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25/02/19

Libro del Giorno: "L'occhio del monaco" di Cees Nooteboom.




Una delle ultime uscite della bianca di Einaudi è la più recente raccolta del grande scrittore olandese, Cees Nooteboomnato a L'Aja nel 1933, pubblicata in nederlandese nel 2017. 

Si tratta di 33 componimenti senza titolo di eguale forma e struttura (tre strofe di quattro versi ciascuna e un verso di epilogo/chiusura), magistralmente tradotti da Fulvio Ferrari.

Come spiega in una breve nota a fine testo lo stesso Nooteboom, questi componimenti hanno tratto ispirazione da un luogo: l'isola di Schiermonnikoog, che in nederlandese significa "isola dei monaci grigi" e che fa parte del gruppo delle isole Frisone Occidentali, di fronte alle coste olandesi. 

E di sabbia, mare, onde, conchiglie, fari, e soprattutto dei relitti e dei resti portati dalle mareggiate parlano queste poesie, formalmente impeccabili, oltre che dei temi che più stanno a cuore a Nooteboom: la presenza dei morti, la loro presenza e voce ingombrante; della memoria e dell'oblio; delle donne che hanno attraversato la vita del poeta; infine della domanda trascendente che sempre ritorna come il mormorio del mare sul quale si chiude la raccolta. 

Poesia tersa e magnifica, dove l'estrema figura della natura - il mare con il suo orizzonte - dialoga incessantemente con le cose degli uomini e con le loro infinite domande senza risposta.

Fabrizio Falconi





17/02/19

Poesia della Domenica: "La canzone della malinconia" di Friedrich Nietzsche da "Così parlò Zarathustra".




La canzone della malinconia

Quando la luce schiara,
e quando la rugiada il suo ristoro
sopra la terra piove;
invisibile, ed anche non udibile,
perché tènere scarpe porta ai piedi
quella ristoratrice come tutti
coloro che ristorano: pensa, mio caldo cuore,
come un giorno sitivi,
avevi sete di celesti lacrime
e di rugiada, combattuto e stanco,
mentre su erbosi sentieri giallastri
intorno a te, attraverso alberi neri,
maligni raggi a sera trascorrevano,
sguardi accecanti dell'occhio solare?

'Tu innamorato della verità?' e ridevano;
'No! Sei solo un poeta!
Un animale, lento, predatore,
che vuol mentire,
deve sapendo e volendo mentire:
cercare prede,
dipinto e mascherato,
di se stesso una larva,
e di se stesso preda.
Innamorato della verità?
No! Solo un pazzo! Soltanto un poeta!
Che parla per immagini,
da folli larve esalando i suoi gridi,
vien giù su ponti fatui di parole,
giù lungo variopinti arcobaleni,
tra falsi cieli
e false terre,
vagabondo vagante,
è solo un pazzo! Soltanto un poeta!

Innamorato della verità?
Non calmo, ma immoto, freddo e lucido,
divenuto una statua,
divina colonna,
non posto in faccia ai templi,
sentinella di un dio:
no! ma ostile egli a questi monumenti
del vero, in ogni selva più che in templi
di casa,-pieno di felino slancio,
sgattaiolante dentro ogni finestra,
dentro ogni caso,
frugante ogni foresta
primordiale appassionatamente,
onde tu nelle selve
primordiali tra variopinte belve
correvi sano e bello e peccatore,
con le labbra bramose,
sanguinano infernale ed irrisore,
correvi, insidiatore e rapitore:

oppure come l'aquila che lunghi, lunghi
sguardi configge nell'abisso,
nei precipizi suoi:
oh, com'esse laggiù,
sempre più laggiù in basso,
in sempre più profondi abissi volgono!
Poi,
d'un tratto, a capofitto
con istintivo volo,
si gettan sugli agnelli,
di colpo, affamate,
bramose degli agnelli,
terribili per le anime di agnello,
terribili per tutto ciò che ha occhi
pecorili, lanosi, occhi d'agnello,
grigi, benevoli occhi dell'agnello!

Così
aquilee e come di pantera
sono le bramosie del poeta,
i desideri tuoi fra mille larve,
tu pazzo! Tu poeta!

Tu che guardavi agli uomini,
pecora insieme e Dio:
strappare Iddio nell'uomo,
la pecora nell'uomo,
e ridere strappando:
questa, questa è la tua felicità!
Felicità d'aquila e di pantera!
Felicità di un poeta e di un pazzo!'

Quando l'aria si schiara,
la falce della luna
verde tra rossi fuochi
invidiosà vien fuori:
nemica del giorno,
furtiva ad ogni passo
su cascate di rose
falciando, finché cadono,
cadono a notte pallide spioventi:

così io stesso caddi un giorno giù
dalla follia della mia verità,
dall'ansia del mio giorno,
stanco del giorno, malato di luce;
discesi verso la sera e l'ombra:
solo, arso ed assetato
dell'Una Verità:
ricordi ancora, o caldo cuore tu,
qual sete avevi?
Ch'io sia dunque bandito
da ogni verità,
solo un pazzo!
Un poeta!



Friedrich Nietzsche 
tratto da: "Così parlò Zarathustra", parte Quarta, Il canto della Malinconia, 3. 

01/02/19

Una rara intervista a Pasquale Panella il poeta autore dei testi degli ultimi 5 album in studio di Lucio Battisti.






A beneficio degli appassionati e non pubblico in questo blog una delle rarissime (e più complete) interviste realizzate a Pasquale Panella, poeta romano, autore dei testi degli ultimi 5 album in studio di Lucio Battisti,  da Don Giovanni a Hegel che conclusero la sua esperienza artistica e costituiscono ancora oggi un corpus eccentrico e affascinante. 

