13/10/11

RI-COMINCIARE. Da dove ? (12 cose da cui ripartire): 12. SACRIFICIO.



Per ripartire, dopo la caduta di senso che rischia di travolgere ogni cosa, dovrò ricordarmi di una parola che è stata cancellata dagli anni e dalla frenetica illusione di un eterno presente: sacrificio.


Cosa è che 'fa sacra'  (sàcer fàcere) la mia vita ? Cosa può renderla sacra, e cioè in definitiva degna di essere vissuta ?

Certamente nessuna delle cose mondane, nessuna delle cose che il mondo mi offre in soprannumero, mi offre senza nemmeno chiedermi un volgare contrassegno, nessuna di queste cose può e potrà rendermi migliore, potrà arricchirmi di nulla.

Sin da bambino ho imparato che OGNI crescita è legata ad un sacrificio.

Non c'è nessuna crescita se non si è disposti a perdere qualcosa di sé: senza sacrificio, si resta eterni bambini, si rinuncia alla vita.

E io non voglio rinunciare alla vita. Questa vita delittuosamente appesantita dalla mancanza di un orizzonte futuro. Questa vita stesa a stendere sotto il peso di un eterno presente che ritorna e che non aggiunge e che non toglie.

Cosa potrò mai diventare, se non offrirò me stesso, se non lo lascerò andare via, in dono o a pegno, se non lo farò fruttare per una buona causa umana, se non sarò capace di trasformarmi, di rendermi maturo come fa un frutto quando si stacca dall'albero ?

Qualunque sia il cammino, la mia anima deve compierlo e sa che deve compierlo. Fare il proprio, dare il meglio, e guardare oltre.  Da quanto saprò essere generoso, si misurerà la riconoscenza dell'avere.  E se anche non avrò avuto, non avrò vissuto indegnamente o inutilmente.

C'è uno spirito antico che vive dentro di me.  Una lunga storia di cui io sono simbolo e frammento.  Che io sono, anche se non lo so.

Come scrisse C.G. Jung:

ma lo spirito del profondo disse: 
"Nessuno può o deve impedire il sacrificio. Il sacrificio non è distruzione, il sacrificio è la pietra miliare di ciò che verrà. Non avete forse avuto i conventi ? Non sono forse andati a migliaia nel deserto ? dovete dunque portare i conventi dentro di voi. Il deserto è in voi. il deserto vi chiama e vi attira e, se pure foste legati col ferro al mondo di questo tempo, il richiamo del deserto spezzerà ogni catena. in verità, io vi preparo alla solitudine." quindi il mio lato umano tacque. ma al mio lato spirituale accadde qualcosa che devo chiamare grazia.


(foto di Henri Cartier-Bresson)







12/10/11

La porta del silenzio.



Il coro dell'opinione comune sostiene oggi, di non sentire Dio, di vedere e percepire - specie qui in Occidente - solo realtà e materia (e soldi, beni, consumi...). Eppure, di fronte a questa evidenza, ciascuno dovrebbe interrogarsi su cosa sono diventate le nostre vite. 


Nei luoghi di lavoro, nelle famiglie, negli stadi, negli aeroporti, anche nelle chiese. Dappertutto vige una stessa caratteristica: l'assenza del silenzio. 

Eppure la radice stessa etimologica della parola mistico (come del resto quello della parola mistero) proviene dal verbo greco muein, ovvero: tacersi.

Se uno non si tace, non avrà alcuna possibilità di ascoltare Dio.

Se uno pretende di trovare Dio, o un senso mistico dell'esistenza in mezzo al caos, al rumore, al fraintendimento, al vociare, al pulsare di mille sollecitazioni, non avrà alcuna possibilità di riuscirvi.

Il silenzio è merce rara. Anzi, introvabile. Ormai, anche navigando su di un battello in mezzo al mare, si sentirà musica orrenda sparata dagli altoparlanti a bordo, che impedirà di ascoltare perfino il rumore del mare.

Come è possibile, nel rumore assordante, ascoltare se stessi, che è appunto l'unico modo di ascoltare Dio ?

Raimon Panikkar scrive:

Nel processo a Gesù egli risponde alla domanda del potere ("che cos'è la verità?") tacendo: se non capiamo quel silenzio come la risposta a Ponzio Pilato, non abbiamo capito Gesù e non abbiamo capito il linguaggio umano. 
Perchè ogni linguaggio è vero in quanto rivela quella sorgente di silenzio da cui la verità sgorga. Cristo ha detto: "Io sono la verità"; ma non ha detto: "La verità è quello che voi dite di me". Egli è la via, la verità, la vita, ma solo se si cammina per la via, se si sta nella verità, e se si vive, altrimenti stiamo vivendo la vita di altri. 
Una profondità "mistica" è ciò che ci manca oggi: la mistica di Abramo che, pur non sapendo dove stava andando, sapeva però che proprio là stava la voce di Dio. 

Fabrizio Falconi.

fonte Mysterium

11/10/11

Elogio di Mina - Un segno dei tempi passati e di quelli presenti.



Questo è un elogio di Mina.

Mina, nome d'arte di Mina Anna Mazzini, nata a Busto Arsizio il 25 marzo 1940, la più grande cantante italiana. 

