna è stata trovata vuota e le sue ceneri nella tomba di Caius. 

Una possibile spiegazione a questa scelta viene data dal professor Van Andringa: “Questo significa che nella vita erano una coppia“. La loro, quindi, sarebbe stata una relazione clandestina, visto che all’epoca una schiava non poteva sposare il padrone. 

Inoltre, si pensa che i due avessero anche concepito un figlio. 

Infatti, alle spalle delle tombe degli “amanti” è stata trovata una terza con delle ossa di un adolescente ed alcuni frammenti, delle stesse ossa, sono stati trovati anche nella libagione di Caius.


Fonte Ansa e Vesuviolive

05/09/18

La Sardegna ricorda Fabrizio De André e quel meraviglioso album che fu "Creuza de ma' "



Fabrizio De Andre' in barca a Carloforte insieme al fido Mauro Pagani per cercare il vero genovese antico e trarre ispirazione e spunti per comporre il suo capolavoro Creuza de ma'. 

Una cartolina di una quarantina di anni fa

Un passato collegato con il presente. 

Faber non c'e' piu', ma a Pagani, suo stretto collaboratore, sara' consegnato il premio Isole del cinema per la musica. 

L'appuntamento e' per il 14 settembre a Carloforte, l'isola della fiction di Gianni Morandi sulla costa sud occidentale della Sardegna, enclave culturale e linguistica genovese, durante il Festival, ormai giunto alla dodicesima edizione, che prende il nome da quell'album che ha segnato una svolta nella musica italiana: Creuza de má. 

Proiezioni di film e documentari, concerti, incontri, masterclass e tanto altro, tutto all'insegna della musica per il cinema: saranno gli ingredienti dell'evento ideato e diretto dal regista Gianfranco Cabiddu e organizzato dall'associazione Backstage in programma a Carloforte dall'11 al 16 settembre. Con una coda a Cagliari dall'1 al 4 novembre. 

Molto importante perche' sara' l'occasione per riaprire uno storico teatro cittadino, il Nanni Loy. 

Gli spazi degli spettacoli? Cinema e parco. Ma anche una caletta in riva al mare alla quale si accede proprio attraversando un "Creuza de má", un sentierino che porta alla spiaggia. Molto Sessantotto e molte donne nel programma. 


In occasione del cinquantenario della rivolta giovanile, il Festival vuole ricordare quegli anni attraverso il ciclo di proiezioni intitolato '68 Memories, a cura di Enzo Gentile, firma autorevole del giornalismo musicale, incentrato su quei film e sulle musiche che hanno segnato un modo nuovo di concepire la colonna sonora: da "Woodstock - Tre giorni di pace, amore e musica" a "Easy Rider", da "Zabriskie point" a "Fragole e sangue" a "Cinque pezzi facili"

Creuza de má dedica poi una particolare attenzione alle opere recenti di cinque registe italiane. "Intendiamo cosi' esplorare il cinema, la musica e il suono per il cinema, attraverso le sensibilita' e lo sguardo al femminile, come 'altra sensibilita'', non in contrapposizione ma in concorso con quello maschile", sottolinea il direttore artistico Cabiddu. 

"I film presentati ci aiuteranno a leggere la contemporaneita' attraverso storie, narrazioni, e i suoni e le musiche, ricollegandoci per assonanza e per omaggio al '68 dove tutto ebbe idealmente inizio - sottolinea il regista - Un appassionante viaggio: alla musica e al cinema, il compito di esaltare la forza utopica e vivificante della poesia e dell'immaginazione, la possibilita' di liberare il pensiero creativo, di divulgarlo e di condividerlo con un pubblico sempre piu' vasto ed esigente". 
L'anello ideale di congiunzione musicale e tematica con il '68 sara' proprio il film d'apertura, "Nico, 1988" di Susanna Nicchiarelli (con le musiche del gruppo Gatto Ciliegia contro il Grande Freddo), opera pluripremiata che racconta gli ultimi anni di vita di Christa Päffgen, in arte Nico, cantante dei Velvet Underground. 

03/09/18

L'infanzia di Ingmar Bergman - da "Cercare Dio".