LE CANZONI SONO SOLO VAPORI
(primavera 2000)
Il vate aveva accettato di incontrarmi, ma ho preferito telefonargli. Sapevo già che è al telefono che dà il suo meglio. Leggendario, diluviante, Panella vive con il telefono appiccicato all’orecchio, e soprattutto alla bocca. Forse perché (tranne una recente acquisizione) non ha mai avuto uno stereo, e il telefono è un buon modo per ascoltare qualcosa, soprattutto se stesso. Forse perché come Elias Canetti ha subìto (o prodotto) l’autodafé dell’immensa biblioteca della sua cultura, optando per la comunicazione orale. Forse perché è un autore-attore senza spettacoli, se non quelli che telefona tutti i giorni alle sue incantate vittime. Perché le parole sono milioni e lui ha bisogno di pronunciarle tutte, articolandole nella sintassi del paradosso e del nonsense. Forse anche perché disprezza i cantanti (cioè gli autori), e preferisce al limite i giornalisti, purché le sciocchezze che scrivono possa firmarle un genio, per ribaltarne il senso. Lui stesso, paroliere per caso, firma quello che gli fuoriesce dalla macchina da scrivere, come in un incubo del suo amato Burroughs. Non parla mai di quello che fa, e nemmeno di quel che si fa, o si fa fare. Parla del linguaggio, provando sempre a soffocarlo nelle sue stesse spire.

Parlare con lui di Lucio Battisti, come avrei voluto fare, è stato molto illuminante. Perché Panella di Battisti non racconta quasi niente, ma quello che non dice è molto più di racconto. E’ il mistero della medietà, caratteristica intrinseca delle canzoni, ma anche delle persone.

