17/01/22
Storia di una foto veramente incredibile. Gianni Minà racconta come fu possibile mettere seduti allo stesso tavolo Alì, Marquez, Leone e De Niro
30/12/21
Torna in libreria, in una nuova edizione, "I Fantasmi di Roma" di Fabrizio Falconi
Nato a Roma, ha scritto i saggi Osama bin Laden. Il terrore dell'Occidente (con Antonello Sette), Dieci luoghi dell'anima, In Hoc vinces (con Bruno Carboniero) e i romanzi Il giorno più bello per incontrarti, Cieli come questo, Per dirmi che sei fuoco, Porpora e Nero. Saggi e articoli di argomento storico e archeologico sono apparsi su varie riviste italiane. Con la Newton Compton ha pubblicato I fantasmi di Roma, I monumenti esoterici d'Italia, Misteri e segreti dei rioni e dei quartieri di Roma, Roma esoterica e misteriosa, 501 domande e risposte sulla storia di Roma.
21/11/21
I resti di Villa Pepoli - Un luogo romano del tutto sconosciuto
A Roma, nascosta dal e al caos cittadino quotidiano, c'è una porta "magica" che conduce in un luogo insolito, dove restano le memorie di antichi fasti, a un passo dalle grandiose Terme di Caracalla.
Via di Villa Pepoli è una strada molto elegante, inclusa nel quartiere di San Saba, uno dei più appartati e suggestivi della Capitale, e alla quale si accede attraverso una vecchia porta rimasta ancora in piedi.
Questa porta, in realtà, era uno degli accessi alla Villa Pepoli (di cui è rimasto il toponimo), anche conosciuta come Vigna Cavalieri, sulla quale insisteva l'antico tracciato della Via Ardeatina, quello all'interno delle mura Aureliane.
La villa apparteneva, fino ai primi del '900 al conte Agostino Pepoli, studioso, collezionista e archeologo, che morì nel 1910.
Villa Pepoli era magnifica: disponeva di un amplissimo parco - sovrastante le Terme - con scorci di paesaggio rurale, tipicamente romano, che dovevano apparire di grande suggestione.
Alla morte del conte Agostino, questa stupenda proprietà fu velocemente dismessa e poi svenduta a privati, con la conseguenza di venire usata per la realizzazione di nuove costruzioni.
Oggi l'ingresso a quanto resta del parco è indicato proprio dall'elegante portale posto all'entrata della via di Villa Pepoli, oltrepassato il quale però si aprono due file di villini quasi tutti realizzati intorno agli anni '20.
E' assai curioso che durante i lavori di costruzione di questi villini non risultano essere emersi resti archeologici - i quali furono invece quasi sicuramente riinterrati - considerando che invece negli anni '50, durante i lavori di scavo per la rete fognaria, vennero alla luce importantissimi resti di antichi edifici di età imperiale, a 2 metri di profondità, decorati con splendide pavimentazioni a mosaico.
I resti più imponenti vennero scoperti più recentemente, nei pressi della odierna via Fabio Cilone.
Gli archeologi si misero al lavoro dunque per trovare anche le pertinenze della famosa Porta Naevia, da cui doveva avere inizio la Via Ardeatina e che doveva trovarsi fra la Chiesa di San Saba e quella di Santa Balbina, che però non è mai stata identificata con esattezza.
Tutta la zona, si è scoperto successivamente, è comunque occupata da sepolture antiche, che culminano in un incredibile mausoleo circolare, ritrovato alla fine di Via Fabio Cilone, datato ad età augustea, che finora non è stato possibile attribuire a nessun personaggio dell'epoca, e che - incredibilmente - oggi è impossibile visitare, essendo stato completamente invaso dalla vegetazione spontanea della zona e dal degrado.
L'edificio fu esplorato per la prima volta nel 1838 dal sacerdote Alessandro Volpi, che ottenne il permesso di scavare nella proprietà della allora Vigna dei Cavalieri.
Il sacerdote si imbatté in un sepolcro enorme, di circa 40 metri di diametro! Con un interno purtroppo completamente spogliato durante i secoli. In quella occasione furono comunque recuperate epigrafi e materiali di spoglio, funerari.
Intorno al Mausoleo più grande, negli scavi successivi furono identificati altri 39 ambienti funerari, una domus, i resti di due strade e l'acquedotto antoniniano.
Purtroppo tutto questo incredibile apparato archeologico è oggi nascosto e inaccessibile ai visitatori.
L'unico auspicio che si può fare è che presto ritorni ad essere fruibile per la città e per la ricostruzione della sua stessa millenaria storia.
Fabrizio Falconi - 2021
(notizie tratte da: Paola Quaranta, La Via Ardeatina nella Villa Pepoli all'Aventino Minore, in Studi Romani, Anno LVIII - NN. 1-4, p.107)
15/11/21
Il mistero della scomparsa di Ettore Majorana - C'è una traccia che porta a Roma ?
