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04/02/13

Scene da un matrimonio di Bergman, e gli italiani scoprirono la crisi matrimoniale.




Era l'inverno del 1976.  

E nelle case degli italiani entrò, come un vento irrequieto, un pensiero nuovo.  Pro-veniva dalle profondità nordiche.  

La Rai di allora decise di mandarlo in prima serata, sul secondo canale.  

E a pensarci oggi (quando il massimo che ti può succedere è aspettare di vedere se il pacco vincente verrà aperto) viene da sorridere.  Sono passati poco più di 30 anni, ma ere glaciali dal punto di vista antropologico (soprattutto in Italia). 

Le vicende di Johann e Marianne (sposati da dieci anni, coppia apparentemente felice nella ricca Svezia, con due figlie) - narrate con il piglio da entomologo da Ingmar Bergman - portarono nelle case italiane la consapevolezza nuova di come, di quanto sia difficile investigare nel mistero di una unione di coppia, di come si potesse scandagliare gli aspetti più segreti di una unione, di una relazione, di come e di quanto, sotto l'apparenza di una normalità - di quella che Tolstoj definiva la normalità di tutte le coppie felici - si nascondessero inferni inconfessati e neanche, spesso, consapevoli. 

Quando andò in scena la seconda puntata - in tutto erano sei - sono sicuro, molti letti italiani sussultarono di nuove inquietudini. 

La puntata si intitolava: 'L'arte di nascondere la polvere sotto il tappeto.'

Una specialità della casa. Qualcosa anzi, che potremmo definire, aveva fondato i rapporti matrimoniali per intere generazioni. 

Nascondendo la polvere sotto il tappeto - Johann e Marianne sono già in crisi, ma fanno di tutto per non confessarlo, prima di tutto a se stessi, e poi al partner - si può mandare avanti un matrimonio anche una vita intera. 

Con risultati, spesso disastrosi. 

I lunghi colloqui a camera fissa di Johann e Marianne (Erland Josephsson e Liv Ulmann, mostruosi) forse oggi appaiono perfino datati.   

Bergman aveva attinto a piene mani da Freud, e dalle diverse frustrazioni personali accumulate nella famiglia (rigidamente protestante) in cui era cresciuto. 

Eppure ancora oggi, se soltanto si ri-guarda questo film - nella sua versione integrale, nelle sei puntate, si constata quale grande monumento alla conoscenza personale, alla onestà intellettuale e al lavoro di artista, esso sia. 

A futura memoria. 

Fabrizio Falconi. 

18/09/12

Homeland - Una serie tv "dostoevskiana."




Avrà pensato a Dostoevskij lo sceneggiatore israeliano Gideon Raff che ha inventato la serie Hatufim, negli USA tradotta come Prisoners of War, che poi il canale americano Showtime ha realizzato nella nuova versione per il mercato USA e occidentale (in Italia è trasmessa dai canali Fox e Cielo).

L'interminabile messe di premi ricevuta da questa serie si giustifica con l'originalità dell'assunto e con la qualità del prodotto - che significa livello degli interpreti, messa in scena, sceneggiatura impeccabile, senza sbavature, senza nessuno di quegli effetti/orpello che di solito appesantiscono le serie tv.

Homeland parte da uno spunto molto semplice:  Nicholas Brody, un sergente dei Marine ritenuto scomparso in azione nella guerra d'Iraq, viene liberato dopo otto anni di prigionia. Una volta ritornato a casa, l'intera nazione lo elegge immediatamente eroe di guerra; Carrie Mathison, un'analista della CIA, è l'unica a credere che in realtà egli rappresenti una seria minaccia per il Paese: venuta a conoscenza del fatto che uno sconosciuto prigioniero di guerra americano era passato al servizio di al-Qaida, Carrie ritiene che quel prigioniero sia proprio Brody.

Qui siamo però ben oltre la nota paranoia americana sul nemico invisibile che minaccia la nazione, e oltre il noto stereotipo dei politici (americani) corrotti che cinicamente sfruttano queste paranoia.  

Ciò che interessa Raff e gli sceneggiatori americani sono i personaggi.  

Homeland è interamente giocata sul tema della ambiguità umana - come si vede anche dall'eloquente trailer qui sopra.   Chi tradisce ? Chi dice la verità ? Chi è contemporaneamente innocente e colpevole ? Chi si illude ? Chi crede a quel che vede ? E più in generale: dov'è il male e dove il bene ?  Chi è 'buono' può fare il male ? Chi è 'cattivo' può fare il bene ?

