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23/03/15

Le catacombe di Santa Priscilla e il "Lupo Mannaro" della seconda guerra mondiale.

Cortile delle Catacombe di Santa Priscilla (foto Fabrizio Falconi)


Le catacombe di Santa Priscilla e il Lupo Mannaro della seconda guerra mondiale.

La fama di quelle catacombe – che si è sempre saputo essere molto estese, secondo alcuni le più grandi di Roma, con oltre tredici chilometri di cunicoli sotterranei – ha sempre fortemente influenzato il quartiere Trieste che le ospita, al confine con il Salario. 

Un altro toponimo di queste strade – la piazza Acilia, che è attraversata dalla Via Nemorense – rimanda direttamente alla storia delle catacombe. Il nome infatti non si riferisce alla cittadina sulla via Pontina, ma alla gens Acilia, alla quale con ogni probabilità apparteneva la donna che oggi dà il nome alle catacombe, anzi per l’esattezza alla famiglia degli Acilii Glabriones. 

Priscilla era, secondo quanto hanno ricostruito gli archeologi e secondo quanto risulta da una iscrizione funeraria, insieme agli Acilii, la proprietaria dei terreni su cui fu costruita la necropoli.  
Il nucleo più antico delle catacombe risale al II secolo d.C. quando si iniziò a scavare la collinetta tufacea nella zona che oggi sovrasta Villa Ada e che anticamente permetteva di dominare la confluenza dei due fiumi, il Tevere e l’Aniene. 

 Ma fu nel III e nel IV secolo che il cimitero divenne vastissimo, quando esso cominciò ad ospitare i numerosi martiri delle persecuzioni anticristiane di quell’epoca, compresi i corpi di sette papi. 

Nei cunicoli, disposti su tre livelli che si spingono fino a quaranta metri di profondità, furono sepolti migliaia di corpi, secondo alcune stime fino a quarantamila persone, non soltanto cristiane. 

Come capitò ad altre catacombe anche queste, dopo le invasioni barbariche furono abbandonate nel VI secolo dopo Cristo, finché a partire dalla fine dell’Ottocento non furono riscoperte, insieme ai resti della Basilica (poi divenuta soltanto una chiesetta) di San Silvestro sulla Via Salaria, costruita nel IV secolo d.C., dopo l’Editto di Costantino e ricostruita in forme moderne. 

Fu proprio durante questo periodo, nella prima parte del Novecento, che lo scalpore per la scoperta delle catacombe e della loro incredibile estensione, si diffuse per il quartiere che si andava in quegli anni densamente popolando. 

Come sempre, le catacombe portarono con loro una fama oscura, gotica. Era stato così da sempre a Roma, nel corso dei secoli e fu così anche nei primi del Novecento. 

Quei misteriosi cunicoli, che si snodavano per chilometri e per molte profondità, alimentarono la fantasia popolare, insieme al crescere degli incubi che la minaccia bellica diffondeva anche sulla Capitale

Cominciarono a diffondersi sinistre leggende su inquietanti visitatori di quei cunicoli che si diceva vi emergessero soltanto nottetempo. 

Proprio negli anni del secondo conflitto mondiale, la zona di Piazza Vescovio, poco distante dalle Catacombe cominciò a convivere con una misteriosa presenza che terrorizzava i cittadini: si sentivano strane urla di notte, si scorgevano ombre curve, una sinistra figura inafferrabile che gli abitanti del quartiere si dissero certi fosse un lupo mannaro, visto che le sue visite parevano manifestarsi con maggiore frequenza nelle notti di plenilunio. 

Preoccupati da ben altre incombenze, quelle derivanti dai bombardamenti degli alleati, le autorità dell’epoca non tardarono a risolvere la questione assicurando che il responsabile era stato trovato: si trattava di un povero malato mentale che passava le notti ad urlare ed ululare. 

E che fu per questo condotto in manicomio, liberando il quartiere da quei funesti sospetti. 

Le catacombe di Santa Priscilla, oggi visitabili soltanto in minima parte, colpiscono i visitatori con le loro splendide pitture, sopravvissute ai secoli e ai millenni

In particolare quella dell’Orante del III secolo (in realtà si tratta di una donna velata, con le braccia levate, raffigurata in un lunetta); la figura della Madonna con Bambino – ritenuta la prima raffigurazione mariana della storia – al lato del profeta Isaia che addita una stella (II secolo); la cosiddetta Cappella Greca, con iscrizioni tracciate in rosso, con stucchi pregevoli; l’affresco con Santa Susanna; quello che raffigura l’Epifania e la fractio panis; il ninfeo; l’ipogeo degli Acilii con splendide decorazioni. 