La scomparsa di Ettore Majorana è uno dei grandi enigmi irrisolti che ha appassionato a lungo giornalisti e storici. Il geniale fisico catanese infatti, come si sa, scomparve letteralmente nel nulla nel marzo del 1938, dopo aver preso un traghetto della Tirrenia da Napoli a Palermo. Nessuno sa con certezza se giunse mai a destinazione, nessuno sa se mise in opera una geniale messinscena, nessuno sa se si suicidò nelle acque del Tirreno (le ricerche in mare non diedero mai frutti), nessuno sa se – come ha sostenuto il prof. Antonino Zichichi - Majorana, sconvolto da quanto aveva scoperto sull’atomo e preconizzando i disastri che sarebbero provenuti dalle scoperte sull’energia nucleare, non decise di sparire rinchiudendosi in un convento.
In realtà, tra le diverse
piste, la Procura di Roma, che recentemente ha chiuso dopo decenni le indagini,
ha privilegiato quella sudamericana: della scomparsa cioè volontaria del fisico in Venezuela, sotto falsa identità, laddove
la sua presenza sarebbe stata accertata – nella città di Valencia – negli anni
compresi tra il 1955 e il 1959.
Ma l’ipotesi di una
sopravvivenza, sotto falso nome, di Majorana segue anche una pista romana, che
negli ultimi tempi si è arricchita di nuovi particolari.
Secondo un nuovo testimone,
infatti, il grande fisico avrebbe terminato i suoi giorni proprio a Roma, e
nemmeno troppo distante, anzi molto vicino a quell’Istituto di Fisica di via Panisperna
89/a dove insegnava Enrico Fermi e dove si formarono quei geniali ragazzi destinati
a scompaginare la storia della scienza e a far parlare di sé nel mondo intero.
Le ultime tracce di
Majorana, infatti, portano sugli scalini della Università Gregoriana, in piazza
della Pilotta, a pochi passi da Fontana di Trevi.
La testimonianza arriva da
un uomo che asserisce di aver parlato a lungo con quel barbone, incontrato un
giorno del marzo 1981 insieme a monsignor don Di Liegro, fondatore della
Caritas romana (il quale però, essendo scomparso, non può avvalorare la testimonianza).
Secondo il racconto dell’uomo,
il clochard dimostrò di conoscere la soluzione del Teorema di Fermat, un difficilissimo
enigma matematico rimasto irrisolto per quattro secoli, definitivamente sciolto
nel 2000.
Fu proprio monsignor Di
Liegro, racconta il testimone, a confermare l’identità dell’uomo, spiegandogli
che si trattava proprio del grande fisico, il quale, dopo una sosta in un
convento di Napoli, si era trasferito in un altro istituto religioso, nei
pressi di Roma, e da qui si era allontanato, proprio per tornare sui suoi passi, nella zona di Roma cioè dove aveva mosso i
suoi primi passi di brillantissimo fisico.
Di Liegro chiese al
testimone di mantenere il segreto «per almeno quindici anni dopo la mia morte».
E l’uomo decise di
rispettare le volontà del sacerdote.
Vero o falso che sia il
racconto, fa molta impressione ancora oggi immaginare Ettore Majorana nei panni
di un barbone trasandato, tra la folla indifferente, in quella piazza della
Pilotta dove ha sede una delle istituzioni accademiche romane più prestigiose e
in prossimità di quei luoghi dov’era nato il mito dei Ragazzi di via Panisperna.
29/10/21
Qual è stato il primo Teatro costruito a Roma ? E dove si trovava ?
Quando
fu costruito il primo teatro a Roma?
Il primo teatro in muratura a Roma può essere considerato il Teatro di Pompeo, che sorgeva nei pressi dell’attuale Largo Argentina, tra via dei Chiavari e via dei Giubbonari, dove si trova oggi piazza di Grotta Pinta (resti importanti dell’edificio si possono ancora ammirare oggi nei locali dell’Hotel Lunetta), la cui forma richiama quelle della costruzione romana.
Il teatro prese il nome dal console Gneo Pompeo Magno che ne ordinò la costruzione al ritorno dalla sua campagna vittoriosa sui popoli orientali, tra il 60 e il 55 a.C.
Prima di Pompeo, vigeva il divieto di costruire edifici stabili di spettacolo in città. Il console aggirò il divieto facendo apporre sulla sommità della cavea un piccolo tempio dedicato a Venere Vincitrice, cosicché tutta la gradinata del teatro appariva come una grande scala d’accesso al tempio.
Il
teatro aveva dimensioni considerevoli – il diametro era di centocinquanta metri
– e fu il primo passo della grande opera di monumentalizzazione del Campo
Marzio, una zona destinata a diventare di vitale importanza nella vita della
città di Roma.
