04/10/11

Corrado Guerzoni - "Il valore della parola" - Un ricordo.


A proposito di Corrado Guerzoni, scomparso l'altro ieri, a Roma, vorrei riportare qui un ricordo personale che risale al 1987.

Guerzoni era allora direttore di Radiodue, la seconda rete radiofonica della Radiorai - allora seguitissima - (incarico che ricoprì per 12 anni consecutivi) e conduttore in primis di quella fortunata trasmissione che si chiamava "Radiodue 3131".

"Radiodue 3131" era l'erede di quella trasmissione, "Chiamate Roma 3131", condotta all'inizio da Gianni Boncompagni e Franco Moccagatta (prima trasmissione il 7 gennaio 1969) che rivoluzionò completamente il mezzo radiofonico, con l'introduzione delle telefonate degli ascoltatori  (tutta l'epopea del 3131 dal 1969 al 1995, che ha attraversato l'arco di trent'anni cruciali nella storia italiana, è ricostruita in un prezioso volume scritto da Raffaele Vincenti, La prima volta del telefono, edito dalla RaiEri, con dvd, nel 2009).

Guerzoni - con la determinante partecipazione di Lidia Motta, geniale capostruttura della Rai di allora, e suo "braccio destro" - prese in mano la trasmissione nel 1982, cambiandone completamente l'identità.   Da trasmissione 'confidenziale', dal tono tutto sommato 'leggero',  3131, sotto la guida di Guerzoni si trasformò in un vero strumento di ricerca giornalistica.  Ogni argomento veniva affrontato da diversi punti di vista, con l'ausilio di tecnologie allora del tutto sperimentali - lo studio mobile, le radio-macchine, i collegamenti dagli angoli più remoti d'Italia - e con la ricerca di un dialogo con gli ascoltatori basato sul "valore della parola", come strumento creativo, di crescita personale (non di chiacchiera), di conoscenza e consapevolezza, in una parola di responsabilità.

Guerzoni era un giornalista.  Che veniva da una esperienza drammatica: quella di aver esercitato per diversi anni il ruolo di portavoce dell'on. Aldo Moro.  Dopo la sua barbara esecuzione da parte delle BR, Guerzoni lasciò la politica. Tornò al giornalismo e decise di farlo in un modo tutto suo: non gli interessavano tanto le notizie - gli interessavano anzi assai poco - quanto il nostro modo di osservare il mondo e di farne parte.  Era convinto che la parola fosse immedesimazione nell'altro, condivisione, possibilità e capacità delle anime di farsi dia-logo, di partecipare ad una comunità allargata, che si interroga e interroga le proprie ansie e le proprie questioni cruciali.

Guerzoni era un accanito lettore: pur essendo come egli si definiva "incompetente" teoricamente, amava leggere di tutto, poesia e prosa, filosofia e teologia, i classici.

Così, nell'estate del 1987, Guerzoni, insieme a Maurizio Ciampa - filosofo e conduttore del 3131 notte (altro luogo deputato alla sperimentazione comunicativa)  - pensò di provare a scrivere un testo, insieme a colleghi molto più giovani di lui.

Fummo "convocati" in 5: oltre a Ciampa, Francesco Malgaroli, Gabriella Mangia, Stefano Rizzelli ed io.

L'idea era quella di un "work in progress": non avevamo un canovaccio pre-stabilito. Non più di tanto. Guerzoni pensò di realizzare una serie di incontri nel suo ufficio di Viale Mazzini. Incontri nei quali noi lo avremmo sollecitato su questi temi - cosa vuol dire parlare con qualcuno, esiste una coscienza o una verità delle parole, come si può guardare nel cuore del prossimo, che cosa comporta che il mondo ormai sia un enorme luogo dove tutti parlano e quasi nessuno ascolta - e lui avrebbe risposto "a ruota libera"; come una specie di confessione, interrogandosi - lui per primo - sul senso del lavoro che faceva tutte le mattine, quando si accendevano i microfoni nella R7 di Via Asiago.

Ho un ricordo personale fortissimo di quegli incontri. Noi eravamo molto giovani, freschi di studi, e con la presunzione di sapere molte più cose di quelle che in effetti conoscevamo.  Guerzoni però si fidava ciecamente di noi.  Voleva darci questa chance di fare il libro insieme a lui, di vederlo crescere insieme.  Di firmarlo perfino insieme a lui.

Realizzammo parecchi incontri - non ricordo se sei, sette - e furono ore meravigliose.  Il Guerzoni che ricordo durante quegli incontri era per me piuttosto stupefacente. Pur parlando "a braccio" non fu mai, nemmeno una volta, banale.  Le sue riflessioni erano meditate e pacate, ma dimostravano i frutti di una ricerca personale colta e approfondita, sollevavano questioni primarie, per noi che iniziavamo a fare quel lavoro di 'interrogazione della realtà' che è e dovrebbe sempre essere il giornalismo.   Ci offriva, ci offrì la sua visione di quel mondo, che doveva essere prima di tutto 'morale', cioè rispondere ad un senso di responsabilità profonda: quello della in-violabilità del mistero dell'altro, che è sempre di fronte a noi, e che anche quando sceglie di aprire se stesso, la sua anima, i suoi pensieri, resta altro.

Confidava però molto nella capacità della parola di "cambiare gli uomini", e in definitiva di cambiare anzi il mondo. Era questa la speranza - o la fede, o tutte e due le cose insieme - che agitava il suo lavoro e la sua ricerca personale, sempre inquieta, alle prese con la apparente e angosciosa "irremediabilità" del mondo.

Il libro uscì l'anno seguente, pubblicato dalla SEI di Torino, intitolato "Il valore della Parola".

Aveva faticato molto a congedarsi dal libro, concedendo il "visto si stampi".  Nelle conclusioni finali, rendendosi conto che c'era già qualcosa che premeva urgentemente "oltre" il libro,  scriveva: Del resto è la vita che butta per aria i libri, è l'esperienza che facciamo ogni giorno e ogni sera che scompiglia le nostre idee, che soffia nei nostri sentimenti, nelle nostre azioni, nelle nostre reazioni, che ci espone al rischio insito nel vivere stesso."

Vivere, rischiare, esporsi, assumersi "la grave responsabilità" del parlare con la gente, con milioni di persone ogni giorno. L'intera esperienza di vita di Guerzoni - e l'eredità grande che ci ha lasciato a noi che abbiamo avuto la notevole fortuna di lavorare con lui - si è giocata tutta tra questi due apparenti estremi: vita e parola. 

Fabrizio Falconi



02/10/11

E' morto Corrado Guerzoni. Un maestro.