Dieci grandi anime. 8. Ingmar Bergman (1./) 

Per un uomo del Nord, i conti con la solitudine si fanno in fretta.  Non è un caso se il tema della solitudine impregni la cultura scandinava dai suoi primordi. Bergman,  uomo del Nord, lo è stato fino in fondo, come Kierkegaard, August Strindberg e Carl Theodor Dreyer .  Un destino segnato già dal fatto di nascere nella colta Uppsala – patria di Celsius e di Linneo, ma anche di Dag Hammarskjold – e di nascervi da un padre severo pastore luterano (Erik Bergman) e da una madre ambigua e temuta (Karin Akerblom, discendente di una famiglia benestante olandese), in una famiglia costruita – secondo il racconto stesso che ne ha fatto il regista nei suoi film e nella sua autobiografia (1) -  su principi rigidi e oppressivi.  Un clima di freddezza, nel quale sin da piccolo Bergman fu chiamato a sperimentare la solitudine e le difficoltà di comunicazione tra le coscienze degli uomini, che furono due tra i temi dominanti della sua filmografia.

       La solitudine di un uomo consapevole del suo stato è assoluta, disse una volta (2), ma il desiderio di una intesa con gli altri non cessa mai di alimentare una grande speranza. C’è sempre, nella giornata di un uomo, un’ora o un minuto o appena un momento in cui si viene a trovare a contatto con il prossimo. L’arte è un mezzo meraviglioso e forse unico di creare questo magico contatto, di avvicinare gli uomini. 

C’è molto di Bergman, in questa frase.  La solitudine, che pure fu una costante della sua vita - fino agli ultimi anni di totale eremitaggio nell’isola di Faro, immersa nella calma glaciale del Mar Baltico, dove il regista è morto nel 2007 – non gli impedì di ricercare a tutti i costi, e con ogni mezzo che il suo genio gli mise a disposizione,  una forma di comunicazione alta e personale – quasi a cuore aperto -  con ogni uomo che si ponesse di fronte ad un suo nuovo film.

I temi prediletti di Bergman, della sua opera,  la difficoltà della coppia, le insufficienze dell’amore, la morte, la presenza o l’assenza di Dio, il nostro posto nel mondo, sono già tutti scritti nella biografia del grande regista.  Nato  il 14 luglio del 1918,  a pochi mesi dalla fine del primo conflitto mondiale, con la madre ammalata di febbre spagnola, al piccolo Ingmar fu subito impartita l’estrema unzione, perché si riteneva improbabile potesse sopravvivere. “Morirà di denutrizione” decretò il medico.  Invece il bambino sopravvisse, sufficientemente temprato anche per cavarsela negli anni seguenti, quando in famiglia dovette affrontare l’irritabilità paterna – il padre, valente predicatore luterano si spostava nelle chiese di paese, fino a far carriera e divenire addirittura cappellano della Corte Reale – le ansie della madre, e le punizioni che venivano inflitte a lui, al fratello maggiore e alla sorella minore, dalla cuoca Alma, che sadicamente lo rinchiudeva in un oscuro ripostiglio dove viveva “un mostriciattolo che si nutriva mangiando le dita dei bambini cattivi”.   

L’atmosfera familiare vissuta in quegli anni era fu resa in modo magistrale in quel grande affresco che è Fanny & Alexander, il suo film testamento realizzato nel 1982 e vincitore di premi in tutto il mondo – compreso l’Oscar  -  nel quale Bergman descrisse minuziosamente l’ambiente della grande casa di Uppsala, i volti e le presenze dell’infanzia, e in particolar modo il devastante rapporto con la figura paterna, sdoppiata nella immagine mefistofelica del vescovo Vergerus (che nel film è il secondo marito della madre) e in quella di Oscar Ekdahl, il padre buono  e umano che Bergman avrebbe voluto avere.
      