Tratto da Fabrizio Falconi - 501 domande e risposte sulla storia di Roma - Newton Compton, 2020
27/10/21
Il Palazzo del Monte di Pietà a Roma e l’orologio dalle ore matte
Il Palazzo del Monte di Pietà e
l’orologio dalle ore matte
E’ davvero molto lunga la storia del Palazzo del Monte di Pietà che
affaccia sulla piazza omonima, nel cuore del rione di Regola. Il Palazzo fu
costruito nel 1588 come nobile residenza di un Cardinale, Prospero Santacroce.
E’ soltanto quindici anni più tardi, nel 1603, dopo la morte del Cardinale, che
divenne la sede del Monte dei Pegni fondato nel 1527 da un padre minorita,
Giovanni da Calvi e che era originariamente ospitato in Via dei Coronari.
Per destinarlo alla nuova funzione – che era quella del Monte dei Pegni,
istituita da un gruppo di nobili romani papalini per combattere la piaga
dell’usura – furono necessari lavori di ampliamento del Palazzo Santacroce,
affidati ai più geniali architetti dell’epoca, Carlo Maderno e Francesco
Borromini: il Palazzo fu ingrandito e diviso in due parti, una destinata a
conservare il denaro, e l’altro i pegni che da quel periodo in poi i Romani in
difficoltà economica andavano a piazzare
al Monte.
Tra i numerosi abbellimenti e ornamenti del Palazzo, si provvide nel
Settecento anche a dotare il Palazzo di un grande orologio – uno dei più grandi
di quelli pubblici a Roma – al di sotto del campanile a vela sul frontone.
A quanto pare però, questo orologio monumentale, sin dalla sua
installazione, cominciò a mostrare difetti di funzionamento, con gli orari che
quasi mai coincidevano con gli altri orologi romani.
Una leggenda – probabilmente basata su un fondamento di verità – allora,
spiegò questo malfunzionamento con l’ira di un orologiaio, quello che si era
dedicato alla costruzione del meccanismo, il quale indignato per la somma
ricevuta, ben più bassa rispetto a quanto pattuito, aveva deciso di sabotare il congegno lasciando perfino
la firma del suo dispetto, con una iscrizione incisa sull’orologio stesso: Per non esser state a nostre patte/ orologio
del Monte sempre matte. E cioè, in
pratica: accordi saltati, orario impazzito. Più verità che leggenda visto che
l’iscrizione pare vi fosse realmente e fu cancellata dalle autorità cittadine
in tempi relativamente recenti.
Resta la singolare circostanza che proprio una comune, quotidiana
questione di soldi finì per condizionare e per restare ad emblema – visto che
l’orologio anche ai tempi nostri continua a seguire un suo orario – del Palazzo
che più di ogni altro a Roma è stato ed è il simbolo del denaro.
24/10/21
Cagliostro a Roma: Una incredibile avventura
L’eretico
Conte Cagliostro e il rogo di libri maledetti a Santa Maria Sopra Minerva
Uno dei personaggi più controversi del Settecento fu sicuramente quel Giuseppe Balsamo, palermitano, passato alla storia con il ben più famoso appellativo di Conte di Cagliostro.
La storia di Cagliostro a Roma nasce quando
Giuseppe – alias Alessandro, come scelse di chiamarsi in seguito il sedicente
Conte – sposò Lorenza, la figlia analfabeta e a quanto pare bellissima di un
orafo. Il matrimonio si consumò nel giorno dell’anniversario della fondazione
di Roma – il 21 aprile del 1768 - in una
storica chiesa del rione Regola: San Salvatore in Campo.
Cagliostro all’epoca aveva venticinque anni, ma si era già lasciato alle spalle un passato turbinoso fatto di fughe,
ribellioni, piccole truffe che dalla sua Sicilia lo avevano poi portato, dopo viaggi
avventurosi, a Roma. Qui l’intraprendente giovane aveva aperto una
fiorente bottega di falsario (i documenti erano la sua specializzazione) al
Vicolo delle Grotte, sempre in quel quartiere della Regola, a due passi da Via
dei Giubbonari.