Homeland indaga - senza compiacimenti e senza sporcature - l'abisso del cuore umano.  Interroga profondamente lo spettatore su cosa resta, alla fine, all'estremo, nel cuore di ciascuno di noi al netto di tutti gli infingimenti, i mascheramenti, le auto-giustificazioni che ciascuno di noi si dà nel corso della propria esistenza.

Fabrizio Falconi


04/07/12

The Killing - Una grande serie tv.



Lo sostengo da tempo, la creatività visiva e narrativa contemporanea - che sembra essersi impigrita al cinema - vive un  momento di nuovo fulgore in diverse serie televisive in produzione in diverse parti del mondo.

Un esempio è The Killing, serie televisiva statunitense poliziesca prodotta dalla Fox Television Studios e dalla Fuse Entertainment per la rete televisiva via cavo AMC, che l'ha trasmessa a partire dal 3 aprile 2011 e la cui ultima puntata - della seconda serie - è andata in onda qualche giorno fa praticamente in contemporanea in USA e in Italia.

The Killing è il remake della serie televisiva danese Forbrydelsen, considerata un capolavoro e detentrice di ogni record di ascolto nella televisione di quel paese.

La serie americana, come quella danese, è incentrata sulle vicende che ruotano attorno l'omicidio di una giovane ragazza e la conseguente indagine della polizia.

Nella versione statunitense è nella nordica Seattle che una giovane ragazza, Rosie Larsen, viene trovata uccisa, chiusa nel bagagliaio di una macchina affondata in un laghetto.

La trama intreccia tre aspetti connessi all'omicidio: le indagini della detective Sarah Lindendetective del dipartimento di polizia di Seattle, silenziosa e acuta osservatrice, conduce una vita solitaria con il figlio Jack -  affiancata dal collega Stephen Holderex detective della narcotici che ha ottenuto la promozione alla squadra omicidi;  il dolore che colpisce la famiglia della vittima; e un gruppo di politici locali che rischia di vedersi compromessa la campagna elettorale. Con la prosecuzione della storia, diventa chiaro che non ci sono casualità e ognuno dei personaggi coinvolti si porta dietro un segreto che gli impedisce di poter voltare pagina. 


Sono diversi e numerosi i motivi di interesse di questa serie: la precipitazione in un gorgo progressivo che sembra ingoiare ogni barlume di umanità (di senso umano) dei personaggi coinvolti;  la pioggia battente che scende per 24 giorni consecutivi su Seattle (la capitale della cultura grunge) e l'acqua - elemento onnipresente in tutte le puntate - nella quale sembra immersa la realtà intera rappresentata (e anche il corpo della vittima);  la solitudine dei due detective, la solidarietà progressiva che si stabilisce, il faticoso rapporto di fiducia, la protezione che offre Holder (anche se per alcune puntate si è indotti a credere che anche lui sia marcio, sia dall'altra parte) alla sperduta Linden; l'assenza di erotismo (seppure sempre sottinteso), la ricerca continua del senso ultimo e minimo delle cose, dalle quali ripartire (la certezza non esiste, va ricercata nell'humus più putrescente, va ritrovata - perché esiste - nel cancellato e nel negato);  la volontà - più forte di tutto - di mantenere la barra dritta nel gorgo, nell'abisso frequentato da spettri e mistificatori; l'estrema linearità del racconto che mantiene unità narrativa e precisione di scopi (senza voli pindarici, senza sotterfugi o strizzate d'occhio allo spettatore):  insomma un gran bel lavoro che parla a noi, e proprio a noi, oggi e ci spiega (anche) da dove si può e si deve ripartire.


Fabrizio Falconi 

16/04/12

Enlightened - La serie televisiva. Spunti per l'oggi.



E' molto interessante Enlightened, la serie televisiva statunitense trasmessa dal 2011 sul canale HBO, e co-ideata ed interpretata da Laura Dern, la grande attrice americana, figlia d'arte (suo padre è Bruce Dern) divenuta 'attrice feticcio' di David Lynch.

La prima stagione, andata in onda dal 10 ottobre 2011, è composta da dieci episodi. HBO ha poi rinnovato la serie per una seconda stagione, anch'essa di dieci episodi.

L'idea di questa serie è molto originale: seguiamo infatti la storia e le peripezie di Amy Jellicoe, una dirigente aziendale di una multinazionale attiva nel settore della cosmetica che, dopo una crisi di nervi causatale dal crollo della propria vita professionale e privata, ottiene il risveglio spirituale grazie ad un percorso di riabilitazione nelle Hawaii e decide così di riprendere in mano la propria vita.

