Visualizzazione post con etichetta corriere della sera. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta corriere della sera. Mostra tutti i post

03/10/14

La gentilezza nel donare crea amore. Lao Tzu, Marina Cvetaeva e Rilke.



La gentilezza nel donare crea amore. 

Così scrive Lao-Tzu, e davvero - se solo vi si porge attenzione - questo è ciò che crea un amore, una relazione d'amore: gentilezza nel donare

Non occorre cioè, dice Lao-Tzu, solo la capacità di donare perché ci sia amore.   Occorre anche la gentilezza nel donare.  La gentilezza, che a noi spesso appare come una qualità esteriore, formale, è invece, sembra dirci Lao-Tzu, sostanza. Proprio perché nell'amore, tutto ciò che è forma è anche sostanza. 

A questo punto, se vi è gentilezza del donare, ogni amore è possibile. Ogni tipo di amore. Non importa quali implicazioni terrestri vi saranno.

Ci ripenso, ricordandomi dello struggente amore scritto tra Rainer Maria Rilke e Marina Cvetaeva, che pure, non si incontrarono mai di persona. 


Nel maggio del 1926 Rainer Maria Rilke si trova nella clinica svizzera di Val-Mont per curare un malessere ancora ritenuto lieve, di probabile origine nervosa (in realtà sono le avvisaglie di quella leucemia che lo condurrà alla morte il 29 dicembre dello stesso anno).

Da tempo ormai, da quando ha terminato il decennale lavoro delle Elegie duinesi, la vita in lui si è fatta «stranamente pesante», il suo corpo, prima così servizievole, ora sembra rifiutarsi di assecondarlo; e su tutto la terribile sensazione di vuoto, di spaesamento, di chi si è ormai lasciato alle spalle il culmine della propria parabola umana e creativa.

Nel mezzo di una simile crisi, trova però il tempo, esaudendo una richiesta di Boris Pasternak, di scrivere a un’intima amica di quest’ultimo, la poetessa Marina Cvetaeva, per inviarle con dedica un proprio volume di liriche.

La risposta di lei non si fa attendere: un’appassionata, debordante dichiarazione d’amore verso il poeta Rilke, anzi, verso un Rilke che è addirittura «l’incarnazione della poesia», nonché «quanto di più caro possieda al mondo » questa esule russa dall’esistenza difficile e tormentata. E al suo tono appassionato, come all’uso del «tu» con cui la Cvetaeva supera d’un balzo, sin dall’inizio, le convenzioni di uno scambio epistolare tra sconosciuti, lui si adegua immediatamente.

Comincia così tra i due il breve, folgorante carteggio ora pubblicato nella traduzione italiana di Ugo Persi (Lettere, SE, pp. 104, € 13); comincia, possiamo dire, una breve ma intensissima storia d’amore tra un uomo e una donna accomunati dalla più profonda diffidenza verso ciò che nell’amore è adempimento, legame, possesso.

Entrambi, per tutta la vita, hanno sempre cercato tutt’altro: quello slancio dell’anima che è sinonimo, o traduzione, o alimento dello slancio poetico; quel «bacio assoluto» rispetto al quale ogni bacio concreto rappresenterebbe già una forma di degradazione.

Tanto Amelia Valtolina quanto Pina De Luca, autrici delle due interessanti postfazioni che completano il volume, sottolineano appunto la centralità, in questo carteggio, dell’idea di una «produttività del non-possesso», sia sul piano dei sentimenti sia su quello, quasi inscindibile, della riflessione poetica.

È una consapevolezza che spesso, soprattutto in Rilke, si vena di rassegnazione: la consapevolezza, come egli scrive nell’Elegia dedicata a Marina, che entrambi sono soltanto «dispensatori di segni» e che «quest’opera lieve, quando uno di noi/ più non regge e s’induce alla presa, / si vendica e uccide».

L’«opera lieve» del poeta, che solo attraverso il più paziente e sistematico sacrificio dell’Io può arrivare davvero ad abbracciare e trasfigurare tutte le cose nello spazio dei propri versi, del proprio «invisibile cuore»; ma anche l’opera altrettanto lieve e delicata degli amanti, che vive di un fragilissimo equilibrio tra prossimità e distanza.

Eppure, dopo alcuni mesi, la Cvetaeva tenta di spezzare questo equilibrio. Sente di dover «approfittare del caso di essere ancora (e pur sempre!) un corpo vivo», e propone a Rilke di incontrarsi «in qualche posto della Savoia francese molto vicino alla Svizzera».

La reazione di lui a questa proposta è cauta, vagamente intimorita; tanto da spingerla a dichiarare, nella lettera successiva, «Tu credi che io creda alla Savoia? Sì, come anche Tu, come al regno dei cieli». E infatti, i due non si vedranno mai.

All’accorato «Mi ami ancora?» inviato il 7 novembre su una cartolina postale Marina non riceverà risposta; la «strana gravezza», la «discordanza» tra l’anima e il corpo hanno sospinto Rilke in una regione inaccessibile, sottraendolo a qualsiasi relazione umana. 

Gli scriverà un’ultima volta la sera del 31 dicembre, dopo aver appreso della sua scomparsa, per commentare di nuovo, con l’amarezza delle parole definitive: «Io e te non abbiamo mai creduto nel nostro incontro qui sulla terra - come non abbiamo mai creduto in questa vita, non è vero?»

Paola Capriolo per Corriere della Sera. 

19/09/14

Oberati dalle tonnellate di Volo & Camilleri ? - Una riflessione di Paolo di Stefano.





Anche voi come me vi sentite oberati dalle tonnellate di fabiovolo che ostruiscono le entrate delle Feltrinelli, rendendo irreperibile o introvabile l'unica copia superstite di un Nooteboom o di un Cancogni ? Leggete questo bel pezzo di Paolo di Stefano, pubblicato sul Corriere della Sera del 16 settembre 2014.


Probabilmente c'è sempre stato, ma il divario che separa oggi gli ottimisti dai pessimisti mi pare più ampio e forse più significativo del solito. 

È comunque un tema interessante che Piergiorgio Giacchè affronta nell'ultimo numero della rivista Lo Straniero a proposito del saggio-intervista di Marino Sinibaldi Un millimetro in là (Laterza). 

Tradizionalmente, e detto un po' a spanne, il pessimismo è conservazione, l'ottimismo è progresso, il famoso ottimismo della volontà di gramsciana memoria, e cioè l'ottimismo che deriva dalla possibilità di cambiare le cose attraverso un'azione politica, sociale, culturale. 

Giacché rimprovera a Sinibaldi di arrendersi alla realtà, accettando, sia pure da sinistra, la sacra trinità di Steve Jobs tecnologia-contenuto-desiderio. 

Così va il mondo, e noi non possiamo/dobbiamo fermarlo. 

Oggi da una parte c'è chi ritiene che si stia andando diritti verso una deriva senza ritorno, c'è invece chi considera questo il migliore dei mondi possibili e irride a quel che gli appare come un catastrofismo ingenuo da bambini dell'asilo spaventati da tutto. 

Il sospetto è che la battaglia non sia più tanto tra apocalittici e integrati, ma tra depressi ed euforici, per una sorta di ciclotimia diffusa nel tessuto psicosociale: chi ha bisogno di dire che tutto va male e che andava molto meglio in passato (ah, la nostalgia!); chi si ostina a ribadire che non potrebbe andare meglio, che è assurdo resistere, dobbiamo cavalcare con slancio i segnali del nuovo (soprattutto tecnologici), senza stupircene troppo. 

Certo, è pressoché una battaglia contro i mulini a vento la resistenza a certe tendenze che non piacciono, ma qualche piccolo «sabotaggio» critico all'andazzo generale ogni tanto sarebbe salutare e rinfrescante. 

Per esempio, ieri in una vetrina Feltrinelli ho visto esposti solo libri presenti in classifica, sono entrato e sono stato travolto sempre da colonne di top ten . Che bisogno c'è di promuovere a quel modo titoli che si sono già promossi da soli? Così va il mondo? 

Alessandro Piperno si dice irritato dai «denigratori di best seller », risentiti (invidiosi?) e nostalgici, aggiungendo però che quando scorre le classifiche dei libri prova «una vertigine di follia e di futilità». Dunque? 

