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09/06/18

Il Libro del Giorno: "Sweet Dreams" di Michael Frayn.



Dal genio di uno dei maggiori autori viventi, il racconto di un uomo che senza sapere di esser morto arriva in Paradiso e inizia a fare carriera. Un classico della letteratura inglese tradotto per la prima volta in italiano.
Howard Baker, un giovane uomo di idee liberali e discrete ambizioni, si trova in macchina, fermo davanti a un semaforo. Quando lo supera succede qualcosa: invece di prendere la via che si sarebbe aspettato, imbocca una superstrada a dieci corsie che lo conduce verso un'enorme metropoli. Ancora non lo sa, ma è giunto in Paradiso. Soltanto che, a differenza di quanto avveniva ai tempi di San Giovanni, il Paradiso oggi non è più una città fatta di oro puro e cristallo trasparente, ma un luogo vibrante e pieno di intrattenimenti e opportunità professionali, in cui tutto, davvero, è possibile. 
Qui Howard fa nuovi incontri e ritrova vecchie conoscenze, si innamora di una ragazza e contemporaneamente conduce la solita vita famigliare con la moglie e i figli
Un giorno arrivano a fargli visita i suoi amici storici: al pari di lui, anche loro in quel luogo sono impegnati in progetti e attività di assoluto rilievo; uno di essi ispira poeti come John Donne e William Butler Yeats "passandogli" alcuni versi, un altro riesce a far tornare in vita persone che erano morte. 
Howard invece fa parte di un prestigioso team di architetti e designer che sta progettando le Alpi: sarà lui a disegnare l'inconfondibile sagoma del Cervino. E la sua carriera non si fermerà di certo qui, con il tempo infatti Howard diventa una specie di guru spirituale e infine arriverà a essere scelto da Dio come proprio aiutante... 
“Frayn è un grande scrittore. E questo romanzo una specie di Candido di Voltaire. Un Candido contemporaneo e irresistibile”. - New Yorker
“Forse uno dei contributi più originali della narrativa inglese all’intero ventesimo secolo”. - Times Literary Supplement
"Dopotutto, che cosa ti piace, in effetti? Di fatto, che cosa ti diverte? Non la contemplazione, Howard. Non l'essere in contatto con l'infinito. Quello che ti piace è prawn biryani e crumble di mele; alzarti tardi la domenica e leggere i giornali in vestaglia; tenere sott'occhio le tue polizze assicurative; toglierti il cibo incastrato tra i denti con uno stecchino affilato".
"Pensavo che da qui sarei stato diverso".
"Ti piacerebbe essere diverso?".
Howard riflette, togliersi il cibo incastrato tra i denti con uno stecchino affilato.
"No", dice infine.
"Ecco, bene".


04/12/17

Libro del Giorno: "Mrs. Bridge" di Evan S. Connell.



Nato a Kansas City - la stessa città nella quale è ambientato questo romanzo - nel 1924, Evan S. Connell è uno scrittore finora piuttosto marginale nel panorama statunitense, appartato come la sua vita è stata fino alla fine. 

Trasferitosi in California, dopo aver studiato scrittura creativa a Stanford, Connell infatti ha vissuto per sempre a Sausalito, senza mai sposarsi, fino a terminare i suoi giorni in una casa di riposo nel New Mexico, nel 2013.

Solo sul finire della sua esistenza, ha ottenuto riconoscimenti, fino ad essere candidato al Man Booker International Prize nel 2010, dopo che James Ivory aveva portato al successo Mrs. Bridge e Mr. Bridge, due suoi romanzi, riuniti in un solo film, Mr. e Mrs. Bridge uscito nel 1990, con Paul Newman e Joanne Woodward. 

Da allora, questo Mrs. Bridge, primo romanzo di Evan S. Connell, pubblicato nel 1959, è diventato un piccolo classico.  La Einaudi, che lo pubblica in italia con la traduzione di Giulia Boringhieri, usa nelle bandelle il paragone con Stoner di John Williams, per rilanciarne il successo. 

Un paragone che a dire il vero, non regge. E' molto molto diverso la qualità di scrittura e l'intensità dell'inespresso in Stoner - romanzo capolavoro - rispetto a Mrs. Bridge, romanzo che si sviluppa in una teoria di 117 brevi o brevissimi capitoletti, che non raggiungono mai il vero respiro di una narrazione, soprattutto sotto l'aspetto della tensione psicologica e delle atmosfere rarefatte dei caratteri dei personaggi, che in Stoner raggiungono il massimo della perfezione. 

Ciò che può accomunare i due romanzi è solo la descrizione di un fallimento, o meglio di una vita inespressa.  Ma Stoner e Mrs. Bridge sono personaggi diversissimi: quanto il primo è probabilmente del tutto consapevole, tristemente consapevole e stoicamente saldo nei suoi principi di resistenza all'ordine del mondo, così Mrs. Bridge è invece totalmente passiva, rassegnata allo svolgersi nemmeno degli eventi, ma della nuda e insignificante ordinarietà. 

Nulla di nulla accade infatti in questo romanzo, che prende le mosse dal fidanzamento e dal matrimonio di questa ragazza della middle class, con un uomo taciturno e ordinario, che lavora e fa soldi, e nient'altro. 

Un matrimonio ordinario, tre figli ordinari, con ordinarissime ribellioni interiori e piccole ribellioni esteriori, e lei, Mrs. Bridge che guarda e osserva tutto, e segue senza riuscire ad essere mai veramente scossa da quel che accade intorno a lei.  Ogni piccolo disordine della vita viene riassorbito in breve tempo e come se non fosse mai accaduto. 

Invano si aspetta, per 230 pagine, una reazione della borghese signora: invano si spera in una catarsi della sua quieta depressione; invano si auspica che il misterioso assente marito dia un segnale di sé, si manifesti come persona, oltre che come personaggio. 

E' naturalmente anche questo il merito del romanzo, che nulla aggiunge ai personaggi di Todd Haynes visti al cinema (Lontano dal Paradiso), o alla casalinga disperata di Revolutionary Road. 

Insomma, una lettura che scorre via senza lasciare tracce sensibili: soltanto la descrizione a flebili colori pastello, di una ordinaria dissipazione di vita, dai toni fin troppo misurati, esacerbati e alla fine nemmeno troppo letterari. 

Fabrizio Falconi



04/10/17

Libro del Giorno: "Il cuore di tutte le cose" di Elizabeth Gilbert.



Mi sono accostato a questo libro con perplessità e qualche pregiudizio dovuto al successo planetario che ha arriso a Elizabeth Gilbert per la versione cinematografica tratta dal precedente romanzo della scrittrice, Mangia, prega, ama

Per questo la sorpresa procuratami dalla lettura de Il cuore di tutte le cose, scritto nel 2013 e pubblicato in Italia da Rizzoli, è stata ancor più grande. 

C'è da dire subito che il titolo italiano rende un pessimo servizio al libro. Il titolo originale del romanzo è infatti The signature of all things, un preciso riferimento alle teorie del filosofo mistico  Jakob Böhme sulla analogia morfologica, che riprendono un concetto (La Signatura Rerum, la Firma delle Cose) caro a Egiziani, Cinesi, Indiani, alchimisti Medioevali, fino a Paracelso: la credenza cioè che tutti i tipi di vegetali (e più in generale delle cose viventi) seguono un modello che rispecchia gli organi del corpo umano. 