E' scomparso stanotte Corrado Guerzoni, storico direttore di Radiodue e conduttore di una delle più popolari trasmissioni della Radio (Radiodue 3131).

A quello che considero un vero maestro (un Direttore vero, sperimentatore, giornalista, valorizzatore di giovani, persona profondamente umana), dedico questo ricordo, sicuro di condividerlo con molti che gli sono oggi, in un modo o nell'altro, debitori.


La poesia della Domenica - Confessione di un teppista di Sergej A. Esenin .



 Confessione di un teppista

Non a tutti è dato cantare,
E non tutti possono cadere come una mela
Sui piedi degli altri.

Questa è la più grande confessione,
Che mai teppista possa rivelarvi.

Io porto a bella posta la testa spettinata,
Lume a petrolio sopra le mie spalle.
Mi piace illuminare nelle tenebre
L’autunno spoglio delle vostre anime.
E mi piace quando una sassaiola di insulti
Mi vola contro, come grandine di rutilante bufera,
Solo allora stringo più forte tra le mani
La bolla tremula dei miei capelli.

È così dolce allora ricordare
Lo stagno erboso e il suono rauco dell’ontano,
Che da qualche parte vivono per me padre e madre,
Che se ne fregano di tutti i miei versi,
E che a loro sono caro come il campo e la carne,
Come la pioggia fina che rende morbido il grano verde
                                                                           [a primavera.
Con le loro forche verrebbero a infilzarvi
Per ogni vostro grido scagliato contro di me.

Miei poveri, poveri contadini!
Voi, di sicuro, siete diventati brutti,
E temete ancora Dio e le viscere delle paludi.
O, almeno se poteste comprendere,
Che vostro figlio in Russia
È il più grande tra i poeti!
Non vi si raggelava il cuore per lui,
Quando le gambe nude
Immergeva nelle pozzanghere autunnali?
Ora egli porta il cilindro
E calza scarpe di vernice.

Ma vive in lui ancora la bramosia
Del monello di campagna.
Ad ogni mucca sull’insegna di macelleria
Da lontano fa un inchino.
E incontrando i cocchieri in piazza,
ricorda l’odore del letame dei campi nativi,
Ed è pronto a reggere la coda d’ogni cavallo,
come fosse uno strascico nuziale.

Amo la patria!
Amo molto la patria!
Anche con la sua tristezza di salice rugginoso.
Adoro i grugni infangati dei maiali
E nel silenzio della notte, la voce limpida dei rospi.
Sono teneramente malato di ricordi infantili,
Sogno delle sere d’aprile la nebbia e l’umido.
Come per scaldarsi alle fiamme del tramonto
S’è accoccolato il nostro acero.
Ah, salendo sui suoi rami quante uova,
Dai nidi ho rubato alle cornacchie!
È lo stesso d’un tempo, con la verde cima?
È sempre forte la sua corteccia come prima?

E tu, mio amato,
Mio fedele cane pezzato?!
La vecchiaia ti ha reso rauco e cieco
Vai per il cortile trascinando la coda penzolante,
E non senti più a fiuto dove sono portone e stalla.
O come mi è cara quella birichinata,
Quando si rubava una crosta di pane alla mamma,
e a turno la mordevamo senza disgusto alcuno.


Io sono sempre lo stesso.
Con lo stesso cuore.
Simili a fiordalisi nella segale fioriscono gli occhi nel viso.
Srotolando stuoie d’oro di versi,
Vorrei dirvi qualcosa di tenero.

Buona notte!
A voi tutti buona notte!
Più non tintinna nell’erba la falce dell’aurora…
Oggi avrei una gran voglia di pisciare
Dalla mia finestra sulla luna.

Una luce blu, una luce così blu!
In così tanto blu anche morire non dispiace.
Non m’importa, se ho l’aria d’un cinico
Che si è appeso una lanterna al sedere!
Mio buon vecchio e sfinito Pegaso,
M’occorre davvero il tuo trotto morbido?
Io sono venuto come un maestro severo,
A cantare e celebrare i topi.
Come un agosto, la mia testa,
Versa vino di capelli in tempesta.

Voglio essere una vela gialla
Verso il paese per cui navighiamo.

Sergei A. Esenin, 1920

A mio parere la versione di Angelo Branduardi di questa celebre poesia di Esenin, è un capolavoro. La ripropongo qui sotto in un'altra versione dal vivo, del 1972, accompagnata dalle immagini tratte dal colossal "Esenin" girato nel 2005 per la TV russa.

29/09/11

RI-COMINCIARE. Da dove ? (12 cose da cui ripartire): 11. DIGNITA'



Dovrò ricordarmi della dignità dei poveri e della dignità degli oppressi, cioè della vera dignità.  Poveri e oppressi, perseguitati e derelitti dimenticano spesso la dignità per causa di forza maggiore. Perché spesso è più importante sopravvivere. 

Ma qualche volta anche per i poveri, anche per gli oppressi e anche per i perseguitati e i derelitti, la dignità E'  PIU' IMPORTANTE del sopravvivere. 

Dovrò ricordarmi che nella stessa etimologia della parola dignità vi è la parola degno. Degno significa essere meritevole di rispetto nell'opinione comune.
Ma è fin troppo ovvio che nessuno avrà rispetto di me, nessuno avrà vero rispetto di me, se io per primo non avrò rispetto di me.   Se io non riuscirò a sentirmi intimamente degno.

Sentirsi intimamente degno NON dipende dal riconoscimento altrui. Gli altri, questo dovrò ricordarlo sempre, mi conoscono SOLO in parte. SOLO in parte sanno chi io sono. E chi io sono per loro, dipende da troppi fattori: principalmente da ciò che io decido di mostrare, più o meno inconsapevolmente.

E gli altri, per i motivi anche più leciti o giusti, o illeciti od opportunisti, sono sempre pronti a riconoscere un merito che non c'è, anche quando non c'è.

Non dovrò basarmi su questo, dunque, per riconoscere la mia dignità.

Dovrò sentirmi degno SOLO di quel che io sono.   

E per farlo dovrò necessariamente: 1. conoscere me stesso (conoscere ed essere consapevole di me) e 2. possedere capacità di giudizio su me stesso, in base a quel che io so che è giusto, in base a quel che so essere giusto. 

Se io non sarò capace di essere una persona degna, e quindi se non sarò capace di possedere dignità consapevole, nessun onore e nessun rispetto degli altri saprà rendermi davvero felice. E ogni volta che calpesteranno la mia dignità, non potrò davvero reagire con i diritti e l'interezza che derivano dalla mia persona umana.