Irrita di più la futilità o i denigratori del suo trionfo? Senza fare crociate patetiche contro i best seller , sarebbe troppo offensivo e nostalgico e illusorio e immobilista e conservatore chiedere alla civilmente impegnatissima catena Feltrinelli di diversificare un po' di più? 

Sì, lo so che nei negozi Feltrinelli c'è (quasi) di tutto, che la bibliodiversità è democraticamente rispettata, ma quel tutto è come se non ci fosse se viene schermato dalla muraglia dei successi annunciati. 

Secondo esempio: l'insistenza sulla tecnologia a scuola. Siamo sicuri che la presenza di strumenti digitali (anche) a scuola giovi all'apprendimento? 

Personalmente ho forti dubbi, tendo a diffidare, come il maestro elementare Franco Lorenzoni, il quale ritiene che le aule vadano liberate dalla colonizzazione, dei new media, che già occupano (militarmente) la vita quotidiana dei bambini e dei ragazzi. 

Carta e matita sono nostalgia? Catastrofismo? Disfattismo? 

15/11/13

100 anni fa la Recherche di Proust. Un articolo di Alessandro Piperno su Swann




Cento anni fa, ieri, esattamente il 14 novembre 1913, debuttava, dopo una serie di risposte negative di varie case editrici, "Dalla parte di Swann", primo volume del capolavoro di Marcel Proust "Alla ricerca del tempo perduto", che restera' nella letteratura mondiale. 

Editori Internazionali Riuniti celebra l'anniversario riproponendo, nella collana Asce, le "Poesie" (traduzione della poetessa Luciana Frezza), una silloge di componimenti editi in riviste, o in differenti raccolte di lettere, o in pubblicazioni di amici dell'autore, o in plaquettes di "versi ritrovati", o ancora inediti provenienti per lo piu' dall'archivio di Madame Mante-Proust e dal Fonds Marcel Proust dell'Universita' dell'Illinois a Urbana. 

Nella stessa collana e' presente anche il romanzo "Gelosia" (traduzione di Cristiana Fanelli) del maestro francese.



Alessandro Piperno Marcel Proust. Perché Swann (la vittima) è uno di noi

Chissà se tra le tante definizioni della Recherche non possa trovare spazio anche questa: la Recherche è la lunga impudica confessione di un saggista impazzito. Proust è alle soglie della mezza età, in piena sindrome Salieri: pensa che Dio gli abbia regalato il dono di saper riconoscere la bellezza, ma non di saperla inventare. Spinto dal risentimento, si mette a scrivere un saggio letterario contro Charles Augustin de Sainte-Beuve, uno dei più grandi scrittori francesi del XIX secolo. Ma ecco che questo astioso saggista, nonché romanziere fallito, trascinato dalle sue elucubrazioni, viene preso dalla smania di raccontarci i fatti suoi o, quanto meno, i fatti di un tizio che gli somiglia parecchio: da allora in poi non riesce più a fermarsi. Il risultato è il più fiabesco e, allo stesso tempo, il più nichilista romanzo mai scritto.

fonte ANSA  -  Corriere della Sera – la Lettura 10 novembre 2013

30/10/13

Goffredo Parise: "Gli italiani non hanno mai amato l'idea dello Stato, è estranea al loro cuore e al loro cervello."




«La mia ragione e il mio sentimento sono condotti da un'idea estremamente elementare: l'enorme difficoltà di molti italiani a concepire non soltanto l'idea dello Stato ma soprattutto l'idea della democrazia».

Così scriveva Goffredo Parise nella rubrica di corrispondenza con i lettori del Corriere della Sera tenuta tra il 1974 e il 1975. Alcune di quelle risposte sono raccolte da Adelphi in Dobbiamo disobbedire (76 pagine, 7 euro a cura e con una postfazione di Silvio Perrella).




Negli anni in cui con i Sillabari, Parise aveva deciso di tornare ai sentimenti primari e a una scrittura quasi trasparente nella sua limpidezza, anche il suo sentimento civico si volgeva ai "fondamentali". Con la sensibilità rabdomantica del grande artista percepiva esattamente cosa stava cambiando e cosa permaneva nello spirito degli italiani. Individuando quelle costanti di fondo che restano vere ancora oggi.

«L'Italia non vuole più essere l'Italia. Gli italiani (parlo della grandissima maggioranza) non vogliono più essere italiani. Se ne fregano dei monumenti, dei musei, di San Pietro e della chiesa cattolica, dei Palazzi Pitti e Uffizi; ci mandano i loro figli con la scuola, ma se ne fregano, e se ne fregheranno i loro figli quando sarà il momento. Gli italiani non vogliono più essere italiani perché vogliono essere ancora meno che regionali, vogliono essere "paesani", "paisà", perché l'unità d'Italia, che del resto non c¿è mai stata, oggi c'è meno che mai. Oggi l'Italia è spezzata non in staterelli, ma in "lotti", in piccole, piccolissime, proprietà private a cui gli italiani, nel loro povero animo e nel loro povero corpo privi di Stato tengono in modo fanatico.

Per gli italiani di oggi, non di ieri, l'Italia è il "lotto", il proprio terreno, la propria villetta, il proprio "bicamere e servizi", costruiti da geometri o finti architetti secondo i propri gusti e soprattutto in materiali pressoché eterni come il cemento armato che diano a quei poveri corpi e a quelle povere anime senza Stato l'illusione di averne uno, indistruttibile. Se potessero costruirsi un bunker, con fabbrichetta accanto e un proprio esercito personale, lo farebbero. Il perché è troppo lungo da spiegare, fondamentalmente va ricercato nell'assenza non soltanto dello Stato ma dell'idea dello Stato (che fa lo Stato), che non gli è mai stata insegnata, che non hanno mai amata, che è ostica al loro cervello e al loro cuore, e in cui non credono».


16/02/13

Claudio Magris sulle dimissioni del Papa.



Vi riporto l'articolo di Claudio Magris, comparso sul Corriere della Sera il 13 febbraio 2013, sulle dimissioni del Pontefice. 


QUANDO IL NO SERVE AD AFFERMARE LA LIBERTÀ E LA DIGNITÀ DELLA PERSONA

È più facile prendere che lasciare, dire di sì che dire di no. Quasi tutto ci spinge, quasi sempre, a dire di sì dinanzi a ciò che ci viene offerto e alla condizione in cui ci troviamo: la paura di offendere o di far restar male qualcuno, il timore di rimanere fuori gioco, lo sgomento davanti a cambiamenti della nostra vita, antichi e radicati imperativi morali, spesso sacrosanti, che impongono il dovere di agire, di combattere, di restare al proprio posto come i capitani di Conrad al comando di una nave in gran tempesta. È dunque comprensibile che il grande e fermo no detto da Benedetto XVI abbia sconcertato tante persone, fedeli e no, prese alla sprovvista da una rinuncia alla più alta carica e responsabilità del mondo. È comprensibile che ci sia chi ammiri e chi deplori la risoluta decisione del Papa, anche se il legittimo sentimento di consenso o di smarrimento non autorizza nessuno ad ergersi comodamente e arrogantemente a giudice di quella drammatica risoluzione, sofferta ma portata con straordinaria fermezza, una fermezza che forse mai prima questo Pontefice, problematico e talora esitante, aveva dimostrato con altrettanta intensità.


È più facile, in generale, dire di sì, esplicitamente dinanzi a una nuova richiesta o implicitamente restando nella condizione in cui ci si trova. Ma è soprattutto con il no che si affermano la libertà e la dignità di un individuo: rifiutare e dunque mutare ciò che appare immutabile, sfatare la pretesa di ogni situazione consolidata che si crede salda e indiscutibile, non bruciare l'incenso agli idoli, talora mascherati da dei. Il gesto di Joseph Ratzinger è certo un gesto rivoluzionario, che stravolge le regole, le consuetudini e le aspettative felpate e prudentissime della Curia romana, cautele circospette radicate nei secoli e divenute talora Dna, spesso stampate nei lineamenti e nelle facce ineffabili di molti suoi alti e interscambiabili esponenti. Prendere atto, apertamente, di una propria debolezza e inadeguatezza è una delle più alte prove di libertà e di intelligenza. Lukács, il filosofo marxista, non è forse mai stato così grande come quando, ultraottantenne, si è dichiarato incompetente a giudicare l'opera che stava scrivendo e l'ha affidata ai suoi scolari. Il vecchio eschimese che, sentendosi inutile, lascia l'igloo e sparisce nella notte artica dimostra una lucidità e una forza superiori a quelle dei suoi compagni. Proprio per questo, c'è chi sostiene che Benedetto XVI avrebbe potuto - secondo alcuni, dovuto - restare al suo posto, per il bene di tutti. Ma ci si può sostituire a chi vive quel dramma, sul quale noi tranquillamente dissertiamo? Sostituirsi a chi sente nelle sue vene, nelle sue fibre, nelle sue fantasie anche fugaci prima ancora che nei suoi articolati pensieri la propria forza o la propria debolezza e avverte nel suo respiro, nel suo sudore la realtà della sua vita?