La trama allestita dalla Gilbert intorno a questo tema così impegnativo, è però di leggibilità e piacevolezza assoluta:  Nella Filadelfia di inizio Ottocento, una grande serra di piante e di idee,  infatti, seguiamo le vicende di Alma che nasce in seno a una delle famiglie più scandalosamente ricche del Nuovo Mondo. 

Il padre Henry è un botanico autodidatta e uno spregiudicato uomo d'affari che ha costruito la sua fortuna commerciando in chinino e altre piante medicinali. Sua madre Beatrix, un'austera studiosa olandese, alleva la figlia senza concessioni al sentimentalismo e alla frivolezza. Alma impara a leggere le ore osservando l'aprirsi e chiudersi delle corolle dei fiori, studia da vicino l'operosa natura che la circonda, cresce respirando scienza e cultura.

Brillante e curiosa, ben presto si mette in luce nell'ambiente internazionale della botanica. E mentre si addentra sempre più nei misteri dell'evoluzione, l'uomo di cui, nella piena maturità,  si innamora la trascina nella direzione opposta: verso il regno della spiritualità, del divino, della magia

Se Alma è una scienziata razionale e concreta, Ambrose è un giovane idealista votato all'arte e alla purezza. Ma li unisce il desiderio appassionato e struggente di comprendere i meccanismi segreti che regolano il mondo e danno origine e senso alla vita.

La complessa trama, che abbraccia l'intera esistenza di Alma, si snoda attraverso lutti e privazioni, prove psicologiche e istinti repressi, navigazioni in mare e scoperte entusiasmanti, rilevazioni scientifiche, descrizione di mondi sconosciuti. 

Alma diviene una grandissima studiosa del muschio (qualcosa a cui nessuno sembra essersi dedicata con pazienza prima di lei); dopo il fallimento del suo matrimonio e la morte del padre si trasferisce senza più nulla, nella lontanissima Tahiti, per ritrovare se stessa e il senso della sua vita e della sua ricerca; torna infine in Olanda, di dove è originaria la famiglia di sua madre, in tempo per assistere al trionfo della teoria di Darwin. 

La perfetta coerenza razionale/analitica di Alma resta immutata fino alla fine. Semmai, stonano nel lungo dispiegarsi del racconto, i toni mitici che avvolgono l'entrata in scena di Tomorrow Morning, l'indigeno che conosce il destino finale del marito di Alma.  Ma l'improbabilità di questo personaggio e dell'incontro, non rovinano il piacere di questa lettura. 

Un romanzo che si mantiene sempre straordinariamente in equilibrio tra il gusto per il racconto e il rispetto per la conoscenza (è un romanzo documentatissimo, veramente una miniera per chi è interessato all'argomento botanico e alla vita delle piante). 

Qualcosa che è piuttosto difficile trovare oggi nel panorama letterario italiano. 

14/01/17

"Il retaggio" di Sybille Bedford (Recensione).


Sybille Bedford è una di quelle scrittrici minori  che hanno attraversato tutto il Novecento, sfiorando le vite dei più grandi, con cui hanno intrattenuto spesso rapporti molto stretti - spesso oscurati da questi -  e che vengono via via riscoperte come è già successo a Elizabeth Jane Howard e a diverse altre.

La biografia della Bedford è già di per sé una sorta di opera d'arte. Nata in Germania, nel 1911 a Charlottenburg, il padre è il nobile Maximilian von Schoenbeck, «un uomo educato al piacere, a godere delle cose belle della vita, ma presto intrappolato fra paure ed eventi». La madre, inglese, è bella e spregiudicata, ma sparirà presto dalla vita della figlia.

La vita della Bedford fin da piccola ha un'impronta decisamente cosmopolita. Lascia infatti la Germania ancora bambina, troncando poi ogni legame con il Paese dopo subito l'avvento del nazismo. Vive così in una specie di bel mondo dorato, tra la Gran Bretagna, la Francia e l'Italia, circondata da una ristretta schiera di donne e uomini colti, intelligenti e sensibili, provenienti da ogni parte del mondo.

Tra gli amici più intimi c'è Aldous Huxley, come lei viaggiatore instancabile oltre che romanziere e saggista, al quale la Bedford ha dedicato una biografia. Dopo una vita intensissima e molti romanzi scritti, muore il 17 febbraio 2006 all'età di 94 anni.

Il Retaggio, uscito nel 1956,  è quello che viene considerato il suo capolavoro. Si tratta di un classico romanzo familiare alla ricerca di un mondo perduto, che è quello della stessa scrittrice. Nei personaggi dei protagonisti, l'eccentrico Julius Felden e la moglie Caroline, sono infatti identificabili i genitori di Sybille e il Retaggio si apre proprio su quella scena della Germania di fine Ottocento, con la sua opulenza terriera e finanziaria, le aspre tensioni sociali, il presagio di una catastrofe lontana ma già chiaramente annunciata; la stessa scena nella quale ha visto i natali la scrittrice.

Nelle quasi 400 pagine del romanzo si dipanano le storie di tre famiglie, unite da divergenti tradizioni aristocratiche e separate da irreali visioni del futuro. 

La prima è costituita da solidi beneficiari ebrei di Berlino, nel cuore del Nord prussiano e protestante; le altre due appartengono «a realtà discordi del Sud cattolico: l’una sonnolenta, rurale, volta al passato; l’altra ossessionata da sogni ecumenici di dimensioni europee».

A unirle provvederanno due matrimoni e uno scandalo.

E su tutto aleggia lo stile leggero e turbinoso di Sybille Bedford, che accompagna e descrive la dissoluzione di questo mondo polveroso e perduto, facendolo rivivere nella memoria del lettore.

E' un romanzo a tratti macchinoso e difficile, perché la Bedford non è mai consequenziale e non ha rispetto per le regole narrative, giocando con dialoghi surreali fuori dal tempo e dai personaggi, e con rapidi salti di luogo e temporali, divertendosi a dilatare i tempi in alcune parti (come la fuga dalla terribile accademia, da parte di uno dei giovani rampolli aristocratici) e sorvolando brutalmente su altre, che restano misteriosamente sottratte alla curiosità del lettore.

Sybille Bedford 
Il retaggio 
Traduzione di Marina Antonielli 
Adelphi2016, pp. 388

02/11/16

"Le vergini suicide" di Jeffrey Eugenides (Recensione)



Jeffrey Eugenides (Detroit, 8 marzo 1960), ha firmato con Le vergini suicide, uscito nel 1993, uno dei migliori esordi contemporanei (Sofia Coppola ne ha tratto un film qualche anno dopo). Ripetendosi poi con romanzi come Middlesex  (che gli è valso il Premio Pulitzer nel 2003 e La trama del matrimonio (2011).

E' un racconto particolarissimo, a partire dalla voce narrante, per la quale Eugenides ha scelto un narratore "collettivo", voce di un gruppo di coetanei maschi, il quale rievoca a vent'anni di distanza la vicenda delle cinque sorelle Lisbon, oggetto proibito della loro adolescenza, avvolte in un'aura di mistero che la tragica fine comune - si sono tutte tolte la vita nel breve spazio di un anno - ha fissato per sempre. 

Più che l'originalissima trama, però - per niente gotica, semmai sospesa in un territorio quasi surreale, intercettato dalla ironia e dalle considerazioni dei testimoni -  Le vergini suicide è un capolavoro di stile. 

