08/10/14

Cinema: primo Ciak per Odissea girata interamente in greco antico e latino.



La spiaggia di Stintino, in Sardegna



A Stintino come a Itaca, per un'Odissea girata interamente in greco antico e in latino. 

E' l'ambizioso progetto cinematografico che ha preso il via oggi sulla spiaggia di "Lu Forrazzu", che nel pomeriggio ha ospitato il primo ciak del film "Da Itaca con amore - L'Odissea", adattamento in chiave contemporanea dell'Odissea di Omero firmato dal regista inglese Malachi Bogdanov.

La troupe e gli attori, a cominciare dal britannico Giles Terera nei panni di Omero e dalla cagliaritana Michela Sale Musio nelle vesti di Atena, saranno impegnati a Stintino per un mese. Oggi hanno presenziato alle riprese anche il produttore Simon M. Woods e il produttore associato, nonché' presidente del Cineclub Sassari, Carlo Dessi'.

Il film sara' sottotitolato tramite "crowdsourcing" globale nelle lingue di ogni continente, sara' diffuso gratuitamente in tutte le scuole e le università e distribuito anche nei cinema, in televisione, online e su cd. 


07/10/14

Cefalonia e Fiskardo - (Dieci luoghi dell'anima).

Fiskardo

Lo Ionio è diverso da tutti gli altri mari. 

E’ forse per via del blu. Sono le schiere di navi passate dalla notte dei secoli che lasciando tracce impercettibili, hanno reso questo colore più denso, oleoso? O forse è per causa del contrasto con il particolare verde di pini e cipressi delle isole ? La terra si è aperta un’infinità di volte, da queste parti: terrificanti sismi, bombardamenti a tappeto. 

Eppure, il dito puntato verso il Nord di Cefalonia, quello non è stato mai toccato. 

Quando l’aereo di linea la sorvola, l’isola si svela per essere proprio come la forma di una mano bruna distesa nel blu, e il promontorio di Fiskardo nient’altro che il suo dito indice. 

L’aeroporto è vuoto eppure colmo di quell’allegro, tipico disordine di ogni scalo ellenico. Una fila di taxisti inoperosi aspetta soltanto un turista da scarrozzare. Li evito perché la solerte agenzia di viaggi internazionale ha disposto una macchina a noleggio a tariffa ridotta, da bassa stagione. L’addetto è un corpulento tizio dai capelli lucidi che sembra in libera uscita dal film Z - l’Orgia del Potere

Firmo il foglio e mi tocca una utilitaria giapponese col cambio automatico, l’abitacolo che odora di nuovo. La litania dei nomi dei luoghi che si susseguono lungo le strade deserte è suadente: Argostoli, Dilinata, Divarata, Anomeria, Assos, Vassilikades, Tsamarelata, Ventourata. 

Nomi caramellati, di zucchero. Sono perlopiù villaggi addossati sul fianco della montagna che scende rapida nel mare. Questo angolo di Ionio così speciale, scaturigine di mille leggende, di ogni possibile narrazione metaforica, fonte, destino della civiltà d’occidente. 
Di fronte a Cefalonia si staglia infatti Itaca. 

Isole gemelle separate da un breve braccio di mare. Odysseus e Paolo di Tarso. Sebastiano Venier e Roberto il Guiscardo. Ed è proprio a causa dell’ultimo rifugio terreno di colui che fu chiamato ‘l’astuto’, e cioè il Guiscardo, che Cefalonia, o Kefalonia come la chiamano in tutto il resto del mondo, ha una storia in più da raccontare . 

Sull’isola, la strada verso Nord sale e scende, accarezzando il mare, la cui vista da questo lato si perde. E’ una carrettiera a rapide curve pericolose, ostruita da rallentamenti di vecchi camion con motori esausti che si arrampicano senza costrutto su e giù, fino a dove l’asfalto riesce ad arrivare. 

A metà del percorso c’è una grande spiaggia, immensa, che si vede dall’alto, chiamata Myrtos, dove l’acqua per qualche strana magia dei fondali, appare splendidamente turchese. Nei dintorni soltanto qualche chiosco con le finestre sbarrate da assi di legno, la stagione dei turisti non è ancora arrivata, ma il sole è tambureggiante, e le bouganville già sono in fiore. Punto dritto verso quel nome: Fiskardo. 

Mano a mano che il dito si allunga nel mare la strada diventa dolce e i saliscendi meno severi.

Tratto da Dieci luoghi dell'anima, Fabrizio Falconi, Cantagalli editore, 2009.


06/10/14

Teatro dell'Opera e i licenziamenti-skock. La profezia di Fellini (e la memoria corta di Dante Ferretti).




Si fa un grande uso di questi tempi dell'aggettivo profetico.

Si fa presto a dire profetico.

Eppure, se questo aggettivo deve essere usato per una volta con cognizione, lo dovrebbe per Prova d'Orchestra, che Fellini realizzò nel 1979. 

Un filmetto realizzato per la RAI di allora, che se rivisto oggi, proprio oggi alla luce di quanto sta succedendo al Teatro dell'Opera di Roma, con i licenziamenti collettivi-shock decisi dalla giunta Marino, lascia di stucco.  

Sulla vicenda è intervenuto ieri anche lo scenografo Dante Ferretti, tre volte premio Oscar, che di quel film realizzò gli scenari, in una intervista al Corriere della Sera, nella quale - fra l'altro - ricorda di come fu proprio lui a suggerire a Fellini l'idea della grande sfera d'acciaio per le demolizioni che nel tragico finale del film demolisce le pareti del Teatro, all'interno del quale gli orchestrali hanno litigato ferocemente, si sono ribellati al direttore d'orchestra e hanno distrutto tutto. 