Come ha ineguagliabilmente chiarito Max Weber, c'è un'etica della convinzione e c'è un'etica della responsabilità. La prima impone di agire secondo principi assoluti, non discutibili: se sta scritto «non uccidere», non si snuda la spada, qualsiasi cosa possa accadere. La seconda impone di agire pensando alle sue conseguenze: se nessuno avesse snudato la spada davanti a Hitler, bombardando e uccidendo pure tanti innocenti bambini tedeschi, il nazismo sarebbe stato padrone del mondo e Auschwitz sarebbe stata la regola. Entrambe le etiche sono altissime ed entrambe possono degenerare, rispettivamente nel cieco fanatismo impermeabile alla realtà e nella giustificazione di ogni compromesso.

Non sappiamo se Ratzinger abbia agito secondo l'etica della convinzione o secondo quella della responsabilità, ritenendosi inadeguato - cosa più che comprensibile per un uomo della sua età cui il vicariato di Cristo non risparmia alcun decadimento comune a tutti gli uomini - a guidare la Chiesa. Se è così, ha fatto il suo dovere, cosa che era difficile fare. Si possono avanzare tutte le illazioni possibili sui fattori che possono averlo spinto a quella decisione: qualche imminente grave crisi della Chiesa che egli non si sentiva capace di dominare, amarezze, incomprensioni o peggio subite da chi gli stava intorno o chissà quali altri motivi. Ma sulle illazioni, finché restano tali, non si può fondare alcun giudizio. Certo la sua rinuncia al soglio supremo fa specie soprattutto in Italia in cui non c'è quasi nessuno capace di rinunciare al più misero seggiolino - forse perché quel seggiolino è la sua unica realtà, è tutto il suo Io, che senza il seggiolino o la seggetta svapora come un cattivo odore, mentre Joseph Ratzinger non è solo un Papa, è - prima ancora - Joseph Ratzinger.

Il suo gesto rende concreta, umana, la figura di chi si proclama vicario di Cristo ma non per questo, nella dura e opaca vita d'ogni giorno, ne sa più degli altri. Ha portato due croci, due destini pesanti. Il primo è stato il percorso che lo ha condotto, da innovatore fra i più audaci all'inizio del Concilio Vaticano II - fortemente avversato, come altri cardinali e vescovi tedeschi, da conservatori della Curia come Ottaviani - a un ruolo che, soprattutto grazie alle semplificazioni mediatiche, lo ha fatto apparire, per lo più ingiustamente, un conservatore retrogrado. Ha vissuto il doloroso dramma di chi apre arditamente una porta al nuovo e, turbato da tante cose confuse e cattive che si mescolano alla bontà del nuovo, si trova spinto a chiudere quella porta, come un insegnante che giustamente faccia leggere ai suoi allievi Baudelaire o de Quincey e poi, vedendo che molti goffamente si ubriacano di assenzio e di oppio, toglie quelle letture dal programma. È divenuto, ingiustamente, bersaglio di tanti stolti e supponenti dileggi, un bersaglio obbligato del tiro a segno nel grande circo in cui viviamo. È stato ad esempio fischiato e vilipeso per la sua contrarietà al matrimonio omosessuale, ma i suoi fischiatori, stranamente, non sono andati a fare pernacchie e a tirare uova marce alle finestre delle ambasciate di Paesi in cui gli omosessuali vengono decapitati. È divenuto Papa e sul suo pontificato sarà la Storia a giudicare.

Ma si vedeva subito che non era felice di fare il Papa, diversamente dal suo predecessore. Non era, non è a suo agio in quel ruolo, che probabilmente esige una vitalità diversa, una sanguigna e brusca capacità di scuotere la polvere degli eventi dai propri calzari, cosa che era naturale a Giovanni Paolo II, che poteva soffrire - e ha sofferto molto - ma non dava mai l'impressione di essere a disagio. Negli stessi panni, Joseph Ratzinger si è trovato invece forse a disagio e perciò ha dato talora l'impressione di essere indeciso e soprattutto di soffrire troppo il peso della sua responsabilità, cosa che non è sempre un bene per chi esercita il potere.

Ho avuto la fortuna di incontrarlo e di poter parlare liberamente con lui, in un'udienza privata, in occasione della pubblicazione del secondo volume - il più grande - del suo Gesù di Nazaret , che avevo presentato a Roma la sera prima. C'era un'atmosfera di tristezza, nell'aria ovattata di quelle splendide sale e corridoi; dava l'idea di una dorata prigionia. Abbiamo parlato, in italiano e in tedesco, di città care ad entrambi, come Monaco o Regensburg, e di alcuni passi straordinari di quel suo libro su Gesù, ad esempio là dove egli dice, con grande coraggio, che la vita eterna non è una specie di tempo infinitamente prolungato bensì la vita autentica e piena di significato, il kairòs greco, l'istante assoluto della verità. «Ma allora - mi disse quasi con incantevole ingenuità - Lei ha veramente letto il mio libro!», al che gli risposi che non ero un impostore e che, in ogni caso, se proprio avessi deciso di imbrogliare, non avrei scelto per questo il suo libro. Forse l'altissimo ufficio non si confà alla sua natura. Se è così, il suo gesto di rinuncia è anche un riappropriarsi della propria persona, un gesto di libertà che come pochi altri fa di un Papa un uomo, secondo il detto di Shakespeare, che esorta, qualsiasi cosa si faccia, a farla secondo la propria natura.

Claudio Magris

28/01/13

Pietro Citati - Elogio delle Chiese silenziose e vuote.



La fede solitaria al posto di quella solenne, il vero cristianesimo Qualche tempo fa — il giorno di Santo Stefano — sono andato in una chiesa del mio quartiere. Tutte le porte erano chiuse a chiave o con robusti catenacci. La chiesa era impraticabile, come certe chiese protestanti olandesi, che aprono un'ora al giorno o meno, solo durante le striminzite funzioni che il pastore accorda ai suoi fedeli.

È così bello entrare nelle chiese vuote, dove non soffia nemmeno un respiro umano; e sedersi su un banco o una seggiola, pensando, ricordando, fantasticando, rimuginando. La mente sembra più libera, più vasta, più oggettiva, più sicura di sé; e vaga dovunque attraverso i cieli oppure si concentra in un punto fisso del cielo.

Vive di pura contemplazione, nello spazio pieno di silenzio e di echi. Essere soli nella chiesa vuota dà all'anima una quiete e una profondità, che altrimenti non conosce. La fede solitaria, da solo a solo con il Figlio o il Padre: non c'è nulla di così intimamente cristiano. Tutto il resto del mondo è dimenticato. Non ci sono più i sentimenti, le passioni, la coscienza dell'io, l'orgoglio, il desiderio di potere, il desiderio di scrivere.

L'Islam conosce un'altra esperienza dello spazio religioso. Quando si entra in una moschea egiziana o persiana, centinaia di persone stanno sedute a terra, su un tappeto o con le spalle contro il muro.

Qualche volta parlano con Dio: più spesso parlano, chiacchierano, cinguettano tra loro. Tanti sono gli argomenti possibili: gli amori, gli odi, la politica, gli affari del giorno o della settimana. Si compra, si vende. 

Qualche ragazzo studia, a mezza voce, su un libro di testo gualcito. Un europeo ha l'impressione che nella moschea piena una sola figura manchi: quella di Dio.

Non è vero. Sotto la cupola della moschea, Dio esiste, ma confuso con tutti gli esseri umani, con tutta l'immensa e colorata realtà, della quale è Signore unico e nella quale sembra perdersi. Se le nostre chiese sono vuote, la ragione è semplice e tutti la conosciamo. Come deplora il Pontefice, il cristianesimo, almeno in apparenza, è stanco: i cristiani, che frequentano le chiese occidentali, diminuiscono ogni giorno. La nostra religione si sta dunque estinguendo?