Laura Dern è impareggiabile nel rendere la velleità perfino naif della protagonista di 'cambiare il mondo', una volta tornata alla sua solita vita: cambiare un luogo di lavoro - e colleghi di lavoro - infernali.  Cambiare la madre, persa in un deliquio anaffettivo e catatonico. Cambiare il marito, dipendente dalle droghe e completamente sballato. Cambiare gli amici.
Renderli partecipi di una nuova consapevolezza maturata: cosa è veramente importante nella vita.

Naturalmente questa velleità - convincere gli altri che si è compreso il vero senso della vita, e che la vita che vivono gli altri è piena di cose false, vacue, inutili e dannose - si scontrerà contro un poderoso muro di gomma:   Amy sbaglia tutto, ovviamente, sbaglia nel modo stesso in cui pretende di convincere e di rendere consapevoli gli altri.

Ma gli altri sono impietosi.  E' davvero troppo irresistibile rovesciare in faccia a chi pretende di cambiarti la vita il tuo disprezzo, bollando questa persona  semplicemente come una pazza supponente, una pazza fuori del mondo, che non sa o non vuole rendersi conto di come va la vita. 


E' perciò molto interessante Enlightened, per le dinamiche che descrive, e che ci riguardano tutti. 

Una volta raggiunta la consapevolezza che la vita che si vive fa schifo, cosa si può fare di concreto per cambiarla ? E una volta che siamo disposti a cambiarla, come possiamo per rendere consapevoli gli altri ?

Amy è una ingenua. Ma è anche, indubbiamente, una persona di buona volontà.

I suoi metodi sono sbagliati ma non c'è dubbio che il suo fine sia autenticamente giusto. Ma .. come fare ?  E particolarmente toccanti sono le pagine del suo discorso interiore che viene recitato, in ogni puntata, dalla voce di Amy fuori campo.

Da vedere.

16/03/12

Downton Abbey - Le vite, i destini.




E' facile comprendere perché
Downton Abbey, la serie televisiva BBC scritta da Julian Fellowes abbia fatto man bassa di tutti i premi possibili, negli ultimi due anni.

Non si riescono a trovare difetti a quest'opera - giunta alla seconda stagione, ma è già in cantiere la terza serie per la gioia degli aficionados di mezzo mondo - compiuta, realizzata con standard qualitativi inimmaginabili per la gran parte dei prodotti di fiction pensati e realizzati oggi, non soltanto per la televisione ma anche per il cinema. 

Attori eccellenti - su tutti Jim Carter, che interpreta il vecchio maggiordomo e la mitica Maggie Smith nel ruolo della nonna, matriarca della famiglia Crawley, conti di Grantham - ricostruzioni di scene e costumi minuziosi fino al più piccolo particolare, sceneggiatura impeccabile, senza cadute o forzature, regia non convenzionale, scrittura dei dialoghi mai banale, all'altezza anzi di un vero grande romanzo letterario (si è appresa e studiata la lezione di Henry James). 

Julian Fellowes è l'autore di Gosford Park, l'ultimo grande film di Robert Altman e il copione di Downton Abbey ripete le orme di quello del film:  una grande casa nobiliare della Vecchia Inghilterra dentro la quale si intrecciano le vicende della famiglia possidente (padre, madre, tre figlie femmine e vari parenti al seguito) e quelle della numerosa servitù che vive all'ombra dei ricchi proprietari.

Ha molto da dire, Downton Abbey perché le cose che ci racconta sono propriamente le cose umane: le ambizioni e i rimpianti; le incapacità dei caratteri, le bassezze, le piccole meschinità del cuore, che sempre rendono amara la vita propria e quella degli altri; i gesti di generosità gratuita, le qualità umane, i dolori, le sofferenze taciute e quelle manifeste; soprattutto la velleità di orientare la propria vita alla radice di un senso, che è quello di una eterna ricercata (e continuamente perduta) pienezza.

Downton Abbey - è stato fatto notare, inevitabilmente - ha riscosso così unanime consenso perché ci riporta ad un'epoca in cui la vita e i destini individuali sembravano ancora obbedire a regole condivise, a forme di convivenza che promettevano ordine e restituivano un senso.

Un mondo che nel Novecento ha conosciuto una crisi fortissima, una vera e propria catastrofe.