C'è un motivo che ci spinge ad elogiarla.  La sua presenza - nonostante l'assenza pubblica che data 1978, anno di abbandono della scena - più viva che mai (blog e social network crepitano di sue esibizioni in b/n, inserite da fans e adoratori di tutto il mondo) spinge a farsi qualche domanda e a darsi qualche risposta.

Mina è il contrario di quello che passa oggi il convento.

Televisivamente, ma non solo. Direi proprio, antropologicamente. 


Chi è Mina ? Cosa sappiamo di lei quando vediamo i suoi video, le sue apparizioni nell'arco di quel ventennio - 1958-1978 - magico per il nostro paese (un periodo nel quale l'Italia produsse frutti culturali abbondantissimi, nel cinema, nella musica, nella letteratura, uniti ad una rinascita complessiva del paese che andò sotto il nome di boom) ?

Mina era innanzitutto una artista di capacità quasi sovrumana. Se si guardano questi video, e ad ogni passaggio in televisione, Mina appare di una bravura travolgente. Il suono della sua voce è pura melodia ma è anche tante altre cose insieme: virtuosismo, mai stucchevole e mai fine a se stesso, aggressività, grinta, interpretazione, magia, sospensione, incantamento.  Il suo talento indiscusso è purissimo: la voce sgorga con naturalezza incredibile, eppure appare chiaro che il semplice talento innato è stato affinato duramente, con l'esercizio, lo studio, una dedizione assoluta (che del resto risulta evidente dalla sua biografia).

Ma Mina non è solo questo.

Mina è una donna bella, anche se non bellissima. Mina è una donna di classe che entra nelle case di tutti, con discrezione e magnetismo.  Con intelligenza.  Non è mai trasgressiva - non ne ha bisogno - e non è mai fuori tono, fuori registro.  Si impone semplicemente con l'evidenza della sua bravura e con l'intelligenza delle misurate parole e degli sguardi, oltre che dell'ironia con la quale interpreta volentieri il ruolo della femme fatale che affascina ogni italiano.

La sua bravura inarrivabile per chiunque, è esibita con un pizzico di civetteria, ma senza nessuna prosopopea, e nessuna aria di superiorità.  Mina è anzi un cavallo di razza che accetta il confronto con il diverso e anche con l'opposto.

Mina è gioiosa, è felice di cantare, è felice di dare felicità.  Le sue canzoni, le canzoni che non sono sue ma che diventano sue, perché la sua personalità è così straripante, si trasformano istantaneamente per molti anni nel conforto, nel mantra, nell'accompagnamento sonoro della vita (la vita vera) di migliaia di persone.

Attenzione, ora: tutte le doti che abbiamo enumerato in questo elogio sembrano oggi dimenticate o cancellate o scomparse, se soltanto si realizza un confronto con ciò che pubblicamente passa il convento anche in termini nazional-popolari come è ed è sempre stata la canzone leggera.

Talento, bravura, esercizio, studio, dedizione assoluta, bellezza, classe, discrezione, magnetismo, intelligenza, ironia, misura, personalità.    Che fine hanno fatto, in questo Paese ?

Cosa è successo a questo Paese perché si sia passati in poco, poco tempo, da questo modello, il modello di Mina al niente divenuto paradigma dei 15 minuti di celebrità assegnato per statuto agli imbelli che si agitano inutilmente su quella che assomiglia sempre di più alla tolda di un Titanic ?

Fabrizio Falconi

10/10/11

Le anime si riconoscono.



Da sempre - da quando ci ho ragionato su - sono convinto che le anime si riconoscano.
Quando due persone si incontrano, mettono insieme una serie di 'riconoscibilità', non una sola - quella che di solito noi pensiamo sia l'unica: cioè quella del soma, del corpo.
I corpi si parlano con il linguaggio del corpo: sappiamo subito dire se una persona è 'simpatica', o 'antipatica', se è 'affascinante' o 'respingente', se i suoi occhi sono 'profondi', e la sua bocca 'sensuale'. Tutto ciò attraverso una serie di 'segnali' che i nostri occhi, le nostre orecchie, il nostro olfatto, decodificano subito.
Allo stesso modo, le nostre anime ( per anima intendo proprio, seguendo Plotino, la terza 'ipostasi', che è insieme immortale, intellettiva e divina) si riconoscono da subito.
Ad ogni incontro la nostra anima sente (non allo stesso modo dei sensi, ovviamente), l'anima di chi ci è di fronte: ne riconosce il profilo, la consistenza, le qualità.
Se incontriamo un'anima sofferente, i nostri occhi e i nostri sensi possono anche scansarla e tirare subito dritto, ma la nostra anima l'ha riconosciuta, e questo incontro la nostra anima se lo porta dietro.
Gran parte della sofferenza di oggi negli uomini, ne sono convinto, deriva da questa incapacità di ascoltare la propria anima. Che vive tenuta al guinzaglio dentro ognuno di noi dal ferreo controllo del corpo e soprattutto della psiche.
La nostra psiche è come un ingenuo (e spaventato) guardiano che pensa che tenendo tutto sotto controllo (e ben stretto il guinzaglio) ogni sofferenza, ogni emozione troppo forte verrà resa innocua.        Invece, quel che ottiene psiche è esattamente l'opposto: l'anima tenuta al guinzaglio si ribella.     Manifesta la sua protesta attraverso quelle cose che noi chiamiamo con nomi che all'anima devono apparire  ridicoli: ansia,     depressione,    crisi,      vuoto,    malattia.
L'anima vuole essere libera. Vuole conoscere TUTTO, vuole assaporare la vita, vuole essere vera, perchè viva.  E viva, perché vera.
Vuole parlare.
E se noi non la facciamo parlare (al nostro corpo, alla nostra psiche), la nostra anima si limiterà a scambiare cenni di assenso, di riconoscimento alle altre anime prigioniere che incontra, come due navi che si incrociano nel cuore della notte, e che non possono fare altro che illuminarsi debolmente per qualche fuggevole minuto.
Fabrizio Falconi
in testa: 'Telone' di Justin Bradshaw,  acquarello, acrilico su zinco, 20X15 cm.