Come scrisse Aristotele, La dignità non consiste nel possedere onori, ma nella coscienza di meritarli. 
 E invece sembra proprio che - come scrisse due millenni più tardi R.Chandler - la maggior parte della gente consumi metà delle proprie energie cercando di proteggere una dignità che non ha mai posseduto. 


Fabrizio Falconi

27/09/11

Sub Specie Aeternitatis - Il video.






"Sono io che non ti cerco
o tu a non mostrarti,
sono io che scavo nel punto sbagliato
o tu a nasconderti
nell'umida terra sconfinata.
Sono io a non chiederti
o tu a non rispondere,
sono io a perdermi
o tu a fuggire.
..."


Questa poesia fa parte della raccolta che dà nome al volume Sub specie aeternitatis, e che si compone di liriche più recenti, scritte negli ultimi anni, nel tentativo di raccontare l'amore umano come possibilità di avvicinarsi al mistero trascendente della nostra vita. Come dice lo stesso autore "Caso, casualità, coincidenze, destini, sono solo i nomi che noi diamo al nostro dialogo interiore, alle parole che la nostra anima pronuncia tutti i giorni, e che trovano espressione più compiuta proprio nel linguaggio poetico."

Sub specie aeternitatis
Fabrizio Falconi
€ 9,00
Ordina da Unilibro

Il video-intervista è stato realizzato dal sito www.nonleggere.it

Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria.



Penso che una gran parte dell'infelicità umana - piuttosto diffusa in Occidente, ultimamente - sia quella di non saper apprezzare il presente.
Cioè quello che si vive, quello che si sta vivendo.

La nostra vita è perennemente proiettata oltre - al passato, o al futuro.

Non finiamo di rimpiangere (o di maledire) la vita che fu. Non finiamo di immaginare, sperare, desiderare, la vita che verrà.
Ma mentre viviamo non ci rendiamo conto - o molto raramente lo facciamo - della polvere d'oro che scorre tra le nostre dita.

Salvo poi farlo quando quella polvere d'oro è sparita. Ed è troppo tardi.

Ed è quella sensazione così potentemente evocata da Dante nel Quinto canto dell'Inferno, con quelle parole messe sulla bocca della disperata Francesca:

Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria


Dovremmo pensarci più spesso. E apprezzare meglio, con più pienezza, con più consapevolezza, la nostra vita.
Non so quanti di voi hanno visto quel meraviglioso film di Wim Wenders, Paris Texas, girato nel 1983, e Palma d'oro a Cannes nell'anno seguente.
La sequenza che vi propongo qui sotto è forse la scena più bella del film. Il protagonista - l'attore Harry Dean Stanton - che insieme al figlio piccolo, sta cercando la moglie fuggita via (scoprirà poi che è finita a intrattenere uomini in un peep show) ed è ancora disperatamente innamorato di lei, va ospite da alcuni amici comuni. L'amico gli mostra un vecchio super8, fatto alcuni anni prima, quando tutti e 5 - le due coppie di amici e il bambino - avevano fatto una gita al mare.

Non c'è nient'altro da aggiungere. Guardate, semplicemente.

La menzogna di una storia - Le recensioni di Wim Wenders critico. di F. Falconi


Chissà cosa direbbe oggi Wim Wenders a proposito di una frase che Hitchcock usava spesso per spiegare il suo modo di intendere il cinema. "L'essenziale è commuovere il pubblico", diceva il grande Hitch "e l'emozione nasce dal modo in cui si costruisce una storia, dal modo in cui si giustappongono le sequenze."

Oggi che il regista di Dusseldorf sta per doppiare il traguardo dei quarantacinque anni e molti dei suoi bellicosi giudizi giovanili sul "cinema dei maestri" sono stati rivisti, rimeditati, in qualche modo adattati ad una crescita artistica che ha portato Wenders stesso, appunto, nell'olimpo dei grandi.

Non che Hitchcock fosse stato un bersaglio privilegiato dei lapidari libelli che il ventiquattrenne Wenders pubblicava su Filmkritik, la più prestigiosa rivista  cinematografica tedesca, equivalente dei francesi Cahiers, ma certo il Wenders di allora avrebbe avuto qualcosa da ridire a proposito di quel riferimento "all'emozione che nasce dalla storia", a cui si richiama esplicitamente Hitchcock. E' noto infatti come l'atteggiamento peculiare  dell'intera generazione del Filmverlag der Autoren, la società autonoma di distribuzione e produzione dalla quale prese le mosse tutto il nuovo cinema tedesco, fosse ostile al concetto tradizionale di "storia" e proponesse invece nuovi modelli basati sull'abbattimento dell'intreccio narrativo.

A fornire nuovi lumi sull'attività critica di Wenders e sui temi fondamentali del suo cinema, ecco un volume (W.Wenders, "Stanotte vorrei parlare con l'angelo", Scritti, 1968/1988 a cura di Giovanni Spagnoletti e Michael Totemberg, Ubulibri) pubblicato con successo in Germania e Francia.

L'autore de Lo stato delle cose entrò a far parte della redazione di Filmkritik nel 1969, quando il mondo aveva conti urgenti da sbrigare e il cinema, quello che aveva cose da dire, era tutto "stelle e strisce". Ovvio dunque che nel libro, nella raccolta delle personalissime recensioni del futuro cineasta ci siano molti passaggi obbligati dell'epoca: l'esaltazione dell'underground, anche se Wenders si dimostra già abile nel saper discernere lo sperimentalismo dall'accademia; la fascinazione dell'on the road, esplicitata nella recensione di Easy Rider e nel plauso al suo eroe, Dennis Hopper che qualche anno dopo ritroverà Wenders ne L'amico americano; la stroncatura d'obbligo per lo spaghetti-western di Leone, accusato di vetero-realismo sacrilego, nei confronti del meraviglioso circo di cartapesta di John Ford e Howard Hawks.

Ma non mancano le sorprese in questa antologia del Wenders critico, esperienza peraltro brevissima, durata solo due anni, prima che nel '70 il giovane Wim passasse dietro la macchina da presa.

Sorprese che derivano soprattutto dal "modulo" della recensione che scavalcando i canoni classici, è qui tutta giocata sui toni e sulle pure emozioni, con infiltrazioni continue di rock'n roll e di citazioni poetiche studiate ad arte per spezzare anche, se possibile, la "storia" di una recensione.


Ma considerazioni inattese e sorprendenti arrivano specialmente nella seconda parte del libro, dove sono raccolti scritti eterogenei di Wenders, pescati un po' ovunque. Così si ha modo di scoprire l'entusiasmo del cineasta per i suoi colleghi Truffaut (Il ragazzo selvaggio), Altman (Nashville), fino ai maestri indiscussi Langa e Bergman che alla fine trovano pagine di vero tributo, di sincero riconoscimento. Rimane semmai nell'ombra, volutamente non illuminato, il rapporto con Fassbinder, grande amico-anniversario.