Non è un caso che le vicende di Downton Abbey prendono avvio alla vigilia del Primo Conflitto Mondiale, che segna proprio la linea di discrimine tra classicità e modernità, la fine di un mondo ormai decaduto e decadente e la nascita - catastrofica - di un 'nuovo mondo'. 

Quei personaggi di Downton Abbey parlano a noi. Parlano di quel che eravamo e di quel che siamo diventati.  Perché ciò che eravamo è ancora dentro di noi. E per comprendere ciò che siamo oggi non possiamo e non potremmo mai smettere di interrogarci su quel che eravamo.

19/12/11

Mildred Pierce - l'ambizione che diventa inferno.



Mildred Pierce è un romanzo scritto da James M.Cain - lo stesso del Postino suona sempre due volte - nel 1941.

La miniserie televisiva HBO (andata in onda su Sky) che ho visto di recente, è molto interessante e anche piuttosto innovativa rispetto al famoso film che dal romanzo trasse nel 1945 Michael Curtiz con Joan Crawford protagonista. 


La storia del libro è nota. E' ambientata a Los Angeles negli anni '30, in piena Grande depressione. 

Mildred Pierce è una donna che divorzia dal marito disoccupato e inefficiente e lotta per mantenere se stessa e le sue due figlie. L’eccessivo attaccamento nei confronti della figlia maggiore Veda la spinge a una scalata verso il successo, che da cameriera la vede diventare proprietaria di ristoranti; ma anche a scelte sbagliate sul piano professionale e privato che condurranno a conseguenze molto disastrose.

La serie televisiva è molto interessante ed è anche ovvio immaginare il motivo per cui la HBO abbia deciso di produrla proprio oggi: i tempi si assomigliano, in America come nel resto del mondo occidentale.

La crisi distrugge ogni certezza e spinge - o spingerebbe - le persone a dare il meglio per cercare di venirne fuori.

Mildred è un tipo tosto. Reagisce con forza che appare sovrumana perfino alla morte della figlia piccola, che si ammala a 6 anni.

Ricomincia sempre daccapo. Non rinuncia, non si piange addosso.  Si prende e pretende il meglio, spinge sul tasto della propria incrollabile ambizione personale. Non si rassegna. Non solo non vuole soccombere, ma vuole anche invece affermarsi.      Dimostrare a tutti ciò che vale.

Il problema, però, è che Mildred, anche Mildred, deve fare i conti con il proprio fattore umano.

In termini psico-analitici si potrebbe dire, con la propria ombra.    L'ambizione, che per Mildred è uno straordinario mezzo di emancipazione sociale, è anche la sua condanna, il suo personale inferno.

Ciò che Mildred non percepisce, non vuole capire, non vuol sentire, è che l'ambizione la guida, e non è lei a guidare la sua personale ambizione.

In questo Mildred è una specie di Bovary del Novecento: perennemente in-soddisfatta di quel che ha (il marito, la posizione sociale, il lavoro), cerca quel che non ha, anche se non è alla sua altezza. O forse proprio per questo.

A differenza della creatura flaubertiana però, Mildred sa dare concretezza e continuità ai suoi sogni di grandezza.   Non sono semplici chimere.  Per buona parte della sua storia, Mildred sembra capace di poter controllare l'esaudimento dei propri desideri.

E però, la vita - in questo caso l'ombra che la vita di Mildred contiene - presenta il suo conto.

Sotto forma di una figlia diabolica che ritorce contro la madre quegli stessi sogni di grandezza, uccidendone allo sbocciare ogni evidenza, rovinandone ogni godimento, contro-figurando ogni possibile soddisfazione emotiva, nel peggiore dei modi.

E' una buona lezione, Mildred Pierce - nella splendida interpretazione di Kate Winslet, oramai una delle migliori attrici del panorama contemporaneo.

E' una buona lezione, anche se arriva da una prospettiva puritana, tipicamente americana.

Ci spinge a chiederci, anche a noi, in giorni che appaiono sotto molti aspetti non lontani dalla realtà che vive Mildred nella sua piccola epopea di Glensville,  cosa sia veramente necessario, e cosa non lo sia.

Cosa serva realmente alla nostra vita - emanciparci socialmente, dimostrare a tutti chi siamo, far soldi - e cosa non lo sia.

Cosa resti in mano alla fine di tutto, quando l'età del corpo sfiorisce, insieme alle illusioni di cui ci piace costellare il nostro transito terrestre.



11/10/11

Elogio di Mina - Un segno dei tempi passati e di quelli presenti.



Questo è un elogio di Mina.

Mina, nome d'arte di Mina Anna Mazzini, nata a Busto Arsizio il 25 marzo 1940, la più grande cantante italiana. 