07/10/11

Il Premio Nobel per la Letteratura a Tomas Transtromer.


E' Tomas Tranströmer, artista dei silenzi e della natura il premio Nobel per la Letteratura 2011: psicologo, pianista e traduttore svedese, minato nel fisico da un ictus che lo colpì nel '90.

Nel motivare l'assegnazione del Nobel a un letterato svedese (è la sesta volta che accade, l'ultima nel '74 a Johnson e Martinson) e a un poeta (non accadeva dal '96 con la polacca Wislawa Szymborska) l'Accademia reale ha spiegato che Tranströmer "attraverso immagini dense e limpide, ci ha offerto un nuovo accesso alla realtà".

Infatti, gran parte delle liriche sono "caratterizzate da economia di linguaggio, concretezza e metafore struggenti. Nelle sue ultime raccolte si è spostato verso uno stile ancora più essenziale e un più elevato grado di concentrazione".


Tempesta 

Passando, s’incontra all’improvviso
qui la vecchia
quercia gigantesca, alce pietrificato
dalla chioma sconfinata sulla fortezza
nero–verde del mare di settembre.
Temporale del nord. E’ il tempo
 in cui maturano grappoli di nespole.
Vegliando al buio si sentono
scalpitare le costellazioni al loro posto
in alto sopra l’albero.

06/10/11

Steve Jobs morto: una riflessione.



La morte di Steve Jobs, geniale creatore dei sistemi Apple, morto prematuramente a 56 anni, sta avendo una eco mondiale fortissima.

E' il giusto riconoscimento ad un grande imprenditore che ha saputo rivoluzionare le abitudini di consumo e di fruizione (di musica, telefonia, informazione, cultura) planetaria, o quanto meno della porzione più evoluta e più ricca del pianeta.

Ciò che però si conferma in queste ore - ma se ne era avuta evidente riprova nei Riots londinesi, per esempio -  è che il culto di Jobs e di Apple nel mondo è diventato una specie di religione pagana.

I seguaci della tecnologia Apple, e della filosofia industriale di Jobs si sentono, a torto o a ragione, facenti parte di una 'scuola' che adora i suoi totem tecnologici, davvero magici, sotto ogni aspetto. Fino a pochi anni o mesi fa tutto ciò che oggi mette a disposizione un semplice apparecchio, leggerissimo ultrapiatto, dal design semplice ed essenziale, era puramente im-pensabile. 


E' la dimostrazione di come la τέχνη,  la tecné, o meglio ancora la  tékhne-loghìa,  la tecnologia goda la più alta considerazione tra le applicazioni umane.

E abbia sopravanzato, in fatto di considerazione o reputazione, anche e di gran lunga il pensiero filosofico (per non parlare di quello teo-logico)

Jobs, però, non era un semplice homo technologicus.  Era anzi, profondamente convinto che alla base di ogni lavoro, e quindi anche del lavoro tecnologico, vi dovessero essere dei riferimenti e solide basi etiche (anche se io non so francamente quanto questi principi fossero sempre coerenti con le politiche aziendali) come si evince dal celebre discorso-lezione ai laureati di Stanford, che ha lasciato segni così profondi nella contemporaneità.

"La morte è con tutta probabilità la più grande invenzione della vita. Il vostro tempo è limitato per cui non lo sprecate vivendo la vita di qualcun altro,"  disse quel giorno Jobs. E già l'aver messo al centro della sua lezione la morte fu un atto di grande coraggio e immensa umanità.

Forse, proprio a partire da quella lezione, dovremmo tutti comprendere - proprio oggi che uno dei più grandi talenti creativi ci lascia - che la tecnologia non è mai - e non dovrebbe mai essere - il fine delle nostre vite.  

La tecnologia è strumento. E dietro ogni strumento c'è, o ci dovrebbe essere un pensiero umano.

Ricordiamocelo.

Ricordiamoci di tributare gli stessi onori che stiamo tributando giustamente a Steve Jobs, anche a quegli altri grandi uomini, come Raimon Panikkar, scomparso recentemente, che ci hanno lasciato una eredità di pensiero e di umanità altrettanto grande e importante, seppure non legata ad alcuna innovazione puramente tecnologica.

Fabrizio Falconi.

04/10/11

Corrado Guerzoni - "Il valore della parola" - Un ricordo.


A proposito di Corrado Guerzoni, scomparso l'altro ieri, a Roma, vorrei riportare qui un ricordo personale che risale al 1987.