Alle catacombe, il cui sito è curato dalle Suore Benedettine di Priscilla, si accede oggi dal civico 430 di Via Salaria.


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. Tratto da Misteri e segreti dei Rioni e dei Quartieri di RomaNewton Compton Editore

05/03/15

L'orologio di Roma, sul campanile del Palazzo Senatorio al Campidoglio.



L’orologio di Roma, sul campanile del Palazzo Senatorio al Campidoglio


La torre campanaria del palazzo senatorio al Campidoglio – che come si sa è il più antico palazzo municipale del Mondo – viene chiamata popolarmente anche “Torre della Patarina”, a causa di una delle campane che custodisce, la celebre Patarina portata da Viterbo nel 1200 e che da allora (anche se quella esistente oggi è una copia dell’ottocento della campana originaria) scandisce gli eventi più importanti della vita cittadina, come l’elezione del sindaco e la ricorrenza del 21 aprile, il Natale di Roma. 

Ma un’altra particolarità di questa torre, dalla cui sommità si gode forse il panorama più esclusivo della Capitale, è quella del grande orologio che divide in due il profilo del campanile e che è famoso anche per la sua precisione, da quando fu qui collocato, nel 1806, dopo essere stato smurato dalla vicina basilica dell’Aracoeli. 

Si trattava quindi di un meccanismo ancora più antico e con assoluta certezza del primo orologio pubblico cittadino, peraltro ancora perfettamente in funzione. 


In origine, segnava la cosiddetta “ora italica”, aveva cioè il quadrante diviso in sole sei ore. La suddivisione in dodici ore si ebbe soltanto nel 1847, dopo la riforma voluta da Pio IX, che metteva così lo Stato pontificio al passo con il resto dell’Europa. 

La storia di quel vetusto orologio si arrestò nel 1922, quando si rese necessario sostituire il meccanismo con uno più moderno. 

Quello attuale, sospeso a quarantacinque metri di altezza rispetto alla piazza, fu realizzato con un complesso meccanismo di pesi in ghisa e di acciaio tutti marchiati con la sigla capitolina, S.P.Q.R. Da allora, la manutenzione dei suoi ingranaggi, è affidata a un solo mastro orologiaio. 

I nomi di coloro che si sono alternati nei decenni in questo delicato ruolo sono iscritti su una targa nel muro dello stanzino da cui si accede al cuore del cronografo. 

Nei primi tempi, dopo il 1922, il movimento delle lancette era sincronizzato con il suono delle campane, i cui rintocchi coincidevano con le ore e con i quarti. Questa usanza fu poi abolita, ma ancora oggi, nell’epoca dei cellulari e del digitale, il grande orologio del Campidoglio continua a non perdere un colpo e a scandire il trascorrere del tempo nella città eterna.


Fabrizio Falconi - (C) riproduzione riservata. Tratto da Misteri e segreti dei rioni e dei quartieri di Roma, Newton Compton, Roma, 2013. 

24/02/15

Piazza di Spagna, la Barcaccia, il malocchio e il fischio di Mosè.




Piazza di Spagna, il malocchio e il fischio del Mosè. 

Per molto tempo, la Piazza di Spagna fu definita cristianissima piazza, quasi si trattasse della Piazza più santa di Roma, ancor più di Piazza San Pietro. 

Ciò si doveva in parte alla pianta della Piazza, che sembra ricalcata quasi sul monogramma di Cristo, cioè il Labarum, il Chi-Ro, con le due lettere greche simbolizzate dalle quattro strade laterali che vi convergono e che sembrano una ics (la Chi greca) e l’asse centrale che l’interseca (da Via Condotti alla Scalinata) che rappresenterebbe la erre (la Ro greca); in secondo luogo per l’affollamento di edifici o monumenti di ispirazione cristiana che vi si affacciano, la Chiesa di Trinità dei Monti, il collegio di Propaganda Fide, la Barcaccia del Bernini che sembra richiamare la navicella di San Pietro e infine la colonna dell’Immacolata. 