La vera protagonista del romanzo è la casa della famiglia Lisbon. Un territorio oscuro e inaccessibile, castello di reclusione, in putrefazione, che ospita la muta agonia delle cinque giovani, impossibilitate a vivere una vita normale. 

La casa vive su se stessa e attraverso se stessa la consunzione fisica e psichica delle cinque ragazze e dei due pietrificati genitori. 

Una angoscia strisciante e pervasiva intride ogni pagina di questo romanzo, in cui i dialoghi sono ristretti al minimo indispensabili, quasi inesistenti, e dove la narrazione prosegue come un unico flusso di memoria dalla prima all'ultima pagina. 

Il malessere delle cinque sorelle deriva dall'accettare il mondo così com'è, come è stato trovato. L'impossibilità di essere normali e di concedersi alla piccola e fertile infelicità che fa parte di ogni vita. 

Eugenides costruisce il ritratto di una piccolissima porzione della provincia americana, che può o potrebbe  a ragione essere un qualsiasi angolo remoto del mondo.

Perché il disagio esistenziale delle cinque ragazze Lisbon, così vive, così presenti, è quello delle stesse cose viventi - come la casa della famiglia - predisposte alla lacerazione, al disfacimento, al distacco, destino di ogni mortalità. 

L'idolatria del gruppo di maschi, la perpetuazione della memoria, la rivendicazione di quel segreto vissuto e mai sbocciato, è l'unica fragile ribellione possibile, al passare del tempo.

Fabrizio Falconi

Jeffrey Eugenides
Le vergini suicide
Traduzione di Cristina Stella
Mondadori 2008


03/05/16

"L'ultima famiglia felice" di Simone Giorgi (RECENSIONE).



Con questo romanzo d'esordio, Simone Giorgi, romano, classe 1981, ha avuto una menzione speciale al Premio Calvino 2014. 

Pubblicato da Stile Libero Einaudi, L'ultima famiglia felice (bel titolo), racconta pochi giorni (poche ore) di vita di una famiglia normalissima: il padre è il mite Matteo, un uomo alto e grosso che ha deciso di fare della bonomia e della tolleranza ad extremis il suo stile di vita.  E' anzi convinto che questo sia il collante necessario per mandare avanti una famiglia;   la madre è la nervosa Anna, donna in carriera, con una sua piccola agenzia pubblicitaria, e dentro un rapporto adulterino con il collega  (e sottoposto) Eugenio; i figli sono Eleonora e Stefano, i due classici adolescenti, la prima alle prese con i primi turbamenti sentimentali, pressata da uno sbruffoncello di scuola però innamorato, che si chiama Lorenzo, e Stefano, il ribelle, quello che ha attaccato un cartello sulla sua camera in cui scrive che l'ingresso è vietato al padre, e che lo manda a fare in culo regolarmente. 

Con questo povero o poverissimo materiale, quello di una famiglia assolutamente nella norma, Simone Giorgi imbastisce un romanzo di 240 pagine nel quale prova a smontare l'assunto tolstojano secondo cui le famiglie felici si somigliano tutte, mentre quelle infelici sono tutte infelici in modo diverso. 

Ma la famiglia di Matteo è felice o infelice ? Lo è - come molte famiglie - solo apparentemente: solo grazie a quella che Bergman chiamava l'arte di nascondere la polvere sotto il tappeto

E' su questo che si basa il sottile equilibrio che permette alla famiglia di restare apparentemente unita fino alla deflagrazione finale (ultime 2 pagine del racconto). 

Il centro della narrazione è ovviamente Matteo e il suo paradosso vivente: quello di non avere reazioni, di lasciar fare tutto, di mandare giù tutto, di sopportare ogni sorta di tradimento, di preoccuparsi degli altri, di fare per gli altri, di evitare ogni possibile scontro come prospettiva di unità e di felicità. Naturalmente Matteo è destinato a fallire.  E il romanzo è la costruzione minuta di questo fallimento che arriva fino al suo culmine. 

I personaggi - a parte Matteo che è lavorato meglio a tutto tondo, con un lungo monologo interiore - sono piuttosto stereotipati, il linguaggio letterario è (volutamente?) scarno. Lo stile, in levare.  Una vera sfida, insomma, anche per il lettore. 

Una certa tensione comunque monta lentamente dentro la narrazione, e la catarsi finale - fin troppo attesa - non è banale e riscatta l'attesa.

Il romanzo italiano oggi pare incastrato (o incarcerato) in queste minuti spostamenti emotivi che hanno ancora (o sempre?) al centro la famiglia, l'istituzione di cui è stato celebrato da molto tempo il funerale, ma alla quale non è stata ancora concessa o profilata alcun tipo di successione.

Fabrizio Falconi

(C) riproduzione riservata 2016

16/04/16

"Purity" di Jonathan Franzen (RECENSIONE).




Premetto: il nuovo Franzen mi ha deluso consistentemente. 

E qui spiego perché.  Non si tratta di discutere dello straripante talento di Franzen, della sua abilità e complessità stilistica, che gli hanno dato fortuna e celebrità (con tutto quel che ne consegue al punto che oggi è difficile parlare di lui, perché come ogni fenomeno troppo popolare, ci si distingue aprioristicamente in partiti a favore e contro).  Da questo punto di vista credo che Franzen superata la soglia dei 55,  non debba dimostrare nient'altro.

E il suo romanzo è come sempre un meccanismo di altissima precisione, perfettamente oliato, dove tutto funziona o sembra funzionare a dovere. 

Nell'arco di 642 pagine - Franzen ha dichiarato recentemente di non riuscire a scrivere romanzi brevi, che il lungo è il suo formato naturale - Purity mette in scena di tutto: almeno quattro personaggi protagonisti (la prima, la ragazza chiamata Purity o Pip, in esplicito omaggio dickensiano), una ventina di personaggi secondari, trame e sottotrame che si rincorrono, racconti in prima persona, diari, messaggi, mail, flashbacks a profusione, ganci  per lasciare il lettore in sospeso alla fine di ogni capitolo, sei parti, ciascuna funzionante come una novella autonoma, colpi di scena efficacissimi, come quello di pag. 265, che scoperchia il romanzo. 

La storia è stata descritta ampiamente sui giornali, sugli inserti, sui siti: si comincia con la giovane Purity, ragazza neolaureata che vive in una sorta di casa-comune, in povertà, con i debiti accumulati per studiare che non sa come pagare.  Della madre sappiamo che ama smisuratamente sua figlia ma per qualche motivo misterioso le nasconde l'identità del padre - e anche del resto della sua famiglia. Anche lei vive ai margini, con un lavoro di commessa, psicologicamente fragilissima. 

La caratteristica di Purity, come già accadeva in Correzioni e in Libertà, è quella di lasciare ad un certo punto quello che si presume essere il protagonista, e andarsene apparentemente altrove (non è così ovviamente).  Ecco dunque che a metà del libro, a pag. 352- ma era successo già precedentemente nella parte La repubblica del cattivo gusto - Purity viene abbandonata al suo destino, dopo che ne abbiamo seguito le tracce prima a Denver, come stagista per il quotidiano locale indipendente locali, e poi in Bolivia, adepta del Sunlight Project, una sorta di Wikileaks creata dallo spregiudicato Andreas Wolf (una sorta di via di mezzo tra Julian Assange e Snowden). 