Guerzoni era allora direttore di Radiodue, la seconda rete radiofonica della Radiorai - allora seguitissima - (incarico che ricoprì per 12 anni consecutivi) e conduttore in primis di quella fortunata trasmissione che si chiamava "Radiodue 3131".

"Radiodue 3131" era l'erede di quella trasmissione, "Chiamate Roma 3131", condotta all'inizio da Gianni Boncompagni e Franco Moccagatta (prima trasmissione il 7 gennaio 1969) che rivoluzionò completamente il mezzo radiofonico, con l'introduzione delle telefonate degli ascoltatori  (tutta l'epopea del 3131 dal 1969 al 1995, che ha attraversato l'arco di trent'anni cruciali nella storia italiana, è ricostruita in un prezioso volume scritto da Raffaele Vincenti, La prima volta del telefono, edito dalla RaiEri, con dvd, nel 2009).

Guerzoni - con la determinante partecipazione di Lidia Motta, geniale capostruttura della Rai di allora, e suo "braccio destro" - prese in mano la trasmissione nel 1982, cambiandone completamente l'identità.   Da trasmissione 'confidenziale', dal tono tutto sommato 'leggero',  3131, sotto la guida di Guerzoni si trasformò in un vero strumento di ricerca giornalistica.  Ogni argomento veniva affrontato da diversi punti di vista, con l'ausilio di tecnologie allora del tutto sperimentali - lo studio mobile, le radio-macchine, i collegamenti dagli angoli più remoti d'Italia - e con la ricerca di un dialogo con gli ascoltatori basato sul "valore della parola", come strumento creativo, di crescita personale (non di chiacchiera), di conoscenza e consapevolezza, in una parola di responsabilità.

Guerzoni era un giornalista.  Che veniva da una esperienza drammatica: quella di aver esercitato per diversi anni il ruolo di portavoce dell'on. Aldo Moro.  Dopo la sua barbara esecuzione da parte delle BR, Guerzoni lasciò la politica. Tornò al giornalismo e decise di farlo in un modo tutto suo: non gli interessavano tanto le notizie - gli interessavano anzi assai poco - quanto il nostro modo di osservare il mondo e di farne parte.  Era convinto che la parola fosse immedesimazione nell'altro, condivisione, possibilità e capacità delle anime di farsi dia-logo, di partecipare ad una comunità allargata, che si interroga e interroga le proprie ansie e le proprie questioni cruciali.

Guerzoni era un accanito lettore: pur essendo come egli si definiva "incompetente" teoricamente, amava leggere di tutto, poesia e prosa, filosofia e teologia, i classici.

Così, nell'estate del 1987, Guerzoni, insieme a Maurizio Ciampa - filosofo e conduttore del 3131 notte (altro luogo deputato alla sperimentazione comunicativa)  - pensò di provare a scrivere un testo, insieme a colleghi molto più giovani di lui.

Fummo "convocati" in 5: oltre a Ciampa, Francesco Malgaroli, Gabriella Mangia, Stefano Rizzelli ed io.

L'idea era quella di un "work in progress": non avevamo un canovaccio pre-stabilito. Non più di tanto. Guerzoni pensò di realizzare una serie di incontri nel suo ufficio di Viale Mazzini. Incontri nei quali noi lo avremmo sollecitato su questi temi - cosa vuol dire parlare con qualcuno, esiste una coscienza o una verità delle parole, come si può guardare nel cuore del prossimo, che cosa comporta che il mondo ormai sia un enorme luogo dove tutti parlano e quasi nessuno ascolta - e lui avrebbe risposto "a ruota libera"; come una specie di confessione, interrogandosi - lui per primo - sul senso del lavoro che faceva tutte le mattine, quando si accendevano i microfoni nella R7 di Via Asiago.

Ho un ricordo personale fortissimo di quegli incontri. Noi eravamo molto giovani, freschi di studi, e con la presunzione di sapere molte più cose di quelle che in effetti conoscevamo.  Guerzoni però si fidava ciecamente di noi.  Voleva darci questa chance di fare il libro insieme a lui, di vederlo crescere insieme.  Di firmarlo perfino insieme a lui.

Realizzammo parecchi incontri - non ricordo se sei, sette - e furono ore meravigliose.  Il Guerzoni che ricordo durante quegli incontri era per me piuttosto stupefacente. Pur parlando "a braccio" non fu mai, nemmeno una volta, banale.  Le sue riflessioni erano meditate e pacate, ma dimostravano i frutti di una ricerca personale colta e approfondita, sollevavano questioni primarie, per noi che iniziavamo a fare quel lavoro di 'interrogazione della realtà' che è e dovrebbe sempre essere il giornalismo.   Ci offriva, ci offrì la sua visione di quel mondo, che doveva essere prima di tutto 'morale', cioè rispondere ad un senso di responsabilità profonda: quello della in-violabilità del mistero dell'altro, che è sempre di fronte a noi, e che anche quando sceglie di aprire se stesso, la sua anima, i suoi pensieri, resta altro.

Confidava però molto nella capacità della parola di "cambiare gli uomini", e in definitiva di cambiare anzi il mondo. Era questa la speranza - o la fede, o tutte e due le cose insieme - che agitava il suo lavoro e la sua ricerca personale, sempre inquieta, alle prese con la apparente e angosciosa "irremediabilità" del mondo.

Il libro uscì l'anno seguente, pubblicato dalla SEI di Torino, intitolato "Il valore della Parola".