Questa, ha una storia davvero particolare. Alta quasi dodici metri e con un diametro di un metro e mezzo fu rinvenuta integra durante scavi eseguiti nel 1778, e proveniva probabilmente dal complesso degli edifici augustei che sorgevano in quella zona nel I secolo d.C. 

Proprio per le sue notevoli dimensioni, però, la colonna rischiò incredibilmente di essere di nuovo sotterrata. 

Al contrario degli altri frammenti ritrovati in quegli scavi che si prestavano ad un rapido reimpiego, era difficile trovare una giusta collocazione ad una colonna così imponente. Restò dunque malinconicamente abbandonata per molti anni nei pressi del Quirinale, in attesa di una occasione per un suo riutilizzo, occasione che arrivò quando papa Pio IX decise di celebrare il dogma dell’Immacolata Concezione da lui proclamata. 

L’inaugurazione della Colonna (grazie ai diecimila scudi versati al Papa da Ferdinando II di Borbone), nella nuova collocazione avvenne l’8 dicembre – festa dell’Immacolata – del 1854, e a sorpresa, il Papa non fu presente. 

Uno dei cronisti dell’epoca, il britannico Norton, che era protestante, colse allora subito l’occasione per ironizzare sul Pontefice, vaticinando che l’opera avrebbe avuto sicuramente una ottima riuscita, visto che – come scrisse nei suoi diari – ho sentito dire che la sua presenza era temuta per la fama che egli ha di portare il malocchio. 


Davvero irriverente, nei confronti di un Papa... La Colonna, poi fu oggetto anche di un’altra celebre pasquinata: quando furono svelate le quattro statue alla base del monumento, rappresentanti i quattro profeti, Isaia, Ezechiele, David e Mosè, il popolo non tardò ad accorgersi che l’ultima di queste statue – proprio quella di Mosè – aveva una bocca che appariva sproporzionatamente piccola.

Pasquino allora scrisse uno sferzante epigramma, facendo finta di rivolgersi al Mosè, come aveva fatto Michelangelo, dicendogli: Parla ! E il Mosè dalla bocca piccola, gli rispondeva: Non posso ! E di rimando Pasquino: Allora fischia! E il Mosé: Sì, fischio lo scrittore ! Che era il povero e inconsapevole Ignazio Jacometti.

Tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri e segreti dei rioni e dei quartieri di Roma  2013, 412 p., ill., rilegatoEditore Newton Compton.

27/09/14

Castel Sant’Angelo e la spada delle esecuzioni.


Nell’ultimo decennio dell’Ottocento, durante i lavori di scavo eseguiti per l’incanalamento del fiume, uno strano reperto fu quasi miracolosamente rinvenuto nel greto del Tevere. 

Si trattava di una spada risalente al XVI secolo, in bronzo, con la lama lunga ben centouno centimetri, larga cinque sulla sommità e sette alla base e con l’impugnatura in legno lunga trentanove centimetri.

la spada delle esecuzioni conservata nel Museo Criminologico di Roma

Gli studiosi non tardarono ad identificarla come la spada di giustizia (oggi è conservata nelle sale del Museo Criminologico di Via del Gonfalone), uno dei macabri arnesi del boia che non lontano dal punto di ritrovamento del reperto esercitava il suo mestiere nella Roma del Cinquecento e fino a tutto l’Ottocento. 

Ai piedi di Castel Sant’Angelo sorgeva infatti il palco delle esecuzioni capitali - sul quale esibiva le sue terribili capacità il leggendario Mastro Titta, il boia più famoso di Roma – e nei cui locali sottostanti era sistemato il magazzino con tutti gli accessori che servivano per quelle necessità.


La ricostruzione di una delle esecuzioni di Mastro Titta a Castel Sant'Angelo


Non è perciò fantasioso immaginare che proprio quella spada, ritrovata tre secoli dopo del tutto casualmente, sia stata quella con cui furono decapitate, fra le altre, Beatrice Cenci e Lucrezia Petroni.

Castel Sant’Angelo, infatti, nella sua lunga millenaria storia, oltre a servire come monumento funebre e sepolcro dell’imperatore Adriano, residenza di Papi, rifugio, fortezza difensiva, fu utilizzato per molto tempo come prigione. 

uno scorcio delle prigioni storiche di Castel Sant'Angelo

E nelle sue segrete celle furono rinchiuse diverse illustri personalità: dal Cardinal Vitelleschi a Pomponio Leto, da Alessandro Farnese (diventato poi Papa col nome di Paolo III) a Giordano Bruno, al Conte di Cagliostro e a Benvenuto Cellini (il quale fu protagonista di una celebre fuga e rinchiuso poi nei terribili sotterranei), fino ai patrioti che durante il Risorgimento si batterono per detronizzare il Papa dal suo potere temporale.