C'è un motivo che ci spinge ad elogiarla.  La sua presenza - nonostante l'assenza pubblica che data 1978, anno di abbandono della scena - più viva che mai (blog e social network crepitano di sue esibizioni in b/n, inserite da fans e adoratori di tutto il mondo) spinge a farsi qualche domanda e a darsi qualche risposta.

Mina è il contrario di quello che passa oggi il convento.

Televisivamente, ma non solo. Direi proprio, antropologicamente. 


Chi è Mina ? Cosa sappiamo di lei quando vediamo i suoi video, le sue apparizioni nell'arco di quel ventennio - 1958-1978 - magico per il nostro paese (un periodo nel quale l'Italia produsse frutti culturali abbondantissimi, nel cinema, nella musica, nella letteratura, uniti ad una rinascita complessiva del paese che andò sotto il nome di boom) ?

Mina era innanzitutto una artista di capacità quasi sovrumana. Se si guardano questi video, e ad ogni passaggio in televisione, Mina appare di una bravura travolgente. Il suono della sua voce è pura melodia ma è anche tante altre cose insieme: virtuosismo, mai stucchevole e mai fine a se stesso, aggressività, grinta, interpretazione, magia, sospensione, incantamento.  Il suo talento indiscusso è purissimo: la voce sgorga con naturalezza incredibile, eppure appare chiaro che il semplice talento innato è stato affinato duramente, con l'esercizio, lo studio, una dedizione assoluta (che del resto risulta evidente dalla sua biografia).

Ma Mina non è solo questo.

Mina è una donna bella, anche se non bellissima. Mina è una donna di classe che entra nelle case di tutti, con discrezione e magnetismo.  Con intelligenza.  Non è mai trasgressiva - non ne ha bisogno - e non è mai fuori tono, fuori registro.  Si impone semplicemente con l'evidenza della sua bravura e con l'intelligenza delle misurate parole e degli sguardi, oltre che dell'ironia con la quale interpreta volentieri il ruolo della femme fatale che affascina ogni italiano.

La sua bravura inarrivabile per chiunque, è esibita con un pizzico di civetteria, ma senza nessuna prosopopea, e nessuna aria di superiorità.  Mina è anzi un cavallo di razza che accetta il confronto con il diverso e anche con l'opposto.

Mina è gioiosa, è felice di cantare, è felice di dare felicità.  Le sue canzoni, le canzoni che non sono sue ma che diventano sue, perché la sua personalità è così straripante, si trasformano istantaneamente per molti anni nel conforto, nel mantra, nell'accompagnamento sonoro della vita (la vita vera) di migliaia di persone.

Attenzione, ora: tutte le doti che abbiamo enumerato in questo elogio sembrano oggi dimenticate o cancellate o scomparse, se soltanto si realizza un confronto con ciò che pubblicamente passa il convento anche in termini nazional-popolari come è ed è sempre stata la canzone leggera.

Talento, bravura, esercizio, studio, dedizione assoluta, bellezza, classe, discrezione, magnetismo, intelligenza, ironia, misura, personalità.    Che fine hanno fatto, in questo Paese ?

Cosa è successo a questo Paese perché si sia passati in poco, poco tempo, da questo modello, il modello di Mina al niente divenuto paradigma dei 15 minuti di celebrità assegnato per statuto agli imbelli che si agitano inutilmente su quella che assomiglia sempre di più alla tolda di un Titanic ?

Fabrizio Falconi

17/10/10

Le cose che il Cile ha insegnato (a noi e al mondo).


Avendo seguito la vicenda dei minatori cileni sin dall’inizio, anche per ragioni di lavoro, in modo approfondito, vorrei sottoporvi queste piccole riflessioni.

La vicenda, ha secondo me offerto insegnamenti importanti. Molto spesso mi è capitato di pensare a cosa sarebbe successo se questa storia fosse capitata in Italia, oggi.

Ed ecco ciò che ho notato:

1. Innanzitutto il Cile – un paese che per molti degli italiani esiste solo in quanto patria di calciatori o di vaghi ricordi legati a Pinochet – ha fornito una incredibile dimostrazione di efficienza. La macchina dei soccorsi è stata tempestiva, efficace e direi quasi miracolosa, ricordando che questo del disastro cileno è un caso UNICO nella storia, e sin dall’inizio si era compreso che era necessario ricorrere a tecnologie (macro e micro) del tutto nuove, primo per identificare il luogo dove i minatori si trovavano, se sopravvissuti alla catastrofe, secondo per tirarli fuori di lì. I cileni hanno bruciato i tempi. Si parlava di Natale, all’inizio: hanno tirato fuori tutti i minatori due mesi prima, con una operazione tecnicamente perfetta.