Aveva faticato molto a congedarsi dal libro, concedendo il "visto si stampi".  Nelle conclusioni finali, rendendosi conto che c'era già qualcosa che premeva urgentemente "oltre" il libro,  scriveva: Del resto è la vita che butta per aria i libri, è l'esperienza che facciamo ogni giorno e ogni sera che scompiglia le nostre idee, che soffia nei nostri sentimenti, nelle nostre azioni, nelle nostre reazioni, che ci espone al rischio insito nel vivere stesso."

Vivere, rischiare, esporsi, assumersi "la grave responsabilità" del parlare con la gente, con milioni di persone ogni giorno. L'intera esperienza di vita di Guerzoni - e l'eredità grande che ci ha lasciato a noi che abbiamo avuto la notevole fortuna di lavorare con lui - si è giocata tutta tra questi due apparenti estremi: vita e parola. 

Fabrizio Falconi



02/10/11

E' morto Corrado Guerzoni. Un maestro.



E' scomparso stanotte Corrado Guerzoni, storico direttore di Radiodue e conduttore di una delle più popolari trasmissioni della Radio (Radiodue 3131).

A quello che considero un vero maestro (un Direttore vero, sperimentatore, giornalista, valorizzatore di giovani, persona profondamente umana), dedico questo ricordo, sicuro di condividerlo con molti che gli sono oggi, in un modo o nell'altro, debitori.


La poesia della Domenica - Confessione di un teppista di Sergej A. Esenin .



 Confessione di un teppista

Non a tutti è dato cantare,
E non tutti possono cadere come una mela
Sui piedi degli altri.

Questa è la più grande confessione,
Che mai teppista possa rivelarvi.

Io porto a bella posta la testa spettinata,
Lume a petrolio sopra le mie spalle.
Mi piace illuminare nelle tenebre
L’autunno spoglio delle vostre anime.
E mi piace quando una sassaiola di insulti
Mi vola contro, come grandine di rutilante bufera,
Solo allora stringo più forte tra le mani
La bolla tremula dei miei capelli.

È così dolce allora ricordare
Lo stagno erboso e il suono rauco dell’ontano,
Che da qualche parte vivono per me padre e madre,
Che se ne fregano di tutti i miei versi,
E che a loro sono caro come il campo e la carne,
Come la pioggia fina che rende morbido il grano verde
                                                                           [a primavera.
Con le loro forche verrebbero a infilzarvi
Per ogni vostro grido scagliato contro di me.

Miei poveri, poveri contadini!
Voi, di sicuro, siete diventati brutti,
E temete ancora Dio e le viscere delle paludi.
O, almeno se poteste comprendere,
Che vostro figlio in Russia
È il più grande tra i poeti!
Non vi si raggelava il cuore per lui,
Quando le gambe nude
Immergeva nelle pozzanghere autunnali?
Ora egli porta il cilindro
E calza scarpe di vernice.

Ma vive in lui ancora la bramosia
Del monello di campagna.
Ad ogni mucca sull’insegna di macelleria
Da lontano fa un inchino.
E incontrando i cocchieri in piazza,
ricorda l’odore del letame dei campi nativi,
Ed è pronto a reggere la coda d’ogni cavallo,
come fosse uno strascico nuziale.

Amo la patria!
Amo molto la patria!
Anche con la sua tristezza di salice rugginoso.
Adoro i grugni infangati dei maiali
E nel silenzio della notte, la voce limpida dei rospi.
Sono teneramente malato di ricordi infantili,
Sogno delle sere d’aprile la nebbia e l’umido.
Come per scaldarsi alle fiamme del tramonto
S’è accoccolato il nostro acero.
Ah, salendo sui suoi rami quante uova,
Dai nidi ho rubato alle cornacchie!
È lo stesso d’un tempo, con la verde cima?
È sempre forte la sua corteccia come prima?

E tu, mio amato,
Mio fedele cane pezzato?!
La vecchiaia ti ha reso rauco e cieco
Vai per il cortile trascinando la coda penzolante,
E non senti più a fiuto dove sono portone e stalla.
O come mi è cara quella birichinata,
Quando si rubava una crosta di pane alla mamma,
e a turno la mordevamo senza disgusto alcuno.


Io sono sempre lo stesso.
Con lo stesso cuore.
Simili a fiordalisi nella segale fioriscono gli occhi nel viso.
Srotolando stuoie d’oro di versi,
Vorrei dirvi qualcosa di tenero.

Buona notte!
A voi tutti buona notte!
Più non tintinna nell’erba la falce dell’aurora…
Oggi avrei una gran voglia di pisciare
Dalla mia finestra sulla luna.

Una luce blu, una luce così blu!
In così tanto blu anche morire non dispiace.
Non m’importa, se ho l’aria d’un cinico
Che si è appeso una lanterna al sedere!
Mio buon vecchio e sfinito Pegaso,
M’occorre davvero il tuo trotto morbido?
Io sono venuto come un maestro severo,
A cantare e celebrare i topi.
Come un agosto, la mia testa,
Versa vino di capelli in tempesta.

Voglio essere una vela gialla
Verso il paese per cui navighiamo.