Ma certamente il caso più famoso di reclusione e di esecuzione capitale a Castel Sant’Angelo fu quello che riguardò Beatrice Cenci che a ventidue anni fu giustiziata l’11 settembre del 1599 insieme al fratello Giacomo (per squartamento) e alla matrigna Lucrezia Pietroni.

Come tramandano le cronache dell’epoca, quello fu un vero e proprio caso giudiziario, tra i più scandalosi e dibattuti della intera storia della Capitale: del processo infatti parlò tutta Roma, e per ancora per i secoli a venire la fama della sinistra vicenda influenzò grandi scrittori come Stendhal, Percy B. Shelley e Alexandre Dumas.

E c’era tutta Roma quel giorno ad assistere, nella Piazza di Castel Sant’Angelo, alla esecuzione della bella Beatrice – accusata di parricidio – e dei suoi complici. Una folla enorme nel caldo afoso d’agosto: in tanti svennero per la calca, altri addirittura finirono spintonati nel fiume.

Nella piazza, tra la gente, c’era anche il giudice Ulisse Moscato che aveva proclamato la sentenza di morte e i più grandi avvocati dell’epoca – Molella e Farinacci – che si erano divisi i ruoli della difesa e dell’accusa; c’erano turisti e curiosi, frati confessori e tutti i rampolli delle famiglie nobili dell’epoca; c’erano soldati e artisti, perfino Michelangelo Merisi da Caravaggio e Artemisia Gentileschi, i più grandi dell’epoca. 

Caravaggio-Giuditta che taglia la testa a Oloferne (1598-1599)

E non è difficile immaginare quale suggestione dovette suscitare nei due pittori – anche in riferimento ai famosi quadri che realizzarono - l’esecuzione dei condannati: prima madama Lucrezia, la matrigna di Beatrice e poi la stessa Beatrice furono decapitate a fil di spada.


Artemisia Gentileschi, Giuditta decapita Oloferne, Muse Capodimonte, Napoli, 1612-13


Molto probabilmente quella stessa spada che – quasi tre secoli dopo – le sabbie del Tevere hanno restituito, praticamente intatta.

Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. Tratto da Misteri e segreti dei Rioni e dei Quartieri di RomaNewton Compton Editore

24/07/14

La Torre delle Milizie - Il "punto di vista" più alto e originale di Roma.



Santa Caterina a Magnanapoli vista dalla Torre delle Milizie



La Torre delle Milizie, la più alta di Roma.
(foto di Fabrizio Falconi)

Anche Roma ha la sua Torre pendente, un possente edificio medievale, alto ben 51 metri che domina l’intera città, elevandosi alla fine della Via IV Novembre tra i Mercati di Traiano e il Quirinale. 

E’ la Torre delle Milizie che popolarmente è stata chiamata anche Torre di Nerone o Torre Pendente, a causa della sua inclinazione che si può apprezzare dalla sua vicinanza alla Chiesa di Santa Caterina a Magnanapoli. 

L’appellativo Torre di Nerone invece, derivò da una falsa leggenda, essa sarebbe esistita già ai tempi dell’Imperatore e anzi, proprio dalla sommità di questa torre, egli avrebbe ammirato il panorama della città in fiamme, mentre, come tramanda la tradizione, suonava la sua cetra. In realtà invece la torre, pur essendo la più antica tra quelle di Roma, risale all’epoca di Papa Gregorio IX (1227-1241d.C.) e fu costruita su commissione della potente famiglia Conti dall’architetto Marchionne Aretino, per essere poi donata a Papa Caetani, Bonifacio VIII che la trasformò in residenza e fortificazione personale, per lui e per la sua famiglia per difendersi dagli acerrimi nemici, i Colonna. 

La torre originariamente era formata da tre piani rivestiti di laterizio, su una base quadrangolare di tufo già esistente e facente parte delle Mura Serviane: oggi ne restano soltanto due, perché il terzo, il più alto, fu abbattuto perché pericolante, quando l’edificio, passato alla famiglia dei Caetani, fu gravemente danneggiato dal terremoto che sconvolse Roma nella notte tra il 9 e il 10 settembre del 1348. 