Ho dimenticato, con lui, di provare a pronunciare la parola genio. Ma, proprio per questo, dalla nostra conversazione tale parola brilla di luce intensa per la sua assenza. In fondo il genio è un vapore della medietà, la capacità di trovare quello che neppure si cerca, come diceva Picasso. Di trovare ovvie le cose meno ovvie e così, genialmente, scoprirle. O meglio ancora (si fa prima) crearle ex novo. Dal vapore, dal nulla.
La chiamo per parlare con lei degli autori di canzoni.
Non ci sono autori, ci sono solo cantanti. Quelli che si dicono autori sono autori solo di quello che ascoltano: dunque sono cantanti. I cantanti sono sempre qualcosa di meno.
Eppure lei esordì come autore di testi con Enzo Carella, che cantò Barbara, vincendo un secondo posto al Festival di Sanremo del 1979.
I cantanti sono parecchi. Enzo Carella è il meno parecchio di tutti, ovviamente perché è il primo, e come in tutte le cose la prima è sempre quella buona. Con Carella si è fatto tutto. Proprio ieri ho chiesto di darmi quelle vecchie registrazioni, che non ho mai avuto, perché non avevo uno stereo, solo oggi ho un lettore Cd. Sto chiudendo un periodo, un periodo blu. Non come Picasso, imitativamente, ma chiudo il mio periodo blu per entrare in quello rosa, il colore della cattiveria e della crudeltà. Non è vero che è un colore tenero, non è il colore dell’incarnato. Basta prendere un rosa e metterlo sull’ovale di un viso, e si vedrà che non è quello il colore della carne.
Ma lei ascolta canzoni?
Sento tanti provini, ma i cantanti, così come le persone, son tutti un po’ uguali.
Anche Lucio Battisti era un cantante?
Credo che così lo si privi della sua definizione assolutamente guadagnata nel tempo, del suo essere di meno ma non solo.
Quel “non solo” è un di più?
No, i cantanti sono sempre un di meno, perché son baciati dagli angeli. Ci sono molti parrucchieri che si chiamano Angelo.
Come iniziò e come finì tra lei e Battisti?
Per quel che mi riguarda inizia come finisce, cioè forzatamente. Parliamoci chiaro: parlando di canzoni io non sono affatto adeguato. Per me scrivere le canzoni è come fare le rapine. C’è un mondo abbastanza imbecille da farsi uscire i soldi dalle tasche, senza nemmeno dover andar lì a mano armata. Io che nella vita non ho fatto altro che pensare a scrivere, anzi non ho fatto altro che non pensare a scrivere, so che basta appoggiare la mano sui tasti della macchina da scrivere, come si fa su quelli di un pianoforte, e fai uscire quattro parole. Ma se ciò non è preceduto da una continua elaborazione della scrittura precedente, non esiste scrivere. A me della canzone non me ne è mai importato nulla. Mi sono avvicinato alla canzone giusto per ascoltare quattro dischi, quelli che facevo, magari nemmeno a casa ma in in studio di registrazione, mentre si elaborava. Oggi sono molto annoiato, perfino dall’ascolto di me stesso. Già a quel tempo, per me, scrivere era scrivere al di là di una destinazione, era scrivere in prosa. Capitavano queste occasioni abbastanza lucrose, e quindi lo facevo. Pur senza competenza di quello che la produzione musicale italiana è o non è, mi è sempre parsa un’attività abbastanza cretina. Mi vergognavo un pochino che il mio nome apparisse, usavo pseudonimi, poi sfuggiva perché il mondo della musica leggera è molto ciarliero. Ma è stato per me un mondo anche molto affabile, gentile, affettuoso.
Anche i cantanti sono dunque un po’ angeli, come i parrucchieri.
Dicendo “i cantanti” libero queste creature di tutte le scaglie imprenditoriali che le ricoprono. Quando diventano imprenditori sono invece abbastanza ributtanti. Ma è bello vedere un cantante che, nell’esercizio delle sue funzioni, risolve dei passaggi, trova il suo momento di voce.
Mentre registrava a Londra i dischi delle canzoni scritte con lei, spesso Battisti le telefonava. Cosa le chiedeva?
Più che chiedere mi faceva ascoltare delle cose.
Le chiedeva modifiche ai suoi testi?
No, a volte capitava che gli proponessi dei tagli. Io preferivo abbondare, però lo avvertivo: fa’ ‘na cosa, vedi tu quello che più ti occorre. A volte capitava non che fossero tagliati di botto, ma che alcune parti fossero restituite frammentariamente.
Con Mogol, Battisti preferiva modificare la propria melodia piuttosto che intervenire sulla lunghezza o sulla metrica dei versi. Faceva così anche con i suoi testi?
Come no, sempre. Salvo in casi rari, quando io stesso gli proponevo delle varianti, delle frammentazioni. Battisti lavorava moltissimo sulla melodia.
Si dice che lei e Battisti vi sentivate al telefono ogni giorno.
Anche più di una volta al giorno.
E cosa vi dicevate?
Di tutto, qualche volta era anche finalizzato alle canzoni. Poi a volte anche le chiacchiere potevano essere utili.
Sembravate avere in comune una vocazione scientifica. Lucio Battisti sapeva riparare tutti gli oggetti meccanici, lei li metteva in versi.
Scrivere significa avere tutte le vocazioni, e dibattersi perfino nella sconoscenza.
Ma perché ci sono tutte quelle macchine, e tutte quelle macchinazioni, nei suoi testi scritti per Battisti?
Perché se fossi vissuto in altri tempi avrei parlato di cose occorrenti nel passato. La canzone in fondo è molto legata a tutto questo che si muove, vive un po’ di questa sua prima ambizione che è il movimento. Ecco perché nelle canzoni si vola sempre, il primo referente dinamico e primordiale è quello, e nella canzone generalmente è teorico. Come in Freud, è l’anelito del mancante. Se uno parla del volo o è perché vive tutti i giorni su un aereo, o è perché si sta frustrando. Non è che io perda tutta la notte per dire solo “io volo”, come scrissi in un pezzo. Perché più astutamente osservavo la frustrazione che a loro veniva, cantanti e autori, mettendo il volo dovunque. La canzone è ingenua, una da poco arrivata, una parvenue. Anche questo sposalizio di interessi tra la parola e la musica… parola e musica non hanno niente a che vedere tra di loro, la canzone esiste per puro amore dell’orrido. Le più sopportabili sono le canzoni di tipo comportamentale, dove la musica è solo un’enfatizzazione dei toni espressivi. Quelle dove ad una splendida musica corrisponde una splendida falsità testuale sono le migliori, le canzoni stupide-belle, dove l’interesse dell’ascoltatore è lo stesso per il quale si sposarono parole e musica, perché per accoppiare insieme le due cose ce ne vuole, di sforzo. Oggi è un interesse potentissimamente commerciale, oggi per unire musica e parole a volte si devono mettere assieme due colossi industriali. La prima cosa che si chiede è se uno ci ha le edizioni. Poi la canzone cerca sempre di creare la castità, sembra sempre che uno produca la canzone di nuovo, la novia, la sposa, la nuova.
Dopo la vostra prima collaborazione, quella di Don Giovanni, lei non scrisse più testi sulle melodie di Battisti, ma fu lui a musicare i suoi testi. Perché invertiste il metodo?
Invertire il metodo è stata una mia richiesta, perché in Don Giovanni la presunzione di canzone era ancora forte. A me piaceva stabilire un diritto di prima notte, che una canzone uscisse già fatta, che uno se la fosse già fatta, in tutti i sensi, o signora, coi suoi difetti. Tutti quelli che ascoltano canzoni sono puritani, mormoni, una cosa tremenda. La canzone è piena di piccoli ma ferrei codici, molto morali. La canzone è il tentativo di darsi una morale. Altri si danno una calmata, questi una morale. Perciò la canzone esiste sempre, e tutti i governi in fondo la tollerano, ed essa ha con loro traffici illeciti. Una volta degli amici facevano una festa con le canzoni di Dylan, era venti o trent’anni fa. Chiedo: ma che dice questo? Andai a guardare, e mi sembrò un chierichetto. Noi italiani siamo abbastanza svezzati, gente come napoletani e romani, gente che circonda il Vaticano: quelli di Dylan mi sembrarono testi di uno scadente spiritualismo. Nessuno era d’accordo, tutti credevano che fossero gran cose. Solo dopo trent’anni, andandolo a rileggere, se ne rendono conto, forse perché lo hanno visto piegarsi davanti al papa. Sembravano canzoni di grande assalto, ma non era vero: canzoni mormoni, piegate, molto moraleggianti.
Ma cosa vi dicevate al telefono, lei e Battisti? Parlavate del vostro lavoro, o di cos’altro?
Allora parlavo un po’ così come adesso: per me parlare significa monologare.
Ma vi vedevate?
A volte ci trovavamo insieme, e c’era anche allora quella… Voglio dire, quando la stampa lamentava la sua sparizione, era lei che la creava. La sparizione di Battisti era una comoda notizia da scrivere seduti. Ma in fondo io apprezzo il giornalismo. E’ vero, non siamo più ai tempi d’oro, non dico di Truman Capote, ma del giornalismo iniziale, quello mosso, presente, di ricerca, nel senso proprio del cercare. Tutti sono notizia, sotto una certa specie. Ad esempio la bellezza, o lo scatenamento del desiderio da parte di un personaggio molto bello, è notizia; finché non arriverà alla decadenza, quando la notizia sarà quella, la notizia della decadenza.