Sergei A. Esenin, 1920

A mio parere la versione di Angelo Branduardi di questa celebre poesia di Esenin, è un capolavoro. La ripropongo qui sotto in un'altra versione dal vivo, del 1972, accompagnata dalle immagini tratte dal colossal "Esenin" girato nel 2005 per la TV russa.

29/09/11

RI-COMINCIARE. Da dove ? (12 cose da cui ripartire): 11. DIGNITA'



Dovrò ricordarmi della dignità dei poveri e della dignità degli oppressi, cioè della vera dignità.  Poveri e oppressi, perseguitati e derelitti dimenticano spesso la dignità per causa di forza maggiore. Perché spesso è più importante sopravvivere. 

Ma qualche volta anche per i poveri, anche per gli oppressi e anche per i perseguitati e i derelitti, la dignità E'  PIU' IMPORTANTE del sopravvivere. 

Dovrò ricordarmi che nella stessa etimologia della parola dignità vi è la parola degno. Degno significa essere meritevole di rispetto nell'opinione comune.
Ma è fin troppo ovvio che nessuno avrà rispetto di me, nessuno avrà vero rispetto di me, se io per primo non avrò rispetto di me.   Se io non riuscirò a sentirmi intimamente degno.

Sentirsi intimamente degno NON dipende dal riconoscimento altrui. Gli altri, questo dovrò ricordarlo sempre, mi conoscono SOLO in parte. SOLO in parte sanno chi io sono. E chi io sono per loro, dipende da troppi fattori: principalmente da ciò che io decido di mostrare, più o meno inconsapevolmente.

E gli altri, per i motivi anche più leciti o giusti, o illeciti od opportunisti, sono sempre pronti a riconoscere un merito che non c'è, anche quando non c'è.

Non dovrò basarmi su questo, dunque, per riconoscere la mia dignità.

Dovrò sentirmi degno SOLO di quel che io sono.   

E per farlo dovrò necessariamente: 1. conoscere me stesso (conoscere ed essere consapevole di me) e 2. possedere capacità di giudizio su me stesso, in base a quel che io so che è giusto, in base a quel che so essere giusto. 

Se io non sarò capace di essere una persona degna, e quindi se non sarò capace di possedere dignità consapevole, nessun onore e nessun rispetto degli altri saprà rendermi davvero felice. E ogni volta che calpesteranno la mia dignità, non potrò davvero reagire con i diritti e l'interezza che derivano dalla mia persona umana.

Come scrisse Aristotele, La dignità non consiste nel possedere onori, ma nella coscienza di meritarli. 
 E invece sembra proprio che - come scrisse due millenni più tardi R.Chandler - la maggior parte della gente consumi metà delle proprie energie cercando di proteggere una dignità che non ha mai posseduto. 


Fabrizio Falconi

27/09/11

Sub Specie Aeternitatis - Il video.






"Sono io che non ti cerco
o tu a non mostrarti,
sono io che scavo nel punto sbagliato
o tu a nasconderti
nell'umida terra sconfinata.
Sono io a non chiederti
o tu a non rispondere,
sono io a perdermi
o tu a fuggire.
..."


Questa poesia fa parte della raccolta che dà nome al volume Sub specie aeternitatis, e che si compone di liriche più recenti, scritte negli ultimi anni, nel tentativo di raccontare l'amore umano come possibilità di avvicinarsi al mistero trascendente della nostra vita. Come dice lo stesso autore "Caso, casualità, coincidenze, destini, sono solo i nomi che noi diamo al nostro dialogo interiore, alle parole che la nostra anima pronuncia tutti i giorni, e che trovano espressione più compiuta proprio nel linguaggio poetico."

Sub specie aeternitatis
Fabrizio Falconi
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Il video-intervista è stato realizzato dal sito www.nonleggere.it

Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria.



Penso che una gran parte dell'infelicità umana - piuttosto diffusa in Occidente, ultimamente - sia quella di non saper apprezzare il presente.
Cioè quello che si vive, quello che si sta vivendo.

La nostra vita è perennemente proiettata oltre - al passato, o al futuro.

Non finiamo di rimpiangere (o di maledire) la vita che fu. Non finiamo di immaginare, sperare, desiderare, la vita che verrà.
Ma mentre viviamo non ci rendiamo conto - o molto raramente lo facciamo - della polvere d'oro che scorre tra le nostre dita.

Salvo poi farlo quando quella polvere d'oro è sparita. Ed è troppo tardi.

Ed è quella sensazione così potentemente evocata da Dante nel Quinto canto dell'Inferno, con quelle parole messe sulla bocca della disperata Francesca:

Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria


Dovremmo pensarci più spesso. E apprezzare meglio, con più pienezza, con più consapevolezza, la nostra vita.
Non so quanti di voi hanno visto quel meraviglioso film di Wim Wenders, Paris Texas, girato nel 1983, e Palma d'oro a Cannes nell'anno seguente.
La sequenza che vi propongo qui sotto è forse la scena più bella del film. Il protagonista - l'attore Harry Dean Stanton - che insieme al figlio piccolo, sta cercando la moglie fuggita via (scoprirà poi che è finita a intrattenere uomini in un peep show) ed è ancora disperatamente innamorato di lei, va ospite da alcuni amici comuni. L'amico gli mostra un vecchio super8, fatto alcuni anni prima, quando tutti e 5 - le due coppie di amici e il bambino - avevano fatto una gita al mare.