Non lo credo affatto. In questi ultimi sessant'anni, il cristianesimo ha perduto i fedeli che veneravano il Cristo perché così volevano il potere e la società: dunque, mai o quasi mai per un impulso religioso. Ora, dopo tante perdite, sono rimasti i cristiani puri: quelli che siedono o pregano nelle chiese vuote, che leggono i Vangeli e le migliaia di libri, che la fede e la tradizione hanno ispirato durante quasi venti secoli.

Labbra silenziose discorrono con il loro nascosto ispiratore. C'è una prova. Oggi, quando il loro numero è diminuito, i cristiani dell'Occidente leggono molti più libri di ispirazione cristiana o religiosa, di quanti non ne leggevano sessant'anni prima.


Elogio delle chiese silenziose e vuote Fonte: PIETRO CITATI - Corriere della Sera Lunedì 28 Gennaio 

18/01/13

Un mistero di cui mai arriveremo al fondo - John Barrow e l'universo.





E' un utilissimo riepilogo delle nostre attuali conoscenze sulla nostra vita, sul tempo, e sull'ambiente cosmico nel quale siamo 'gettati' dal momento della nascita. 

Trascrivo qui qualche punto saliente, tratto dalla recensione che ne ha fatto Giuseppe Bonaviri sul Corsera:

- Tutte le recenti teorie fisiche confermano la grande metafora del racconto biblico contenuto nel Libro della Genesi: La materia luminosa - nata dal big bang - è fatta di onde elettromagnetiche e di fotoni che dilagano in veri oceani di luce. Così si sono creati lo spazio e il tempo che - secondo gli studi di Sitter e di Einstein - sono i fratelli siamesi di un tutt'uno. Ne nasce il concetto antitetico di luce/buio che ogni essere vivente porta dentro di sé nella propria coscienza.

- Dopo miliardi di anni si sono modellati i ritmi esterni (stagioni/notte-giorno... ecc..) e i ritmi biologici che - complice il concetto del tempo come noi lo interpretiamo - ci dà le varie fasi della vita, fino alla morte quando lo spaziotempo come è da noi inteso, scompare.

- Queste coordinate di vita ci permettono di studiare i misteri del cosiddetto supermondo, costituito da nucleo ed elettroni di ogni singolo atomo di cui è composta la materia da noi conosciuta.

- Dal punto di vista macrocosmico, invece la nostra vita si svolge su un pianeta - la Terra - che in ogni anno (terrestre) si sposta di venti miliardi di chilometri. La Terra, a sua volta, è inserita in un sistema solare che gira intorno alla sua Galassia (Via Lattea), la quale ha una rotazione che dura duecentoventi milioni di anni (comportando periodi di glaciazione e disgeli). La Via Lattea è poi - su scala dell'Universo - meno di un granello di sabbia in un oceano. L'Universo - il nostro Universo - è infine - come dimostrano tutti i più recenti modelli fisici - solo uno degli Universi esistenti all'interno di un Multiverso, composto di Infiniti Universi.

Ecco come si conclude l'articolo di Bonaviri: Insomma, se guardiamo il tutto con occhi di meraviglia, ci accorgiamo di trovarci immersi in un mistero di cui mai arriveremo al fondo.

E' chiaro che gli uomini - tutti gli uomini - vivendo, si dimenticano completamente di queste implicazioni. 

Semplicemente: non ci pensano. Anche perché - sostiene qualche filosofo - se ci si pensasse con continuità si finirebbe per perdere il senno, per impazzire. E allora, è molto meglio vivere pensando al conto in banca o a chi sarà il prossimo eliminato nella casa del grande fratello.

Fabrizio Falconi  (fonte qui)

17/12/12

Meister Eckhart - Un mistico nel silenzio di Dio - di Giorgio Montefoschi.




Eckhart, un mistico nel vuoto di Dio
Per il «Meister» della Turingia il silenzio conduce alla Verità

Meister Eckhart - scrive Marco Vannini, il suo massimo studioso, nell'introduzione al «Commento alla Sapienza» contenuto nel volume in cui sono raccolti i Commenti all'antico Testamento (Bompiani, pp. 1548, € 35) - non ha mai pensato alla mistica, né tanto meno di essere un mistico, laddove per misticismo si intende un'esperienza intuitiva, segreta, del divino. Il padre domenicano nato attorno al 1260 in Turingia, priore nel convento di Erfurt, professore di teologia a Parigi, processato per eresia nel 1326, morto presumibilmente nel 1328, pensava che l'unico cammino possibile dell'uomo verso la verità che è Dio fosse il cammino della ragione. La ragione: l'intelletto è l'universale che è nell'uomo; il Logos generato da Dio che è nel mondo e all'interno di ogni uomo: di un pagano come di un cristiano, di un musulmano come di un ebreo.

Per poterlo conoscere, l'uomo giusto deve distaccarsi dal determinato, da quello che vede con i suoi occhi, pensa con il suo pensiero, ama con la sua volontà e insegue con il suo desiderio. Deve distaccarsi dal tempo e dal proprio io e pervenire a quel «fondo dell'anima» dove è assoluto silenzio e nulla, ma dove finalmente zampilla ciò che abbiamo di più profondo. «A stento valutiamo le cose terrestri, a fatica scopriamo quelle davanti agli occhi? Ma chi può rintracciare le cose del cielo?», recita la Sapienza in uno dei suoi versetti più sublimi. Le «cose del cielo», risponde Eckhart, ci appaiono quando un silenzio le avvolge; quando l'anima riposa dal tumulto delle passioni e dalle occupazioni mondane, tutte le cose per essa tacciono ed essa tace per tutte. «Lì», dice Agostino, il più citato da Eckhart, «è il luogo della quiete che non conosce turbamento», ed è lì che l'uomo deve porre la sua dimora. Dice Giobbe: «In visione notturna, quando cade il sopore sugli uomini e si addormentano sul giaciglio, allora apre i loro occhi e li ammaestra». Se vuole le «cose del cielo», e sentire la piena unione con Dio che vive nel nostro cuore, l'uomo deve annullarsi al di là di ogni possibile concezione umana dell'annullamento. Non si tratta soltanto di non invocare Dio con immagini terrene e del tempo; anche la sola invocazione muta, il solo desiderio di essere in comunione con Dio ci fa piombare nella determinazione e nelle cose finite. Dio, invece, è indeterminabile, non numerabile, Uno. Epperò è nel nostro cuore: è in noi. Quindi, come Lui genera e crea la Parola che prende forma nel mondo, anche noi generiamo e creiamo, continuamente - una idea immensa - purché ogni sapere umano sia rimosso. È un punto fondamentale. 

Se si domanda perché Dio abbia creato tutto, cioè l'universo - dice Eckhart - bisogna rispondere: «Perché fosse». Dio fece tutte le cose perché fossero, cioè perché avessero l'essere all'esterno, nella realtà naturale, sebbene fossero in lui (come le idee di Platone) dall'eternità. Dunque, il fine è l'essere. E la generazione - ne consegue - è amore. Quindi noi proseguiamo l'amore.

14/07/12

Susanna Tamaro: Raccontare il bene, con parole semplici. Una riflessione.



E' una riflessione molto importante quella oggi pubblicata sul Corriere della Sera, in prima pagina a firma Susanna Tamaro, una scrittrice di solito molto snobbata dalla intellighentsia (?) conformista di questo paese.  Eppure son rimasto molto colpito leggendo, perché sono i temi - espressi con chiarezza e lucidità - sui quali insisto io stesso da molto tempo e che mi sembrano i più urgenti oggi, quelli che pure - prima o poi - sarebbe il caso di affrontare seriamente. 

In un pomeriggio di calura estiva, rovistando nel disordine delle mie librerie, ho ritrovato un libretto a me molto caro. Risale al 1973 e raccoglie otto conferenze di Konrad Lorenz incentrate sui peccati capitali della nostra società. Ho sempre considerato Lorenz uno dei miei grandi maestri, senza la ricchezza della sua opera la mia visione del mondo probabilmente sarebbe molto più povera. La mia formazione, infatti, è da naturalista e con lo sguardo da naturalista ho sempre osservato la realtà che mi circonda. Con lo stesso sguardo umile e appassionato provo a fare delle riflessioni sulla crisi che ha investito il mondo occidentale e che ora, a quattro anni dal suo inizio, sembra essere arrivata al culmine.