Lei tace le relazioni, non parla mai di sentimenti. Lei lo ha amato, quel Battisti? Ricordo la violenza con cui scrisse a Boncompagni dopo una sua battuta infelice in televisione, all’indomani della scomparsa del musicista.
Io me la son presa perché ci aveva messo dentro anche me, me fisicamente. I testi sono come i quarti di bue, se uno non vuole non li produce. A me risultano più approssimative e più antipatiche le critiche benevole, perché non dicono niente di vero. Poiché l’astio, il livore, è molto più lucido. Ricordo certe scivolate di Luzzato Fegiz o di Zampa, che mi attaccavano: quando mi incontravano mostravano un’opinione di me molto più alta. Quello che dite è tutto vero, mancava solo la firma, perché non ci stava scritto Roland Barthes. Se si scrive “Panella persegue un progetto di insensatezza”, ed è firmato Roland Barthes anziché Fegiz, è questo che fa la differenza. Detto da Fegiz vorrebbe essere un astioso insulso… volevo dire insulto (ma detto da me va benissimo). Quando i benefattori sparano qualche complimento, chi se ne importa.
Battisti rivelò un giorno a un amico una specie di metodo per valutare quello che lei scriveva: “I testi di Panella, se non li capisco vuol dire che sono giusti”.
Qualche testo sempre mi rimaneva fuori… Sì, vabbè, ma era quello che chiedevo io, avrebbe fatto una brutta figura a dire “ho capito tutto”, peggio che dire “io sono ignorante”. Si sbaglia a mettere queste faccende sul piano della comprensione delle cose. Si dovrebbe piuttosto rimanere incantati di fronte a questo oggetto dal quale esce la musica. Non capiscono nemmeno perché un disco messo in un posto suona, poi vogliono capire cos’è la musica? Mi sembra troppo. Tra un uomo e una donna, non sia mai che uno debba dire all’altro: “fàmmiti sempre capire”. Mi sembra molto offensivo. E poi si parla di sentimento. Riconoscano prima che il sentimento è una falsa sovrastruttura, e allora poi parliamo di capire.
Quando lei e Battisti facevate assieme una canzone, cercavate la stessa cosa?
No, non credo. Io non so neppure cosa cercassi. Non è nemmeno che non cercassi niente. Mi trovavo quelle frasi davanti, oggi sarebbero probabilmente diverse. Ma non per ragioni strutturali o formali, perché le canzoni che vengono un giorno non vengono un altro.
Per un Battisti che non scriveva più secondo la logica della strofa e del ritornello, le melodie erano diventate un’operazione di dispendio. Come la parola per lei. Un’altra affinità fra voi due?
Io non scrivevo ritornelli, ma un percorso obbligato, nel quale c’erano però dei moduli tornanti. Ma quelle canzoni nell’insieme sono dei ritornelli.
Ma sono anche come i quarti di bue, come lei stesso diceva prima. Il pubblico compra le canzoni per mangiarle.
No, il pubblico mangia tutto, è quasi una discarica, riceve i testi di tutto. Se uno pensa a quello che è l’elaborazione della canzone… Prendiamo un giovane autore o cantante, giovane per offenderlo. Vive la sua vita giovanile, tutta fatta di speranze, pulsioni compositive, aspettative, e la sua dotazione è circa venticinque canzoni. Sono le canzoni migliori della sua vita. A un certo punto c’è questo ragazzo che s’incontra con altri ragazzi, produttori, discografici, e da questo gran corpo bovino o suino ricavano qualcosa come una cistifellea, nella quale gli antichi credevano ci fosse l’anima. Una cosa assottigliata, strofa-strofa-inciso, la cistifellea: qualcosa che normalmente si butta. E la buttano, infatti, in pasto al pubblico. Non mi pare che il pubblico riceva il meglio. Di tutto il corpo, bovino o suino che sia, di una vita rivolta alla canzone, ricevono qualcosa che veramente è stato sterilizzato da quel corpo. Lo ricevono nei termini di una “operazione” discografica, si dice così, no? Questo tampone pieno d’alcol snaturato. Quello che arriva. La canzone è qualcosa di molto levigato, prosciugato, tagliato e ritagliato, una cosina così. Ma nego che ci sia un’affinità tra musica e testi, che ci sia stata o che ci sarà. E’ un matrimonio di interessi. La parola non ha niente da condividere con la musica, né la musica con le parole. Esiste un luogo comodo, che è la canzone, con cui oggi la gente ritiene di aver assolto il compito del consumo culturale. Una cosa composta, molto calata nel ruolo. Si fanno seminari, ne parlano sul serio: questa è la più grande offesa portata alla canzone. La canzone non va discussa, perché è fuori da ogni discussione. Sennò perde la sua caratteristica di figlia degenere di un matrimonio d’interesse, ma bella, leggera, idiota. Perde quello che veramente dovrebbe essere: inafferrabile. Non conoscendo e non amando la canzone, le ho restituito quello che dovrebbe essere: l’inafferrabilità. Se chiediamo a un amante della canzone del passato cosa vuol dire “Vola, colomba bianca vola, diglielo tu che tornerà”, lui non lo sa. Con la canzone si entra in scemenza, uno esce dalla priorità del tutto. Entra in scemenza, nell’avulsione dal tutto. Ma da anni vien fuori che bisogna essere problematici, che bisogna farne un problema.
Stiamo scrivendo l’ennesimo libro su Battisti, nell’eterna speranza che sia quello vero. Lei trova sbagliato che in un libro si racconti la vita di una persona?
Sì. La vita di una persona coincide con la vita di chi l’ascolta, quella persona lì. Poiché esiste uno standard esistenziale: anche se gli ascoltatori di canzoni sono tanti, mediamente parlando, la canzone è la soddisfazione della zona mediana: le apprensioni, le aspettative, i medi desideri e le medie voluttà del medio. E’ tutto medio. Non esiste una canzone di tipo tirannico, o criminale. E’ tutto mezzo e mezzo. Un po’ autoritario, ma un po’. Un po’ vittima, un po’ no. Se uno dovesse ricostruire i rapporti umani dalle canzoni, non ne verrebbe fuori quasi nulla. E’ un mondo molle, perché è un mondo medio. E’ un mondo di quella vita lì, che non prende posizione né per un verso né per un altro. Non dà colpi né al cerchio né alla botte: accenna. Alla canzone non è chiesto di dire, ma solo di apparire. Ecco perché L’apparenza. E’ un po’ un miracolo, ne ha tutte le caratteristiche, salvo che non la fa troppo lunga, perché dura tre minuti, se ne capisce l’origine, perché c’è di mezzo un oggetto. A differenza di Fatima può vendere anche qualche milione di copie nel mondo, ma almeno non è così invasivamente ecclesiale. La sua capacità invasiva è epidemica, ma sempre meno di quell’altra. Di vantaggioso ha che dura meno: la si può riascoltare, ma la sua durata resta sempre quella. Da ragazzi si comprava un 45 giri, e il primo giorno lo si metteva cento volte di seguito. Ma non è che facendo così moltiplicassero i tempi: non riuscivano a capirne il miracolo, per cui lo ripetevano. La canzone è amabile perché finisce, presto.
E la vita di chi scrive canzoni?
Della vita, che dire? Sono vite normali. Uno si sveglia dopo essere andato a letto il giorno prima, fa colazione. E vive come chiunque. Io poi son poco attendibile. Poco mi ci trovo nei panni di chi vive di ricordi, io so parlare solo di me, che vuole che dica di un altro? Si può dire di Alfred Jarry, che col revolver sparava ai bagarozzi, e li stecchiva pure. Ma son passati più di cento anni. Ho letto di Graham Greene che era uno scrittore mediocre perché parlava di persone. Obiettivamente è uno scrittore medio. Un bravo scrittore, scrittore-scrittore, di quelli veri, scrittore di professione, non certamente di vocazione. Si interessava delle persone perché di meglio non sapeva fare. Interessarsi alle vite è una noia, perché le vite sono noiose.
Ma insomma, questo Lucio Battisti. Nessun dettaglio da ricordare?
Sono io che non mi trovo nelle parti di uno che ricorda, non sono un memorialista, affettivamente parlando.
Un rapporto, dei sentimenti?
Io di natura non sono portato molto alla condivisione di nulla. Penso a me, penso di me, non vedo perché debba penare trapassandomi negli altri. Il fatto di mettere insieme queste due cose, la musica e le parole, questa compenetrazione in realtà è perfino un superamento, una sospensione dell’amicizia. Non vedo perché uno debba impegnarsi, dopo aver fatto qualcosa del genere, che è perfino un po’ immorale, come qualsiasi fondazione di una moralità: l’immoralità dell’estetica è nel farle, le cose, non nell’averle fatte. Partecipare di questa immoralità, come commettere una rapina insieme, è più dell’amicizia. Mi viene in mente Genet, che non aveva amici, ma che perciò aveva ancora qualcosa di più potente, con i suoi complici. Dell’amicizia non me ne importa nulla, anzi la detesto un pochino. Non la capisco.
Si è mai mosso di casa per incontrare Battisti?
Ho frequentato solo la sua casa romana, si figuri se io mi muovo, certo non per andare a parlare di canzoni. Si parla meglio al telefono.
Anche per comporre testi di canzoni?
Ci sono stati vari modi. All’inizio, dettandoglieli. Poi i fax, poi ancora la prima Internet.