 
Villa Aldobrandini vista dalla Torre delle Milizie

Alla torre, anche per via della sua mole imperiosa, del suo aspetto severo, sono state attribuite nel corso dei secoli molte leggende, una delle quali secondo cui essa era una sorta di periscopio, di occhio sulla città, di una ampia magica reggia, sotterranea, fatta costruire da Augusto per sorvegliare la sua città. 

La leggenda dice anche che l’imperatore, un giorno salirà sulla torre, resuscitando dai morti, e quel giorno indicherà il momento nel quale Roma tornerà ad splendere come faro di luce nel mondo. Quel che invece è certo, è che dal Cinquecento la Torre, dopo essere stata di proprietà dei Conti e del Cardinale Napoleone Orsini, entrò in possesso delle suore domenicane di Santa Maria a Magnanapoli, che vi rimasero per alcuni secoli, e le cronache del Settecento e dell’Ottocento raccontano delle monache che venivano avvistate ad una delle sei finestre della Torre, o sulla terrazza, uniche privilegiate a godere l’impareggiabile panorama sulla città.  

La scala medievale in legno di ciliegio che sale fino alla sommità (51 metri) della Torre delle Milizie.


Soltanto agli inizi del Novecento l’edificio fu dichiarato monumento nazionale, dopo che – a causa degli scavi nei cantieri per la costruzione della Via Nazionale – la Torre aveva aumentato la sua inclinazione, che rese necessario un massiccio restauro operato da Antonio Munoz nel 1914. 

Il Foro di Traiano visto dalla Torre delle Milizie

Dal 1927 la Torre fa parte dei Mercati di Traiano-Museo dei Fori Imperiali. La stabilità dell’edificio è messa parzialmente a rischio dall’intenso traffico della sottostante Via IV Novembre e per questo motivo la Torre continua ad essere oggetto di restauri e manutenzione, oltre che di monitoraggio.



La Torre delle Milizie imponente sul Foro di Traiano

15/07/14

La "donna scaltra" e l'origine della leggenda della Bocca della Verità.


Santa Maria in Cosmedin

La Bocca della Verità e la mirabile leggenda della scaltra donna.

Fa certamente impressione vedere in qualsiasi stagione, con qualsiasi tipo di condizione meteorologica,  l’incredibile fila di turisti che ogni giorno si dispongono in ordinata fila fuori dalla chiesa di Santa Maria in Cosmedin, in quello che una volta si chiamava Foro Boario, sin dalle prime luci del mattino, per sottoporsi al rito della Bocca della Verità,  l’antica usanza di fotografarsi mentre si infila la mano nella bocca del grande medaglione di marmo pavonazzetto che da tempo immemore si trova in questo luogo.  E certamente stride il contrasto tra l’entusiasmo esagerato per ammirare quella che è in fondo solo un’antica pietra e l’indifferenza di queste schiere di turisti (che compiuto il rito, se ne vanno via frettolosi) per la chiesa che la ospita, un vero gioiello dell’architettura medievale italiana. 

Ma tant’è: la fama della Bocca della Verità è aumentata con il tempo, sempre di più, in particolare dopo che anche Hollywood ha pensato bene di celebrarne il mito in quel famoso film che William Wyler diresse nel 1953, Vacanze Romane, nella scena con Gregory Peck e Audrey Hepburn entrata nella storia del cinema.
Il bello è però che a cospetto di tanta fama, il mistero intorno alla celebre pietra, non è ancora dissolto. Creduto per molto tempo di epoca etrusca, il grande tondo (5,80 metri di circonferenza per 1,75 metri di diametro) raffigurante la testa di fauno è stato invece, secondo nuovi studi, ritenuto più recente, sicuramente originale, ma di epoca romana imperiale e riconosciuto come uno dei tombini o chiusini di cloaca che adornavano la città di Roma nel suo massimo splendore, a complemento di una rete idraulica e fognaria unica al mondo.


Le fattezze del fauno erano sicuramente ispirate dunque ad una divinità fluviale, forse allo stesso Portuno, dio dei porti e del fiume, al quale peraltro i romani avevano edificato un grande tempio proprio lì nel Foro Boario, a pochi metri di distanza dalla chiesa di Santa Maria in Cosmedin.
Non si sa come e quando prese piede la leggenda di attribuire alla pietra un potere di stabilire la verità. Quel che è certo è che l’oggetto viene già ricordato nei Mirabilia Urbis Romae la guida per i pellegrini che visitavano Roma nell’anno Mille.  Fu in epoca medievale che la leggenda cominciò a svilupparsi, con la proprietà riconosciuta a questa pietra di scoprire – richiudendo le sue fauci intorno alla mano della colpevole – quando una donna avessi fatto fallo a suo marito.