A Roma, il
futuro Conte di Cagliostro non si fece certo passare inosservato: venne arrestato
per una rissa scoppiata in una taberna al Pantheon, e dopo qualche giorno venne rilasciato
soltanto grazie all’interessamento di un amico che svolgeva le mansioni di
maggiordomo in una delle case più importanti di Roma, quella abitata dal
Cardinale Orsini
Lorenza e Giuseppe, sposandosi, stipularono una
specie di patto di sangue che li portò nel giro di un trentennio a sconquassare le nobili corti di mezza
Europa: lui imbastendo improbabili traffici, stregonerie, guarigioni
miracolose, pseudo artifici alchemici,
riti esoterici, che gli guadagnarono la fama del più grande furfante del
secolo, lei mettendo a disposizione le sue arti amatorie per sedurre e
ammorbidire mecenati, conti (veri) e marchesi, ricchi gentiluomini, e farli
diventare strumenti in mano all’ingegnoso e mai domo marito. E ciò ovunque: nel
nord Italia – a Bergamo vengono arrestati e poi rilasciati – in Francia, Spagna, a Lisbona, Londra, e ancora in Francia,
Belgio, Germania, Malta, Olanda, Lettonia, San Pietroburgo. Non c’è angolo della
vecchia Europa che non li veda protagonisti di qualche intrigo, di qualche
teatrale messinscena, di qualche fuga rocambolesca, magari seguita ad un
arresto, di qualche scandalo sessuale.
Giuseppe,
chimico e ipnotizzatore, inventore e alchimista, trasforma anche la sua
identità: comincia a farsi chiamare Alessandro e si inventa il titolo di Conte
di Cagliostro. Conosce le grandi personalità del secolo, da Casanova ai sovrani
di Francia e di Russia, si mette in testa anche l’idea di fondare un nuovo rito
massonico egizio che pretende addirittura sia riconosciuto dal papa, organizza
la clamorosa truffa della collana ai danni della Regina Maria Antonietta,
finisce nuovamente in carcere, alla Bastiglia, quattro anni prima della
Rivoluzione Francese, da cui riesce ad uscire grazie all’intervento dei
migliori avvocati del Paese che perorano la sua causa presso il Parlamento.
Ma anche dalla Bastiglia, Cagliostro riesce a
fuggire. Ripara a Londra, e per la prima volta Lorenza comincia a prendere le
distanze da quell’uomo impossibile, fosco e tiranno.
Qualche anno più tardi, quando Giuseppe si presenta
di nuovo a Roma con un prezioso salvacondotto predisposto per lui dal potente
principe di Trento, Pietro Virgilio Thun, il vero scopo di Cagliostro è quello
di ottenere udienza dal papa e di riuscire nell’intento folle di ottenere il
suo riconoscimento dell’ordine egizio da lui fondato.
A Roma comunque Cagliostro ricevette la massima attenzione
dai circoli massonici dell’epoca (frequentati in gran parte da diplomatici
stranieri) e in particolare dai Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme che
avevano la loro sede a Villa Malta, nell’odierno quartiere pinciano.
A Villa Malta Cagliostro diede spettacolo:
organizzando sedute massoniche, dando prova delle sue doti di medium e di
veggente, convertendo nuovi adepti al neo ordine da lui fondato.
Questi movimenti però non passarono inosservati agli
emissari della Inquisizione, nei cui ambienti si sospettava fortemente che
Cagliostro fosse un agente segreto (o un commissario mandato dagli Illuminati
di Weishaupt) inviato nella capitale per sobillare le migliaia di massoni che,
nascosti, attendevano un segnale per ribellarsi al potere papale.
Non contento, nello studio del pittore francese
Augustin Belle, Cagliostro allestì una specie di tempio della sua nuova
religione: una stanza completamente ricoperta di drappi neri, e ornata di
colonne e simboli massonici, nella quale venivano compiuti i riti di
iniziazione.
Ed è a questo punto della vicenda, nel settembre del
1789, quando il conte si sente ormai spiato e seguito ovunque, che Lorenza
rompe gli indugi e lo denuncia ad un chierico, parroco della chiesa di Santa
Caterina della Rota, a due passi dalla sua casa avita.
La denuncia viene immediatamente spedita al temibile
Sant’Uffizio. Lorenza, in un estremo empito di pentimento si rifiuta di
firmarla, ma ormai è troppo tardi; le autorità pontificie hanno già deciso la
sorte del Conte: bisogna mettere fine alla sua pericolosa intraprendenza, alle
sue scandalose e oscure trame.
Il 27 dicembre di quell’anno il Papa (Pio VI) firmò l’istanza
speciale per l’arresto di Cagliostro e un manipolo di soldati pontifici fece
irruzione negli alloggi del pittore Belle e prese il Conte in flagranza di
reato, incatenandolo e portandolo a Castel Sant’Angelo.
Le accuse contenute dalla denuncia della moglie e
quelle derivate dagli stessi scritti del Conte, sequestrati, oltre che le
delazioni dei molti nemici, causarono al Conte l’imputazione per reati
gravissimi che andavano dall’eresia alla pratica di magia nera, al falso contro
la Chiesa.
Per scongiurare il pericolo di una nuova fuga, venne
raddoppiata la guardia alle segrete di Castel Sant’Angelo, dove Cagliostro era
detenuto in totale isolamento.
Nel processo di fronte al Sant’Uffizio l’imputato
viene anche coinvolto in dispute teologiche delle quali egli non poteva minimamente
disquisire.