Battisti le ha mai fatto proposte di modifica, sui testi? Voglio dire: non sulle metriche, ma sui contenuti?

Il problema sarebbe stato capire quali erano, i contenuti…
Perché? Vuol dire che Battisti non li capiva?
In fondo questa cosa fu risolta prestissimo. La cosa che dissi subito, e che subito lo persuase… Diciamo che probabilmente io gliene ho parlato come ne ho parlato con lei, sulla canzone come apparizione, sulla sua volatilità, la peste da una parte e il miracolo dall’altro.
Dunque lui accettò subito questa sua posizione?
Immediatamente.
Lei è elusivo, nei suoi testi come nel racconto della vita.
Ogni vita a raccontarla è assolutamente insulsa, salvo che tu non lo faccia da giornalista, detto nel senso bello. I fatti accaduti esistono solo in alcune pagine di questi giornalisti qui, parlo di gente come Hemingway. Ma uno notevole sotto il profilo esistenziale è Enzo Carella, perché non avendo vissuto imprenditorialmente la vita che fa, vive una vita senza risorse, che io ricordo e tengo presente come tutti gli altri. Ho un certo affetto per il giornalismo, specialmente per il cattivo giornalismo, che è ingenuo, perché è avventizio. Come quando cominciarono a dire: è la loro fine, non vendono più, eccetera. Per qualche motivo i discografici, vuoi perché macinano musica, vuoi perché sono commercialmente aggiornati, le garantisco che afferrano le cose molto più dei giornalisti avventizi. Capirono subito che dietro quella cosa c’era un evento commerciale, come si dice nel loro lessico. E quando leggevano quelle cose, le previsioni giornalistiche su quel cantante che consideravano finito, i discografici ridevano. L’evento è stato talmente produttivo dal punto di vista promozionale – tanto che noi oggi ne stiamo parlando – perché le vendite superarono le previsioni e ci fu pure un richiamo di vendita del suo passato, di tipo vendicativo. Senza che l’avessi fatto volontariamente, io partecipai di un’ottima operazione commerciale. Ecco perché andava bene tutto. L’elemento di novità attira le attenzioni, e la novità erano quelle parole lì.
Perché finì?
Perché mi stancai. Mi pareva che cinque dischi fossero già troppi. Si stava diventando troppo produttivi e continui. Io non amo molto la continuità. Se mi dessero un miliardo per posare nudo lo accetterei, perché mi metterebbe a rischio e non me ne importerebbe nulla. Perfino Fegiz cominciava a parlarne bene, si diventava consueti. Alcune cose io non le ho neanche firmate, perché non volevo diventare un miserabile mito della musica leggera, come dire: non c’è altro, ti devi accontentare. Diventare qualcosa in mancanza di tutto.
Mai pentito?
Assolutamente no. Anzi, in generale mi sto allontanando sempre più dalla canzone. Ne faccio sempre meno, e cerco di farle nella maniera più stupida possibile. Ma la cosa non era riconducibile a un episodio.
Lui come la prese?
Credo non bene. Ogni disco finito io dicevo vabbè, abbiamo fatto, ci possiamo dire appagati. Ma lui parlava subito del prossimo. Da parte mia era sempre più evidente questo blando scostamento dalla canzone. Da quella in particolare, perché stava diventando consueta, stava prendendo piede, come si dice. La mia scrittura per canzone è scrittura applicata alla canzone. Per me la canzone non è il riferimento assoluto, ma nemmeno relativo. Di quel passo avremmo fatto un disco ogni due anni per sempre. Era tutto così ripetitivo. Due anni e tutto si ripeteva, solite solfe, solito balletto, tutte finzioni da parte di tutti, il pubblico finto. Per me quelle cose, a voler esagerare, avrebbero dovuto vendere quindicimila copie. Il discorso più interessante è proprio questo: l’incidenza di queste cose nelle faccende discografiche, negli interessi del pubblico. La vita è bella quando te l’immagini, perché se sei bravo riesci a veder quello che non puoi vedere. Cosa vuole che m’importi mettere a nudo una vita normale? Non importa nemmeno a quello che l’ha vissuta. Le vite taciute è meglio che lo restino. Le vite di cui non si conoscono grandi espressioni, grandi barbagli, grandi abbacinamenti e grandi scivolate, grandi uppercut e grandi record (della vita, non della musica leggera, che qualsiasi imbecille è in grado di apportare) vanno taciute, perché quelle grandi espressioni non furono espresse proprio per non essere raccontate. Chi si esprime in maniera notevole vuole essere raccontato in maniera notevole. Vite così sono esistite, vite che volevano essere raccontate. Gente che, sapendo di vivere in pubblio, viveva in pubblico godendo, e pagandolo. Questo li pone di fronte alla violenta scelta di essere quasi per sempre. Ci fanno pure i film, su Ciaikovskij, su Oscar Wilde: gente talmente densa di racconto che questo racconto gli usciva dai pori. L’altra gente ascolta le canzoni, e ascoltare le canzoni significa farle. Non esiste un autore di canzoni che non sia stato pubbblico della canzone. Chi fa canzoni è un ascoltatore, e lo sarà per sempre. Io non ho mai ascoltato canzoni, ho scritto in assenza di suono, come Beethoven. Ecco perché ho scritto prima di ascoltare la canzone, perché io non la sento. O si vivono vite notevoli, o si ascoltano (si fanno) le canzoni.
Io sono elusivo perché son sordo.
E detesta gli aneddoti.
Alcuni fatterelli è bene che non si conoscano mai, perché se la normalità vuol esser taciuta, è bene che sia taciuta. Molte vite possono essere ricostruite sulle opere. E’ tutto lì. Esiste un’esposizione sfrontata, impavida di sé, che può essere ricostruita come vita.
Mi vien da pensare che quella pretesa di Battisti, che diceva di non essere più interessato a comunicare, forse gliel’aveva suggerita lei.
La canzone non è necessaria, per cui nessuno può dire di trovarsi scomodo in quei panni. Non è sartoriale. La più concreta analogia è quella con il miracolo: pura visione, puro nulla, però colorato. Non puoi infilare le braccia in una nuvola. Durano forse uguale, la canzone e il miracolo: per un miracolo un tempo di quattro minuti è sufficiente. La noia, l’usura, la sopravvivenza di una chiesa su quel miracolo sono molto più durature. La canzone è più astenuta: certo, sono un miracolo, ma non stiamo a far tante chiacchiere, tanto poi ne apparirà un altro. Son miracoli stagionali.
E poi?
Le canzoni sono vapori. La canzone dice: io sono un po’ falsa. Ma il fatto che lo dica è grande. Sono un po’ falsa, cioè sono un miracolo: un abbaglio nel quale puoi vedere delle cose, puoi vedere l’amore, cioè un abbandono cantabile, una cosa falsa. Ad esempio, io ho giocato a lungo come centravanti nella Roma, allenato da Zeman.
Davvero?