Leggendo l'intervista però, sono rimasto molto sorpreso dalla inesattezza - o dalla mancanza di memoria - di Dante Ferretti, peraltro non corretta dall'estensore della intervista, il bravo Paolo Conti. 

Arriva infatti, alla fine della intervista, dopo che si è parlato del significato del film, che era per Fellini una metafora dell'Italia (di allora e di oggi), ingovernabile e anarchica, dove vige solo interesse e tornaconto personale e dove alla fine ci va sempre di mezzo l'innocente (A Federico piacque moltissimo l'idea della palla per le demolizioni, racconta Ferretti, volle che ci fosse una vittima, l'arpista che muore sotto le maceri. Il personaggio più mite e dolce),  Paolo Conti domanda a Ferretti:

Cosa spera che accada ora al Teatro dell'Opera di Roma ? 

Risponde Ferretti:

"Mi auguro che si ripeta la scena finale del film. Lì la sfera abbatte la parete, costringe tutti al silenzio e si riprende il lavoro seguendo il direttore d'orchestra. Oggi spero che tutti a Roma decidano di rimboccarsi le maniche e di lavorare per il bene del Teatro. Non credo ci siano alternative."

Credo che davvero l'interpretazione dell'apologo in questo modo, non renda onore al genio di Fellini. 

Ferretti infatti dimentica che il finale del film è piuttosto agghiacciante: dopo la demolizione e dopo lo shock e la morte dell'innocente, è vero infatti che gli orchestrali riprendono il lavoro - tra le macerie - seguendo il direttore d'orchestra. 

Ma nel frattempo, il direttore d'orchestra è diventato un tiranno. 

Il film si conclude con un pugno allo stomaco: appena conclusa la prova, il direttore, che è un tedesco, comincia a gridare sempre più forte, in modo isterico, in tedesco, lo schermo va a nero, e resta solo la voce fuori campo del direttore, distorta dalla rabbia autoritaria, che è sinistramente sovrapponibile a uno dei discorsi tenuti alle folle da Adolf Hitler negli undici anni del suo potere folle e sanguinario. 

Non è affatto, perciò un lieto fine. Gli orchestrali sono tornati al lavoro solo perché una forza più grande li ha spaventati, li ha sottomessi.  In pochi istanti sono diventati agnellini e sono ora disposti ad assecondare il direttore che verrà (se sarà un direttore buono o uno terribile e criminale, sarà la stessa cosa). 

Davvero non c'è da augurarsi un finale così per la penosa vicenda del Teatro dell'Opera di Roma - e per l'Italia tutta.   

Ci sarebbe bisogno di un finale come quello auspicato da Dante Ferretti. Che non è però quello descritto da Fellini, che forse conosceva gli italiani meglio di tutti. 


Il finale di Prova d'Orchestra

Fabrizio Falconi - riproduzione riservata. 

05/10/14

La poesia della domenica - 'Inventala tu la mia storia' di Enrico Testa.




Inventala tu  la mia storia
che sai i colori del carattere
e le ragioni del mio nome,
scegli i pezzi giusti,
quelli della passione pura,
che vanno infine a posto
e che compongono la nostra
(unica) figura.

Enrico Testa (1956) - da In controtempo

04/10/14

Non è uomo chi non è capace di meravigliarsi. (Goethe Schopenhauer e Florenskij)



Ancora in Goethe: quando in Italia, sue testuali parole, egli "scoprì l'En Kai Pan  (formula greca con cui si indica l'identità dell'Uno col Tutto) in botanica", cioè la pianta primigenia, la scoperta "lo colmò di meraviglia."

Henrich Voss racconta di come Goethe avesse analizzato un giorno la citazione del Teeteto di Platone traducendola liberamente: La meraviglia è la madre di tutto quanto c'è di bello e buono

Goethe apostrofa come ottuso colui che non si stupisce della legge eterna della natura, e aggiunge che il saggio vero e il vero uomo cessano di essere tali non appena perdono la capacità di meravigliarsi.

A Eckermann poi Goethe dice: "La meraviglia è quanto di più grande possa raggiungere l'uomo, e se il proto-fenomeno lo ha condotto a meravigliarsi, che egli se ne contenti; esso non è in grado di fornirgli nulla di più sublime, e l'uomo non deve cercarvi null'altro."

Come scriveva Schopenhauer: "Quanto più in basso l'uomo si trova dal punto di vista intellettuale, tanto meno misteriosa è per lui l'esistenza: anzi gli sembra ovvio che tutto quello che esiste, esista ed esista così com'è."




03/10/14

La gentilezza nel donare crea amore. Lao Tzu, Marina Cvetaeva e Rilke.



La gentilezza nel donare crea amore. 

Così scrive Lao-Tzu, e davvero - se solo vi si porge attenzione - questo è ciò che crea un amore, una relazione d'amore: gentilezza nel donare

Non occorre cioè, dice Lao-Tzu, solo la capacità di donare perché ci sia amore.   Occorre anche la gentilezza nel donare.  La gentilezza, che a noi spesso appare come una qualità esteriore, formale, è invece, sembra dirci Lao-Tzu, sostanza. Proprio perché nell'amore, tutto ciò che è forma è anche sostanza. 

A questo punto, se vi è gentilezza del donare, ogni amore è possibile. Ogni tipo di amore. Non importa quali implicazioni terrestri vi saranno.

Ci ripenso, ricordandomi dello struggente amore scritto tra Rainer Maria Rilke e Marina Cvetaeva, che pure, non si incontrarono mai di persona. 