A questo proposito cominciarono a circolare numerosi aneddoti riguardanti la pietra, che si diffusero – attraverso i pellegrini una volta che tornavano nei loro paesi – in tutta Europa.  Il più arguto dei quali arrivava a spiegare anche il motivo per cui, da un certo punto in poi, la Bocca della Verità avesse deciso di smettere il suo lavoro, di segnalare cioè le infedeltà che gli veniva chiesto di esaminare.  


Secondo questo racconto popolare, che fiorì a Roma probabilmente nel Settecento, la giovane moglie di un patrizio romano era stata sorpresa dai vicini di casa a ricevere assidue visite da un amante mentre il marito, molto indaffarato per ambasciate fuori città, si assentava.  Senza lasciarsi commuovere dalle lacrime, il marito tradito decise di richiedere la prova della Bocca della Verità in pubblico.

E nell’ora convenuta, una gran folla si radunò davanti alla chiesa di Santa Maria in Cosmedin (anticamente la pietra non si trovava nell’atrio come ora, ma appoggiata sulla parete esterna dell’edificio).  Accadde però che prima della prova, un giovane si fece largo tra la folla e tra lo sconcerto generale si avvicinò alla donna ritenuta colpevole e cominciò a stringerla e a baciarla sulla bocca davanti a tutti.  Immediatamente lo sconsiderato fu portato via a forza di braccia dalla folla.

Tornata la calma, la supposta adultera si avvicinò fieramente alla pietra e infilando la sua mano nel grande foro della bocca pronunciò questa frase: “Giuro che nessun uomo mi ha mai abbracciato e baciato, all’infuori di mio marito e di quel giovane demente!”  

La mano rimase intatta, la bocca non si chiuse, il marito perdonò e la folla esplose nel giubilo.

Ma.. la donna era – come è fin troppo facile arguire – molto scaltra e aveva semplicemente trovato, insieme al suo amante, un espediente infallibile per trarre in inganno tutti, compresa la stessa Bocca.  La quale, dice la leggenda, offesa da tanto ardire, e consapevole di essere stata raggirata, decise da quel momento di non esercitare più il suo ruolo e di non chiudere mai più .. la bocca. 

04/06/14

Domenica prossima pioggia di petali di rose al Pantheon per la Pentecoste.

Anche quest'anno, domenica prossima, giorno della Pentecoste, il Pantheon ospiterà una delle più suggestive meraviglie della tradizione romana: la pioggia di petali dall'oculus del glorioso Tempio di Marco Vipsanio Agrippa, considerato il monumento più perfettamente conservato dell'antichità romana. 

Chi non c'è mai stato, dovrebbe non mancare.  E propongo questo piccolo assaggio video. 

Per chi poi si troverà domenica da queste parti, suggerisco la visita al piccolo Vicolo della Spada d'Orlando, poco distante dal Pantheon, che offre sorprendenti curiosità ai visitatori.  Il brano è tratto da Fabrizio Falconi, Misteri e segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton Editore, 2013. 





Il Vicolo della Spada d’Orlando. 

Tra il Pantheon e la Piazza Capranica, nel rione Colonna, c’è a Roma, una piccola strada, appena un vicolo, che ha un nome davvero singolare, soprattutto in una città la cui storia sembrerebbe lontana dalle vicende leggendarie legate all’epopea del paladino Orlando e della sua prodigiosa spada, la Durlindana – o Durendal – che secondo la Chanson de Roland sarebbe stata donata ad Orlando proprio da Re Carlo Magno. 

Eppure, proprio a Roma, a quanto pare esiste una memoria forte legata alle gesta mitiche del Paladino di Francia. Nella scena più cruenta della Chanson, Orlando si trova a fronteggiare i Saraceni sul Valico di Roncisvalle, e la sua Durlindana diventa un’arma invincibile. Con la portentosa spada, l’eroe uccide migliaia di nemici, fin quando, per paura che l’arma possa cadere nelle mani avversarie, il Paladino decide di distruggerla con un terribile colpo assestato ad una colonna (un colpo talmente forte che secondo la leggenda, avrebbe generato  la gigantesca fenditura nella roccia, alta più di cento metri, chiamata Breccia di Orlando, che si visita sul crinale dei Pirenei, non lontano da Roncisvalle).