2. Il paese, il Cile, ha dimostrato in questi due mesi e mezzo, una compattezza straordinaria: dal momento in cui si è saputo che i minatori erano vivi, nessuno più si è messo di traverso. La politica ha smorzato i toni, il premier e il governo sono stati sostenuti in ogni modo (possiamo immaginare cosa sarebbe successo in Italia ?). I giornali hanno lavorato per i minatori. La gente, il popolo, si è stretto intorno ai minatori, facendoli sentire vivi e necessari.

3. Al momento del salvataggio vero e proprio, i 1700 giornalisti di tutto il mondo accreditati (più di quanti ce ne erano per la morte di Woytila) – ma non li avevano invitati i cileni, erano venuti loro perché si tratta di una storia unica – sono stati tenuti in considerazione, ma lontano dalla botola del pozzo.

4. Intorno a questa botola, c’erano pochissime persone. Il presidente era uno di loro, e non aveva un posto privilegiato. Aspettava il suo turno per abbracciare i minatori che uscivano.

5.I minatori hanno mantenuto per tutta la durata della loro prigionia sottoterra, una dignità spaventosa: pur collegati in diretta, con la video via cavo, hanno evitato sceneggiate, mai crisi di nervi, mai appelli, mai richieste inappropriate, non un litigio, non una prevaricazione. La solidarietà esistente tra di loro è stata anzi completa fino all’ultimo – ognuno di loro aveva espresso il desiderio di uscire per ultimo dal pozzo.

6.Anche una volta usciti, i minatori hanno manifestato una gioia contenuta, sobria, vera. Gli abbracci sotto le telecamere sono stati perfino pudichi. Nessuno di loro ha parlato a vanvera, nessuno di loro ha ‘esternato’. Uno solo, anzi, ha tenuto a precisare di voler essere considerato per quello che è, e cioè ‘un operaio’ e non un artista.

7. Si è detto che le mogli e i parenti erano stati agghindati per le telecamere: niente di più falso. Erano donne che si erano preparate per i loro uomini, per i loro mariti o fidanzati, la cosa più naturale del mondo. Avevano i capelli in ordine e un filo di trucco perché volevano essere belle per loro. E loro, si erano sbarbati e pettinati per venir fuori. Non lo hanno fatto certo per le telecamere.

8.La vicenda è entrata nel cuore dei telespettatori di tutto il mondo per questo: perché ha raccontato la vita vera, le persone vere, le situazioni vere. Il rischio, la morte, la paura, l’abisso, la speranza, la fede, la solidarietà, l’amicizia, la fraternità, la sopravvivenza, il riscatto. Un piccolo compendio di umanità. Di tutto ciò che è legato all’essere umano, alla sua vera essenza.

9. E’ per questo che ieri, seguendo le notizie sui siti e sui TG italiani sono rimasto davvero basito, e mi sono intristito, per l’ennesima volta. La notizia dei minatori cileni – prima notizia in tutti i siti del mondo, ieri, dalla CNN all’ultimo sperduto sito indiano – ha resistito da noi come prima notizia solo poche ore, fino al terzo o quarto salvato. Già a partire dalle undici del mattino, sui siti la notizia è scivolata al secondo posto, scalzata dalla notiziona degli incidenti tra tifosi alla partita Italia-Serbia. I tg della sera hanno aperto tutti con Italia-Serbia (anche Mentana, che ha dato la notizia dei minatori quasi in chiusura di edizione). Davvero una tristezza: ancora una volta la dimostrazione di quanta fatica faccia il bene – tutto ciò che ho riassunto nell’elenco precedente – a diventare notizia, specie nel nostro cortiletto italico. Per noi la notizia degli ennesimi scontri ad una partita di calcio, dell’energumeno serbo incappucciato (nessun morto, per fortuna, ma va bene lo stesso..) è più importante di una storia epica di disgrazia che diventa riscatto e salvezza grazie alla forza di un intero popolo, alla solidarietà di un intero popolo. No, no, per noi vale sempre di più, e meglio, il rosario delle nostre cattive notizie quotidiane.

Fabrizio Falconi

28/04/10

La fiducia è una questione di Fede.


Per comprendere la vita, non abbiamo molti mezzi, se non affidarci agli altri.