Nei capitoli conclusivi del libro il Wenders cineasta ricostruisce in lunghi scritti il suo metodo di lavoro basato su un originale e sofferto work in progress.  Illuminante in tal senso è la descrizione minuziosa della vicenda creativa de Il cielo sopra Berlino, un film nato da un'intuizione, niente di più che un'emozione, quella di rivedere la scena di un precedente film, Paris Texas, dove Nastassja Kinski ritrova il figlio e lo abbraccia nella camera d'albergo.  "Questo momento ha avuto su di me un effetto liberatorio," scrive Wenders, "era un'emozione di cui avrei sentito le conseguenze nel film successivo."

E così si procede: con l'accumulo di piccole sensazioni, con il "confronto sul niente" con Peter Handke, l'enfant terrible della letteratura tedesca, che manda al regista i suoi dialoghi scritti di getto, scollegati volutamente da una storia, frutto di rapide intuizioni.

Fino a che il film lentamente prende forma, si concretizza in uno svolgimento che assomiglia innegabilmente a una "storia".  L'abdicazione ad uno sviluppo narrativo diviene inevitabile.

"Ritengo che le storie producano soltanto menzogne" scrive Wenders in un passo del libro, " e la menzogna più grande è che ci sia un contesto. Ma d'altra parte noi tutti abbiamo bisogno di queste menzogne e non ha nemmeno senso costruire una successione di immagini senza una menzogna, senza la menzogna di una storia."

Fabrizio Falconi, La menzogna di una storia - le recensioni di Wim Wenders critico, Paese Sera, 6 settembre 1989. 


22/09/11

Carnage, il nuovo film di Roman Polanski. La recensione.


Carnage, il film di Roman Polanski (tratto dall'opera teatrale di Yasmina Reza) è quella che una volta si sarebbe chiamata operetta morale.

Bastano poco più di 70 minuti per mettere in scena, con una efficacia tragica e comica insieme, la disperazione della condizione umana, di occidentali all'alba del terzo millennio.

Il pretesto narrativo è noto: in una lite al parco, un ragazzino di 11 anni colpisce un coetaneo al volto con un bastone. I genitori, due coppie di Brooklyn, decidono di incontrarsi per discutere del fatto e risolvere la cosa da persone civili. Gli iniziali convenevoli si trasformano però subito in battibecchi velenosi e il comportamento delle due coppie degenera in situazioni paradossali.

Quel che qui interessa - a parte l'inaudita bravura dei 4 interpreti claustrofobicamente chiusi nell'appartamento middle class newyorchese, Jodie Foster/Penelope, Kate Winslet/Nancy, John C.Reilly/Michael, Christoph Waltz/Alan) è quello che quest'opera ci racconta, a noi, disincantati e spersi viaggiatori di questi tempi fragili.

Credo che davvero ci sia molto da riflettere. E questo film parli da molto vicino di noi.

Penelope, Nancy, Michael e Alan partono con tutte le migliori intenzioni (riparare una brutta cosa, la violenza dei figli, nel modo più civile).

Ma come scrisse quel tale, delle migliori intenzioni è lastricato l'inferno.

Ed ecco così che in quei 70 minuti quello che si spalanca davanti agli occhi di ciascuno dei 4 'operatori di pace' sarà proprio l'inferno: il personale inferno e quello degli altri tre. Tanto è vero che: questa è la giornata più infelice della mia vita, ripeteranno uno dopo l'altro, a conclusione dello spettacolo osceno che metteranno  in scena, dando generosamente ciascuno il peggio di sé 


Ecco, ma perché l'operazione di pace fallisce così clamorosamente ? Perché i 4, incapaci di trovare un minimo di accordo su ciò che è giusto fare, o al limite anche solamente ciò che è giusto dire, finiscono con l'assecondare i loro peggiori istinti ?

L'operetta morale di Reza/Polanski è particolarmente preziosa, perché ci illumina su una delle caratteristiche primarie del nostro tempo e - ahimè - della generazione dei 50enni che oggi questo tempo dovrebbe illuminare di senso, dirigere, orientare: l'inautenticità. 


Penelope, Nancy, Michael, Alan, non sono persone autentiche.

Non è autentico il cinismo adulto di Alan, alle prese con la sua dipendenza dal gioco degli affari e dalla tecnologia del telefonino; non è autentico il nichilismo di Michael, fragile come un bambino; non è autentica la disperazione di Nancy, borghese annoiata e viziata, non è autentico il volontarismo altruistico di Penelope, fatto di stereotipi. 


Penelope, Nancy, Michael, Alan, alle prese con una questione morale piuttosto semplice:  di chi è la colpa di ciò che è successo ? Perché due ragazzini si sono picchiati selvaggiamente ? come si può riparare il danno ? vanno nel pallone più totale.

Non sono in grado di stabilire risposte morali, perché in realtà non conoscono cosa è la morale. E non conoscono (più) la morale, perché ormai da troppo tempo vivono come bambini, senza la più piccola consapevolezza di cosa sono diventati, di quel che sono come persone. Non sanno nulla delle proprie anime. Dunque, non sono in grado di dire nulla di sensato su ciò che è il mondo, su ciò che bisognerebbe o non bisognerebbe fare. Sono allo sbando. 


Le frasi che ripetono ossessivamente sono soltanto formule senza significato, che tentano penosamente di riempire il vuoto delle loro vite.  Il cinismo (Alan), il nichilismo (Michael), il capriccio (Nancy), il volontarismo (Penelope) sono soltanto le figure e i nomi che hanno saputo dare, in mancanza di meglio, a un vuoto esistenziale spaventoso.

E' piuttosto eloquente - e geniale - il fatto che l'epilogo del film (chi ancora non l'ha visto può astenersi dal leggere ulteriormente)  sia l'immagine dei due bambini - che all'inizio abbiamo visto all'inizio picchiarsi - riconciliati. Naturalmente riconciliati.

Può essere anche una chiave di lettura generazionale.  Le nuove generazioni - forse - sapranno fare a meno di queste orrende sovrastrutture mentali (inautentiche) che hanno ucciso il pensiero delle generazioni precedenti, dei quarantenni/cinquantenni, partiti con le migliori intenzioni per cambiare il mondo e finiti ad annegare la loro disperazione nell'alcol, nei sigari e nel vomito incontrollato. 

La riappropriazione della vita, comincia da piccoli gesti. Come quello di perdonare e di comprendersi.  E soprattutto di non spaccare ogni pretesa di verità  in infinite piccole derive personali senza spessore, senza sofferenza vera, senza dolore vero, senza pathos vero, che avvelenano la vita rendendola, per l'appunto, un inferno.  