30/01/19

Libro del Giorno: "La tigre assenza" di Cristina Campo.



E' ormai un nome quasi leggendario quello di Cristina Campo, nella vicenda letteraria italiana.

Si tratta dello pseudonimo della poetessa e scrittrice Vittoria Guerrini nata a Bologna nel 1923 e spentasi prematuramente a Roma nel 1977, minata da una malattia al cuore che condizionò la sua intera esistenza.

Formatasi su studi privati, cresciuta nel culto della bellezza e animata da un'incoercibile tensione alla perfezione, etica non meno che estetica - come scrive la voce a lei dedicata dalla Treccani -  fu grandemente influenzata dal pensiero di Simone Weil, e negli ultimi anni si dedicò allo studio dei mistici e della grande tradizione liturgica del cristianesimo, cattolico romano e orientale.

Ciò che alimenta il mito della Campo, è l'estrema esiguità della sua produzione poetica: pubblicò in vita soltanto un'esile raccolta di versi (Passo d'addio, nel 1956), alcuni articoli su riviste e due volumetti di saggi (Fiaba e mistero e altre note, 1962; Il flauto e il tappeto, 1971).

Tutto ciò in ossequio ad un rigore e ad una autodisciplina quasi maniacale, bene espressa dalla frase che amava ripetere a proposito di se stessa, a mo' di precoce epitaffio: "Ha scritto poco, e le piacerebbe aver scritto ancora meno."

Ciò nonostante, il nome di Cristina Campo è divenuto oggetto di devozione prima nell'ambiente degli esperti di cose letterarie, e poi  tra i lettori, dopo la pubblicazione di un ristretto corpus dei suoi scritti, a partire da Gli imperdonabili (1987), in cui è raccolta l'intera opera saggistica e che trae il titolo dal saggio dedicato ai poeti, ovvero all'imperdonabile amore della perfezione.

A quel libro, pubblicato da Adelphi, ha fatto seguito La tigre assenza (a cura di M. Pieracci Harwell, 1991), che raccoglie le poesie, edite, inedite e sparse, e le traduzioni dei poeti più amati. 

Nella bandella sono riportate due frasi, l'una di Ezra Pound: «Poesia è l’arte di caricare ogni parola del suo massimo significato», l'altra di Simone Weil: «che ogni parola abbia un sapore massimo», che bene esprimono le regole convergenti a cui Cristina Campo si è sempre attenuta, sia nel suo lavoro di traduttrice, che nella sua attività di poeta.

Tutta la sua opera in versi è così racchiusa nelle prime 50 pagine di questo libro, cui fa seguito però una gloriosa carrellata di traduzioni che vanno da  Simone Weil, a John Donne, da Hofmannsthal all'amatissimo W.C. Williams, da Herbert a Giovanni della Croce, fino a Emily Dickinson.

Più che traduzioni, queste di Cristina Campo, sono  esercizi di metafisica, dove ogni parola è distillata come il risultato di una potente e misteriosa alchimia.

Di certo tra le più grandi traduzioni in lingua italiana di questi poeti.

In Passo d’addio sono raccolte tutte le rare poesie scritte dalla Campo che ci offrono visioni terse e piene di pathos:  "Devota come ramo/ curvato da molte nevi/ allegra come falò/ per colline d'oblio."
" T'ho barattato, amore, con parole."   " La luce tra due piogge, sulla punta di fiume che mi trafigge";
fino al poemetto Diario bizantino, che apparve pochi giorni dopo la sua morte. E forse da questi ultimi versi, , da un «mondo celato al mondo, compenetrato nel mondo, / inenarrabilmente ignoto al mondo», occorrerebbe partire per capire tutta Cristina Campo. Una voce davvero unica nel firmamento della poesia italiana, difficilmente assimilabile a qualunque altra del nostro tempo.

Fabrizio Falconi

Cristina Campo 
La Tigre Assenza 
A cura di Margherita Pieracci Harwell 
Biblioteca Adelphi 
1991, 6ª ediz., pp. 316 

29/01/19

Quattro voci, quattro poeti, quattro libri: Sabato prossimo 2 febbraio alla Libreria di Via Giulia 111.