Cagliostro fu interrogato, nel corso di un anno, per
ben quarantatre volte e torturato a fuoco dagli inquisitori.
La sua rovina era ormai completa, e il Conte cercò di
difendersi in ogni modo riversando ogni
colpa sulla moglie, e sui suoi costumi licenziosi, e giunse fino al punto di scrivere
direttamente al Papa, negando ogni accusa di massoneria e chiedendo la
grazia.
Ma la sentenza, pronunciata il 21 marzo 1791 fu di
colpevolezza, con la pena prescritta per eretici, eresiarchi e maestri di magia
nera, ovvero il rogo.
Pio VI però, per evitare di trasformare il truffatore
in un martire, decise di trasformare la sentenza di morte in ergastolo. Il frate cappuccino Fra’ Giuseppe di San
Maurizio, ritenuto corresponsabile (si era fatto convincere ad aderire alla
società massonica dal Conte) viene condannato a dieci anni, mentre una
assoluzione piena viene dispensata a Lorenza, la cui testimonianza è stata
decisiva per l’arresto e la condanna del furfante.
I documenti del processo però sono rimasti segreti per
secoli e gli archivi del Vaticano non hanno mai messo a disposizione i
documenti: quel che sembra certo è che il Conte arrivò anche a confessare un
incontro segreto con gli Illuminati di Weishaupt allo scopo di convertire la
massoneria francese alla nuova causa.
Per umiliare in pubblico Cagliostro, fu deciso di
costringere il condannato a camminare scalzo e con abiti laceri, tenendo una
candela tra le mani, tra due file di monaci, lungo le vie di Roma, da Castel
Sant’Angelo e fino a Santa Maria sopra Minerva, la chiesa sorta sui resti del
tempio romano dedicato ad Iside. Giunto
nel sacro edificio, Cagliostro fu obbligato ad inginocchiarsi di fronte
all’altare e a rendere pubblica abiura delle sue eresie.
Poi, in piazza, proprio di fronte all’Obelisco – il
cosiddetto Pulcino della Minerva – fu
dato alle fiamme il manoscritto di Cagliostro, nel quale enunciava i principi
del suo nuovo Ordine, gli altri testi (andati perduti) e tutti gli emblemi
massonici sequestrati nel Tempio del
pittore Belle.
Questo rito fu particolarmente simbolico: l’Ordine di
Cagliostro, tutto fondato sui crismi della sapienza massonica egizia, veniva
eloquentemente distrutto proprio nel luogo di Roma che ricordava più da vicino
i contenuti del paganesimo orientale-egizio.
Dopo l’umiliazione pubblica, il Conte venne
trasferito a piedi (e al buio, temendo che la presenza del noto prigioniero
fosse notata da qualcuno), nella fortezza di San Leo, in cima alle montagne di
Montefeltro, la prigione più malfamata d’Italia, dove i detenuti si diceva
impazzissero: la cella a lui destinata fu il terribile Pozzetto, un cilindro di
pietra sprovvisto di porta (il detenuto venne calato da una fessura in alto),
con una sola misera feritoia e un nudo letto di paglia.
Qui, in questa oscura e spaventosa prigionia,
Cagliostro trascorse gli ultimi cinque anni di vita, in un alternarsi di crisi
mistiche ed estatiche (durante le quali finirà perfino nel credersi un santo,
mandato sulla Terra per convertire gli infedeli), deliri disperati, e una
febbrile attività di pittura delle pareti della sua stessa cella, con immagini
sacre, e autoritratti.
Nel giugno del 1795 riuscì a diffondere il suo ultimo
annuncio profetico: “Sarò l’ultima vittima dell’Inquisizione, perché quando
raggiungerò l’aldilà pregherò talmente tanto che su questa terra ci sarà un
nuovo Ordine.”
Morì il 26 agosto del
Quel che la leggenda tramanda è che nel dicembre del
1797 la fortezza di San Leo fu occupata dai soldati della legione polacca della
repubblica cisalpina di Napoleone. Liberati tutti i prigionieri, i soldati si
misero alla ricerca della sepoltura di Cagliostro, la cui fama continuava a
propagarsi in tutta Europa, anche post-mortem,
e trovato il suo teschio, lo usarono
come coppa per bere il vino.
Qualche tempo dopo, quando le truppe francesi del
generale Massena fecero irruzione a Roma, a Castel Sant’Angelo scoprirono un
misterioso manoscritto sequestrato a Cagliostro il giorno del suo arresto: un
prezioso testo, decifrato nel XX secolo che conteneva e descriveva un rituale
autentico della Confraternita dei Rosacroce, opera si disse, del Conte di
Saint-Germain, pieno di riferimenti alchimistici e cabalistici.