Lo spirito generale che si respira in Europa è simile a quello di Lucignolo e Pinocchio che, dopo aver gozzovigliato nel Paese dei Balocchi, scoprono l'amara realtà del mondo di Mangiafuoco. Se mi guardo in giro, infatti, mi sembra che molti padiglioni auricolari si stiano allungando e coprendo di una morbida peluria grigia: appartengono a tutti coloro che, in questi anni, avrebbero dovuto vigilare sul bene comune e immaginare un progresso in cui l'umano, nella sua accezione più alta, ne costituisse il fulcro e invece non l'hanno fatto. Orecchie pelosi e nasi lunghi! Come sarebbe bello se accadesse davvero, se si potessero individuare tutte quelle persone che hanno perpetrato allegramente il Grande Inganno; coloro, cioè, che, con certosina precisione, hanno ridotto la complessità della natura umana a un'unica dimensione, quella del consumo edonista e della sua inestinguibile sete. Si è trattato di un processo lungo, abile e ambizioso il cui risultato è sotto gli occhi di tutti. Le società dei paesi occidentali non sembrano ormai molto diverse da quelle dei lemming, quei piccoli mammiferi nordici che, senza una ragione apparente, si suicidano in massa lanciandosi in mare dalle scogliere.

24/05/12

Enzo Bianchi: "Le due paure madri della crisi. L'uomo diviso fra oggi e l'aldilà".



Vi propongo l'anteprima della (bellissima) Lectio Magistralis del priore di Bose per l'apertura del Festival Biblico di Vicenza 2012, pubblicata dal Corriere della Sera di Mercoledì 23 maggio. 

Esprimere gratitudine al card. Carlo M. Martini all’interno di un evento dedicato alla Speranza delle Scritture che vince la paura significa fare memoria della speranza che il ministero episcopale del grande biblista gesuita ha saputo destare non solo nella chiesa locale e nella città affidata alla sua cura, ma anche nella chiesa universale e nella società civile. 

E questo, proprio grazie alla sua conoscenza della bibbia e della sua familiarità amorosa con il modo di pensare e di agire richiesto dalla parola di Dio. Del resto, secondo l’apostolo Pietro, il cristiano è tenuto a questo e non ad altro: a “rendere conto della speranza” che lo abita a chiunque glielo chiede. 

E oggi che viviamo in un tempo posto sotto il segno della crisi, questa esigenza di testimoniare e suscitare speranza si fa sempre più cogente per i cristiani. La nostra epoca infatti, definita da molti pensatori come stagione della “fine” – della civiltà occidentale, della modernità, della cristianità... – è caratterizzata dal senso della precarietà del presente e dell’incertezza del futuro, un tempo in cui l’incognito che ci sta davanti spaventa per la sua imprevedibilità e, insieme, per gli orizzonti asfittici che lo caratterizzano: il nostro è un mondo che sembra sfuggire al nostro controllo e impedirci di capire dove stiamo andando. 

Ora, tutto ciò provoca un’angoscia profonda, che le tante situazioni di guerra, miseria e oppressione in atto in varie parti del mondo non fanno che confermare e che la crisi economica e finanziaria che attanaglia l’occidente trasforma per troppe persone in disperazione nel quotidiano. Ma allora, cosa significa sperare? E di quale speranza sono portatrici le Scritture? E, ancora, può la speranza vincere la paura? Proprio a partire dalla paura possiamo abbozzare una riflessione: in profondità ciascuno di noi è preda di due “paure madri”, da cui discendono tutte le altre: la paura della morte e la paura di Dio. Mosso dalla paura della morte, l’essere umano cerca di preservare con qualsiasi mezzo la propria vita, di possedere per sé i beni della terra, di dominare sugli altri. Egli pensa di assicurarsi in tal modo una vita abbondante, ritiene di poter combattere la morte con l’auto-affermazione, e giunge a considerare ragionevole e giusto ogni comportamento finalizzato a questo scopo, anche a costo di nuocere agli altri e persino a se stesso. E così finisce inevitabilmente per percorrere sentieri di morte… È quella tendenza egoistica che la tradizione cristiana indicherà come philautía (“amore di sé”), che spinge a contraddire la comunione voluta da Dio e a vivere senza gli altri, contro gli altri. 

Enzo Bianchi  Fonte: Comunità di Bose. 

07/04/12

Pasqua: l'evento della resurrezione.



Su cosa è basata la fede di coloro che si dicono cristiani ?

Viviamo in tempi non semplici per le religioni in generale e per il cristianesimo e il cattolicesimo in particolare che al di là delle interpretazioni dei numeri e delle nuove conversioni  nei paesi dell'Asia o dell'Africa - sono costrette dalla rapida evoluzione dei tempi e dei costumi, a ri-pensare seriamente le proprie origini: su cosa è realmente radicata la propria fede. Su quale principio si appoggia, su 'cosa' si crede esattamente, come mette in luce anche la pregevole inchiesta sull'ultimo numero di Sette, il supplemento del Corriere della Sera.  

Il fondamento del Cristianesimo - che è una religione personificata, cioè una religione che crede sostanzialmente in una persona e cioè Gesù Cristo, che è figlio di Dio- e non solo e semplicemente in un insieme di precetti morali -  è la resurrezione dell'uomo Gesù.

Resurrezione che per i credenti cristiani non è affatto un evento simbolico o astratto, ma del tutto concreto, cioè storicamente avvenuto.  Questo fondamento paradossale è però il cardine sul quale si edifica l'intera costruzione della fede cristiana e senza del quale la fede cristiana non ha senso alcuno. 

Su questo insisteva, fino a rischiare di essere noioso, Paolo di Tarso.

Il quale nella Prima lettera ai Corinzi, fornisce un dettaglio di cronaca, sul quale spesso anche i cristiani tendono a sorvolare. 

Ma che invece è bene non dimenticare, anche perchè la Prima Lettera ai Corinzi è stata scritta intorno al periodo di Pasqua del 57 d.C. 

Si tratta quindi di uno dei più antichi (o del più antico in assoluto )scritti neo-testamentari - precedente alla stessa redazione dei Vangeli - e redatto a breve distanza dai fatti raccontati, cioè ad appena venticinque anni dalla morte di Gesù Cristo.  

Quando dunque molte delle persone che 'avevano visto' , dovevano essere ancora in vita. 

Ecco infatti quel che scrive Paolo:

Vi ho trasmesso dunque, anzitutto. quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto (1Cor 15,3-8). 

 Molto si è discusso e si continuerà a discutere sul senso di queste misteriosissime parole (specie le ultime). Ma su di esse, non bisognerebbe smettere di ragionare, quando si parla di Cristianesimo.

13/03/12

"Quel primato degli umili che rovesciò il mondo. Perché la predicazione di Gesù si distingue da tutte le altre" di Pietro Citati.



Un bellissimo articolo oggi, di Pietro Citati, sul Corriere della Sera. Eccolo: 


In quel tempo Gesù rispondendo disse: «Io ti glorifico, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così piacque al tuo cospetto. Ogni cosa mi è stata rivelata dal Padre mio. E nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo. Venite a me, voi tutti che siete affaticati e gravati, e io vi ristorerò. Prendete su voi il mio giogo, e imparate da me, poiché io sono mite e umile di cuore. E troverete ristoro per le vostre anime. Poiché il mio giogo è soave e il mio peso è leggero.
(Vangelo di Matteo 11,25-30; i primi versetti sono, quasi nella stessa forma, nel Vangelo di Luca, 10, 21-22) 

Il frammento del Vangelo di Matteo, che vorrei commentare, comincia con una nota solenne. «Io ti glorifico, Padre, Signore del cielo e della terra»: vale a dire, io confesso il mio peccato, e insieme ti lodo, ti ringrazio, ti esalto, invoco il tuo nome, professo la mia fede in te, ti prometto solennemente come tu mi prometti. In queste parole risuona l'eco di un passo di Enoc: «In quel giorno, tutti ad una voce cominceremo a lodare, esaltare, glorificare, magnificare nello spirito della fede, della sapienza, della misericordia, della giustizia, della pace e della bontà, e tutti quanti diranno con una sola voce: "Lodatelo, e il nome del Signore degli spiriti sia glorificato per ogni eternità"». 