Mi è venuto in mente, osservando una puntata del serial Lost, che ha tratti di genialità. Sembrerebbe che quasi tutta questa grande opera di fiction contemporanea sia basata sul concetto e sul sentimento della fiducia.

Quando è che posso fidarmi di qualcun'altro ? Quand'è che posso avere fiducia in lui ? Fiducia e fede hanno la stessa radice semantica.


La fede dei primi cristiani si basò su una conoscenza che derivava soltanto da coloro 'che avevano visto'. C'erano dei testimoni. Questi raccontarono quel che avevano visto. Ma tutto sarebbe finito lì, se qualcuno non avesse creduto al loro racconto, se non si fossero fidati di loro.

L'unica osservazione, conoscenza, sapienza che possiamo avere in questa vita, dipende dalla condivisione ( e dall'affidamento) che abbiamo negli/con gli altri. Il motto della intera serie di Lost è 'si vive insieme, si muore soli'.

Per un cristiano questo non è condivisibile, perché anche quando moriremo ci sarà Qualcuno con cui/ a cui affidarci. Ma se quello è un affidamento che potremo probabilmente rifiutare o accettare, l'affidamento in questa vita non è possibile per nessuno, evitarlo. Significherebbe vivere da esclusi o da esiliati su questa terra, che è meno grande di quel pensiamo, ed è popolata di tanti noi, che hanno molto da dire... a noi.


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25/05/09

La Questione Morale - ora, finalmente, se ne accorge anche la CEI.


Sembra che proprio la Questione Morale sarà al centro della prolusione con la quale tra pochi minuti il Cardinale Angelo Bagnasco aprirà a Roma i lavori dell'Assemblea Generale della CEI.


E io, certe volte, rimango basito dalla lentezza e dalla 'ingenuità' con la quale le gerarchie ecclesiastiche - che non giudico, ma dalle quali vorrei aspettarmi sempre di più di quel che vedo - prendono coscienza dei processi sociali e politici, ma prima ancora antropologici, che interessano il nostro paese.


Insomma, quanti anni sono, ormai che in Italia assistiamo ad un progressivo scivolamento di ogni deriva morale, nei piccoli comportamenti sociali, nella definizione di ciò che è bene comune, di ciò che non aiuta, non serve, di ciò che corrompe le anime dei giovani, degli atteggiamenti messi in campo dai potenti di turno, o dagli 'acclamati', dalla televisione in primis, che portano prima di tutto ad una infelicità diffusa, e poi ad un allontanamento da un qualsiasi elementare senso di carità cristiana ?


Eppure, a leggere queste dichiarazioni di mons. Arrigo Miglio, vescovo di Ivrea e presidente della Commissione CEI per i problemi sociali e il lavoro, viene quasi da sorridere: "Nella societa' italiana," dice Miglio " c'e' una 'questione morale', e la politica e' condizionata dalle difficolta' della societa"'. Parlando a margine della presentazione della Fondazione per il Bene Comune delle Acli, mons. Miglio ha affermato che la "questione morale" "riguarda la societa' e va affrontata senza puntare il dito. Ciascuno - ha aggiunto - deve cominciare dalla propria coscienza".

Il vescovo ha sottolineato che l'Assemblea generale dei vescovi italiani, che comincia oggi, affrontera' non a caso la questione dell'educazione, che e' "uno dei servizi che la Chiesa offre alla societa', per farla crescere sui dei valori che permettono a tutti, anche alla politica, di lavorare per il bene comune".


Ecco, sì è sacrosanto che si cominci ciascuno da sè, dalla proprio coscienza, e no, non pretendiamo che la Chiesa 'punti il dito', no, no, per carità - anche se noi ricordiamo anche un cristianesimo che quando c'è stato da urlare, ha urlato eccome, contro i comportamenti e le distorsioni plateali, gli scandali, che uccidono il senso del bene comune - ma già sentire un così eminente rappresentante della Chiesa che si accorge che in Italia sì, è vero, esiste una questione morale, è già qualcosa. Basta soltanto che l'ultimo appello di una Chiesa poco coraggiosa, non arrivi quando questo paese sarà già completamente distrutto nelle sue fondamenta etiche: in effetti, a ben guardare manca poco.
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18/10/08

Dziwisz alla presentazione del film "Una Vita con Karol": Wojtyla fece miracoli anche in Vita.