Circostanza che alimentò a lungo la fama oscura del Conte e la leggenda del suo fantasma: di Cagliostro si continuerà a sostenere per decenni che il Pozzetto di San Leo non fu affatto la sua ultima dimora terrena, e che egli invece, riuscito a fuggire travestendosi con il saio del frate, venuto per confessarlo e ucciso a mani nude, continuò ad imperversare a lungo, sotto mentite spoglie, nelle corti nobili di Roma. Ma di questo, ovviamente non v’è alcuna prova documentale.
Tratto da Fabrizio Falconi - Roma Segreta e Misteriosa, Newton Compton, 2015
28/09/21
Libro del Giorno: "Ponte Milvio 312 d.C." di Ross Cowan
23/09/21
Quella volta che Pasolini perse le staffe e si scatenò la rissa
16/08/21
Uno dei caffè più famosi di Roma, "Il Cigno" di Viale Parioli, in una memorabile scena de "I Mostri" di Dino Risi
15/08/21
Ferragosto del 1503 a Roma: la macabra inumazione di Papa Borgia
In una collezione di personaggi famosi maledetti a Roma – intorno ai quali sono
sorti racconti di apparizioni post-mortem – non potevano e non possono mancare i
rappresentanti della famiglia Borgia, o meglio Borja come sarebbe più corretto chiamarli visto che Rodrigo de
Borja (quarto papa spagnolo della storia) eletto al soglio pontificio col nome
di Alessandro VI, apparteneva come lo zio, Callisto III (al secolo Alonso de
Borja) ad una potente famiglia originaria di Xàtiva, a
Non è certo questa la sede per
approfondire i contorni di una vicenda umana e politico/ecclesiastica – quella
di Alessandro VI destinata a segnare,
insieme ai figli, Cesare e Lucrezia, nel
bene e nel male – ma soprattutto nel male, anche se oggi non mancano tentativi
di riabilitazione del personaggio – la storia della Chiesa di Roma.
Ci limiteremo quindi a qualche breve
cenno, soffermandoci soprattutto sui particolari misteriosi della morte e su
quel che avvenne dopo.
Eletto cardinale giovanissimo, a
venticinque anni, grazie ai potenti influssi dello zio, Papa Callisto III,
Rodrigo fu eletto papa nella notte tra il 10 e l’11 agosto del 1492 (due mesi
esatti prima della scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo) ,
quando aveva già 61 anni.
All’epoca della sua elezione, Rodrigo era
già un personaggio leggendario, a Roma. Dissoluto e libertino, asservito in
ogni modo ai piaceri della carne, il futuro Papa aveva già messo al mondo una
schiera di figli, tutti illegittimi, e – cosa ancora più grave per un
ecclesiastico, ma certamente non rara all’epoca – si era disinvoltamente
prestato alla simonia, cioè alla compravendita di cariche ecclesiastiche e
della pratica delle indulgenze e delle assoluzioni. Queste cattive
abitudini peggiorarono, anziché migliorare, una volta ottenuta la nomina
papale. Ebbe altri due figli illegittimi
dall’amante, ed esercitò uno spietato nepotismo per garantire ogni sorta di
immunità e di potere per il figlio Cesare, detto Il Valentino, uomo
particolarmente avido, violento e senza scrupoli, al quale il padre costruì un
regno su misura, permettendogli la conquista di città e signorie in Italia, con
l’aiuto perfino del nemico storico
del papato, l’imperatore Carlo VIII
di Francia.
In questo modo Rodrigo-Alessandro VI
riuscì nell’intento di farsi odiare dal popolo di Roma – arringato dalle piazzate del frate domenicano Girolamo
Savonarola, che per la sua pubblica denuncia
finì per essere arso vivo a Firenze nel 1498 - e dalla corte dei nobili che non vedevano
l’ora di sbarazzarsi di un despota di tali dimensioni, sfacciatamente arrogante
nella esibizione del lusso e della corruzione, adottata come lingua ufficiale
dello Stato, e usata soprattutto per favorire la parte spagnola della corte
papale.
Odio e maldicenza nei confronti del Papa
si trasmettevano inevitabilmente anche ai suoi figli, soprattutto a Cesare e a
Lucrezia, sul conto della quale – nata a Subiaco nel 1480 dalla relazione
clandestina di Rodrigo con Vannozza
Cattanei – cominciò a circolare ogni sorta di leggenda nera, compresa
quella che la vedeva protagonista di vere e proprie orge incestuose,
insieme al padre e al fratello.