Nella seconda parte del romanzo Pip scompare. E tutta l'attenzione di concentra su Wolf (di cui abbiamo già conosciuto le radici, nella parte ambientata nella DDR dove abbiamo scoperto che è anche un assassino, anche se apparentemente per amore della giovane Anngret) e su Tom Aberant (due cognomi molto espliciti, il primo il Lupo, il secondo un Aber(r)ant), il direttore del Denver Indipendent, che ha conosciuto Wolf anni prima in Germania, e di cui custodisce l'inconfessabile segreto. 

E' proprio questa la parte debole del romanzo.  Franzen è superficiale, indugia con cinismo su Wolf e sulla sua lucidissima follia, e su Tom e le sue vergognose ipocrisie, tra la ex moglie psicotica, Anabel,  e la nuova compagna, la giornalista in carriera Leila. Gira sostanzialmente a vuoto, con l'obiettivo fin troppo dichiarato di dimostrare che la purezza non esiste, i segreti fanno parte della identità costituiva di tutti, il web è un mondo sporco forse anche più del mondo che pretende di ripulire, le amicizie non esistono, tutti tradiscono tutti. 

Il Gioco è esplicito, l'architetto del pregevole meccanismo (Franzen) è sempre al centro, esibendo le qualità della narrazione e compiacendosi di esse, mentre manca del tutto l'ironia (che in Libertà era felicemente dispensata) che rende pietoso il racconto, e possibile l'empatia del lettore. 

Alla fine della lettura si ha un senso di vuoto: la storia non ci ha dato niente, c'è l'impressione che Franzen sia rimasto vittima del suo stesso meccanismo e che la preoccupazione di dire qualcosa (molto di quello che già si sa sulla solitudine, sul mondo di internet, sulle anime sempre più connesse e sempre più disorientate) abbia prodotto il risultato di non dire nulla (o almeno nulla di nuovo). 

Gli amanti di Franzen ritrovano tutte le sue ossessioni (la mancanza e il dolore familiare, l'ornitologia, il sesso); in compenso i personaggi maschili sono terrificanti e il romanzo in molte pagine esprime una concezione totalmente maschilista del presente (le donne sono quasi tutte geishe devote in adorazione del maschio scopatore, o psicolabili irrecuperabili). 

Insomma alla fine l'unica cosa che si ammira veramente è la struttura narrativa insieme alla brillantezza dei dialoghi, alla acutezza e alla genialità delle sentenze.  Ma Purity è un romanzo che si avvicina di più a Donna Tart (e alla sua superficialità ben commerciale) piuttosto che ai grandi maestri del Romanzo Americano ai quali Franzen esplicitamente tenta e dice di ispirarsi (primo fra tutti l'inarrivabile Saul Bellow che in Purity viene continuamente evocato con uno dei suoi romanzi più grandi, Le avventure di Augie March): in effetti la differenza tra un Bellow e un Franzen è tutta qui. Bellow ha scritto una ventina di romanzi, tutti allo stesso livello di eccellenza e senza che il suo io (pure piuttosto consistente) divenisse mai l'esplicito referente della tecnica narrativa; Franzen, giunto alla terza prova della maturità scivola nell'ovvio e commette la presunzione di salire sulla ribalta più di quanto la sua nuova storia riesca mai a fare. 


Fabrizio Falconi (C) - 2016 riproduzione riservata



30/03/16

"Pastorale americana" di Philip Roth (RECENSIONE).



Ho letto Pastorale Americana, uno degli ultimi Roth che mi mancava da leggere, negli stessi giorni in cui a Roma è accaduto un brutale fatto di cronaca, l'omicidio a sangue freddo - per sapere cosa si prova - di un ragazzo, da parte di altri due, apparentemente tipi normali, provenienti da ottimi genitori e ottimi padri, i quali hanno pensato bene subito dopo l'efferato crimine, a cadavere ancora caldo, di andare in tv in prima serata (o scrivere sul proprio blog personale) a difendere questi figli e rivendicarne la bontà, la probità, l'innocenza. 

C'era dunque parecchio da meditare, mentre si scorrevano le pagine (423) di questo grande romanzo americano, nel quale Roth descrive la discesa agli inferi di Seymour Levov, detto Lo Svedese, aitante e perfetto americano (ebreo figlio di figlio di immigrati dall'est europeo), con perfetta moglie (Miss New Jersey) al fianco, che scopre nell'unica figlia Merry, una pluriomicida, bombarola contestatrice in fuga da tutto, ritrovandola più avanti nella storia in miseria, finita in una sorta di comune giainiana, sempre più disperata e sola, e del tutto immune ai richiami dell'affetto familiare. 

La catastrofe descritta da Roth è perfetta, e si dipana principalmente intorno all'argomento della rimozione dell'ombra.  Seymour è in buona fede, crede "ai valori", al modello di vita americano, crede nelle cose giuste, e la vita gli ha sempre dato ragione premiandolo con riconoscimenti e onori (nello sport, nell'amore, nel lavoro).  Ma questa perfezione è sterile, la famiglia perfetta - si sa - genera mostri (come è il caso anche delle famiglie romane di cui sopra, a quanto pare) e il piccolo mostro Merry - insieme ai suoi compagni d'avventura prima fra tutte la perfida Ruth - sa il fatto suo: sa come distruggere l'icona perfetta dalla quale proviene, sa come minarne ogni certezza, ogni convincimento, ogni sicurezza, ogni appiglio, ogni immagine ideale a dosi di deflagrante realtà. 

Roth tiene in pugno il lettore e lo spreme fino alla fine, essendo qui la sua scrittura al culmine di una abilità non fine a se stessa. 

Semmai, anzi, la scrittura risente anche troppo dell'obiettivo che sta a cuore a Roth. La sua voce parteggia fin troppo apertamente per qualcuno dei personaggi, come Ruth, la messaggera incaricata di scaricare addosso a Seymour il suo completo fallimento, o come Jerry il fratello cinico dello Svedese.

A loro Roth affida la voce di ciò che egli pensa - e non da poco tempo - sul mondo, come luogo di infelicità, di inferno, governato dalla rigida impassibilità del caso (e del caos) che ogni cosa governa, orientando l'esistenza stessa verso un orizzonte completamente privo di senso, dove perfino le nostalgie e i rimpianti non hanno albergo.

Il libro è anche abbastanza disomogeneo nel racconto. Nelle prime cento pagine del racconto, infatti, compare Nathan Zuckerman, l'alter ego dell'autore che torna in tanti suoi libri, il quale si presenta come testimone della storia, e amico dello Svedese, compagno di corso e di università. Zuckerman però, da un certo punto di vista in poi scompare. La voce del narratore diventa impersonale,  mano a mano che Seymour sprofonda nella sua caduta senza limiti.

Peccato, si direbbe: perché a noi sarebbe piaciuto ascoltare i pensieri di Zuckerman, che forse si sarebbero discostati - in profondità e ironia (quella che manca al Roth degli ultimi tempi, e che grandiosamente contrassegnò i suoi inizi) - da quelli dell'anonimo narratore che sembra assistere muto al dissolvimento della personalità di Seymour e delle sue blande certezze.

Fabrizio Falconi

Philip Roth
Pastorale americana
Traduzione di Vincenzo Mantovani
Einaudi 1997 

20/11/14

'Lo zen e l'arte della manutenzione della motocicletta.' Un libro-cometa, difficile da dimenticare.