Il card. Dziwisz asserisce di essere stato testimone oculare di vari miracoli che sarebbero stati compiuti da papa Wojtyla quando questi era ancora in vita, tra i quali la guarigione di una giovane indemoniata. Lo racconta lo stesso Dziwisz, segretario personale di Giovanni Paolo II per tutto il suo pontificato, nel film-intervista "Testimonianza" tratto dal libro "Una vita con Karol", presentato questa sera in anteprima alla presenza di Benedetto XVI nell'aula Paolo VI, in Vaticano.

Dziwisz racconta, fra l'altro, della convalescenza di Giovanni Paolo II in clinica, dopo l'attentato del 1981. "Vicino al reparto in cui era ricoverato - ricorda il segretario - c'erano dei bambini malati di tumore" che lui amava visitare non appena si senti' meglio e che cercavano la sua presenza nella speranza di una guarigione. "La' io fui testimone di tanti miracoli".

Dziwisz racconta nel film anche di una giovane donna indemoniata condotta dal marito in Vaticano per un esorcismo, che pero' non riusci'. "Prima di andarsene, papa Wojtyla le disse: "domani diro' una messa per te. E lei guari"'.

Al di la' di questi fatti straordinari, emergono dal film numerosi aneddoti ed episodi in gran parte gia' noti, ma restituiti con la forza delle immagini e delle ricostruzioni cinematografiche, sottolineata in sala, gremita di cardinali, vescovi e molti polacchi, tra i quali Lech Walesa, un ex presidente della repubblica, un sottosegretario e altre autorita', da applausi e qualche risata.

L'arcivescovo di Cracovia racconta, ad esempio, di quando, da cardinale, A Ludzmierz in Polonia, cadde uno scettro da una statua della Madonna e il cardinale Wyszynski, che era con lui, gli disse ridendo: "Pare che la Vergine voglia dividere il suo potere con te", e di quando, dopo il conclave che lo elesse Papa, confesso' al suo futuro segretario: "Che cosa ho combinato!".

Un gruppo di attori rappresenta, nel film, le molto vociferate fughe in incognito di Wojtyla dal Vaticano per andare ad immergersi nella natura che tanto amava. Poi, riprende il racconto del cardinale Stanislaw: parla della visita in Polonia, di Solidarnosc, e della lettera scritta a Breznev quando la Russia pensava all'intervento militare, che non ricevette mai risposta e non fu mai divulgata, ma in cui era scritto che "la nazione ha diritto alla liberta"'.

Ed ecco il momento dell'attentato per mano di Ali' Agca: "Ricordo i piccioni che scappavano in alto dopo gli spari, come in un film - dice Dziwisz - che mi e' rimasto per sempre negli occhi". Il primo pensiero di Wojtyla fu per l'attentatore che subito perdono', prima confidandolo al segretario, poi scrivendo una lettera mai spedita in cui scriveva: "Come possiamo presentarci al Signore se non ci perdoniamo?". Successivamente espresse personalmente il proprio perdono al killer turco.

Ma Wojtyla, racconta ancora il segretario, affermando di poter ora rivelare "quello che finora abbiamo tenuto segreto" subi' un altro attentato, in realta' documentato dalle cronache.

Quando si reco' a Fatima nell'82 per portare alla Madonna il proiettile che l'aveva colpito e ringraziarla di avere avuto salva la vita, un sacerdote invasato gli si getto' addosso con un coltello. Il Papa continuo' la cerimonia e sembro' che il colpo non fosse andato a segno, ma quando torno' in camera, Dziwidz vide di persona che era stato ferito.

"Tremavamo tutti dopo l'attentato dell'81 - prosegue l'intervista - ma lui ripeteva che non potevamo vivere nella paura", e prosegui' il suo apostolato, che lo porto' presto, da Papa nella sua Polonia, dove volle incontrare ad ogni costo Lech Walesa e si rifiuto' di 'ammorbidire' i suoi discorsi, come gli era stato richiesto dal regime comunista. Sei anni dopo, cadeva il muro di Berlino. Poi vennero molti altri viaggi. In partenza per Cuba, un giornalista gli domandava se sarebbe successo li' quello che era successo in Polonia, e lui rispose, "perche', era andato male?'. E poi, "non sono un profeta".

Infine, le immagini si chiudono sul periodo della malattia e della morte, gia' rese ampiamente pubbliche. Dziwisz testimonia, in chiusura, della sua ultima uscita, quando non riusci' a parlare. Allontanatosi dal balcone, gli sussurro': "se non posso piu' stare con la gente e parlare con loro, e' meglio che me ne vada". Scrisse su un biglietto Totus tuus, e comincio' la sua coraggiosa agonia.