In realtà molti testi recenti hanno
riabilitato la figura di Lucrezia, delineando la figura di una donna più
vittima degli eventi che realmente depravata: andata in matrimonio a soli
tredici anni a un Conte, e dichiarato il
matrimonio nullo, Lucrezia si sposò a diciotto con Alfonso, figlio del re di
Napoli. Alfonso fu brutalmente ucciso per ordine di Cesare Borgia, forse geloso
della sorella, o forse semplicemente desideroso di utilizzare nuovamente
Lucrezia come pedina di scambio per i suoi desideri di conquista: cosa che
puntualmente avvenne con un terzo matrimonio, stavolta con Alfonso I d’Este. Il
terzo matrimonio fu anche l’ultimo: Lucrezia morì a Ferrara, a soli 39 anni di
età, per una febbre infettiva.
Il grande caos messo in piedi da
Alessandro VI, e dalla sua dissoluta famiglia, come si vede, autorizzava
pienamente i nemici a tentare di escogitare ogni mezzo possibile per liberarsi
del papa-tiranno.
Ciò che alimentò per molto tempo, e per i
secoli a venire – anche se oggi la circostanza è oggetto di forte discussione
tra gli storici - la voce che la fine stessa del Papa fosse dovuta ad un
avvelenamento. Un avvelenamento che in realtà era stato, secondo il racconto,
organizzato dallo stesso Alessandro VI ai danni di un cardinale nemico, durante
un convivio, ma che per errore aveva finito per ritorcersi contro lo stesso
Papa, e contro il figlio Cesare (miracolosamente sopravvissuto) per un banale
scambio di calici.
Avvelenamento che fosse – o semplice
malaria come si sospetta oggi – il Papa cadde malato l’11 agosto del 1503. L’11 doveva essere il suo numero fatale: l’11
agosto, infatti era stato eletto, 11 agosto il giorno della malattia letale, e
11 anni esatti, dunque, la durata del suo Regno pontificio.
La
malattia del Papa tiranno, come raccontano le cronache dell’epoca, assunse da
subito contorni macabri: vi fu chi
affermò recisamente di aver visto distintamente sette dèmoni in guisa di
scimmie nere appollaiate di guardia nel
soffitto della camera dove Alessandro moriva, mentre nel delirio invocava
proprio il Principe delle Tenebre, il Maligno, affinché – in ossequio al patto
maledetto contratto all’epoca della sua elezione - gli consentisse di regnare ancora per qualche
anno, e di sopravvivere alla terribile congestione. L’appello, a quanto pare
non venne ascoltato, non solo: i servitori del Papa, i funzionari di curia,
perfino le suore che lo accudivano – secondo il racconto del cronachista Jacopo
da Volterra – abbandonarono in fretta e furia il papa agonizzante, nel terrore
certo che i dèmoni sarebbero presto giunti a impossessarsi dell’anima del
defunto.
Il corpo di Alessandro VI andò così in
fretta incontro ad una spaventosa putrefazione, al punto tale che i falegnami
dovettero incassarlo a calci e martellate per come e quanto si era gonfiato, si
trattava insomma del « più orribile e mostruoso corpo di defunto mai visto. Un
cadavere talmente deforme che non aveva più figura umana » come annotò il
diplomatico veneziano Antonio Giustiniani nel suo resoconto ufficiale (1) .
Ora, se è pur certo che molti di questi
particolari furono alimentati necessariamente dall’alone macabro che circondava
la figura di Alessandro, resta il fatto che le circostanze della sua inumazione
furono particolari, se non altro per il fatto che si svolsero nel caldo torrido
di ferragosto: il cadavere del Papa, esposto parzialmente (soltanto i piedi,
per l’adorazione dei fedeli) dietro l’inferriata del coro, cominciò ben presto
a puzzare orribilmente. Cosa che
consigliò l’immediata inumazione che fu celebrata a mezzanotte (!) nella
Rotonda degli Spagnoli (l’antica cappella che fiancheggiava la vecchia Basilica
di San Pietro, che venne distrutta nei lavori di riedificazione della
Cupola).
Narrare le peripezie del sepolcro dei
Borgia – di quello di Alessandro che poi divenne anche quello di suo figlio,
Cesare – sarebbe impresa ardua: basti dire che per quattro secoli queste
spoglie non trovarono mai pace, più volte violate, riassemblate in casse
comuni, trasportate da un luogo all’altro fino all’ultima destinazione, la
chiesa di Santa Maria di Via Monserrato, alle spalle di Via Giulia, dove furono
inumate nel 1881 e dove ancora si trovano, nella prima cappella dal lato
dell’Epistola.
E proprio questo luogo, o meglio questa
antica zona di Roma è teatro delle apparizioni del fantasma di Rodrigo de
Borja: per molti anni, le spoglie dei
Borgia giacquero nella chiesa del tutto dimenticate, ragione per cui non fu
facile mettere in relazione quella misteriosa apparizione di un uomo avvolto da
una tunica rossa e dal viso deforme più volte segnalata da terrorizzati
passanti che ne riferivano l’incontro a notte fonda nei vicoli intorno a Piazza
Farnese, in Via Giulia o lungo il Ponte Sisto.