Alla Libreria di Via Giulia quattro voci di Interno PoesiaSabato 2 febbraio 2019 alle ore 18 alla Libreria di via Giulia 111 Roma “Quattro Voci – quattro poeti, quattro libri” il primo incontro e reading romano con quattro autori della collana libri di Interno Poesia: Fabrizio Falconi con “Nessun pensiero conosce l’amore”, Antonella Palermo con “La città bucata”, Annarita Rendina con “Nasse” e Michela Zanarella con “Le parole accanto”. 

Stili di scrittura diversi, ma la poesia a fare da protagonista assoluta. 

Alcune letture saranno affidate alla voce degli attori Giuseppe Lorin e Chiara Pavoni. 

Fabrizio Falconi (Roma, 1959) è sposato, con tre figli. Scrittore e giornalista è autore di romanzi (“Il giorno più bello per incontrarti”, Fazi, 2000; “Cieli come questo”, Fazi, 2002; “Per dirmi che sei fuoco”, Gaffi, 2012) e saggi (“Dieci Luoghi dell’Anima”, Cantagalli, 2009; “I Fantasmi di Roma”, Newton, 2010; “Le rovine e l’ombra”, Castelvecchi, 2017; “Cercare Dio”, Castelvecchi, 2018). In poesia ha esordito con “L’ombra del ritorno” (Campanotto, 1996) finalista al Premio Sandro Penna e segnalato al Premio Montale, a cui hanno fatto seguito “Sub Specie Aeternitatis” (Aletti, 2004), “Poesie 1996-2007” (Campanotto, 2007) e “Il respiro di oggi” (Terre Sommerse, 2010). Sue poesie sono apparse su varie riviste italiane, e sul numero monografico dedicato dalla rivista “Tri-Quarterly” (n. 127/2007) alla poesia contemporanea italiana, tradotte da David Lummus e Robert Pogue Harrison. 

Antonella Palermo è nata a Campobasso nel 1973. Giornalista, vive e lavora a Roma come conduttrice radiofonica, occupandosi prevalentemente di approfondimenti dell’attualità. Ha esordito in poesia nel 2012 con la raccolta “Le stesse parole” (LietoColle), prefazione di Davide Rondoni. 

Annarita Rendina è nata a Napoli nel 1988 e vive a Monte di Procida, piccolo comune del litorale flegreo. Ha conseguito la laurea specialistica in Filologia Moderna. Il suo saggio Il Fantomas di Cortazár. La dis-attesa del supereroe è presente nel volume Le Attese. Opificio di letteratura reale/2 (a cura di E. Abignente ed E. Canzaniello, Ad Est dell’Equatore, Napoli, 2016). Si è occupata per anni di immigrazione e ha insegnato italiano come lingua seconda per un’associazione di volontariato e per l’Istituto Italiano di Cultura di Dublino. È docente di materie letterarie presso il liceo Seneca di Bacoli. “Nasse” è la sua opera prima. 

Michela Zanarella è nata a Cittadella (PD) nel 1980. Dal 2007 vive e lavora a Roma. Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesia: “Credo” (2006), “Risvegli” (2008), “Vita, infinito, paradisi” (2009), “Sensualità” (2011), “Meditazioni al femminile” (2012), “L’estetica dell’oltre” (2013), “Le identità del cielo” (2013). In Romania è uscita in edizione bilingue la raccolta “Imensele coincidente” (2015). È inclusa nell’antologia “Diramazioni urbane” (2016), a cura di Anna Maria Curci. Autrice di libri di narrativa e testi per il teatro, è redattrice di “Periodico italiano” e “Laici.it”. Le sue poesie sono state tradotte in inglese, francese, arabo, spagnolo, rumeno, serbo, greco, portoghese, hindi e giapponese. Ha ottenuto il “Creativity Prize” al “Premio Internazionale Naji Naaman’s 2016”. È ambasciatrice per la cultura e rappresenta l’Italia in Libano per la “Fondazione Naji Naaman”. Socio corrispondente dell’Accademia Cosentina, fondata nel 1511 da Aulo Giano Parrasio.

27/01/19

Poesia della Domenica: "Il sogno" di John Donne.




Il sogno

Per nessun altro, amore, avrei spezzato
questo beato sogno.
Buon tema alla ragione,
troppo forte per la fantasia.
Fosti saggia a destarmi.  E tuttavia
tu non spezzi il mio sogno, lo prolunghi.
Tu così vera che pensarti basta
per fare veri i sogni e le favole storia.
Entra fra queste braccia. Se ti parve
meglio per me non sognar tutto il sogno,
ora viviamo il resto.

Come il lampo o un bagliore di candela,
i tuoi occhi, non già il rumore, mi destarono.
Pure (giacché ami il vero)
io ti credetti sulle prime un angelo.
Ma quando vidi che mi vedevi in cuore,
sapevi i miei pensieri oltre l'arte di un angelo,
quando sapesti il sogno, quando sapesti quando
la troppa gioia mi avrebbe destato
e venisti, confesso che profano
sarebbe stato crederti qualcos'altro da te.

Il venire, il restare ti rivelò: tu sola.
Ma ora il levarti mi fa dubitare
che tu non sia più tu.
Debole quell'amore di cui più forte è la paura,
e non è tutto spirito limpido e valoroso
se è misto di timore, di pudore, di onore.
Forse, come le torce che devono essere pronte
sono accese e rispente, così tu tratti me.
Venisti per accendermi, vai per venire. Ed io
sognerò nuovamente
quella speranza, per non morire.

John Donne

Traduzione di Cristina Campo, da La Tigre Assenza, Adelphi, Milano, 1991, pag. 203.


13/01/19

Poesia della Domenica: "Arriva un tempo" di Cesare Viviani.





Arriva un tempo in cui finisce il tempo
e sempre più si assottiglia e aderisce
alle rughe della terra e dei massi.
La memoria è il velo sottile di muschio
che c'è e non c'è. Lo spazio
non ha confini, è irriconoscibile.

Ogni bagliore è luce dell'eterno,
è riflesso divino.


Cesare Viviani

26/12/18

Torna a Recanati il Manoscritto Autografo de "L'infinito" di Giacomo Leopardi !