Questa solenne glorificazione promette, a tutti quanti confessano che Gesù è il Signore, la salvezza alla fine dei tempi. Perché il lettore di Matteo glorifica Dio con queste parole solenni? La spiegazione potrebbe essere molto semplice: egli glorifica Dio perché ha creato l'universo, o perché è buono, o perché ci soccorre, o perché ci ama. In realtà, il testo dice tutt'altro: Dio ha nascosto qualcosa (che per ora resta indeterminato) agli uni e lo ha rivelato agli altri. Se ci chiediamo chi sono gli uni, penetriamo di colpo nel cuore del paradosso cristiano. Gli uni, ai quali la rivelazione viene nascosta, sono i sapienti e gli intelligenti, cioè i maestri professionali di sapienza e di cultura, che specialmente l'ebraismo ha tanto esaltato, e tutti i sapienti e gli intelligenti che nei secoli cristiani educheranno i popoli e i re, e pretenderanno di conoscere, essi soli, il vero segreto della realtà e della verità. San Paolo insiste con grandioso estremismo: «Disperderò la sapienza dei sapienti e renderò vana l'intelligenza degli intelligenti», sviluppando un passo di Isaia. 

Con queste parole, la storia del mondo è rovesciata: la luce non illumina più chi dovrebbe ricevere e diffondere la luce in tutto il mondo. Né sapienti né intelligenti: il cristianesimo ha sempre avuto scarsa tenerezza per loro, se non ricevono dal cielo un altro dono. A chi va dunque la rivelazione? Con immenso scandalo del mondo greco-latino, Gesù risponde: ai népioi. Nel greco classico népioi significa: i bambini, i figli, i figli degli animali, gli indifesi, gli stolti, gli inesperti, coloro che mancano di discernimento e non comprendono né la realtà né la volontà degli dei né i segni del destino. 

07/03/12

L'unica cosa che si ripete costante nella vita è il cambiamento.



Mi ha molto colpito leggere oggi una frase del grande drammaturgo (è un po' riduttivo definirlo così)  Bob Wilson, intervistato dal Corriere, a proposito della nuova messa in scena del capolavoro Einstein On The Beach, su musiche di Philip Glass, presentato per la prima volta - con accoglienza stupefatta per la grande carica innovativa di quello spettacolo - ad Avignone esattamente 30 anni fa. 

'L'unica cosa che si ripete costante nella vita è il cambiamento'. 

E' una frase breve ed essenziale nella sua nuda verità - che ciascuno di noi può sperimentare come vera - se soltanto si ferma a riflettere sulla vita, un istante.  E paradossalmente, proprio ciò che dà continuità alla vita, che è sempre costante nella vita, è il suo divenire continuo, il suo non essere mai la stessa cosa

Mi sono tornate in mente le parole di J.Krishnamurti che ha fatto di questo tema una costante del suo pensiero (e della sua vita). 

Credo infatti che proprio da questa 'impermeabilità' al cambiamento (ma anche all'idea stessa di cambiamento) personale, a questo pensare e pensarsi granitico derivino molti dei nostri mali e dei nostri disagi come individui e come collettività.

Allora sia cio che è,  dice Krishnamurti, rispondendo ad una domanda di un visitatore, Quando ne comprende la falsità, l'ideale scompare. Lei è "ciò che é".    Il "ciò che è" è lei stesso: non in un periodo particolare o in un dato stato d'animo, ma come lei è di momento in momento.  Non si condanni o si rassegni a quel che vede, ma sia attento, senza interpretare il movimento di "ciò che è".  Sarà difficile, ma in ciò c'é gioia. La felicità c'è solo per chi è libero, e la libertà giunge con la verità di "ciò che è". 





28/02/12

Paola Capriolo su Rainer Maria Rilke, il doppio regno della vita e della morte.


Oggi, sul Corriere della Sera un bellissimo articolo di Paola Capriolo su Rilke. La Capriolo è ormai da parecchi anni, l'autore che forse più, in Italia, ha studiato e compreso la grandezza del genio delle Elegie Duinesi. Vi propongo il testo.

In un celebre saggio, Martin Heidegger annovera Rilke tra quegli autori che nel «tempo della povertà», in un tempo cioè che è ancora il nostro, «debbono espressamente poetare l'essenza stessa della poesia»; definizione, a prima vista, tutt'altro che accattivante. 

Quando leggiamo un volume di versi, ci aspettiamo di trovarvi espresse e trasfigurate le esperienze fondamentali di ogni essere umano, l'amore, il lutto, l'emozione di fronte a un paesaggio... mentre l'«essenza della poesia» ci sembra un tema astratto e quasi specialistico, che riguarda uno sparuto pubblico di addetti ai lavori. Non fosse che per Rilke, erede della tradizione romantica e di un pensiero filosofico che, con Nietzsche, eleva l'arte a metafora centrale nella comprensione della realtà, questa essenza coincide con la natura più profonda dell'uomo. 

Chi è dunque l'uomo, secondo Rilke? La risposta è: la più fuggevole, la più effimera tra tutte le creature. Ciò che è nostro, ciò che noi siamo, ad ogni istante svapora da noi «come rugiada dalla tenera erba, ... come il calore da una calda vivanda»; passiamo sulle cose con la rapidità dell'aria quando si apre la finestra per ventilare una stanza. A prima vista, sembra un po' eccessivo: è vero che non possediamo la salda durata delle pietre o persino degli alberi, ma i moscerini ad esempio vivono molto meno di noi e non imprimono certo nel mondo una traccia più persistente. Come può dunque Rilke definirci «i più fuggevoli»? Perché, ci spiega nell' Ottava elegia , diversamente dai moscerini noi viviamo «in un continuo prender congedo», siamo sempre nell'atteggiamento di chi parte e «... sull'ultima collina che gli mostra per una volta ancora tutta la sua valle, s'arresta, si volge indietro, indugia -».

 In altre parole, perché diversamente dai moscerini noi conosciamo la morte. La vediamo in anticipo, fissa davanti a noi come la linea che chiude il nostro orizzonte, ed è appunto questa chiusura a costituire il «mondo», la rigida, dolorosa forma in cui esistiamo. Così, credendo di guardare avanti, in realtà guardiamo costantemente indietro, con quello sguardo «rivoltato» che si posa sulle cose come un addio: credendo di guardar fuori a perdita d'occhio, in realtà vediamo soltanto le sbarre della gabbia che noi stessi ci siamo costruiti, anzi, che noi stessi siamo... Eppure la poesia è resa possibile proprio da questo sguardo «rivoltato», rammemorante, che muovendo dall'orizzonte della morte trasforma le cose in ricordi, ossia in pura interiorità. Quella stessa potenza che ci ingabbiava costringendoci a rinchiuderci nelle anguste forme del mondo può diventare una potenza liberatrice quando la morte viene per così dire metabolizzata, accolta, fatta propria, anziché porsi eternamente davanti a noi come qualcosa di estraneo che ci sbarra la strada. Se l'animale, che è di casa nell'aperto, sente il proprio essere come infinito e «dove noi vediamo l'avvenire, là vede il tutto e sé nel tutto, risanato per sempre», anche il morto, o chi accoglie la morte, disimpara a dare alle cose «il senso di umano futuro», impara ad abbandonare le rigide distinzioni proprie dei vivi per assumere ogni cosa in uno spazio di libertà che è, insieme, memoria e trasfigurazione, la segreta, paradisiaca vastità che l'anima possedeva in sé a propria insaputa. 

Sorge così quel «doppio regno», alla cui celebrazione sono dedicati i Sonetti a Orfeo: una totalità originaria che abbraccia la vita e la morte senza contrapposizioni e cesure, quasi senza distinzione: perché, come afferma la Prima elegia, noi compiamo tutti l'errore di distinguerle troppo nettamente, mentre «gli angeli (si dice) di sovente non sanno se vanno tra vivi o tra morti». 

 Il doppio regno è quel regno della metamorfosi dove le forme perdono la loro rigidezza per trapassare l'una nell'altra attraverso modulazioni finissime e quasi impercettibili: come nella splendida composizione per archi di Richard Strauss intitolata appunto Metamorfosi, con la stessa, duttile fluidità; è quel regno, scrive Rilke, «la cui profondità e influsso noi, ovunque indelimitati, dividiamo con i morti e con coloro che verranno». Ma per essere «indelimitati», cioè cittadini consapevoli del doppio regno, bisogna in primo luogo «tentare un rapporto con la morte del tutto libero dal rimprovero», cioè imparare a concepirla senza l'aspetto della negazione. 