L’infanzia fu per Bergman una esperienza totalizzante. Tutto il suo mondo di adulto è edificato nei o sui primi anni di vita.  Ed è normale, per un artista, ritornarvi continuamente.  In realtà, scrive il regista nella sua autobiografia, io vivo continuamente nella mia infanzia: giro negli appartamenti nella penombra, passeggio per le vie silenziose di Uppsala, e mi fermo davanti alla Sommarhuset ad ascoltare l'enorme betulla a due tronchi, mi sposto con la velocità a secondi, e abito sempre nel mio sogno: di tanto in tanto, faccio una piccola visita alla realtà. (3)


https://www.amazon.it/Cercare-Dio-Dieci-cammini-esemplari/dp/8832822091


1. L’autobiografia di Ingmar Bergman, Lanterna Magica, è pubblicata in Italia da Garzanti, prima edizione ottobre 1987, Milano.
2. La frase attribuita a Bergman è riportata nell’articolo L’arte, unico antidoto alla nostra solitudine,  firmato da Massimo di Forti per il Messaggero, 31 luglio 2007.
3.  Ingmar Bergman, La lanterna magica, op.cit. 

02/09/18

Poesia della Domenica: "Come può esser ch'io non sia più mio?" di Michelangelo Buonarroti.



Come può esser ch’io non sia più mio?
O Dio, o Dio, o Dio,
chi m’ha tolto a me stesso,
c’a me fusse più presso
o più di me potessi che poss’io?
5
O Dio, o Dio, o Dio,
come mi passa el core
chi non par che mi tocchi?
Che cosa è questo, Amore,
c’al core entra per gli occhi,
10
per poco spazio dentro par che cresca?
E s’avvien che trabocchi?


edizione Laterza,  Bari, 1960 a cura di Enzo Noè Girardi.

01/09/18

Torna "Ravenna per Dante" ! 3 mesi e 80 occasioni per riscoprire il divino poeta.



Ottanta appuntamenti gratuiti, 41 soggetti e 22 spazi coinvolti, in un periodo di tre mesi: numeri che continuano a crescere di anno in anno (70 gli eventi del 2017).

Tutto questo è 'Ravenna per Dante', rassegna promossa nella città dove il Sommo Poeta, esule da Firenze, trovò l'ultimo rifugio, probabilmente completò la Commedia e dove morì il 13 settembre 1321.

A organizzarla il Comune, insieme ad associazioni internazionali e realtà cittadine sia istituzionali che formate da appassionati e lettori.

Tra gli eventi più importanti, l'Annuale della morte (9 settembre), le Letture Classensi, le Conversazioni dantesche e la mostra 'L'ultimo Dante e il cenacolo ravennate.

Mostra di documenti dagli Archivi di Ravenna, Bologna, Pisa e Venezia', ospitata alla Biblioteca Classense e ricca di preziosi inediti (9 settembre-28 ottobre, inaugurazione sabato 8 settembre alle 17.30).

Il programma, sostenuto da Regione e Ibc, inizia il percorso celebrativo verso il 2021, settimo centenario della morte del Poeta.

FONTE: ANSA

31/08/18

Crollo a Roma: Cosa c'è nella Chiesa di San Giuseppe de' Falegnami nel Foro Romano.



Terribili le notizie e le immagini del crollo del soffitto della seicentesca chiesa di San Giuseppe de' Falegnami, al Foro Romano.  Ma qual è la storia della Chiesa ? E quali sono i tesori in essa contenuti ?

Innanzitutto è fondamentale la posizione della Chiesa, che si trova proprio nel cuore del Foro Romano, a sinistra dopo il clivus Argentarius, l'antica strada di Roma che correva a mezza costa sulle pendici del Campidoglio, alle spalle del Foro di Cesare e di cui si è conservato un tratto originale in basolato. La Chiesa sorge proprio sul posto dove scendevano un tempo dal Campidoglio le scale Gemoniae, tra il Tempio della Concordia e il Carcere Mamertino, dove la tradizione vuole che siano stati rinchiusi gli apostoli Pietro e Paolo.

La Chiesa è stata eretta nel 1602 probabilmente da Giovan Battista Montano per la Confraternita dei Falegnami ed essa, come è successo nella storia di Roma ha inglobato l'edificio preesistente, cioè il Carcere Mamertino, che si trova al livello inferiore della Chiesa e che essendone divenuto parte, porta oggi il nome di Cappella di San Pietro. 