Ci sono libri che ti ronzano dietro per 30 anni e alla fine scelgono loro quando è il momento.

Così è stato con Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta.  

Sono arrivato in ritardo, perché questo fu il libro di una generazione e 30 anni fa, tutti dovevano averlo letto. 

Leggerlo oggi è perfino blasé. 

Forse in Italia.  Questo libro, infatti si è conquistato stabilmente un posto nella letteratura contemporanea e le sue vicende sono curiose e per molti versi inspiegabili (a cominciare dal misterioso motivo per cui questo libro toccò subito il cuore di una massa enorme di persone, pur essendo un libro difficile, con interi capitoli e pagine di pura speculazione tecnica filosofica). 

A partire dalla sua pubblicazione. Come forse qualcuno sa, è quasi incredibile la storia editoriale del libro: il manoscritto inviato dal suo autore Robert M. Pirsig, fu infatti respinto nel corso di 4 anni da 121 diversi editori. 

Pubblicato dal piccolo editore William Morrow nel 1974 con un anticipo pagato all'autore di 3.000 dollari, stampato in quell'anno, ottenne un successo immediato di proporzioni mondiali, continuamente ristampato, con più di 5.000.000 di copie vendute in tutti i paesi del mondo. 

William Morrow, dopo aver letto il manoscritto, telefonò a Pirsig e gli comunicò che intendeva pubblicare quello strano libro perché "lo aveva costretto a chiedersi perché facesse l'editore. Era molto scettico sull'esito di vendite: "questi sono i primi e gli ultimi soldi che ti procureranno i tuoi libri," disse a Pirsig.  Non andò così.

Come è noto, l'autore Pirsig, compì il viaggio descritto, da Est a Ovest, attraverso gli Stati Uniti nel turbolento 1968. Questa foto ritrae il primo giorno di viaggio insieme al figlio Chris nel North Dakota.


Quest'altra foto del viaggio invece, scattata dallo stesso Pirsig, ritrae Chris e gli amici John e Sylvia, più le due moto, protagoniste del lungo viaggio (in realtà i due amici lasciano l'impresa a metà del libro).  
                                 

Questa invece è la piantina dettagliata del viaggio. 



Ma quello che conta nel libro non è il viaggio (o comunque non solo quello) e nemmeno i riferimenti allo Zen che sono del tutto secondari, o alla manutenzione della motocicletta che è soltanto la metafora di quel cammino interiore che riguarda tutti, prima o poi nella vita. 

Il libro non ha  nemmeno una qualità letteraria particolare. Ci sono romanzi stilisticamente molto più importanti di questo, in quello scorcio di Novecento. 

E' un libro importante per altri motivi

Ci sono libri infatti libri così, di tanto in tanto, che sono come meteore, oggetti strani. Che appaiono nel cielo per motivi imperscrutabili. 

Leggendolo, ho capito perché.

Quel che appassiona è la storia umana del libro. E' struggente scoprire che Chris, il ragazzino del libro, il figlio di Pirsig, che accompagna il padre in questo lungo viaggio  a tratti crudele e folle, e ne è in fondo il vero protagonista, sia stato ammazzato durante una rapina, a San Francisco, in modo assurdo appena 4 anni dopo l'uscita e il successo mondiale del libro.

Lo racconta drammaticamente Pirsig nella postfazione al libro e le cronache di allora ne riferirono abbondantemente. 

Forse è anche per questo che il libro ha avuto questo destino singolare. 

Perché il suo spirito, lo spirito di questo libro, è legato a quello di persone vive che hanno lottato con la follia, con la consapevolezza e con l'insensatezza: il cammino che tutti sfioriamo ogni giorno nella vita, e che da ogni padre si trasmette ad ogni figlio, da ogni generazione ad ogni generazione, il compito della vita: quello di districarsi nelle trappole dell'entusiasmo, attraversare le ombre, riconoscere la Qualità delle cose (che preesiste alle cose, il vero tema del libro) e attraverso questo dare un senso. 

Si tratta anche di un aspro confronto tra due modi (platonico e aristotelico, in definitiva), di interpretare il mondo. Scrive Pirsig:

All'intelligenza classica interessano i principi che determinano la separazione e l'interrelazione dei mucchi (di sabbia), i nessi, le cause gli effetti, i torti le ragioni, le conseguenze, gli errori, le responsabilità le mancanze gli arbitrii i bisogni, l'intelligenza romantica si rivolge alla manciata di sabbia ancora intatta (guarda cioè all'essenza, a quello che le cose sono). Sono entrambi modi validi di considerare il mondo, ma sono inconciliabili. 

In fondo da questa dicotomia dipende anche il risultato che lo Zen induce nel lettore di turno. Chi è dotato di prevalente intelligenza classica, sarà portato a valutare il libro come un tentativo pretestuoso di dare nome all'innominabile; viceversa, chi dispone di intelligenza romantica sarà portato a entrare senza indugio nella disputa filosofica pazzoide di Pirsig con tutte le scarpe e a lasciarsi travolgere dal vissuto del legame di vita drammatico e unico che si ripete in ogni passaggio generazionale. 

Comunque la si pensi e comunque lo si senta, il libro eccolo qua: che gira ancora il mondo (nell'anno di grazia 2014) e porta il suo... disegno ancora lontano, come appunto una cometa. 

Fabrizio Falconi

21/07/14

Nabokov, lo scrittore della felicità: arriva l'e-book di Lila Azam Zanganeh.


Lila Azam Zanganeh


Vladimir Nabokov scrittore della felicita' per eccellenza e della luce. L'autore di 'Lolita' era prima di tutto questo per la scrittrice di origini iraniane LilaAzam Zanganeh che lo racconta, con un originale intreccio tra romanzo e saggio, in 'Un incantevole sogno di felicita'. Nabokov, le farfalle e la gioia di vivere' (euro 6,99). 

Il libro esce in Italia in ebook ed inaugura la collana 'Mosaico' della casaeditrice digitale indipendente emuse con illustrazioni di Thenjiwe Niki Nkosi, nella traduzione di Stefania Riga, dopo la pubblicazione nel 2011 in versione cartacea per L'Ancora delMediterraneo. 

"Volevo far riscoprire Nabokov, la sua propensione alla felicita' e alla bellezza, il suo essere scrittore della consapevolezza e volevo avvicinare il maggior numero di persone possibili alla sua idea di letteratura e far capire che non e', come si crede, un autore difficile" dice all'ANSA Lila Azam Zanganeh, 37 anni, che e' nata a Parigi da genitori iraniani, ha fatto un master su Nabokov, insegnato ad Harvard, vive a New York e sta scrivendo, con Jesse Lichtenstein, una sceneggiatura su Nabokov per un film che sara' prodotto da Didier Jacob. 

 Il libro e' un viaggio in 15 tappe nell'immaginario nabokoviano, con molte citazioni dalle opere dello scrittore russo e con molti spunti immaginari, tra cui un'intervista inventata, impossibile al punto da sembrare vera, in cui si mostra un Nabokov lontano dallo stereotipo che lo associa al malessere morale e sessuale. 

Per 'Un incantevole sogno di felicita" ha avuto, caso raro e difficilissimo, anche l'approvazione di Dmitri Nabokov, il figlio dello scrittore e dell'adorata moglie Vera Slonim, morta nel 2012 e spauracchio di tanti nabokoviani. 