Fabrizio Falconi

21/09/11

Misericordia per tutti ?



La lettura dei brani evangelici è sempre frutto di scoperte, se soltanto si ha la pazienza e la disponibilità di ascolto.  Sempre, scopriamo cose illuminanti su di noi, e sul nostro destino.


Come ognuno sa, le parole dei Vangeli sono poi anche le più abusate e le più equivocate.

Ciascuno, nel corso dei secoli le ha interpretate.  E spesso anche per fini di comodo, come è ovvio.

E però ci sono cose che sono difficilmente interpretabili.

Le ultime due domeniche del tempo ordinario ci hanno sottoposto due parabole, enunciate da Gesù, che sono celebri e sono anche fonte di numerose intepretazioni.

Io credo però che certe volte basterebbe leggere con attenzione. Ascoltare e basta.

Quella di domenica scorsa è la parabola dei lavoratori della vigna. Quella che definisce l'assunto cristiano: gli ultimi saranno i primi.
Proviamo a rileggere.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”. Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi». (Mt 20,1-16)

Qui, la cosa che vorrei far notare è una, oltre al fatto indubitabile che Cristo indica un senso di giustizia molto diverso da quello degli uomini (chi arriva per ultimo ha le stesse chances di chi è arrivato per primo): e cioè che il presupposto per ottenere il denaro (la ricompensa) è LAVORARE PER LA VIGNA. Cioè, rispondere alla chiamata. Operare per aderirvi. Farlo sul serio.   Poi, dice Cristo, se lo si fa per una vita intera, o se lo si capisce alla fine, poco conta.  Ma non è che la porta è aperta a tutti, indistintamente. Se non si risponde alla chiamata, se non si PARTECIPA al lavoro, io credo sia molto chiaro, il denaro non arriverà. Questo è quel che dice la parabola, mi sembra.

La seconda lettura, sette giorni fa, presenta la parabola sulla restituzione del debito.  Anche qui, rileggiamo.

 In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello». (Mt 18,21-35)

Anche qui, la cosa che mi preme mettere in luce, è che il racconto di questa parabola, se dobbiamo far credito alle parole di Cristo nel loro senso letterale, ci dice molto chiaramente che il Regno non è aperto a tutti. Una questione che sembra contrastare molto nettamente con una versione del cristianesimo assai edulcorato che oggi sembra aver preso piede (anche in ambienti ecclesiastici, anche nelle omelie sempre più tirate via che capita di ascoltare):   Cristo dice che se non si opera cristianamente, cioè come in questo caso, se si è duri di cuore, se nella vita ci si chiude avidamente agli altri, si è incapaci di perdonare il prossimo, di essere misericordiosi, NON CI SARA' NESSUNA misericordia.  Il Signore della parabola, non accoglie il servo 'traditore' dicendogli: "non ti preoccupare, tutto a posto, verrai perdonato."   Il padrone, quel padrone (che è il Signore) è invece durissimo:  il servo ingrato viene mandato nientemeno agli aguzzini, che dovranno estirpargli il credito ricevuto.  Se non fosse abbastanza chiaro, la parabola aggiunge a chiosa finale: Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello.


Ecco, questo è quel che dice Cristo.   Poi, certo, oggi a noi fa molto comodo credere e pensare altro. Ma questo, a me non sembra affatto rispecchiare il fondamento stesso della vita cristiana così come è stato enunciato dal suo Fondatore.

Fabrizio Falconi

19/09/11

Dieci luoghi dell'anima - Introduzione.



Chiunque di noi ha sperimentato, almeno una volta, giungendo in un luogo sconosciuto, di avvertire dentro il cuore, senza apparente motivo, una inspiegabile sensazione di familiarità, conoscenza, pace. Non ho usato questi termini casualmente: familiarità, conoscenza, pace.

Sono i paradigmi che ciascuno non si stanca di ricercare nel cammino della propria vita. E sperimentabili tutti e tre insieme soltanto per brevi illuminazioni, istanti di pienezza che si cerca di afferrare e tenere stretti, prima che, sfumando, si allontanino. Quando analizziamo i motivi dell’incantesimo che un luogo ci ha suscitato accogliendoci, tiriamo in ballo i ricordi dell’infanzia, le similitudini, le aspettative, le caratteristiche tipiche, le proporzioni, le forme, i colori.

Ma non è soltanto questo, io credo, che ci ha portato a sentire quella conoscenza, quella familiarità, quella pace. Andrej Tarkovskij, il grande regista russo, avvertiva, nei suoi diari: L’unica funzione della nostra coscienza è quella di creare finzioni, mentre la conoscenza è data dal cuore, dall’anima. La coscienza, sottende Tarkovskij, ci costringe sempre al distinguo, alla differenziazione, al ragionamento, all’opportunità, al calcolo.

Tutti aspetti che difficilmente si coniugano con la familiarità, con la pace e con quella conoscenza vera, intima che - sembra dirci uno dei registi del Novecento considerato più vicini allo spirituale, al sacro - si manifesta, accade, soltanto quando si spengono o si attenuano i gangli della nostra onnipresente coscienza, e lasciamo parlare il nostro cuore, la nostra anima. Per Tarkovskij, i due termini sembrano sinonimi: ma sappiamo che sulla distinzione tra ‘cuore’ e ‘anima’ si è discettato da sempre, in filosofia, in teologia, in mistica. E così (pensiamo a Santa Caterina da Siena), il cuore è stato identificato come la parte più autentica della personalità umana, quella parte che corrisponde al ‘sentimento’, quella “da cui sorgono le lacrime”, ed ogni esperienza emotiva.

Nella definizione di ‘anima’ per come è stata approfondita in psicologia, dagli studi a partire da Jung, c’è qualcosa di più: James Hillman, ricostruendo la storia di questo concetto, che parte dal genius dei latini, per attraversare il daimon dei greci e l’angelo custode dei cristiani, approda ad una definizione ‘larga’ di anima che contiene quel che di ineffabile è contenuto in ogni individuo umano. Quel che non si spiega con il materiale biologico ereditato, geni e cromosoma. 