Dunque il tesoro più prezioso contenuto nella Chiesa è proprio il Carcere Mamertino, che sembra non abbia riportato danni, e che consta di due ambienti sovrapposti: il superiore il vero e proprio carcer Mamertinus (nome di origine medievale) e quello Tullianum risalente al 390 d.C. . I due ambienti, riuniti, hanno per molti secoli costituito la sede degli uffici della prigione di stato di Roma e di luogo di esecuzioni capitali. 

Dopo il XVI secolo, in base alla leggenda medievale che vi sarebbe stato rinchiuso anche San Pietro (e con l'acqua sgorgata miracolosamente avrebbe battezzato i suoi carcerieri) l'edificio si chiamò San Pietro in Carcere. 

La Chiesa attuale dunque, risale al Seicento:  nel 1540 la Congregazione dei Falegnami aveva preso in affitto la preesistente chiesa di San Pietro in Carcere e nel 1597 fece iniziare i lavori della nuova chiesa, dedicata al loro patrono, San Giuseppe, a Giacomo della Porta. 

I lavori furono proseguiti nel 1602 sotto la direzione di Giovan Battista Montano che progettò la facciata ed alla sua morte (1621) dall'allievo Giovan Battista Soria

La chiesa fu completata nel 1663 da Antonio Del Grande e restaurata nel 1886, con la costruzione di un nuovo abside. 

La facciata si trova rialzata rispetto al piano di calpestio a causa dei lavori eseguiti negli anni trenta del Novecento, che abbassarono la piazza antistante per permettere un accesso diretto al carcere sottostante. 

L'interno è a navata unica con due cappelle per lato; la decorazione è frutto di lavori eseguiti nel XIX secolo. 

Tra le opere più notevoli da ricordare, una Natività di Carlo Maratta (1651), che pare per fortuna essersi salvata dai danni del crollo.



Sulla cantoria in controfacciata si trova l'organo a canne costruito dalla ditta Migliorini nel XX secolo. 

Annessi alla chiesa vi sono un oratorio, con un bel soffitto ligneo, e la cappella del Crocifisso, che risale al Cinquecento, e che è posta tra il pavimento della chiesa e la volta del sottostante Carcere Mamertino.

Fabrizio Falconi

30/08/18

"Con un poco di zucchero" - Un bellissimo intervento di Pier Aldo Rovatti: Siamo sempre più una "società melliflua". Per buttare giù l'amaro della realtà.



Avevo appena iniziato l’università e cercavo qualcosa da fare. Mi capitò anche una prova per un’agenzia pubblicitaria di Milano: ipotizzai un piccolo copione per un “carosello” (allora, parlo di cinquant’anni fa, era la pubblicità televisiva per eccellenza). Presentai così la mia ideuzza che consisteva in una scena vuota e in essa due personaggi, come quelli di “Aspettando Godot” di Beckett, che si riferivano a un prodotto indefinito ma molto appetibile fuori dalla scena. La mia esperienza finì lì e ricordo che il responsabile dell’agenzia pronunciò, prima di liberarsi di me, solo queste lapidarie parole: «Troppo poco zucchero nel caffè».


L’episodio evidentemente mi colpì, e adesso riemerge nella mia mente a forza di leggere e ascoltare la parola “edulcorare”, ripetuta per giorni dai media in riferimento ai modi con cui si è andato formando il cosiddetto “governo del cambiamento”, quello appunto che sta cominciando a governarci. Ma è solo un aggancio possibile perché un po’ ovunque, nel gioco politico, la tendenza ad aggiungere cucchiaini di zucchero per attenuare l’amaro delle situazioni è molto diffusa. Per non parlare delle relazioni private nelle quali quasi tutti noi riversiamo normalmente dosi di dolcificanti per evitare di viverle come insopportabili.



Se ci mettiamo a osservare episodi, significati e conseguenze che intrecciano questa “società melliflua” nella quale - a quanto sembra - ci siamo accomodati con scarsa reattività, anzi volentieri, potremmo incontrare per esempio l’“incidente del curriculum” che è toccato all’attuale presidente del Consiglio, nel momento in cui apparve semisconosciuto sulla ribalta governativa. Il fatto che avesse edulcorato il curriculum, ingigantendo un poco la sua carriera di studioso dalle numerose esperienze internazionali, produsse una relativa sorpresa, ma è difficile negarne il carattere di sintomo, non solo nel senso di un cattivo vezzo accademico, non solo perché alla fine manifestamente inutile, bensì proprio perché è indice di un comportamento generalizzato.