18/02/12

Rémi Brague - "Amo dunque sono"



Qualche giorno fa il supplemento del Corriere della Sera, La Lettura, ha dedicato spazio ad una ampia intervista realizzata al filosofo Rémi Brague, intitolata "Amo dunque sono."

Scrittore, specialista di filosofia medievale, araba ed ebraica, Rémi Brague insegna Filosofia greca, romana ed araba all'Università Paris I Panthéon-Sorbonne dove dirige il centro di ricerca sulla tradizione nel pensiero classico. Ma Brague, come scrive Maria Antonietta Calabrò che ha realizzato l'intervista, è anche uno studioso che "ha sviluppato una riflessione sull’uomo e sulla sua autoconsapevolezza che sembra ormai essere giunta a un punto drammatico di non ritorno e che chiede, quindi, un nuovo inizio, a cominciare dal Vecchio Continente”

Quando si parla di 'radici cristiane', o di qualunque tipo di radici, Brague, storce il naso:  "Le radici sono una immagine strana.. Perché considerarci come una pianta ? In francese 'piantarsi' vuol dire sbagliarsi, fare un errore... Se si vogliono a ogni costo delle radici Un riferimento a Platone, che scrisse “noi siamo degli alberi piantati al contrario, le nostre radici non sono sulla terra, ma in cielo. Noi siamo radicati in ciò che, come il cielo, sfugge a ogni possesso”.

Un nuovo inizio è insomma, un uomo piantato al contrario che in qualche misura, e per approssimazione, possa poter dire quello che solo Dio dice compiutamente di sé: Amo dunque sono.

Brague nella intervista fornisce anche una interpretazione molto interessante del relativismo, fornendo un'analisi originale:
“ciò che genera il relativismo non è l’equivalenza dei valori, ma l’idea stessa di valore; ciò che è bene (la libertà, la giustizia…) è bene perchè sono io che gli dò valore, perchè come si dice, io lo “stimo”. Allora il gesto che dà valore è più forte che il valore in se stesso. Questo valore, allora, posso sempre ritirarlo. Quando un bene viene chiamato “valore”, lo si devalorizza. …… 

Da dove ricominciare ? Bisognerebbe farla finita con i valori, e riscoprire i beni: quelli materiali, molto concreti, dietro i loro simboli finanziari, le virtù morali dietro le tendenze alla moda…

Per essere chicchessia,  ragionevole oppure pazzo bisogna prima di tutto Esistere. Cio’ che è nuovo al giorno d’oggi è che l’esistenza stessa dell’uomo dipende sempre più dalla sua libera decisione. Noi abbiamo la possibilità tecnica di distruggerci, rapidamente (armi nucleari) o lentamente (inquinamento). E possiamo distruggere la specie umana, pacificamente, senza rumore, senza nemmeno rendercene conto, semplicemente cessando di riprodurci. Possiamo dire che per continuare ad esistere l’umanità ha bisogno di buone ragioni."

E' molto interessante il passo poi nel quale alla domanda della intervistatrice: "Può essere amata la verità ?" Brague risponde:

"Noi non possiamo amare che ciò che è bello. Se la verità è brutta, noi possiamo tutt’al più accettarla, a motivo di quella 'probità' (Redlichkeit) intellettuale che Nietzsche diceva essere “la nostra ultima virtù”. E' una forma di coraggio , virtù molto rispettabile. Soltanto che essa è incapace di far vivere, di suscitare la vita.

...Il bello ci strappa a noi stessi: come si dice, ci rapisce. Oppure perché per la modernità si tratta di massimizzare il sentimento che il soggetto ha di se stesso aumentando le sensazioni. “Sensazione” in greco: àisthesis."

Forse bisognerebbe cominciare con il riscoprire il bello.  Far dialogare gli uomini sulla base della ragione comune. Tutte le persone intelligenti, credenti o non, hanno in comune l’essere in bilico tra quello che sono e quello che dovrebbero essere. I fanatici, religiosi o scientifici, sono sicuri di loro stessi. Ma un dubbio che si compiacesse di se stesso senza cercare la verità sarebbe a sua volta fortemente un dubbio…"

La conclusione è allora: Amo dunque sono ?  

"L’amore resta ciò che si muove. Ma non si ama perchè ci motiva o aumenta il nostro giro di affari. Allora non è più Amore…

Chi può dire di Amare? Amare per noi è sempre rendersi conto che non si ama abbastanza o male, o più se stessi che l’altro.

E chi può vantarsi di essere? Solo Dio può dire “Io sono colui che sono”. E solo di Dio si può dire che è Amore. "

01/01/12

Il relativismo inevitabile ? Risposta a Dario Antiseri.


Ogni tanto c’è qualcuno che si sveglia e pontifica per convincerci tutti che il relativismo è l'unica cosa sensata che ci resta, proprio perché inevitabile. E sarebbe prova di buon senso e ragionevolezza convenire che nessuna verità - specie in campo etico - è affermabile, e/o credibile.

Ora è la volta di Dario Antiseri, che il 30 dicembre sulle pagine del Corriere della Sera, di spalla all'articolo di Gillo Dorfles sul 'nuovo illuminismo', bacchetta severamente: "il relativismo è inevitabile" (riporto l'articolo integralmente a fine di questo post). 

Ogni opinione è rispettabile, se ben argomentata, e Antiseri è ormai con una vasta schiera di pensiero, in buona e numerosa compagnia. 

Il problema però è che i suoi argomenti risultano molto discutibili.


L'uso di Pascal, innanzitutto, per sostenere l'inevitabilità del relativismo, mi appare davvero singolare.  E' ben strano riportare il celebre passo dei Pensieri sulla singolare giustizia che ha come confine un fiume, dimenticando di sottolineare che Blaise Pascal non è ovviamente solo il filosofo dell'uomo in bilico eterno tra infinito e nulla, ma è quel filosofo capace di rovesciare la condizione di totale incertezza umana (dovuta poi perlopiù secondo il pensatore di Clermont-Ferrand proprio alla 'mancanza umana', alla incompletezza e alla cecità propria della condizione terrestre, spiegabile in termini mitico-teologici con il peccato originale) con l'affidamento alla fede, e non ad una fede qualunque, ma alla fede cristiana, riconosciuta come vera.

Sappiamo di non sognare; per quanto siamo impotenti a darne le prove con la ragione - scrive Pascal  nel Pensiero 282 - questa impotenza ci porta a concludere per la debolezza della nostra ragione, ma non per l'incertezza di tutte le nostre conoscenze [...]. Infatti la conoscenza dei principi primi [...] è più salda di qualunque altra che ci viene dai nostri ragionamenti. E proprio su tali conoscenze del cuore e dell'istinto la ragione deve appoggiarsi, e su di esse fondare tutto il suo ragionamento. [...] Questa impotenza non deve dunque servire che ad altro che ad umiliare la ragione -la quale vorrebbe giudicare di tutto-, ma non già a combatter la nostra certezza [...].

Antiseri, poi, per contestare l'esistenza - e la possibilità di discernimento - di un qualsiasi fundamentum inconcussum rationale, cita la famosa massima: la scienza sa, l'etica valuta.  Anche su questo ci sarebbe così tanto da discutere, ed è un po' curioso che Antiseri lo ponga come assioma.

Per esempio: cosa sa, esattamente, la scienza ??

Ogni giorno le acquisizioni in campo scientifico - l'ultima quella sui neutrini super veloci - ci dimostrano che la scienza sa soltanto quello che verrà smentito domani. E' stato così fin dalla notte dei tempi e sarà sempre così.   Non esiste niente più veloce della luce. E' vero finché non viene dimostrato il contrario. Come sta avvenendo ora.

A parte le conoscenze puramente scientifiche provvisorie, poi, la scienza non sa e non può dire nulla, soprattutto, sulle cosiddette questioni ultime.  Chi siamo, dove siamo, perché siamo qui, che succede dopo la morte.   Come ha scritto recentemente George Steiner, in 2000 anni di progresso scientifico, le nostre conoscenze in questi campi non hanno fatto un solo passo in avanti.  