Quella parte di noi, che noi – non sapendo definire meglio – chiamiamo con i più diversi nomi: ‘carattere’, ‘destino’, ‘predisposizione’, ‘vocazione’, e tanti altri. Quel ‘quid’ che fa di noi un essere unico e irripetibile. Io e voi,- scrive Hillman ne Il Codice dell’Anima - e chiunque altro siamo venuti al mondo con una immagine che ci definisce. Una immagine che ci definisce. E che dunque, è già definita. E se la nostra immagine, cioè la nostra anima, ha un ‘codice’ già pre-costituito, questo ‘codice’ non fa che interpretare – durante tutta la vita fisica su questa terra - i segnali dell’esistenza: incontri, persone, emozioni, esperienze personali, tutto viene filtrato dal linguaggio della nostra anima, sempre alla ricerca di qualcosa che possa essere ‘riconosciuto’ e ‘ricollegato’ ad una essenza che sembra precedere ogni altra acquisizione cognitiva. Questa parte del nostro essere - l’anima - rappresenta anche in termini cristiani, quel ‘ponte’ con lo spirito, quella parte che attraverso un ‘riconoscimento’ che non è dei sensi, ci mette in contatto con lo spirito universale della creazione.

 Il Dio della Pace – scrive San Paolo - vi santifichi totalmente e tutto il vostro essere, spirito, anima e corpo, siano custoditi irreprensibili per la parusia del Signore nostro Gesù Cristo. (Tes, 5,23). Anima, quindi, come ‘ponte’ tra corpo – cioè vita fisica – e spirito – cioè vita eterna. Questi concetti apparentemente astratti ciascuno di noi li sperimenta quando, senza rendercene neanche conto, incontriamo qualcuno che – non sappiamo spiegare perché – colpisce la nostra vita in modo indelebile. 

 “L’ho vista, e appena l’ho vista ho capito che era la donna della mia vita.” “Appena l’ho conosciuto ho capito che era una persona speciale, e che mi potevo fidare del suo carisma.” Non sono i sensi a dirci queste cose. E’ la nostra anima, che ha ‘riconosciuto’ qualcosa. Le anime si riconoscono anche se non si parlano. E allo stesso modo, io credo, vi sono luoghi che possiedono capacità di parlare alle anime, proprio alla nostra anima e in quel momento, oltre l’evidente bellezza di un armonico paesaggio, o di una efficace gradazione di forme e colori. La capacità di questi luoghi di parlare alla nostra anima non dipende solo da caratteristiche esteriori; c’è anzi il forte sospetto che i ‘luoghi dell’anima’ traggano la loro forza dal fatto di essere contenitori di voci e di storie, che continuano a vivere.

 In termini di fede, i primi cristiani sapevano a tal punto quanto fosse importante questa venerazione dei luoghi, da tenerli segreti – quelli riservati al culto o alla memoria di persone dalla storia e dall’anima straordinari – e riunirvisi in silenzio, in circostanze ‘misteriose’, fuori dalle convenzioni della vita mondana. Un luogo era importante e ‘sacro’ proprio perché – grazie alla presenza di queste voci ancora vive – riusciva a liberare le potenzialità delle anime dei vivi, a far lievitare quella possibilità di essere ponte tra corpo e spirito, tra fisicità e trascendenza. 

Anche oggi esistono molti luoghi con queste caratteristiche, nel mondo. Ed è un catalogo non compilabile, perché il codice dell’anima non vale per tutti allo stesso modo. Perché nessuna regola generale può valere per l’impalpabilità dell’anima e dei suoi molti linguaggi. Il tracciato che qui di seguito ho segnato è quindi soltanto personale. Luoghi scoperti casualmente, in occasione di viaggi, vacanze, o per motivi di interesse culturale, o a causa del mio lavoro di giornalista.

Qui ho dapprima ‘sentito’ e poi ‘conosciuto’ storie che ho provato a raccontare, in una geografia divenuta sempre più precisa, corrispondente ad un cammino interiore, rivolto al cuore del senso di una storia di uomo cresciuto dentro una tradizione occidentale e cristiana, lunga due millenni. E’ la stessa storia di molti che vivono in questa parte del mondo ormai spuria che chiamiamo Occidente. La storia dei nostri genitori, dei nostri nonni e delle intere generazioni che ci hanno preceduto. La loro voce, se la ascoltiamo, parla ancora chiaro, parlerebbe forse degli stessi luoghi e delle stesse cose che abbiamo sotto gli occhi adesso. Se soltanto fossimo capaci di fermarci, ed ascoltare.

La condivisione di queste scoperte e di queste storie nel corso degli anni, mi ha lentamente convinto che anche un tracciato così personale può diventare fecondo e condiviso. La silenziosa conversazione di anime avviene sempre, anche quando non facciamo nulla per volerlo coscientemente. E vale molto: realizza la nostra essenza su questa terra, senza la quale siamo semplicemente ‘anime sperse’, o ‘perse’, come si dice con efficace sintesi nel linguaggio comune. In ultima analisi, scrive Carl Gustav Jung, noi contiamo qualcosa solo in virtù dell’essenza che incarniamo, e se non la realizziamo, la vita è sprecata.

Fabrizio Falconi

Questa introduzione è tratta dal volume "Dieci Luoghi dell'anima,"  Cantagalli editore, 2009, Siena.


18/09/11

La poesia della domenica: "Le rocce sotto l'acqua" di Susan Stewart.



Le rocce sotto l'acqua

Oggi, vagando, potevo vedere le rocce
sotto l'acqua, la fondazione, perché il torrente
era limpido, nella limpida luce. Le grandi querce
e gli allori fiancheggiavano la riva, il luogo loro designato
permanente come la terra. Ognuno sa che il tempo è acqua,
e più profondamente, sa che l'acqua
erode ogni pietra. Ma oggi sapevo che non importava,
rocce o torrente, torrente o rocce, i lenti flussi
della memoria, poi il nulla, perdureranno.
Mi ricordavo di te in quel momento
e, tutte le ore di allora e del dopo, si immergevano fluendo
in qualcosa più del monumento,
e meno dell'acqua - la consolazione
lì e, nel silenzio, la desolazione.


Susan Stewart - tratta da "Red Rover", edizioni Jaca Book 2011 - traduzione di Maria Cristina Biggio, pag. 165

17/09/11

RI-COMINCIARE. Da dove ? (12 cose da cui ripartire): 10. TEMPITERNITA'




Non aspetterò che la felicità scenda di me come una epifania o come una grazia inaspettata.

Soprattutto non farò in modo di pensare che solo creando certe condizioni, la mia felicità potrà arrivare in questa vita.

 Non farò l’errore di pensare che soltanto trovando la persona giusta, il modo giusto, il denaro giusto, la casa giusta, il lavoro giusto, io potrò finalmente essere felice.

E’ un modo naturale di pensare, ma porta fuori strada.

E’ un modo di proiettare la felicità fuori di me. Di farla dipendere unicamente da cause oggettive, come un bimbo che vuole o pretende uno zuccherino. E' anche l'alibi mediante il quale io potrò continuare a lamentarmi sempre, nella mia vita: "non ho quel che voglio, non è quel che voglio".