Con aria maliziosa un collega che insegna sociologia mi ha raccontato che adesso nei curriculum si trova anche il contrario, come dichiarazioni di insuccessi e mancanze accademiche. Complimenti - ho pensato - ma vorrei poi vedere quale risultato possa ottenere un simile curriculum. Potremmo riconoscere qui un’inedita onestà. Dopo un attimo, tuttavia, rifletteremmo silenziosamente che si tratta di un gesto autolesionistico, una specie di autogol.
Allargando lo sguardo a quello che sta accadendo nei modi di stare a tavola, per dir così, dei nostri attuali governanti, si potrebbe subito obiettare che i gesti che sembrano prevalere non hanno nulla di dolce. I toni del discorso “populistico” non sembrano conoscere la moderazione: sono toni alti e pochi stanno reclamando che vengano abbassati, mentre molti li apprezzano proprio per il loro vigore, e ancor più viene condiviso il fatto che ai toni alti corrispondano finalmente gesti decisi rivolti a scuotere il sonno delle istituzioni europee, come nel caso della chiusura dei porti alle navi delle Ong che raccolgono i migranti. Ecco finalmente una politica autorevole che per funzionare richiede un po’ di autoritarismo!



Allora, dove starebbe la pratica dell’edulcorare? Non c’è nessuna contraddizione: intanto, gli atteggiamenti forti vengono introdotti non solo alzando la voce ma contemporaneamente con una serie di ammiccamenti, come se si trattasse di ovvietà molto desiderate (pensiamo alle annunciate strette sulla sicurezza), del tutto normali dunque e con lo scopo di migliorare le nostre esistenze grazie a un sovrappiù di tranquillità. “State sereni, italiani” è la musica di accompagnamento che ci pare di ascoltare.



Segue, partendo da qui, qualcosa di più significativo e meno banalmente retorico. Viene allo scoperto ciò che l’edulcorazione nasconde, proprio come lo zucchero copre l’amaro. Il messaggio ha da essere positivo e perciò tende a scansare ogni elemento di tristezza, di drammaticità e di angoscia. Se fa leva spesso sulla paura, non è certo per invitare a guardarci dentro bensì per esorcizzarla un attimo dopo averla evocata. Perciò ci si riferisce solo a quelle realtà che potranno essere ammansite e si evita ciò che produce problemi inquietanti. Ci si volta dall’altra parte, quando si rischierebbe che gli occhi vedano ciò che la propaganda non riuscirebbe a contenere nella sua rete.



E quando, come nel caso dell’affaire romano venuto alla luce con le recenti inchieste giudiziarie sulla corruzione, il nuovo ceto politico giallo-verde avverte il rischio di restare impaniato, è facile osservare che le reazioni di difesa sono del tipo: “Cose marginali di poca importanza”, “Un equivoco che si chiarirà entro qualche giorno”. Traducendo queste reazioni nel discorso che sto facendo, ecco un altro esempio di tecnica dolcificante adoperata quando il sapere di amaro tende a offendere troppo il palato.



Sarebbe però un errore restringere la questione ai comportamenti che si danno a vedere nell’attuale contingenza di governo, nell’idea presente di “governamentalità”. Infatti, bisogna valutare in che misura questi atteggiamenti siano lo specchio di una società intera (un attimo fa l’ho definita una “società melliflua”), quella stessa che il voto di marzo, rinforzato dagli ultimi sondaggi, ha manifestato chiaramente. Concordo che i cosiddetti “ultimi” sono rimasti in silenzio o sono stati silenziati, perché il popolo che ha avuto voce è il popolo dei “penultimi”, sostanzialmente disinteressato alla povertà e alla disperazione e soprattutto attento alla difesa dei propri piccoli privilegi.