Nel maggio del 1926 Rainer Maria Rilke si trova nella clinica svizzera di Val-Mont per curare un malessere ancora ritenuto lieve, di probabile origine nervosa (in realtà sono le avvisaglie di quella leucemia che lo condurrà alla morte il 29 dicembre dello stesso anno).

Da tempo ormai, da quando ha terminato il decennale lavoro delle Elegie duinesi, la vita in lui si è fatta «stranamente pesante», il suo corpo, prima così servizievole, ora sembra rifiutarsi di assecondarlo; e su tutto la terribile sensazione di vuoto, di spaesamento, di chi si è ormai lasciato alle spalle il culmine della propria parabola umana e creativa.

Nel mezzo di una simile crisi, trova però il tempo, esaudendo una richiesta di Boris Pasternak, di scrivere a un’intima amica di quest’ultimo, la poetessa Marina Cvetaeva, per inviarle con dedica un proprio volume di liriche.

La risposta di lei non si fa attendere: un’appassionata, debordante dichiarazione d’amore verso il poeta Rilke, anzi, verso un Rilke che è addirittura «l’incarnazione della poesia», nonché «quanto di più caro possieda al mondo » questa esule russa dall’esistenza difficile e tormentata. E al suo tono appassionato, come all’uso del «tu» con cui la Cvetaeva supera d’un balzo, sin dall’inizio, le convenzioni di uno scambio epistolare tra sconosciuti, lui si adegua immediatamente.

Comincia così tra i due il breve, folgorante carteggio ora pubblicato nella traduzione italiana di Ugo Persi (Lettere, SE, pp. 104, € 13); comincia, possiamo dire, una breve ma intensissima storia d’amore tra un uomo e una donna accomunati dalla più profonda diffidenza verso ciò che nell’amore è adempimento, legame, possesso.

Entrambi, per tutta la vita, hanno sempre cercato tutt’altro: quello slancio dell’anima che è sinonimo, o traduzione, o alimento dello slancio poetico; quel «bacio assoluto» rispetto al quale ogni bacio concreto rappresenterebbe già una forma di degradazione.

Tanto Amelia Valtolina quanto Pina De Luca, autrici delle due interessanti postfazioni che completano il volume, sottolineano appunto la centralità, in questo carteggio, dell’idea di una «produttività del non-possesso», sia sul piano dei sentimenti sia su quello, quasi inscindibile, della riflessione poetica.

È una consapevolezza che spesso, soprattutto in Rilke, si vena di rassegnazione: la consapevolezza, come egli scrive nell’Elegia dedicata a Marina, che entrambi sono soltanto «dispensatori di segni» e che «quest’opera lieve, quando uno di noi/ più non regge e s’induce alla presa, / si vendica e uccide».

L’«opera lieve» del poeta, che solo attraverso il più paziente e sistematico sacrificio dell’Io può arrivare davvero ad abbracciare e trasfigurare tutte le cose nello spazio dei propri versi, del proprio «invisibile cuore»; ma anche l’opera altrettanto lieve e delicata degli amanti, che vive di un fragilissimo equilibrio tra prossimità e distanza.

Eppure, dopo alcuni mesi, la Cvetaeva tenta di spezzare questo equilibrio. Sente di dover «approfittare del caso di essere ancora (e pur sempre!) un corpo vivo», e propone a Rilke di incontrarsi «in qualche posto della Savoia francese molto vicino alla Svizzera».

La reazione di lui a questa proposta è cauta, vagamente intimorita; tanto da spingerla a dichiarare, nella lettera successiva, «Tu credi che io creda alla Savoia? Sì, come anche Tu, come al regno dei cieli». E infatti, i due non si vedranno mai.

All’accorato «Mi ami ancora?» inviato il 7 novembre su una cartolina postale Marina non riceverà risposta; la «strana gravezza», la «discordanza» tra l’anima e il corpo hanno sospinto Rilke in una regione inaccessibile, sottraendolo a qualsiasi relazione umana. 

Gli scriverà un’ultima volta la sera del 31 dicembre, dopo aver appreso della sua scomparsa, per commentare di nuovo, con l’amarezza delle parole definitive: «Io e te non abbiamo mai creduto nel nostro incontro qui sulla terra - come non abbiamo mai creduto in questa vita, non è vero?»

Paola Capriolo per Corriere della Sera. 

02/10/14

Il giorno più bello per incontrarti (Incipit)





Prologo

Per far nascere una storia occorre silenzio. Ma io non ho bisogno di far nascere una storia. Essa c'è già, esiste.  Reclama semplicemente di essere raccontata. Dovrò spiegare tutto, nulla potrà essere tralasciato. Dare conto anche del silenzio.

Per far questo, come si conviene, è bene rendere omaggio a colui che questa storia ha generato, o dalla quale è stato immotivatamente sospinto.

A lui essa ritorna, a lui affido queste parole, pronunciate, ricordate, ripetute nonostante da ogni parte giungano fin qui inarrestabili rumori, grida e stridori dissennati.


Il giorno più bello per incontrarti, Fabrizio Falconi, Fazi editore, 1999 (incipit)

Qui la versione formato Kindle

01/10/14

La speranza è una corda sola.








La speranza è una corda sola. 

Ripenso a Maupassant e alla sua vita, più ardente di un romanzo. Queste anime dolenti, l'anima di Maupassant, l'anima di Elsa Morante hanno attraversato la vita mendicando amore. 

Il segno di una sofferenza ulteriore è il peso di una solitudine malata, il prezzo del coraggio, la disillusione ogni volta capace di rifare nuovo il mondo e ancora e ancora e ancora.

Molte sono le corde che muovono la vita, tutte le attraversiamo nel fuoco fatuo dei giorni, consolandoci e raccontandoci quello che vogliamo sentire. 