Non c'è nient'altro da aggiungere. Guardate, semplicemente.

La menzogna di una storia - Le recensioni di Wim Wenders critico. di F. Falconi


Chissà cosa direbbe oggi Wim Wenders a proposito di una frase che Hitchcock usava spesso per spiegare il suo modo di intendere il cinema. "L'essenziale è commuovere il pubblico", diceva il grande Hitch "e l'emozione nasce dal modo in cui si costruisce una storia, dal modo in cui si giustappongono le sequenze."

Oggi che il regista di Dusseldorf sta per doppiare il traguardo dei quarantacinque anni e molti dei suoi bellicosi giudizi giovanili sul "cinema dei maestri" sono stati rivisti, rimeditati, in qualche modo adattati ad una crescita artistica che ha portato Wenders stesso, appunto, nell'olimpo dei grandi.

Non che Hitchcock fosse stato un bersaglio privilegiato dei lapidari libelli che il ventiquattrenne Wenders pubblicava su Filmkritik, la più prestigiosa rivista  cinematografica tedesca, equivalente dei francesi Cahiers, ma certo il Wenders di allora avrebbe avuto qualcosa da ridire a proposito di quel riferimento "all'emozione che nasce dalla storia", a cui si richiama esplicitamente Hitchcock. E' noto infatti come l'atteggiamento peculiare  dell'intera generazione del Filmverlag der Autoren, la società autonoma di distribuzione e produzione dalla quale prese le mosse tutto il nuovo cinema tedesco, fosse ostile al concetto tradizionale di "storia" e proponesse invece nuovi modelli basati sull'abbattimento dell'intreccio narrativo.

A fornire nuovi lumi sull'attività critica di Wenders e sui temi fondamentali del suo cinema, ecco un volume (W.Wenders, "Stanotte vorrei parlare con l'angelo", Scritti, 1968/1988 a cura di Giovanni Spagnoletti e Michael Totemberg, Ubulibri) pubblicato con successo in Germania e Francia.

L'autore de Lo stato delle cose entrò a far parte della redazione di Filmkritik nel 1969, quando il mondo aveva conti urgenti da sbrigare e il cinema, quello che aveva cose da dire, era tutto "stelle e strisce". Ovvio dunque che nel libro, nella raccolta delle personalissime recensioni del futuro cineasta ci siano molti passaggi obbligati dell'epoca: l'esaltazione dell'underground, anche se Wenders si dimostra già abile nel saper discernere lo sperimentalismo dall'accademia; la fascinazione dell'on the road, esplicitata nella recensione di Easy Rider e nel plauso al suo eroe, Dennis Hopper che qualche anno dopo ritroverà Wenders ne L'amico americano; la stroncatura d'obbligo per lo spaghetti-western di Leone, accusato di vetero-realismo sacrilego, nei confronti del meraviglioso circo di cartapesta di John Ford e Howard Hawks.

Ma non mancano le sorprese in questa antologia del Wenders critico, esperienza peraltro brevissima, durata solo due anni, prima che nel '70 il giovane Wim passasse dietro la macchina da presa.

Sorprese che derivano soprattutto dal "modulo" della recensione che scavalcando i canoni classici, è qui tutta giocata sui toni e sulle pure emozioni, con infiltrazioni continue di rock'n roll e di citazioni poetiche studiate ad arte per spezzare anche, se possibile, la "storia" di una recensione.


Ma considerazioni inattese e sorprendenti arrivano specialmente nella seconda parte del libro, dove sono raccolti scritti eterogenei di Wenders, pescati un po' ovunque. Così si ha modo di scoprire l'entusiasmo del cineasta per i suoi colleghi Truffaut (Il ragazzo selvaggio), Altman (Nashville), fino ai maestri indiscussi Langa e Bergman che alla fine trovano pagine di vero tributo, di sincero riconoscimento. Rimane semmai nell'ombra, volutamente non illuminato, il rapporto con Fassbinder, grande amico-anniversario.

Nei capitoli conclusivi del libro il Wenders cineasta ricostruisce in lunghi scritti il suo metodo di lavoro basato su un originale e sofferto work in progress.  Illuminante in tal senso è la descrizione minuziosa della vicenda creativa de Il cielo sopra Berlino, un film nato da un'intuizione, niente di più che un'emozione, quella di rivedere la scena di un precedente film, Paris Texas, dove Nastassja Kinski ritrova il figlio e lo abbraccia nella camera d'albergo.  "Questo momento ha avuto su di me un effetto liberatorio," scrive Wenders, "era un'emozione di cui avrei sentito le conseguenze nel film successivo."

E così si procede: con l'accumulo di piccole sensazioni, con il "confronto sul niente" con Peter Handke, l'enfant terrible della letteratura tedesca, che manda al regista i suoi dialoghi scritti di getto, scollegati volutamente da una storia, frutto di rapide intuizioni.

Fino a che il film lentamente prende forma, si concretizza in uno svolgimento che assomiglia innegabilmente a una "storia".  L'abdicazione ad uno sviluppo narrativo diviene inevitabile.

"Ritengo che le storie producano soltanto menzogne" scrive Wenders in un passo del libro, " e la menzogna più grande è che ci sia un contesto. Ma d'altra parte noi tutti abbiamo bisogno di queste menzogne e non ha nemmeno senso costruire una successione di immagini senza una menzogna, senza la menzogna di una storia."