"All'inizio avevo paura di Dmitri, grande traduttore in inglese delle opere del padre, un uomo molto attento ai dettagli, un pO' misogino, ma alla fine l'incontro con lui, nel 2003, mi ha dato coraggio. Gli ho letto tutto il libro a voce alta, poteva distruggermi e alla fine mi ha dato i diritti delle opere e soprattutto mi ha detto che avevo trovato la voce di suo padre. Siamo diventati amici e sono rimasta vicino a lui fino alla fine" dice Lila che e' stata scelta anche per fare parte della Fondazione Nabokov per coltivare la memoria dello scrittore scrittore. 

"Nabokov - spiega Lila - diceva che ci sono diversi tipi di scrittori, il peggiore e' il maestro e il migliore e' l'incantatore, quello che trasforma il nostro sguardo. L'arte non ci insegna niente, ma attraverso la letteratura guardiamo meglio il mondo. La bellezza e' importante ed e' il sentiero verso il mondo dell'immaginazione che per Nabokov e' la realta' al suo livello piu' alto. Con questo sguardo entriamo nella luce" sottolinea Lila a cui non interessa l'autofiction che ora va tanto di moda, ma proprio questo rapporto con l'immaginazione. 

"Tutti i grandi romanzi sono dei racconti di fata". E cosi' in Lolita e nel libro preferito da Lila, 'Ada o ardore', la gioia deriva da un'esperienza estrema, dal desiderio spinto alla follia.

Il libro digitale - che in Italia ha ancora un mercato limitato - per la scrittrice e' "la forma perfetta per 'Un incantevole sogno di felicita". 

Fin dall'inizio lo avevo immaginato in ebook. Il libro e' nato visuale, ci sono tante immagini, disegni, anche un photoshop in cui io appaio di spalle come intervistatrice dello scrittore.

E' anche un oggetto ludico nel rispetto della verita' di Nabokov" sottolinea Lila che scrive in inglese, parla tantissime lingue e benissimo l'italiano che la mamma poetessa le ha fatto amare da bambina. 

"L'Italia per me e' la seconda patria. Da bambina l'ho girata tutta e rappresenta per me un universo favoloso. I piu' cari amici che ho a New York sono italiani". E ora Lila sta scrivendo un romanzo sull'amore che "e' una riscrittura, molto fantastica, dell'Orlando furioso' dell'Ariosto. 

17/05/14

'Il cardellino' di Donna Tartt: il piacere (effimero) di leggere una storia.




Di solito - premetto - non leggo libri così.   
Intendo libri che arrivano preceduti da un enorme battage pubblicitario, da premi (Pulitzer 2014) e investiture sul campo come 'libro dell'anno', che non si può evitare di leggere. 

Ma non avendo letto nulla di Donna Tartt ero abbastanza incuriosito. I libri poi arrivano sempre nel momento deciso da loro, ed era evidentemente il momento giusto per sobbarcarsi una lettura come questa, quasi 900 pagine, una storia perfino estenuante, scritta interamente in prima persona, in unità di tempo e luoghi, senza flashbacks, senza quegli espedienti di frammentarietà che vanno così di moda oggi. 

La Tartt è molto brava, nel congegno narrativo: la macchina funziona - non per niente proviene da quel Bennington College dal quale sono usciti anche Bret Easton Ellis e Jonathan Lethem - con efficacia implacabile, pagina dopo pagina, con tutti gli snodi che rendono un libro leggibile e una storia accattivante. Si va a dormire incuriositi e con la voglia di farci raccontare cosa succederà quando riprenderemo in mano il libro. 

Theo, un ragazzino di dodici anni, resta orfano di madre - il padre, un ex attore sbevazzone ha già mollato il tetto coniugale da tempo, sparendo nel nulla - durante un misterioso attentato in un museo, nel centro di Manhattan.  Sepolto dalle macerie - la scena madre del libro si dipana all'inizio per cinquanta pagine ed è scritta con la necessaria magniloquenza e precisione dei dettagli di chi sa che è essa ad innescare il meccanismo narrativo che ti terrà avvinto per le successive 850 pagine - Theo scoprirà solo in seguito che la madre è morta, ma intanto avrà fatto in tempo a portare con sé, nello stordimento generale, un preziosissimo piccolo quadro, Il Cardellino, dipinto dal fiammingo Carel Fabritius nel 1654. 

Quella tela diventa il talismano di Theo, la sua àncora per sopportare i dolori del mondo che gli proverranno dalla nuova condizione di orfano: la scoperta del mondo di Hobie, l'antiquario nobile e silente che prende ad occuparsi di lui;  l'adozione da parte di una ricca famiglia di Manhattan, i Barbour; il ritorno del padre, che torna a farsi vivo accompagnato da Xandra, una svitata e lo porta a vivere con loro a Las Vegas; l'amicizia totalizzante con Boris, il Lucignolo che avvia Theo sulla strada della perdizione e della droga; la fuga solitaria per tornare a casa a New York; l'escalation nel mondo dell'antiquariato occupandosi della bottega di Hobie; i guai che ne seguiranno e le vicende gangsteristiche che porteranno il libro alla sua conclusione. 

Il Cardellino è un libro con molte ambizioni. Ma la qualità letteraria non è adeguata, ahimé, a supportarle.  

Contrariamente al facile entusiasmo di quelli che anche qui in Italia hanno scomodato paragoni con Saul Bellow o Henry Roth,  la scrittura della Tartt non è assolutamente all'altezza di questi confronti. 

Siamo cioè molto più dalle parti di Stephen King - che infatti ha recensito entusiasticamente il romanzo - che di Saul Bellow. 

Pur nella ricchezza del testo, nelle invenzioni narrative, nell'impianto Dickensiano così apparentemente solido, Il Cardellino ha un vuoto di fondo che non si riempie. 

Non si tratta soltanto della filosofia nichilista che pervade il romanzo, quasi come un teorema scontato. L'anima della storia resta ad un livello superficiale. 
Funzionano alcuni personaggi - il migliore è Hobie - altri molto meno, così come non funzionano affatto quelle trappole per il lettore che sono molto artificiose e di facile individuazione per chi non è proprio di primo pelo. 

Il personaggio di Theo resta, ma sono insopportabili a lunghi tratti le sue tirate vittimistiche, autocompiacenti e autocompiaciute, così come è insopportabilmente descritta - con eguale compiacimento - la parossistica caduta nel gorgo delle droghe (del vomito, della nausea, dei collassi, delle visioni) che avvita il libro su ritmi più stantii. 

Il vuoto comunque resta. E forse è proprio questo vuoto che sta a cuore alla Tartt, come lei stessa ci mostra nelle ultime pagine del romanzone. 

Senza compiere nessuno spoiler, si può affermare che il Cardellino resta alla corda, alla catena, esattamente come l'uccellino dipinto da Carel Fabritius nel 1654. 

Si ha cioè l'ìmpressione che un tale sfoggio di tecnica narrativa - al contrario dei grandi maestri che, dando voce poetica alla tecnica trasformano l'immateriale narrativo in reale-concreto-per-le nostre-vite - resta, come i vivaci colori del Cardellino fiammingo: pura manifestazione esteriore. 