Poi arriva la notte. E resta una corda sola. 

Come il rintocco di una campanella, come un muro scrostato dove non si può scrivere nulla.
Si resta appesi al silenzio che segue quella corda come un'ombra. Circonflesso dai pensieri e dalle mancanze, ciascuno si desta prima del tempo e aspetta la fine della vibrazione.

Per ricominciare e perdersi, nuovamente.


Fabrizio Falconi

(foto in testa dell'autore: Basilica di Santa Sabina, Roma).

30/09/14

Gli ambasciatori di Hans Holbein e il teschio nascosto - Un quadro/trattato sulla vanità della vita.




Il più grande trattato sulla vanità della vita e dei beni materiali è un quadro.

Per l'esattezza, uno dei più quadri più belli e misteriosi del mondo. 

Lo ha dipinto il tedesco (originario di Augusta, in Baviera) Hans Holbein (1497-1543).

Il quadro, conservato alla National Gallery di Londra, rappresenta due ambasciatori francesi, un gentiluomo e un vescovo, ritratti a grandezza naturale, davanti ad un tavolo su cui sono sparsi vari simboli massonici e alchemici: una squadra, un compasso, vari orologi, un astrolabio, libri, un liuto, un goniometro, che rappresentano le arti del quadrivio (musica, aritmetica, astronomia, e geometria). 

Il pavimento splendido è quello dell'Abbazia di Westminster. 

E il quadro, oltre ad essere una allegoria delle arti, contiene un gioco prospettico formidabile. 

Quella strana macchia allungata che si profila nella parte bassa del dipinto, infatti, se si cambia la prospettiva, e si osserva il quadro di taglio, di lato, dalla posizione coincidente con la mano sinistra del vescovo, rivela una grande sorpresa: un teschio terrificante. 

Questo quadro è uno dei prototipi della cosiddetta tecnica anamorfica.

La capacità cioè di ritrarre immagini nascoste, sfruttando le leggi della prospettiva. 

Il significato profondo di questa opera magnifica ed enigmatica è evidente: in mezzo ad ogni attività umana e mondana, in mezzo alla gloria degli ambasciatori, in mezzo ai loro costumi potenti, ai loro alambicchi, e al loro essere indaffarati nei destini del mondo, c'è sempre e soltanto la morte. 

Questa capacità di esposizione metaforica, e letteralmente esoterica (εσωτερικός)  propria dei grandi geni del passato, rende ancora più stridente l'epoca nostra che gioca e si fonda sulla banalizzazione o rimozione della morte e delle sue conseguenze tra i vivi.  


29/09/14

L'epoca dell'entusiasmo "a caduta rapida" e X-factor.



Viviamo nell'epoca dell'entusiasmo a caduta rapida. 

Nel mondo delle impressioni, nessun sentimento, nessun pensiero, nessuna 'convinzione' è durevole. Tutto, nel bene o nel male, dura al massimo 10 o 15 secondi. Ed è così anche per le good vibrations, che diventano manifesto, coazione a ripetere.  

Un sintomo dell'entusiasmo a caduta rapida dei nostri tempi (incapaci di vera gioia, di vera felicità) sono banalmente questi reality, come x-factor, dove l'ovazione per l'esordiente di turno scatta dopo 10 o 15 secondi di esibizione, dove il parere dei giudici - l'entusiasmo o la (rara) bocciatura - scatta dopo 10 o 15 secondi di esibizione. 

Il nostro entusiasmo ci mette 10 o 15 secondi a sbocciare. E' un entusiasmo finto, ovviamente. 
Epidermico, primario o primitivo. Non c'è alcuna interiorizzazione, non parliamo di un pensiero 'critico'. 

L'entusiasmo - del pubblico, dei 'giudici' e del pubblico a casa - sboccia sulla base di un riflesso pavloviano che dovrebbe giudicare qualcosa di così complesso, profondo e misterioso come il talento

Quale tipo di valutazione di un talento, di un talento umano può essere espletato in una bolgia ? 

Il meccanismo dei talent-show però è indicativo anche di come si è modificato il gusto, e quindi il giudizio umano. 

Quasi nessuna di queste stelline prodotte a tambur battente dai reality vede riconosciuto poi concretamente - e soprattutto durevolmente - il suo talento (al di fuori dei 15 minuti di notorietà, oggi forse ridotti a 5, di cui parlava Warhol).  

I grandi clamori, le grandi acclamazioni e le standing ovations (che quando ero piccolo io si tributavano solo ogni morte di Papa, e solo per esibizioni di talenti davvero stra-ordinari) lasciano il posto spesso a un decadimento immediato. 

Ma è il prodotto di una figura di mondo che è costruita ormai interamente sulle "emozioni" ( non sulla gioia duratura, profonda e silenziosa, che tutti hanno ormai smesso anche di perseguire). 

Eppure ogni forma critica, ogni forma di giudizio nasce da una valutazione silenziosa, dal fare silenzio, che è la prima e indispensabile condizione dell'attenzione. 

Ma, come scriveva Elsa Morante nel 1982 (Aracoeli):  si direbbe che gli umani rifiutano, oggi, il Dio che parlava il linguaggio del silenzio. In tutte le loro azioni quotidiane: lavarsi, nutrirsi, lavorare, accoppiarsi, camminare o star fermi; e dovunque: nelle case e nei caffé, negli alberghi e nei bordelli e negli asili, nelle carceri e negli uffici, nelle automobili e nei treni e negli aerei; dovunque e sempre, individui e masse; vivono soggetti a questa Maestà elettrica, rimbambita e sinistra, infuriante nelle sue casse di plastica da cui escono "lampi e voci e tuoni"

28/09/14

La poesia della domenica - "Figlia (a mia figlia)" di Antonella Anedda.