La felicità non è questo. 

La felicità raggiunta in questo modo, evapora come la nebbia al sole appena raggiunta.

L’unica felicità che conti, dovrò ricordarlo, è quella che deriva dalla pienezza. Pienezza interiore, non esteriore. Noi non siamo otri che debbano essere riempiti. Siamo già riempiti, e lo siamo sin dall’inizio.

La felicità che deriva dalla consapevolezza di sé, e dalla pienezza, è reale e concreta, e finalizza il senso della vita, lo rende tangibile e prezioso oltre che durevole, ci avvicina a un tempo eterno.

Si tratta allora di scoprire la felicità che si nasconde – eternizzata – in un solo attimo.

Magari apparentemente insignificante della nostra vita.

Se sarò capace di riconoscere in quell’attimo, la sospensione esatta e in perfetto equilibrio tra ogni aspettativa futura e ogni rimpianto passato, io sarò realmente felice.

Come scrisse il grande Raimon Panikkar, La realtà non si esaurisce nella temporalità; non è ora temporale e dopo eterna, ma al contempo tempiterna. L’esperienza di tempiternità è vivere il presente come esperienza intensa dell’istante senza riferimento al passato che fu o al futuro che sarà. E’ il presente sempiterno nel quale si realizza un’azione veramente tale, ovvero autentica e, quindi, unica.

Fabrizio Falconi

16/09/11

Intervista a Suso Cecchi D'Amico - "Il perfetto incrocio tra letteratura e cinema" di F. Falconi





Suso Cecchi  D'amico, la sceneggiatrice che da "Senso" a "Oci Ciornie" ha scritto una porzione notevole del cinema italiano, compie 75 anni. E forse proprio in questa occasione e per rendere omaggio ad un'autrice che insieme a Visconti ha firmato pellicole memorabili, la Dedalo pubblica una biografia illustrata che ripercorre le tappe importanti della sua carriera di sceneggiatrice (Scrivere il cinema, a cura di Orio Caldiron e Matilde Hochkofler, pagg.160, 80 ill.)

Abbiamo chiesto a Suso Cecchi D'Amico di spiegarci quale è stato in questi anni il suo rapporto con il cinema.

"E' stato soprattutto un rapporto di lavoro, di duro lavoro.  Io non considero il cinema, come fatto in sè, mezzo espressivo e sublime. Sotto questo punto di vista sono convinta che la letteratura abbia un valore assoluto superiore.  La letteratura può essere arte allo stato puro.  Nel cinema, invece, il raggiungimento della poesia dipende da troppi fattori di natura tecnica, il cinema è un lavoro di équipe."

Quindi anche la sceneggiatura non può essere considerata un'opera autonoma ?
"Beh credo che in tutti questi anni di storia del cinema la sceneggiatura abbia acquistato una sua dignità di opera d'arte autonoma. E' chiaro che si tratta di una forma ibrida, che non è letteratura e nemmeno film, fino a che un regista non decida di realizzarla, di tradurla in immagini."

Eppure in alcuni casi, come in certi film di Visconti a cui lei ha collaborato, il cinema è indubitabilmente un'opera d'arte.
"Nel caso di Visconti certamente sì. Ma Luchino aveva un retroterra culturale spaventosamente ampio. La sua famiglia fu la prima a poter leggere Proust in Italia. Luchino lo lesse da giovanissimo, ne fu completamente 'imbevuto'. Al punto tale che solo lui avrebbe potuto realizzare il famoso film tratto dalla Recherche. Purtroppo, quando eravamo pronti ad imbarcarci nell'impresa che ci appariva difficilissima - ma intanto la sceneggiatura era già scritta - sorsero dei problemi con la produzione. Luchino disse che avrebbe fatto un altro film e subito dopo avrebbe iniziato Proust.  Invece, dopo le riprese di Ludwig, sopraggiunse la malattia e fu impossibile realizzare la Recherche.  I due film seguenti furono girati in condizioni di immobilità. A pensarci bene non so neanche io come riuscì a fare Gruppo di famiglia in un interno e L'innocente."

A suo giudizio quale rimane il film più felice, frutto della sua collaborazione con Visconti ?
"Sono ancora del parere che sia Il Gattopardo il modello, per la sua riuscita e per la fedeltà all'opera letteraria. Io sono convinta che per essere molto fedeli al testo letterario, bisogna in qualche modo trasgredirlo.  Ne è una riprova il fatto che quando facemmo Lo straniero da Camus, fu un totale fallimento. Camus era morto da poco e i francesi non avrebbero tollerato nessun cambiamento, così cercammo di riprodurre fedelmente il libro e il risultato fu molto modesto, anche per l'inadeguatezza di Mastroianni che non era molto credibile nella parte.  Nel Gattopardo, invece, aver fatto a meno della seconda parte del libro, quella dei 'vent'anni dopo', ha fatto sì che il film assumesse il ritmo lento, giusto, quello del romanzo. "

Quindi cosa significa "interpretare" un testo ?
"Significa lavorare sui toni, provare e provare fino ad arrivare alla uniformità assoluta del colore.  Co sono esempi di interpretazione perfetta del testo letterario. Per esempio uno che ho sempre ammirato è Pinter, che ne La donna del tenente francese ha raggiunto ottimi risultati. Non così invece con Proust che Pinter sceneggiò per Schlondorff. Ne venne fuori davvero un brutto film: d'altronde Pinter stesso aveva confessato di non aver mai letto Proust."

E oggi invece come le sembra la situazione dei nuovi sceneggiatori, dei nuovi autori del cinema italiano ?
" Devo dire di trovarmi un po' disorientata di fronte a certe tendenze: quando, per il fatto di essere in giuria al Premio Solinas, mi metto a leggere le sceneggiature dei nuovi autori scopro che c'è un totale disinteresse per i dialoghi.  Mentre invece ci sono grosse indicazioni, dettagliatissime, per esempio sulla scelta delle musiche, dei singoli pezzi musicali.  Ecco, francamente credo che  i dialoghi non vadano trascurati, specialmente quando si tratta di un film in costume.  D'altronde però noto che non è scomparso ancora il piacere di raccontare.  E questo secondo me è un bene: possiamo discutere all'infinito se un film sia o no opera d'arte, ma credo che alla fine questo non conti niente.  Io continuo a vedere film e siccome mi piace vederli, continuo a preferire che mi raccontino storie, delle vere storie."

Fabrizio Falconi, Il perfetto incrocio tra letteratura e cinema, intervista a Suso Cecchi D'Amico, Paese Sera, 11 marzo 1989.

14/09/11

" Trascende ogni mio controllo" - Il fantasma della perversione.