Il pianto di Theo non riesce mai a scuoterci o a commuoverci fino in fondo.  La vita interiore richiede un surplus di  mondo reale e di mediazione poetica che nessuna raffinata tecnica narrativa, da sola, può restituire. 


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 






06/02/14

Il decalogo per chi vuole scrivere. Di Keith Botsford.



Annie (foto di Keith Botsford)

Keith Botsford (1928) è nato a Bruxelles e vive da alcuni anni a Cahuita, in Costarica.
Per metà italiano e per metà americano ha studiato in Inghilterra e negli Stati Uniti, all'università di Yale. 
La sua biografia infatti per vastità di luoghi esplorati - dall'Europa agli Stati Uniti, dall'America Latina e Centrale al Giappone - e di storia vissuta - dalla Polonia sotto il giogo sovietico all'Inghilterra degli angry youg men, dalla Partisan Review alle sue frequentazioni, nella Tokyo degli anni cinquanta, di Mishima Yukio e Donald Keene, dall'effervescenza parigina delle illusioni sartriane (a cui non ha mai creduto) alla Hollywood dei grandi registi fuggiti dal nazionalsocialismo - racchiude il romanzo del secolo scorso. Dall'epoca della Seconda Guerra mondiale non c'è evento storico di una qualche entità di cui Botsford non abbia memoria, senza contare che di molti è stato spesso attore non marginale.
Romanziere, editor, compositore, avvocato, professore universitario, direttore di rivista (confondatore con Saul Bellow di: ANON, The Noble Savage, News from The Republic of Letters), poliglotta, ex-ufficiale dell'Intelligence, sportivo, giornalista (Sunday Times, The Indipendent), gastronomo di una certa fama, traduttore, collezionista... Keith Botsford è sempre di un'umiltà che nobilita l'autore dell'opera, facendogli allo stesso tempo il più grande omaggio che su questa terra egli possa ottenere: essere letto in ogni sua frase. Pretende di essere citato in molte note a piè di pagina nelle biografie degli altri, di chiunque altro, e desidererebbe essere letto più di quanto non lo sia, un tratto che condivide con gli autori più seri in assoluto. Fra le sue ultime opere: Out of Nowhere (2000), Editors: The Best of Five Decades (con Saul Bellow, 2001), The Mothers (2002), Emma H. (2003), Collaboration (2007), Death and the Maiden (2007), Fragments I (2008), Fragments II (2010), Jozef Czapski: A Life in Translation (2010), Fragments III (2011). 

Questo è il suo decalogo per chi, nella vita, si è messo in testa di scrivere. 


I - A vent'anni, avendo già pubblicato qualche libro, mi vedevo come una figura letteraria. Era solo presunzione. Scrivere è un mestiere e un'arte. Il mestiere richiede arte e l'arte richiede mestiere. Sono gli altri i migliori giudici di quello che scrivi, non tu. E' sciocco accordare a te stesso qualcosa che non hai meritato.

II - Ci vuole molto tempo prima di sviluppare la propria voce. Nel frattempo sono gli altri scrittori che ti spronano ad andare avanti. Non c'è niente di male nell'imitarli a lungo (anzi, è una buona pratica). Arriverà il momento in cui sarai in grado di trovare la strada di casa.

III - Non c'è un modo giusto di scrivere, ma ci sono molti modi sbagliati e, peggio ancora, molta ignoranza e imprecisione. Nessun insegnante mi ha insegnato a scrivere, ma molti hanno corretto i miei errori. Di solito non facevano altro che indicarmeli.

IV - Ho avuto molte difficoltà nel pubblicare i miei libri e sono stato spesso umiliato dagli editors. Mi sono vendicato pubblicando con generosità molti autori e riscrivendo le pagine degli altri con umiltà.

V - La letteratura non è che un modo di scrivere. Con una nidiata di figli da mantenere ho dovuto pensare a come guadagnarmi da vivere. Questo mi ha insegnato che, se nutri un vero interesse, qualsiasi cosa può diventare interessante - perfino un resoconto bancario o un referto giudiziario. L'interesse per le cose ti rende interessante. Per apprendere questa lezione e allo stesso tempo portare a casa lo stipendio, è necessaria molta pratica. Per questa ragione bisogna scrivere costantemente. Se vuoi suonare bene il pianoforte devi esercitare le tue dita ogni giorno. Anche lo scrivere ha i suoi esercizi tecnici per rendere le dita più agili: note, diari, trascrizione di passi scelti dai libri che leggi e ricordi, e soprattutto, la traduzione, l'esercizio supremo nel renderti maestro sullo stile di qualcuno.

VI - Sono stato abbastanza fortunato nel trovare un lavoro nel giornalismo. Ho scritto di tutto: articoli di sport, di gastronomia, ritratti, necrologi, cronache, articoli d'attualità... Da questo mestiere ho imparato l'importanza delle scadenze, ad abbandonare un testo quando è necessario, a scrivere rapidamente, a pensare in fretta e a rispondere immediatamente ai tempi e alle richieste.

VII - Ho imparato che per ogni testo c'è un lettore (una grande gioia per uno scrittore non ancora sicuro di sé) e che dovevo rivolgermi a quel lettore e non a me stesso. La brevità è un giudice implacabile. Il mio miglior editore mi raccontava sempre la storia di quello scrittore che diceva a se stesso: "Se solo avessi più tempo, potrei renderlo più breve". Scrivere in un inglese (o in qualsiasi altra lingua) chiaro e efficace dipende dal grado di considerazione in cui teniamo il lettore. Il mio caro amico Saul Bellow me lo diceva sempre: "Prendi il Lettore per mano, Keith, e lui ti seguirà in capo al mondo". O come io dico ai miei studenti: "Non scrivete per me, ma per il mondo. O almeno per vostra zia Nelly di Boise, nell'Idaho".

VIII - Il segreto dello scrivere per un lettore è la semplicità. Io non l'ho ancora del tutto appreso, per questo sulla mia scrivania tengo una targa su cui c'è scritto a lettere cubitali: SEMPLIFICA! Niente a che vedere con gli sfarzi della letteratura, e della vita. Non penso che esista ciò che di solito viene chiamata "giovane (immatura) promessa letteraria". Un giovane scrittore mostra i suoi talenti, si gingilla allo specchio, ostenta le sue capacità. I veri scrittori devono conoscere tutto. Per questo hanno bisogno di tempo per crescere e per smettere di pensare a loro stessi. Gli scrittori maturi sono in grado di mettere in relazione le idee più disparate. Si interessano a ogni cosa: alle chiacchiere del barbiere come alla densità di una poesia.

IX - Per questo tipo di ricchezza sono necessarie vaste letture e la conoscenza di diverse lingue. A meno che non vogliate ascoltare una sola voce. Quello che Catullo scrive (e il modo in cui lo scrive) è importante per uno scrittore, ma "Odio e amo" non è la stessa cosa di "Odi et amo". La curiosità che ci spinge verso altre voci è ciò che ci permette di avere qualcosa da dire. Bisogna imparare ad ascoltare. A domandare. Chiedi a tuo nonno com'è stata la sua vita, così come un giorno chiederai ai tuoi nipoti com'è la loro.