Acquistato nel 1869 dal Comune di Visso assieme ad altri scritti leopardiani venduti da Prospero Viani, studioso di Leopardi e primo editore del suo epistolario, per l'irrisoria cifra di 400 lire, il manoscritto autografo de L'Infinito torna ad essere esposto a Recanati, citta' natale del poeta, per la mostra 'Infinito Leopardi', allestita a Villa Colloredo Mels

Era stato esposto nel 1898, in occasione del centenario della nascita del poeta, e vi torna per celebrare i 200 anni della sua composizione.

Ma la contessa Olimpia Leopardi ricorda che e' stato esposto a Palazzo Leopardi, tra le cui pareti fu scritto nel 1818.

L'esposizione offre un significativo e ricco panorama sulla figura di Leopardi.

Curata da Laura Melosi in collaborazione con Lorenzo Abbate, abbina in due diverse sezioni la cospicua collezione di Visso a testimonianze e cimeli del poeta e della sua famiglia, che dopo il trasferimento a Villa Colloredo dalle sale del Comune di Recanati non venivano mostrati da anni. 

Correda l'iniziativa una suggestiva raccolta di 90 scatti del fotografo Mario Giacomelli, di Senigallia, dedicati all'Infinito e alla poesia A Silvia.

Nella prima sezione spiccano le cartelle degli Idilli, dei 'Sonetti in persona di ser Pecora Beccaio fiorentino' e l'Epistola al conte Carlo Pepoli, contenenti manoscritti donati a Viani da Pietro Brighenti, amico, corrispondente ed editore di Leopardi, il quale li aveva ricevuti dal poeta tra il 1825 e il 1826 per servire all'edizione dei Versi (Bologna 1826).

Ad esse si aggiunge la cartella della Prefazione al Petrarca contenente un autografo inviato da Leopardi all'editore fiorentino David Passigli nel marzo del 1837 per la stampa di una nuova edizione della sua interpretazione alle Rime di Petrarca, progetto che si sarebbe concretizzato solo due anni dopo la morte del poeta.

Ed infine una raccolta di 14 lettere inviate da Leopardi all'editore milanese Anton Fortunato Stella e a suo figlio Luigi nel periodo 1825-1831.

Nella seconda sezione figurano invece i ritratti della famiglia Leopardi: dai fratelli del poeta Pierfrancesco e Paolina, ai genitori, Monaldo e Adelaide Antici, fino a quello di Giacomo, basato su un disegno a matita realizzato da Luigi Lolli a Bologna nel 1826.

Ma c'e' anche il manoscritto del Saggio sugli errori popolari degli antichi (1815), donato dall'editore Le Monnier al Comune di Recanati, assieme ai materiali da questi ricevuti da Antonio Ranieri, amico e sodale di Leopardi per la stampa delle Opere leopardiane del 1845, come pure la maschera funebre del poeta, realizzata il 14 giugno 1847 direttamente sulla sua salma.

Infine la raccolta di scatti di Mario Giacomelli, curata da Alessandro Giampaoli e Marco Andreani, divisa in tre parti: due dedicate alla poesia A Silvia rispettivamente del 1964 e del 1988, corredate da un filmato di Luigi Crocenzi realizzato per la trasmissione della Rai Telescuola, e una all'Infinito del 1988.

Fonte: Federica Acqua per Ansa. 

25/12/18

Poesia di Natale: "Torna Gesù" di Luigi Pirandello.




Torna Gesù

La memoranda notte è ormai vicina
e mi risuona ancora negli orecchi,
eco gentil dell'età mia bambina,
la voce de' miei vecchi:
Candido roseo e biondo
come nato da giorni, eri anche tu,
vien questa notte al mondo
il Bambino Gesù !

Ogn'anno, ogn'anno in questo freddo mese,
per quanto stanca, l'anima risogna
la festa che a Gesù fa il mio paese.
Già suona la zampogna...
Ah che profonda, arcana
malinconia, che nostalgia m'assal
della casa lontana,
del villaggio natal !

Rigide sere della pia novena
in cui, sur ogni piazza, in ogni via,
fiamman, fuochi gregal, fasci d'avena:
mentre la litania
il vicinato intuona
raccolto innanzi a un rustico altarin,
e la zampogna suona,
tintinna l'acciarin.

Ed io fanciullo, alla finestra dietro
me ne stavo, e schiarendo con un dito
timidamente l'appannato vetro,
rimiravo smarrito,
in un'ansia segreta,
se in quella notte piena di mister
la fulgida cometa
apparisse davver... .

E dubitavo allora, e ho dubitato
sempre, dappoi. S'inaridì l'istinto
della fede nel cuore: errai bendato
per questo labirinto
della vita mortale,
e te pure chiamai causa, Gesù,
d'una parte del male
che si soffre quaggiù.

Ma santa adesso appar la tua follia
anche al mio sguardo, o dolce redentore.
E torna, io prego, a noi, torna, Messia,
a predicar l'amor!
Altri, del rosso tuo mantello avvolto,
d'odio nudrendo la gentil parola,
batte alle oscure case, e infosca il volto
de la miseria. Vola

il grido della guerra...
Pace tu sei, Gesù, tu sei pietà:
torna a rifare in terra d'amor la carità.

Luigi Pirandello (1867-1936)

23/12/18

Poesia della Domenica: "Quei tuoi capelli" di Paul Eluard.




QUEI TUOI CAPELLI


Quei tuoi capelli d'arance nel vuoto del mondo,
Nel vuoto dei vetri grevi di silenzio e
D'ombra dove con nude mani cerco i tuoi riflessi,

Chimerica è la forma del tuo cuore
E al mio desiderio perduto il tuo amore somiglia.
O sospiri di ambra, sogni, sguardi.

Ma non sempre sei stata con me, tu. La memoria
Mia oscurata è ancora d'averti vista giungere
E sparire. Ha parole il tempo, come l'amore.


Paul Eluard


Ta chevelure d'oranges

Ta chevelure d'oranges dans le vide du monde
Dans le vide des vitres lourdes de silence
Et d'ombre où mes mains nues cherchent tous tes reflets.

La forme de ton cœur est chimérique
Et ton amour ressemble à mon désir perdu.
O soupirs d'ambre, rêves, regards.

Mais tu n'as pas toujours été avec moi. Ma mémoire
Est encore obscurcie de t'avoir vu venir
Et partir. Le temps se sert de mots comme l'amour.


Paul Eluard, tratta da Capitales de la douleur