Figlia (a mia figlia)


Mi piace la sua fierezza quando combatte contro di me
e grida "non è giusto". E i suoi occhi a fessura
come le persiane nelle città di mare.
La sua vita piena di falò - visibili e invisibili -
fuochi che ardono a ogni anno che avanza
per farla vivere ancora e ancora in un miracolo di fumo.
E' questo stare al caldo, credo, a darle il senso del perdono
quel suo baciarmi la spalla all'improvviso, se la sgrido.
Forse ricorda i ferri da cui è nata
e il cui segno mi attraversa la pelle senza orrore.
E' uscita dalla pancia mentre io dormivo. Ci unisce la pace
l'assenza di urla, il mio pudore.
Siamo una tela di Giovanni Bellini: una vergine e un coniglio
gentile.


Antonella Anedda

27/09/14

Castel Sant’Angelo e la spada delle esecuzioni.


Nell’ultimo decennio dell’Ottocento, durante i lavori di scavo eseguiti per l’incanalamento del fiume, uno strano reperto fu quasi miracolosamente rinvenuto nel greto del Tevere. 

Si trattava di una spada risalente al XVI secolo, in bronzo, con la lama lunga ben centouno centimetri, larga cinque sulla sommità e sette alla base e con l’impugnatura in legno lunga trentanove centimetri.

la spada delle esecuzioni conservata nel Museo Criminologico di Roma

Gli studiosi non tardarono ad identificarla come la spada di giustizia (oggi è conservata nelle sale del Museo Criminologico di Via del Gonfalone), uno dei macabri arnesi del boia che non lontano dal punto di ritrovamento del reperto esercitava il suo mestiere nella Roma del Cinquecento e fino a tutto l’Ottocento. 

Ai piedi di Castel Sant’Angelo sorgeva infatti il palco delle esecuzioni capitali - sul quale esibiva le sue terribili capacità il leggendario Mastro Titta, il boia più famoso di Roma – e nei cui locali sottostanti era sistemato il magazzino con tutti gli accessori che servivano per quelle necessità.


La ricostruzione di una delle esecuzioni di Mastro Titta a Castel Sant'Angelo


Non è perciò fantasioso immaginare che proprio quella spada, ritrovata tre secoli dopo del tutto casualmente, sia stata quella con cui furono decapitate, fra le altre, Beatrice Cenci e Lucrezia Petroni.

Castel Sant’Angelo, infatti, nella sua lunga millenaria storia, oltre a servire come monumento funebre e sepolcro dell’imperatore Adriano, residenza di Papi, rifugio, fortezza difensiva, fu utilizzato per molto tempo come prigione. 

uno scorcio delle prigioni storiche di Castel Sant'Angelo

E nelle sue segrete celle furono rinchiuse diverse illustri personalità: dal Cardinal Vitelleschi a Pomponio Leto, da Alessandro Farnese (diventato poi Papa col nome di Paolo III) a Giordano Bruno, al Conte di Cagliostro e a Benvenuto Cellini (il quale fu protagonista di una celebre fuga e rinchiuso poi nei terribili sotterranei), fino ai patrioti che durante il Risorgimento si batterono per detronizzare il Papa dal suo potere temporale.

Ma certamente il caso più famoso di reclusione e di esecuzione capitale a Castel Sant’Angelo fu quello che riguardò Beatrice Cenci che a ventidue anni fu giustiziata l’11 settembre del 1599 insieme al fratello Giacomo (per squartamento) e alla matrigna Lucrezia Pietroni.

Come tramandano le cronache dell’epoca, quello fu un vero e proprio caso giudiziario, tra i più scandalosi e dibattuti della intera storia della Capitale: del processo infatti parlò tutta Roma, e per ancora per i secoli a venire la fama della sinistra vicenda influenzò grandi scrittori come Stendhal, Percy B. Shelley e Alexandre Dumas.

E c’era tutta Roma quel giorno ad assistere, nella Piazza di Castel Sant’Angelo, alla esecuzione della bella Beatrice – accusata di parricidio – e dei suoi complici. Una folla enorme nel caldo afoso d’agosto: in tanti svennero per la calca, altri addirittura finirono spintonati nel fiume.

Nella piazza, tra la gente, c’era anche il giudice Ulisse Moscato che aveva proclamato la sentenza di morte e i più grandi avvocati dell’epoca – Molella e Farinacci – che si erano divisi i ruoli della difesa e dell’accusa; c’erano turisti e curiosi, frati confessori e tutti i rampolli delle famiglie nobili dell’epoca; c’erano soldati e artisti, perfino Michelangelo Merisi da Caravaggio e Artemisia Gentileschi, i più grandi dell’epoca. 

Caravaggio-Giuditta che taglia la testa a Oloferne (1598-1599)

E non è difficile immaginare quale suggestione dovette suscitare nei due pittori – anche in riferimento ai famosi quadri che realizzarono - l’esecuzione dei condannati: prima madama Lucrezia, la matrigna di Beatrice e poi la stessa Beatrice furono decapitate a fil di spada.


Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne, Muse Capodimonte, Napoli, 1612-13


Molto probabilmente quella stessa spada che – quasi tre secoli dopo – le sabbie del Tevere hanno restituito, praticamente intatta.