La Durlindana però era così resistente, che non si ruppe nemmeno dopo quel poderoso impatto, e ad Orlando non rimase altro che nasconderla sotto il suo corpo, insieme all’olifante con il quale aveva tentato di richiamare Carlo Magno, soffiando così forte nello strumento fino a farsi scoppiare le vene. 

Versione che viene accanitamente negata dagli abitati della cittadina pirenaica di Rocamadour i quali sostengono che la vera Durlindana è quella che si vede ancora, incastrata in una parete rocciosa verticale del loro paese: secondo i monaci di Rocamadour, infatti, Orlando non nascose la spada, ma la gettò via, e non si sa come finì serrata in quel costone di roccia, dov’è ancora visibile, assicurata ad una pesante catena. 

Ma cosa c’entra in tutto questo il nostro vicolo romano? C’entra, perché secondo un’altra versione, la colonna contro la quale Orlando avrebbe cercato di spezzare la sua spada, sarebbe stata, non si sa per quali misteriosi motivi, trasportata a Roma. E’ stata forse semplicemente la fantasia popolare a partorire questa storia, vista la presenza nel vicolo di un  tronco di colonna di marmo bianco cipollino, che sembra in effetti colpita dal fendente di un’arma bianca.



C’è anche poi chi ha voluto fantasticare, ipotizzando anche una presenza a Roma del Paladino di Francia, del tutto leggendaria. 

 Il Vicolo però, oltre al tronco di colonna, possiede altri motivi di interesse, per la presenza di particolari sedili, in realtà sporgenze di un antico muro laterizio che attiene al cosiddetto Tempio di Matidia, costruito dall’imperatore Adriano nel 119 d.C. e dedicato alla suocera, Matidia, madre di Sabina, che era anche la nipote diretta di Traiano; e per la fontanella che eroga Acqua Vergine, anticamente collocata dalla vicina Via de Pastini e qui traslocata nel 1869, come si legge nella iscrizione muraria posizionata alla sua sommità.



tratto da Fabrizio Falconi, Misteri e segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton Editore, 2013. 


14/02/14

I curiosi graffiti di Porta San Sebastiano, sulla Via Appia.




Poco in vista, defilata rispetto ai monumenti e agli itinerari del centro storico, la maestosa Porta San Sebastiano è la più grande e anche la meglio conservata di quelle che anticamente esistevano lungo le Mura Aureliane per l’accesso alla città. Era collocata al termine della Via Appia, che si percorreva da sud per raggiungere l’Urbe, come del resto è anche oggi. 

Anticamente però la Via Appia si snodava anche nel tracciato cittadino, partendo direttamente dal Campidoglio e questo spiega come mai, appena fuori della Porta, sulla destra, all’inizio della via sia murata l’antica colonna miliaria (in realtà si tratta di una copia, l’originale fu spostato in epoca medievale ai piedi della collina del Campidoglio, dove si trova tuttora) che aveva il compito di segnare il primo miglio della Via Consolare e che fra l’altro funzionò come modello di lunghezza lineare per tutte le altre strade romane.


Oggi la Porta è invece collocata al termine di quella che è stata chiamata Via di Porta San Sebastiano (e che era in origine l’Appia), subito dopo quello che viene chiamato comunemente Arco di Druso e che gli archeologi hanno scoperto essere nient’altro che uno dei fornici dell’Acquedotto Marcio che alimentava le monumentali Terme di Caracalla, e non invece un arco trionfale. 

Il progetto originario della Porta, con i due torrioni circolari che la caratterizzano e che ancora esistono, risalgono proprio all’epoca di Aureliano, ma il monumento fu completamente rifatto sotto l’imperatore Onorio (nel 401 d.C.) con la realizzazione di una fortificazione a livello superiore, con un cammino di ronda merlato e due basi quadrangolari rivestite di blocchi di marmo che furono messe a circondare (e quindi a rafforzare) le torri rotonde. 