Che cosa penserebbe oggi l'ufficiale napoleonico Pierre Choderlos de Laclos dell'inspiegabile successo del suo romanzo Les Liasons Dangereuses ?


Scritto più di due secoli fa, tacciato di libertinaggio e pornografia, letto, idolatrato e condannato, obliato per quasi un secolo, oggi, sul finire del ventesimo secolo e all'inizio del ventunesimo il libro è nuovamente in auge: l'ultimo trionfo, quello più recente, è la "nomination" a ben sette premi Oscar di Dangerous Liasons, il film che il regista britannico Stephen Frears ha tratto dal romanzo di Laclos. Ma è in preparazione anche Valmont, firmato addirittura da Milos Forman.  E poi il teatro con la riduzione realizzata da Christopher Hampton, ragazzo prodigio del teatro inglese che è arrivato in Italia con la regia di Antonio Calenda, mentre una nuova versione delle Relazioni Pericolose, con Paolo Poli è in tournée in Italia.

Sulla scia di questo rinnovato ed euforico interesse, anche il mondo editoriale ha riscoperto quello che Proust definì "il più spaventosamente perverso dei libri".  Nel nostro paese torna in libreria l'opera di Laclos nella nuova edizione Einaudi, arricchita da una nota introduttiva di Alberto Beretta Anguissola (Le Amicizie Pericolose, pagg.347)  . Risulta piuttosto difficile cercare di spiegare quali siano i motivi di un così eclatante ritorno per un romanzo che sino a qualche anno fa stentava a farsi strada fuori della cerchia dei tenaci estimatori del geometrico rigore delle Liasons.

"Le relazioni pericolose"  come si saprà è un romanzo epistolare in 175 lettere che racconta di una doppia corruzione: la marchesa di Marteuil, per vendicarsi di una rivale, la virtuosa principessa di Tourvel, incarica il visconte di Valmont, sotto la promessa di concedersi a lui a impresa compiuta, di circuire la giovane presidentessa.  Sempre per vendicare la marchesa, l'obbediente visconte deve inoltre sedurre la sedicenne Cècile, promessa di un ex-corteggiatore della De Merteuil.

Una rapida occhiata tra la corrispondenza privata di Laclos è sufficiente per scoprire il lato privato dello scrittore: lungi dal mettere in pratica la "teoretica" libertina "egli si rivela come un uomo umile, amante della famiglia, incapace per mancanza di coraggio o per sfortuna di fare progressi nella carriera militare, insomma "il migliore dei mariti", come lo definisce lo stesso Proust. " Mi affligge la triste situazione della mia sposa e dei miei tre figli che lascio senza risorse, " scrive Laclos durante l'agonia che lo condurrà alla morte nel luglio del 1803 a Taranto, dove si trova per una spedizione al servizio dell'esercito napoleonico.
Ed è evidente come questo patetico quadro di marito devoto strida non poco con i contenuti trasgressivi del libro.

D'altronde, Laclos scriveva qualche anno dopo la pubblicazione del romanzo: " La filosofia ci ha indicato la direzione di marcia, ma solo le passioni possono farci raggiungere la mèta. La ragione, se resta sola, fallisce perché non la forza di redimere l'uomo e la società."   In questa sfiducia nella onnipotenza della ragione senza passioni sta allora forse la chiave del ridestato interesse per Laclos e per il suo romanzo.  Al di là infatti delle mode libertine e delle dissertazioni sulle tattiche e i destini amorosi, Les Liasons rappresenta un efficace proclama contro i rischi della società del piacere razionale.   "Laclos," scriveva Maurizio Cucchi nell'introduzione all'edizione Garzanti del romanzo, " ci presenta il quadro realistico di una società moralmente dissoluta e crudele, lanciata verso l'autodistruzione nel momento in cui concepisce l'idea del massimo potere e del completo piacere, del dominio incontrastato e con ogni mezzo."

Una società in qualche modo simile alla nostra.

Fabrizio Falconi, Il fantasma della perversione,  Paese Sera, 28 febbraio 1989.

10/09/11

RI-COMINCIARE. Da dove ? (12 cose da cui ripartire): 9. SEMPLICITA'


Dovrò essere consapevole che nessun senso può essere trovato nel caos, a meno che io non elegga il caos a senso.

Chi lo ha fatto, però, ha procurato quasi sempre a se stesso e alla comunità nella quale vive, disastri. 

Per capire cosa la vita pretende da me, dovrò sempre ricordarmi di cosa ero io, quando sono venuto al mondo: un essere vivente, prodotto di una vita biologia estremamente complessa (ma del tutto ORGANIZZATA - senza organizzazione e ordine, nessuna vita biologica è possibile) bisognosa però di molto poco: attenzione e cura, amore, nutrimento, serenità, possibilità di evoluzione.

Non potrò dunque mai trovare senso alla mia vita, riempiendola a dismisura di cose perlopiù inutili. Non potrò mai pensare di individuare un 'ordine' se io per primo concederò alla mia vita di essere del tutto caotica, stipata fino all'inverosimile di  cose inutili.

Sarò e sono consapevole che questo oggi è sempre più difficile. Sarò e sono consapevole che riempire la propria vita a dismisura, proclamare incessantemente che "non si ha tempo", che "non si ha tempo per nulla e quindi a maggior ragione anche per farsi domande su se stessi e sulla vita" è la più diffusa forma di auto-difesa contemporanea. 

Si ha paura del vuoto, di quello che si presume a-priori di essere un vuoto - la mancanza di senso - e  si colma  la vita di stupidaggini, dettagli e diversivi fino all'inverosimile nella speranza che non si abbia il tempo e il modo di interrogarsi mai, e dunque di spaventarsi di fronte a quel vuoto. Ci si illude di protrarre questo sentimento fino all'estremo limite della morte, e di morire quindi inconsapevoli di tutto, ma "senza soffrire", come bambini spaventati.

Questa vita non fa per me.

Mi ricorderò sempre che soltanto fermandomi, interrompendo il flusso ininterrotto delle cose complicate (non complesse) che tutti e tutto mi impongono, io potrò scoprire qualcosa. Dovrò fare quindi spazio nella mia vita, pur nelle incombenze di tutti i giorni, lasciare sempre questo spazio vitale, essenziale.

Solo dal silenzio e dalla quiete sorgono le vere domande. E solo nel silenzio e nella quiete è possibile ascoltare qualcosa. Ascoltare quella voce - flebile o forte - che la potenza della vita riversa (riverserebbe) dentro ognuno di noi.

Come lasciò scritto il profeta: Non sarete confusi per sempre.

Fabrizio Falconi

in testa: immagine da Monika e il desiderio di Ingmar Bergman