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. Tratto da Misteri e segreti dei Rioni e dei Quartieri di RomaNewton Compton Editore

26/09/14

"Non c'è posto per me e per te"






Uno si recò alla porta dell’amata e bussò.
Una voce rispose: “Chi è là !” 
Egli rispose: “Sono io”. 
La voce rispose: “Non c’è posto per Me e per Te.” 
La porta restò chiusa. 
Dopo un anno di solitudine e privazioni egli ritornò e bussò. 
Una voce da dentro chiese: “Chi è là !” 
L’uomo disse: “Sei tu.” 
La porta si aprì per lui.


Siamo tutti in cerca di chi – come racconta Rumi in questa poesia – ci dica “eccomi, io sono te.” Il mondo popolato solo di io (di voci che ripetono stancamente sono io) è come atomizzato in una infinità di porte chiuse

Gli io si scontrano come elettroni impazziti, e rimbalzano senza scambiarsi cariche di nessun tipo (e  quanto sentiamo vero fino allo sfinimento questo: non c’è posto per me e per te). E’ probabile che si debba reimparare un alfabeto del riconoscimento reciproco. Provo a dirlo in due modi.

Amore non è quello di uomini nella carne incatenati
che di comprata, amara, sognano carezza,
o di una tenera vergine dolcezza,
che amano essi solo se riamati.
Poichè così non altri che te stesso ami,
o ciò che i tuoi pensieri
ritengano gloria possedere,
e il nulla, che dovresti amare meno, ami:
se anche d’ora innanzi
precluso fosse alla tua conoscenza.

Null’altro ama che il Tutto senza forma eterno
della cui luce inosservato un raggio
batte su questo prisma di creta in dissolvenza
fino a rifrangere i colori del tuo animo guizzando.

Questi, lampi e soffio sono;
permanere non li lascerai perché rifulgeranno
con sapienza non appena svaniranno.

George Santayana – 1896.


Di notte il vento di aprile
ti ha risvegliato, raggelando
i germogli, scuotendo le imposte
scardinando la terra.
Hai vagato, senza trovare niente:
ti sei chiesto a che serve
una barca senza mare
una risposta senza domanda
un tappeto di foglie cadute
senza nessuno che lo attraversi,
un cielo di notte senza telescopi,
un letto caldo senza un respiro
tra le lenzuola, una promessa
senza una supplica, un coro di morti
senza nessun orecchio di vivo, che lo ascolti.

Ti sei sentito fragile, come chi aspetta
come un pazzo che chiede amore nel vento,
nel punto più scuro della notte.

Fabrizio Falconi - I sogni dell’amore che non venne mai.

tratto da La poesia e lo spirito 

24/09/14

L'acqua dei figli - di Fabrizio Falconi




L’acqua dei figli


Ore di sonni a imbuti
a singhiozzo a ricordar parole
a senso, filastrocche e canti
ore di veglie e corti
respiri, mani nelle mani
e piedi nei piedi
pancia nel cuore, e odori
così
è scritto, e passa
l’acqua dei figli
sul letto di sassi dei padri
e lava, e consuma
e rende vecchio e nuovo
e prosciuga, e inonda
e rinnova da se stessa la vita
e niente è mai come il giorno prima.


da: Fabrizio Falconi, Poesie 1996-2007  (prefazione di Robert P.Harrison, postfazione di M.Guzzi), Campanotto, 2007

23/09/14

"Spesso i rapporti tra persone sono un malinteso permanente" - Una intervista a Cees Nooteboom.




A colloquio con Cees Nooteboom Tutti i mondi dell'olandese viaggiante di Silvia Guidi

Il paradiso deve pur esistere da qualche parte, pensa il giovane Philippe, non avrebbe senso, altrimenti, la molteplicità dei desideri che affollano il cuore, il confuso germogliare di aspirazioni, progetti e aspettative che rende nitido, denso e vibrante il presente, la tensione verso la vita, l'energia tesa a un compimento che muove tutti gli uomini: ha tanti nomi, ma si tratta certamente della stessa cosa, pensa il protagonista dell'opera d'esordio di Cees Nooteboom, "Il paradiso qui accanto" (il titolo originale del romanzo scritto nel 1955 a soli 22 anni) si trasforma nella meticolosa architettura di gesti e pensieri prevedibili con cui cerca di rimuovere o mettere a tacere questo desiderio, nascondendolo sotto strati di abitudini, riti sociali, traguardi da raggiungere o frammenti di passato da dimenticare, come polvere sotto un tappeto.

Il difetto che più spesso i critici imputano a Nooteboom - cercando di spiegare il mancato arrivo di un Nobel più volte annunciato - è in realtà una qualità rara negli scrittori contemporanei: scrivere libri molto diversi uno dall'altro, usare un vasto arsenale di ombre cinesi per dare vita a una sorta di teatro filosofico, una sequenza di comtes philosophiques tanto ironici quanto profondi. 

Forse per questo è considerato un "moderno" atipico; abbiamo chiesto direttamente all'autore, prima di una visita ufficiale all'ambasciata tedesca di Roma, quanto resta del Philippe degli esordi nelle sue ultime opere. 

"Adesso sono troppo vecchio per fare l'autostop - risponde Nooteboom, classe 1933, pantaloni di un velluto rosso cupo che sarebbe piaciuto a Rembrandt e camicia bianca - Philippe e gli altri risente molto del viaggio in Provenza e in Italia. Soprattutto ricordo lo stupendo scenario della Roma barocca, i palazzi, la luce, ogni cosa era come incastonata dentro uno spettacolo teatrale permanente, per la ricchezza dei colori e dei costumi".

Difficile ambientarsi in Italia?