La “società melliflua”, erede di una borghesia diventata piccolissima e totalizzante, non vuole saperne di amarezze. Per rimuoverle sembra disponibile ad accettare una falsificazione quotidiana che selezioni ciò che è gradevole, e viene presentato come tale, da ciò che è sgradevole e che dovrebbe restare nell’ombra. Abbiamo, a mio parere, una prova evidente di quanto ho appena detto se spiamo dentro le case e nelle vite individuali. Qualcuna fa eccezione? L’amaro è lì e lo sappiamo bene, però facciamo di tutto per tenerci su, per essere presentabili senza identificarci con un eterno lamento.



I lamenti preferiamo riservarli agli sfigati, noi invece cerchiamo di sorridere e di riscuotere il sorriso degli altri, scegliamo di frequentare quelli che contano o che comunque ci potrebbero promettere il guadagno di un piccolo gradino sociale.

Pier Aldo Rovatti, da L'Espresso 19 giugno 2018

29/08/18

Libro del Giorno: "L'uomo che non doveva vivere", di Geoffrey Household.



Nato a Bristol nel 1900 e laureatosi ad Oxford, Geoffrey Household racchiude nella sua lunga biografia (è morto nel 1988), tutti gli elementi del vero outsider della letteratura. 

Lasciata l'Inghilterra nel 1922 lavorò all'estero, prima in Romania come impiegato di banca, poi in Spagna nel commercio delle banane, e infine negli Stati Uniti dove - durante la crisi del '29 - si mantenne scrivendo piccole commedie per bambini e voci commissionate per l'Enciclopedia. 

Tornato in patria nel 1933, si impiegò in una fabbrica per inchiostri che lo mandò in giro per il mondo, fino al Medio Oriente e in Sudamerica.  In questo periodo cominciò a dedicarsi regolarmente alla scrittura, e con la pubblicazione del suo terzo romanzo, L'uomo che non doveva vivere, conobbe un enorme successo internazionale che continuò nella seconda parte del Novecento, dopo la riduzione cinematografica che ne fece ad Hollywood Fritz Lang (nel 1941) e televisiva con Peter O' Toole nei panni del protagonista nel 1976. 

Nonostante i quaranta romanzi scritti in seguito, il successo di Household rimase legato a questo romanzo, che in molti considerano l'antesignano del genere thriller. 

Pubblicato in Italia da Polillo, L'uomo che non deve morire si legge ancora oggi tutto d'un fiato - d'altronde non ha scansioni in capitoli o parti - e si presenta come un incubo a occhi aperti.  Il protagonista senza nome di questa vicenda è un uomo in fuga, per motivi che non appaiono chiari: è infatti catturato mentre sta puntando il suo fucile a cannocchiale contro la casa-fortezza di un dittatore di una nazione straniera (la Polonia, si chiarirà in seguito). Non ha sparato e forse non meditava nemmeno un attentato, ma i suoi inseguitori ne sono convinti. Sopravvissuto miracolosamente alla eliminazione fisica, comincia la lunga fuga dell'uomo, che riesce a ritornare nel suo paese, soltanto per scoprire che sono probabilmente proprio i servizi segreti del suo paese a volerlo eliminare. 

Il racconto è la descrizione minuziosa di una fuga apparentemente senza meta, in cui l'uomo riesce ogni volta a far perdere le sue tracce per miracolo, fino a scomparire letteralmente dentro una fossa scavata in aperta campagna.  Anche nella sua tana sotterranea, però, viene trovato e dopo aver rischiato la fine da sepolto vivo, riesce ad evadere rocambolescamente anche da qui. 

Come chiarisce il titolo originale del romanzo, Rogue Male, ciò che interessa ad Household è questa condizione di braccato, questa emarginazione o autoemarginazione radicale del fuggitivo che cerca scampo da se stesso, dai potenziali amici e dai molti nemici senza volto che lo perseguitano come dentro un incubo senza fine. 

Ciò nonostante, l'uomo resta al centro del suo destino, l'uomo trova la sua riabilitazione, che comincia dalla terra, dal fango, dalla mutilazione, dalla perdita di tutto. 

Non è quindi tanto il nemico, che ha importanza, ma la forza della vita, la continuazione - forse - di una memoria, di un riscatto, che rappresenta l'unica - eroica, dolorosa, sacrificale - ragione per continuare a vivere. 

Fabrizio Falconi