I rivestimenti marmorei di queste basi angolari hanno la strana caratteristica di alcune escrescenze di forma rotonda e convessa che hanno suscitato la curiosità degli archeologi. A che servivano ? L’ipotesi più probabile è che si tratti di elementi decorativi ispirati agli umboni, cioè le parti sporgenti collocate nel mezzo degli scudi militari. Un’altra teoria invece spiega la presenza di questi orpelli come elementi apotropaici, destinati ad allontanare le energie negative dei nemici intenzionati a dare l’assalto alle mura della città.

Ma un altro motivo di interesse della Porta (che ospita fra l’altro l’interessante Museo delle Mura, poco conosciuto) sono i numerosi graffiti e le numerose incisioni di cui è ricoperto il marmo del fornice centrale, dell’ingresso, verso la città.


Tra di esse è celebre la figura, sullo stipite destro (con le spalle al Campidoglio) dell’Arcangelo Michele, con una lunga iscrizione in latino che ricorda la battaglia vinta dalle truppe romane (guidato da Giacomo Ponziano) contro l’esercito del Re di Napoli, Roberto D’Angiò il 29 settembre 1327, il quale voleva occupare Roma e che proprio qui si svolse. L’iscrizione così risulta tradotta: L'anno 1327, indizione XI, nel mese di Settembre, il penultimo giorno, festa di S. Michele, entrò gente straniera in città e fu sconfitta dal popolo romano, essendo Jacopo de' Ponziano capo del rione.

La dedica all’Arcangelo Michele, una delle figure più care della iconografia cristiana, nella Roma medievale era il tributo a quello che si supponeva essere stato un intervento divino, in grado di ribaltare la sproporzione delle forze in campo, nettamente a favore del Re di Napoli.

Ma sugli stipiti, a destra e a sinistra, se soltanto si esamina con attenzione – con la necessaria accortezza visto il continuo transito di automobili – sono presenti molti altri graffiti, molto semplici, con iniziali, date e croci, lasciati dai pellegrini che erano riusciti a raggiungere la città dopo viaggi che si immaginano molto molto difficili e pericolosi. 


Altrettanto interessante è notare la scanalatura della saracinesca che scendeva a chiudere ermeticamente la Porta manovrata dalla camera soprastante, assicurando, insieme al duplice battente di legno, la resistenza contro gli attacchi nemici.

In effetti, forse in pochi altri monumenti come questo, a Roma, si percepisce, attraverso il connubio tra fortificazioni e graffiti votivi, l’alternarsi delle sorti di guerra e pace che hanno contrassegnato i lunghi secoli di storia dell’Urbe.

01/12/13

Misteri e segreti dei rioni e dei quartieri di Roma - dal 5 dicembre in libreria.






Dal 5 dicembre sarà in libreria Misteri e segreti dei rioni e dei quartieri di Roma, che ho scritto per l'editore Newton Compton.  

Si tratta di un volume (416 pagine) nel quale ho raccontato le storie poco conosciute su molti luoghi di Roma, frutto del mio lavoro personale di ricerca degli ultimi anni (parte di questo materiale è il frutto degli articoli pubblicati nel tempo su questo e su altri blog). 

Qui sotto trovate l'indice dei luoghi che ho trattato nel libro, nella divisione per gli antichi ventidue rioni di Roma e dei quartieri periferici. 


I – Monti

1. Il sacello della Papessa Giovanna
2. L’antichissimo ritratto del Salvatore nel mosaico della Basilica di San Giovanni in Laterano.
3. Villa Aldobrandini, la Villa nascosta e il dipinto più bello del mondo
4. Il Quadrato Magico e il palindromo nei sotterranei di Santa Maria Maggiore.
5. L’immagine acheropita conservata nel Sancta Sanctorum della Scala Santa al Laterano e il Velo di Camulia.
6. La Torre delle Milizie, la più alta di Roma.
7. La Chiesa dei Santi Silvestro e Martino ai Monti, e i Papi morti di morte violenta.

II- Trevi

1. La testa di San Giovanni Battista nella chiesa di San Silvestro in Capite in Piazza San Lorenzo.
2. La strana storia del Vicolo Scannabecchi
3. Il palazzo Mengarini al Quirinale e la leggenda dell’avvocato Agnelli
4. La  basilica dei Santi Apostoli, le reliquie di Filippo e Giacomo, le più sicure della cristianità.
5. L’Asso di coppe nella Fontana di Trevi.
6. Il palazzo Maccarani – Brazzà, dove nacque il più grande esploratore italiano.
7. Palazzo Barberini e il prodigio del sole nell’uovo.