"Al contrario, molto facile; conoscevo il sacrista del Papa, agostiniano come i monaci da cui avevo studiato in Olanda; da loro ho ricevuto l'educazione classica di cui avevo bisogno. Mi ha ricevuto nella sua cella e mi ha ascoltato. Ricordo ancora la telefonata, il suo "sì eminenza, sì eminenza" ripetuto più volte. Dieci minuti dopo avevo in tasca mille lire (non era poco negli anni Cinquanta); un modo piuttosto concreto di darmi il benvenuto a Roma. Quello stesso giorno ho incontrato un ragazzo che mi ha detto: "Io lavoro al ministero delle finanze, se vuoi mangiare vieni con me". "Ma non so una parola di italiano!". E lui: "Non importa, stai accanto a me, ripeti quello che dico e ti riempiono il vassoio". L'ho rivisto a Milano dopo cinquant'anni, durante un incontro in cui presentavo un mio libro. Era in prima fila e l'ho riconosciuto subito. E lui aveva riconosciuto me".

Quindi partecipare all'incontro del Papa con gli artisti nel novembre scorso è stato un po' come tornare a casa?
"Diciamo che ho avuto una settimana molto strana: prima un invito a Berlino, ospite della Linke, l'estrema sinistra tedesca, chiamato a parlare davanti a seicento persone, poi l'incontro a Roma sotto la Cappella Sistina. Era difficile non essere distratti dalla bellezza dell'affresco sotto cui eravamo seduti; accanto a me c'era un collega di origine iraniana (anche lui pubblica i suoi libri in Italia con Iperborea) a cui ho cercato di spiegare la differenza tra un cardinale e un vescovo. Sarebbe stato bello avere più tempo per discutere insieme di arte e letteratura, ma mi rendo conto che non è facile organizzare un evento simile. E comunque la relazione di un artista con un'istituzione non è mai facile, di qualsiasi tipo di istituzione si tratti".

Il quadro di Paul Gauguin sulla copertina del suo ultimo libro, Le volpi vengono di notte, raffigura una zampa di animale sul cuore di una ragazza addormentata: un'immagine di una brutalità silenziosa, senza grido. La citazione della parabola evangelica dei seminatori di zizzania contenuta nel titolo è voluta o casuale?

"Effettivamente c'è una sorta di cupio dissolvi che descrive una progressiva perdita del gusto del vivere. Ad esempio Heinz, il viceconsole onorario, uno dei protagonisti dei racconti, nasc
onde una ferita segreta, che non rivela neanche a se stesso, ma che lo ucciderà lentamente".

Un omaggio a Montale, visto che Heinz vive lo smarrimento del "Forse un mattino andando in un'aria di vetro, il nulla alle mie spalle, con un terrore da ubriaco"? Tra i poeti che ha tradotto, come Wallace Stevens, Neruda, Pavese, c'è anche l'autore di Ossi di seppia.
"Sì, questi nomi passano da un comunicato stampa all'altro, ma non ho tradotto molto in realtà. Su Montale non consiglierei tanto un mio lavoro quanto la bellissima traduzione di Jonathan Galassi. Quanto al libro, non volevo scrivere l'ennesimo noioso saggio filosofico, quando potevo dire le stesse cose descrivendo persone che vivono quella situazione".

Una sorta di "correlativo oggettivo" alla Eliot?

"Più o meno; spesso i rapporti tra le persone sono il paravento di altro, o rischiano di essere un malinteso permanente, volevo comunicare al lettore questa inquietudine. Uno dei miei personaggi mentre viaggia in Marocco guardando l'immensità del deserto e del cielo senza nubi scopre il terrore di essere "un niente ridicolmente presuntuoso", Paula, la protagonista di un altro racconto, ha il terrore di amare ed essere ferita; Suzy cerca di cancellare ogni traccia del passato lavando e facendo asciugare al vento i vestiti della prima moglie dell'ammiraglio che ha sposato".


22/09/14

Lo spaventoso "Pozzo del Merro", alle porte di Roma, l'abisso più profondo del mondo.





Tra le storie di fantasmi contemporanei a Roma ci sono quelle che riguardano le incredibili cavità sotterranee che soggiacciono non solo al territorio urbano, ma anche a quello immediatamente extra-urbano. 

Si tratta di luoghi spaventosi e affascinanti, come il Pozzo del Merro, un pozzo naturale noto sin dai tempi della Roma Antica, simile per morfologia ai cenotes messicani, sito nella campagna del Lazio, nel comune di Sant'Angelo Romano.

In mezzo ad una fitta vegetazione compare quasi dal nulla questa cavità che si presenta come un cratere, sul fondo del quale la proliferazione di alghe superficiali nasconde l’esistenza di un laghetto. 

La particolarità, davvero incredibile è che, si tratta realmente di un pozzo senza fondo: le più recenti esplorazioni, dapprima da parte di speleologi subacquei (che ha permesso il recupero di reperti risalenti al Giurassico), poi con l’ausilio di sofisticati robot, ha stabilito che la profondità del Pozzo del Merro eguaglia e supera l’equivalente dell’altezza della Torre Eiffel: le rivelazioni compiute dai tecnici dell'Università di Tor Vergata, infatti, parlano di circa 400 metri (392 metri per l’esattezza), che è il limite massimo a cui le misurazioni sono giunte, il che ne fa la cavità naturale più profonda del mondo.

Il fondo, però, sottolineano gli esperti, non è stato ancora raggiunto. Ovvio che un luogo così affascini geologi e speleologi di mezzo mondo, e i naturalisti che hanno l’occasione di scoprire e analizzare le forme di vita che riescono a vivere a profondità così assolute.

Di cavità così, anche se non con profondità record come quella del Merro, ne esistono molte a Roma.