X - A tutti gli scrittori è richiesta tenacia. Devono capire che scrivere non è sempre il frutto dell'ispirazione, che si possono avere giorni buoni e giorni cattivi e che a volte sono necessari venti o trenta tentativi prima di raggiungere quello che si vuole dire. Come scrittore mi sono spesso domandato: "Come si fa a diventare scrittori?". La mia sola risposta è: scrivendo. A ciò potrei aggiungere - ma raramente lo faccio, e solo per scoraggiare coloro che pensano che scrivere sia un mestiere che si impara in una scuola di scrittura - che scrivere è ciò che di meglio possa capitare a coloro che si sentirebbero orfani se non lo facessero. In altre parole, per il povero servo che non ha altro modo per sopravvivere.

27/04/13

La vita di Jack London, come un romanzo.




La vita di uno scrittore mitico come Jack London (1876 - 1916) non e' meno avvincente, interessante e vera di quella da lui narrata nel romanzo 'Martin Eden', sulla formazione, la fatica, la fortuna, l'insoddisfazione e gli amori si un giovane scrittore self made man nell'America di fine Ottocento, quasi un ritratto del sogno americano, tra illusioni e tradimenti. 

Cosi' questa biografia, approvata dalla Jack London Foundation, si legge come un vero e proprio romanzo di formazione, col passaggio dai lavori piu' umili alla partecipazione alla guerra di Crimea, dalla passione per viaggi e lavori avventurosi sino al grande successo letterario nel vivere la propria arte come una professione.

Daniel Dyer, professore e divulgatore, ci racconta gli sforzi di questo esploratore senza paura lungo la pista che porta a diventare scrittore: dai primi fallimenti all'imposizione di un'autodisciplina, con la quale regolamentarsi: scrivere e leggere ogni giorno, anche in mare, anche quando l'ispirazione sembra mancare. 

L'arte come doloroso ma ineludibile impegno di vita, per sfondare nella vita e cercare di capirne qualcosa. Daniel Dyer ha una moglie scrittrice e ha insegnato a tutti i livelli dalla scuola media, ai corsi universitari, e pubblicato saggi su numerose riviste, tra cui la National Review, oltre alle biografie di Mary Shelley e di Edgar Allan Poe.

DANIEL DYER, 'JACK LONDON' (MATTIOLI 1885, pp. 280 - 17,90 euro).

22/04/13

Un processo per adulterio - Il nuovo grande libro di Kate Summerscale.



Segnalo l'uscita di questo libro, che merita davvero. 


Dopo il grande successo di Omicidio a Road Hill House (Frontiere 2008 e Super ET 2011), Kate Summerscale torna in libreria con la storia vera di Mrs Isabella Robinson, una Lady vittoriana accusata di adulterio, e del controverso processo di divorzio che la vide protagonista. Isabella è infelicemente sposata con un ingegnere civile di Edimburgo, un uomo di «mentalità ristretta e temperamento violento», nonché personaggio «poco istruito, egoista e orgoglioso». 

Un matrimonio che non ha nulla a che vedere con l'amore e che, nell'estate del 1857, naufraga definitivamente davanti ai giudici del neonato tribunale londinese per i divorzi civili. Henry Robinson accusa Isabella di non essergli stata fedele e, come prova del suo tradimento, presenta alla corte il diario della moglie. 

«Nel corso di quei cinque giorni di processo migliaia di parole segrete scritte da Isabella Robinson furono lette davanti alla corte e riprodotte quasi integralmente dai giornali. Il diario conteneva descrizioni particolareggiate ed erotiche in cui si alternavano angoscia ed euforia, ed era un'opera più immorale e licenziosa di qualsiasi romanzo inglese contemporaneo». Il diario documenta gli struggimenti di Isabella per Edward Lane - un medico di dieci anni più giovane - e, nonostante non faccia piena luce su quello che è successo davvero tra di loro (sempre che qualcosa sia successo), solo un miracolo potrebbe impedire a una corte di giudici anziani e conservatori di condannare la donna. Gli avvocati di Lady Isabella, però, propongono una spiegazione alternativa: il diario non è altro che una «prova di romanzo», un'elaborata opera di fantasia scaturita dalla mente malata di una donna sconvolta dal demone dell'isteria. La rovina di Mrs Robinson è un magistrale affresco d'epoca. 

Un racconto avvincente e appassionante, nato dalla meticolosa ricostruzione di testimonianze, documenti e fatti. Un viaggio nel cuore e nei pensieri di una donna libera, intelligente e anticonformista, troppo presto. Un'eroina moderna, «aliena in un'epoca aliena», che Kate Summerscale ci restituisce in tutte le sue travolgenti contraddizioni. 


14/04/13

Annapaola Cancogni, ovvero Quentin Clewes: 'Lei', un libro straordinario.






Ci sono scrittori da cento libri.  Scrittori bulimici, la cui opera somiglia alla pianta della mangrovia, che attecchisce nelle paludi con il clima umido e si ramifica all'infinito, senza soluzioni di continuità.

Ci sono scrittori, invece, la cui opera è fragile come un fiore notturno, che la mattina è già appassito e il suo profumo intenso ha inebriato così intensamente l'aria da permanere a lungo nonostante la sua brevissima vita. 

E' il caso dell'opera di Annapaola Cancogni, la figlia del grande Manlio Cancogni, morta a soli cinquant'anni nel 1993 a New York, dove viveva e insegnava letteratura italiana, traduceva (Eco, Pontiggia), scriveva saggi.

La morte prematura di Annapaola svelò all'epoca un'autore vero, raffinato e pienamente formato. 

Un solo romanzo scritto  e pubblicato - Jetlag. 

Più quattro straordinari brevi racconti, che nel 1998 furono pubblicati in Italia dall'editore Fazi - con testo inglese a fronte - per l'iniziativa meritoria di Simone Caltabellota.



Il libro si intitola Lei, ed è firmato con lo pseudonimo maschile di Quentin Clewes.

E, come scrisse Giulia Borgese per il Corriere della Sera, in questi racconti si sente un'aria di autobiografia: nel primo, Lapsang Souchong, il giovane uomo che e' l'io narrante parla della ragazza arrivata chissa' da dove: La prima volta che la vidi mi parve uno di quei gigli bianchi dal collo lungo che si slancia in su e poi s'arriccia agli orli. Ma sbagliavo. Per un giglio, era troppo riservata... Aveva il collo lungo e orgoglioso del giglio ma insieme la modestia e la dignita' della fresia

Un chiaro indizio di quell'interesse per la duplicita' (maschile/ femminile; il giglio/la fresia), che viene rinforzato da questo altro passo: Rammentava come a quattordici anni, infastidita del fatto che l'identita' delle persone fosse per forza determinata da qualcosa di relativamente irrilevante come il loro sesso, aveva deciso che da quel momento in poi sarebbe stata "it".

Un tentativo cioè inedito di uscire dalla terza persona, da "she" e da "he", dall'essere per forza "lei" o "lui", per ritrovare - o almeno tentare di ritrovare - l'io.

Ma a parte questo, i quattro racconti in questione: Salammbo, Erie-Lackawanna e Lei, sono autentici gioielli di sintetica forza emotiva espressi in uno stile limpido ed essenziale che incide e tocca lasciando il segno. 

Si pensa ad Alice Munro, si pensa a Anne Tyler, ma si pensa anche ai grandi maestri del racconto breve, a Fitzgerald o all'immenso Maupassant.  

Eppure, il fiore Annapaola ha seminato il suo profumo nell'aria soltanto per una notte...

Fabrizio Falconi.