Quando dei Borja si ricominciò a parlare
- anche per via della riabilitazione
storica che qualche studioso ne tentò, e per l’interesse suscitato dagli
spagnoli che vivevano a Roma, e che erano desiderosi di visitare quelle spoglie
di cui nemmeno i diretti discendenti (i conti di Gandìa) avevano voluto
occuparsi – fu naturale mettere in relazione la leggenda del terrorizzante
fantasma che agitava le notti romane con il Papa dissoluto le cui ossa più
volte profanate giacevano nella Chiesa di Santa Maria in Monserrato, denominata degli Spagnoli.
La leggenda nera dei Borja o dei Borgia,
non poteva poi coinvolgere anche la bella Lucrezia. Anche il fantasma di colei
che aveva soggiogato principi e regnanti, e che così infelicemente si era
prestata alle oscure trame famigliari, infatti ha trovato il modo di
manifestarsi più volte nella storia: in
particolare un pianto accorato sembra che sia il segnale che del fantasma di
Lucrezia Borgia è possibile ascoltare passando sotto il vecchio Forte di Nepi,
una cittadina non lontano da Roma, in provincia di Viterbo. Di Nepi, Lucrezia divenne in vita Signora
grazie ad una solenne cerimonia che si svolse nel 1499, e durante le quali le
furono affidate le chiavi della città.
Per Lucrezia, il padre Rodrigo fece costruire, alla confluenza di due torrenti,
quella grandiosa Rocca, negli appartamenti della quale, la ragazza riuscì a
vivere però – insieme allo sposo Alfonso – soltanto per un anno, prima che come
abbiamo detto i sicari di Cesare non la resero vedova.
Ed è nelle sale e nei giardini di questo
castello, a quanto pare, che il fantasma di Lucrezia ancora non ha smesso di
cercare pace.
24/06/21
Tilda Swinton: "Pasolini un poeta politico senza tempo"
22/06/21
L'incredibile ritrovamento di un Rembrandt a Roma
Scoprire in modo inaspettato la mano di uno degli artisti più celebrati della storia in un dipinto rimasto sconosciuto per secoli, mettere insieme come un puzzle ogni piu' piccolo indizio, riuscendo infine a vedere il momento ideativo dell'opera d'arte nell'attimo prezioso in cui ha preso forma: una storia appassionante e miracolosa, frutto della felice unione di casualita' fortunate, intuito e scienza, quella al centro del simposio "Rembrandt: individuare il prototipo, vedere l'invisibile", che si è tenuto a Roma all'Accademia di Francia di Villa Medici, promosso dalla Fondazione Patrimonio Italia.
05/06/21
La bellissima e misconosciuta Giovanna d'Arco nei giardini dell'Aventino
In un giardino pubblico appartato all'Aventino a Roma, tra la Basilica di Santa Sabina e quella di Sant'Alessio c'è, tra due giovani alberi una preziosa scultura che passa del tutto inosservata e che ritrae Giovanna d'Arco, soggetto piuttosto poco rappresentato nella capitale.
La firma dell'autore di questa scultura dallo stile inconfondibilmente liberty è ben visibile alla base del piedistallo (sulla destra) ed è del francese Maxime Real del Sarte.
Chi era costui?
Nato a Parigi nel 1888, Maxime Real del Sarte fu personaggio poliedrico che nella prima metà del Novecento raccolse una certa celebrità sia come artista-scultore, sia come politico.
Era nato in una famiglia di artisti: figlio di uno scultore, Louis Desire Real e di Magdeleine Real del Sarte, cugino della pittrice Thérèse Geraldy, e perfino imparentato con il compositore Georges Bizet.
Del Sarte si laureò alla École des Beaux-Arts e prese parte alla prima e alla seconda guerra mondiale; nel 1916, a seguito dei combattimenti in cui si trovò coinvolto, gli fu amputato un braccio, il sinistro, come si vede anche da questa foto d'epoca.
Per le sue opere, realizzate usando soltanto il braccio destro, nel 1921, vinse il Grand Prix national des Beaux-Arts.
Realizzò oltre cinquanta medaglie per le onorificenze di guerra e anche varie statue di Giovanna d'Arco, tra cui quella all'Aventino.
In politica militò nell'Action française, vicino alle posizioni monarchiche di Charles Maurras, Léon Daudet, Jacques Bainville, Maurice Pujo, Henri Vaugeois e Léon de Montesquiou.
Era un devoto e fervente Cattolico romano e un profondo ammiratore di Giovanna d'Arco, fondando in suo onore l'associazione "Les Compagnons de Jeanne d'Arc".
Morì a Saint-Jean-de-Luz il 15 febbraio 1954.
Fabrizio Falconi - (foto realizzate dall'autore)