Una delle più famose, nel tessuto urbano, è il cosiddetto Abisso Charlie, scoperto dallo speleologo Carlo Pavia nel 1992 (2), che si trova al di sotto della collinetta tufacea di Villa Glori, dove esiste un grande pozzo nel quale gli antichi romani gettavano degli ex voto, dal cui stretto ingresso nascosto tra le sterpaglie vicino ai resti di un tempio si accede ad una cavità, per gran parte occupata da acqua, che scende fino a 50 metri e oltre di profondità.

L’esistenza di questi cenotes romani ha partorito o giustificato la presenza di numerosi racconti di fantasmi fioriti intorno al mito di luoghi che sembrerebbero mettere in comunicazione direttamente con il mondo dei morti o degli inferes.   





Fabrizio Falconi  (C) - riproduzione riservata - materiale  tratto da I Fantasmi di Roma. 

21/09/14

La poesia della domenica - 'Ora' di Carol Ann Duffy.


Ora


L'amore mendica tempo, ma anche un'ora sola,
che brilla come un soldo caduto, rende ricco l'amore.
Se troviamo un'ora insieme, non spendiamola per fiori
o vino, ma per tutto il cielo estivo e un prato erboso.
Baci da mille secondi; i tuoi capelli
come tesoro a terra; la luce di Mida
volge le tue braccia in oro. Il tempo rallenta, poiché qui
siamo milionari, ribaltiamo la notte
così nessun buio porrà fine alla nostra notte di luce,
né un gioiello starà al pari della bava d'insetto
che pende dal filo d'erba al tuo orecchio,
né candelabro o lanterna ti daranno più luce
che qui. Ora. Il tempo odia l'amore, lo vuole povero
ma fila oro l'amore, oro, oro, dalla paglia.

Carol Ann Duffy, da La donna sulla luna, Le Lettere, 2011.

19/09/14

Oberati dalle tonnellate di Volo & Camilleri ? - Una riflessione di Paolo di Stefano.





Anche voi come me vi sentite oberati dalle tonnellate di fabiovolo che ostruiscono le entrate delle Feltrinelli, rendendo irreperibile o introvabile l'unica copia superstite di un Nooteboom o di un Cancogni ? Leggete questo bel pezzo di Paolo di Stefano, pubblicato sul Corriere della Sera del 16 settembre 2014.


Probabilmente c'è sempre stato, ma il divario che separa oggi gli ottimisti dai pessimisti mi pare più ampio e forse più significativo del solito. 

È comunque un tema interessante che Piergiorgio Giacchè affronta nell'ultimo numero della rivista Lo Straniero a proposito del saggio-intervista di Marino Sinibaldi Un millimetro in là (Laterza). 

Tradizionalmente, e detto un po' a spanne, il pessimismo è conservazione, l'ottimismo è progresso, il famoso ottimismo della volontà di gramsciana memoria, e cioè l'ottimismo che deriva dalla possibilità di cambiare le cose attraverso un'azione politica, sociale, culturale. 

Giacché rimprovera a Sinibaldi di arrendersi alla realtà, accettando, sia pure da sinistra, la sacra trinità di Steve Jobs tecnologia-contenuto-desiderio. 

Così va il mondo, e noi non possiamo/dobbiamo fermarlo. 

Oggi da una parte c'è chi ritiene che si stia andando diritti verso una deriva senza ritorno, c'è invece chi considera questo il migliore dei mondi possibili e irride a quel che gli appare come un catastrofismo ingenuo da bambini dell'asilo spaventati da tutto. 

Il sospetto è che la battaglia non sia più tanto tra apocalittici e integrati, ma tra depressi ed euforici, per una sorta di ciclotimia diffusa nel tessuto psicosociale: chi ha bisogno di dire che tutto va male e che andava molto meglio in passato (ah, la nostalgia!); chi si ostina a ribadire che non potrebbe andare meglio, che è assurdo resistere, dobbiamo cavalcare con slancio i segnali del nuovo (soprattutto tecnologici), senza stupircene troppo. 

Certo, è pressoché una battaglia contro i mulini a vento la resistenza a certe tendenze che non piacciono, ma qualche piccolo «sabotaggio» critico all'andazzo generale ogni tanto sarebbe salutare e rinfrescante. 

Per esempio, ieri in una vetrina Feltrinelli ho visto esposti solo libri presenti in classifica, sono entrato e sono stato travolto sempre da colonne di top ten . Che bisogno c'è di promuovere a quel modo titoli che si sono già promossi da soli? Così va il mondo? 

Alessandro Piperno si dice irritato dai «denigratori di best seller », risentiti (invidiosi?) e nostalgici, aggiungendo però che quando scorre le classifiche dei libri prova «una vertigine di follia e di futilità». Dunque? 

Irrita di più la futilità o i denigratori del suo trionfo? Senza fare crociate patetiche contro i best seller , sarebbe troppo offensivo e nostalgico e illusorio e immobilista e conservatore chiedere alla civilmente impegnatissima catena Feltrinelli di diversificare un po' di più? 

Sì, lo so che nei negozi Feltrinelli c'è (quasi) di tutto, che la bibliodiversità è democraticamente rispettata, ma quel tutto è come se non ci fosse se viene schermato dalla muraglia dei successi annunciati. 

Secondo esempio: l'insistenza sulla tecnologia a scuola. Siamo sicuri che la presenza di strumenti digitali (anche) a scuola giovi all'apprendimento? 

Personalmente ho forti dubbi, tendo a diffidare, come il maestro elementare Franco Lorenzoni, il quale ritiene che le aule vadano liberate dalla colonizzazione, dei new media, che già occupano (militarmente) la vita quotidiana dei bambini e dei ragazzi. 

Carta e matita sono nostalgia? Catastrofismo? Disfattismo?