Fabrizio Falconi, La menzogna di una storia - le recensioni di Wim Wenders critico, Paese Sera, 6 settembre 1989. 


22/09/11

Carnage, il nuovo film di Roman Polanski. La recensione.


Carnage, il film di Roman Polanski (tratto dall'opera teatrale di Yasmina Reza) è quella che una volta si sarebbe chiamata operetta morale.

Bastano poco più di 70 minuti per mettere in scena, con una efficacia tragica e comica insieme, la disperazione della condizione umana, di occidentali all'alba del terzo millennio.

Il pretesto narrativo è noto: in una lite al parco, un ragazzino di 11 anni colpisce un coetaneo al volto con un bastone. I genitori, due coppie di Brooklyn, decidono di incontrarsi per discutere del fatto e risolvere la cosa da persone civili. Gli iniziali convenevoli si trasformano però subito in battibecchi velenosi e il comportamento delle due coppie degenera in situazioni paradossali.

Quel che qui interessa - a parte l'inaudita bravura dei 4 interpreti claustrofobicamente chiusi nell'appartamento middle class newyorchese, Jodie Foster/Penelope, Kate Winslet/Nancy, John C.Reilly/Michael, Christoph Waltz/Alan) è quello che quest'opera ci racconta, a noi, disincantati e spersi viaggiatori di questi tempi fragili.

Credo che davvero ci sia molto da riflettere. E questo film parli da molto vicino di noi.

Penelope, Nancy, Michael e Alan partono con tutte le migliori intenzioni (riparare una brutta cosa, la violenza dei figli, nel modo più civile).

Ma come scrisse quel tale, delle migliori intenzioni è lastricato l'inferno.

Ed ecco così che in quei 70 minuti quello che si spalanca davanti agli occhi di ciascuno dei 4 'operatori di pace' sarà proprio l'inferno: il personale inferno e quello degli altri tre. Tanto è vero che: questa è la giornata più infelice della mia vita, ripeteranno uno dopo l'altro, a conclusione dello spettacolo osceno che metteranno  in scena, dando generosamente ciascuno il peggio di sé 


Ecco, ma perché l'operazione di pace fallisce così clamorosamente ? Perché i 4, incapaci di trovare un minimo di accordo su ciò che è giusto fare, o al limite anche solamente ciò che è giusto dire, finiscono con l'assecondare i loro peggiori istinti ?

L'operetta morale di Reza/Polanski è particolarmente preziosa, perché ci illumina su una delle caratteristiche primarie del nostro tempo e - ahimè - della generazione dei 50enni che oggi questo tempo dovrebbe illuminare di senso, dirigere, orientare: l'inautenticità. 


Penelope, Nancy, Michael, Alan, non sono persone autentiche.

Non è autentico il cinismo adulto di Alan, alle prese con la sua dipendenza dal gioco degli affari e dalla tecnologia del telefonino; non è autentico il nichilismo di Michael, fragile come un bambino; non è autentica la disperazione di Nancy, borghese annoiata e viziata, non è autentico il volontarismo altruistico di Penelope, fatto di stereotipi. 


Penelope, Nancy, Michael, Alan, alle prese con una questione morale piuttosto semplice:  di chi è la colpa di ciò che è successo ? Perché due ragazzini si sono picchiati selvaggiamente ? come si può riparare il danno ? vanno nel pallone più totale.

Non sono in grado di stabilire risposte morali, perché in realtà non conoscono cosa è la morale. E non conoscono (più) la morale, perché ormai da troppo tempo vivono come bambini, senza la più piccola consapevolezza di cosa sono diventati, di quel che sono come persone. Non sanno nulla delle proprie anime. Dunque, non sono in grado di dire nulla di sensato su ciò che è il mondo, su ciò che bisognerebbe o non bisognerebbe fare. Sono allo sbando. 


Le frasi che ripetono ossessivamente sono soltanto formule senza significato, che tentano penosamente di riempire il vuoto delle loro vite.  Il cinismo (Alan), il nichilismo (Michael), il capriccio (Nancy), il volontarismo (Penelope) sono soltanto le figure e i nomi che hanno saputo dare, in mancanza di meglio, a un vuoto esistenziale spaventoso.

E' piuttosto eloquente - e geniale - il fatto che l'epilogo del film (chi ancora non l'ha visto può astenersi dal leggere ulteriormente)  sia l'immagine dei due bambini - che all'inizio abbiamo visto all'inizio picchiarsi - riconciliati. Naturalmente riconciliati.

Può essere anche una chiave di lettura generazionale.  Le nuove generazioni - forse - sapranno fare a meno di queste orrende sovrastrutture mentali (inautentiche) che hanno ucciso il pensiero delle generazioni precedenti, dei quarantenni/cinquantenni, partiti con le migliori intenzioni per cambiare il mondo e finiti ad annegare la loro disperazione nell'alcol, nei sigari e nel vomito incontrollato. 

La riappropriazione della vita, comincia da piccoli gesti. Come quello di perdonare e di comprendersi.  E soprattutto di non spaccare ogni pretesa di verità  in infinite piccole derive personali senza spessore, senza sofferenza vera, senza dolore vero, senza pathos vero, che avvelenano la vita rendendola, per l'appunto, un inferno.  

Fabrizio Falconi