Ma la cosa davvero più singolare dell'articolo di Antiseri è la chiosa finale, nella quale, rivolgendosi ai cattolici antirelativisti, egli scrive: "vi pare facile replicare a Karl Heim quando scrive che i cristiani contemporanei dovrebbero dare il loro sostegno a coloro che relativizzano il mondo e l'uomo ?"

Davvero ciò che chiede Heim e che auspica Antiseri è una specie di ossimoro, di contraddizione in termini. Finché si parla in termini di conoscenza scientifica, o pensiero razionale,  ogni punto di vista è contestabile.  Ed è giusto che lo sia.

Ma come è perfino troppo ovvio per chi si muove in un ambito di fede - cioè affidamento - che pure per questo non vuole e non pretende di escludere la ragione (ma si muove nelle possibilità che la ragione offre),  un cristiano (non necessariamente un cattolico) non può in alcun modo offrire - e non offrirà mai - il sostegno a coloro che relativizzano il mondo e l'uomo.

Per la semplice ragione che i cristiani credono non in una serie di dogmi, o princìpi comuni, ma in una persona.  Cioè nel Cristo.  Colui che - secondo il racconto dei Vangeli - affermò senza possibilità di fraintendimenti:   Io sono la verità, la via, la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. (Gv.14.6).

Per un cristiano dunque non soltanto il relativismo non può esistere, per quanto riguarda l'uomo e il mondo. Ma esiste, all'opposto la Verità.   E la Verità - per un cristiano - è una soltanto, quella che si incarna nella persona di quell'uomo, che è Dio.

Fabrizio Falconi

25/08/11

La crisi che viviamo e la chiamata politica e spirituale. "Segnare una svolta" - di Alberto Melloni.


E' un testo breve, ma veramente illuminante questo che vi riporto, di Alberto Melloni, sul Corriere della Sera di pochi giorni fa.  Il momento di crisi per tutto l'Occidente - e il mondo - è un ripensamento globale della nostra vita. Come ogni 'crisi' è anche una 'occasione', un punto di svolta e di scelte, dalle quali dipenderà il nostro futuro.  Un momento cruciale che impone agli spiriti intelligenti, di muoversi, di non starsene più fermi nei propri freschi o angusti cortili. Ecco l'articolo.


La svolta storica che ci sovrasta è di proporzioni superiori al panico che produce. Lo stile di vita tenuto dall' Occidente, nel quale il debito aveva sostituito altri sistemi di dominio, è finito. Per sempre. Come il colonialismo in India, come il bolscevismo in Russia. È una «krisis» nel senso del Vangelo: un «giudizio». Non è la fine del mondo: è la fine di un mondo. Dunque solletica le paure, incoraggia i minimizzatori, svela la statura dei sovrani, denuncia la sordità di chi ha fatto spallucce per anni, chiama intelligenze politiche e spirituali dal domani.


In questo rimestarsi della storia (per ora incruento, come nel ' 29 e nell' 89), la Chiesa è parca nel dire le parole che pur possiede. Questi non sono i tempi di Gregorio Magno, che davanti alla fine di un' era, raduna il popolo in basilica per spiegare il profeta Ezechiele. Non sono i tempi di papa Giovanni, che nel montare del fatalismo atomico, scardina i parametri dottrinali della guerra giusta. Sono i tempi nostri, nei quali la generazione del benessere più prepotente sente di lasciare ai propri figli le macerie di un disastro politico e morale.


 E in questo tempo la Chiesa, nel senso più ampio del termine, è come ritratta: articola lentamente le consunte condanne degli «ismi», sussurra cose ovvie o interessate, quasi che anche per lei fosse così poco leggibile una realtà che urla da ogni orizzonte, Nel Medio Oriente sunnita esplode una jihad nella quale il nome di Dio non viene usato per aggredire, ma per sopportare, senza che chi ne ha giustamente criticato le perversioni violente ne sappia dare una lettura. Un assassino psicotico norvegese trascina fuori dall' oscurità il fondamentalismo di antisemiti classici, omofobici aggressivi, tradizionalisti paranoidi, monoculturalisti fascisti, che il diritto penale e canonico hanno ignorato, prima e dopo quel crimine. Il genio di personaggi come Pacelli, Adenauer, De Gasperi e Schuman che - parlando in tedesco e pensando in cattolico - hanno dato all' Europa un orizzonte politico di pace, viene irriso per mesi dall' egoismo tedesco senza che il discorso cattolico sappia uscire dal vittimismo delle radici, dall' euforia dei crocifissi e dall' ossessione dei diritti dei gay.


La guerra di Libia suscita proteste periodiche del Papa che cadono nel vuoto di una Chiesa più sensibile allo spiritualismo che alla realtà. E quel pezzo di Africa che annega fra la Sirte e Lampedusa estorce qualche senso di colpa alle anime colte, ma alla fine viene trattato come una fatalità che non deve essere capita, ma accettata. La forza che ha avuto la Chiesa in transizioni di magnitudo comparabile a questa - nel VI secolo si diceva, ma anche nell' XI e nel XVI con le riforme, nel XX con il Concilio - è stata quella di saper leggere i processi storici nella loro globalità: trovarne quella chiave supremamente sintetica che, a partire dall' atto di fede in Gesù Cristo morto e risorto, sa indicare le vie di un nuovo tempo e preparare quel che è già tutto scritto nelle premesse presenti.


 Oggi questo atto - reso più urgente dal tragico nanismo delle leadership politiche - tarda a farsi sentire. Eppure solo l' intuito spirituale di una comunità globale come quella cattolica può dire con autorevolezza che, se crolla un' Europa poco amata, non finisce l' euro, ma la pace. Può spiegare alla luce del proprio tesoro di insegnamenti sulla sobrietà e la condivisione che il crollo di uno stile di vita è un' opportunità di giustizia o l' anticamera del cannibalismo economico. Ma la Chiesa sa anche che per ogni profezia c' è un tempo opportuno, un «kairós», perduto il quale resta solo il peso silenzioso della penitenza: anche questa testimoniata dalle lunghe epoche buie della sua storia. Sarebbe stupido e irriverente pensare che il dire tocchi al Papa o che l' afasia di questi mesi sia la sua. Certo Benedetto XVI ha modo di farsi sentire: in questi giorni a Madrid davanti a milioni di ragazzi, soprattutto a Berlino nel discorso al Bundestag di settembre, a ottobre alla preghiera interreligiosa di Assisi. E quel che dice resterà.


Ma è dalla Chiesa come communio che il mondo attende una lettura del tempo che mostri la capacità di rompere quella omologazione ai riti del potere e dei media. È la communio che permette di leggere un tempo che deve essere trattenuto dalla tendenza a diventare prebellico proprio da una forza spirituale che lo lega, se sa di essere una forza e se sa di essere spirituale.

Alberto Melloni, Il Corriere della Sera, 20,8,2011.

16/11/09

E' finito lo Spirito del Concilio ?


E' davvero finito lo Spirito del Concilio ? Davvero il mondo sembra non poter andare - anche nel campo spirituale - che verso la rigidità, la chiusura all'altro, al diverso, la negazione di ogni sintesi possibile ? E' quello che si ricaverebbe da questo interessante articolo di Alberto Melloni pubblicato oggi dal Corriere della Sera, che riporta una notizia passata stranamente sotto silenzio dai media del nostro paese, troppo indaffarati a commentare l'ultimo scandalo di turno.

Vi riporto l'articolo integralmente.

Quel vento contro l'ecumenismo che soffia dentro tutte le Chiese
di Alberto Melloni

in “Corriere della Sera” del 16 novembre 2009


Un piccolo documento che circola nel mondo ortodosso da mesi merita molta attenzione. Si chiama «confessione di fede contro l’ecumenismo» ed è una dichiarazione che da aprile ad oggi è stata firmata da sei metropoliti ortodossi di Grecia, Serbia, Kosovo e Stati Uniti. È un assalto violento contro il dialogo fra le religioni e la ricerca dell’unità fra le Chiese dai toni non inediti, ma duri e simili — sinistramente simili — a quelli che usano i tradizionalismi in tutte le Chiese.

I firmatari dicono chiaro e tondo che come «Cristiani che credono alla Santa Trinità noi non abbiamo lo stesso Dio di nessun’altra religione, né quello delle cosiddette religioni monoteiste, Giudaismo e Maomettanesimo che non credono alla Santa Trinità»; che dopo «il trionfo sui nemici esterni — cioè gli Ebrei e gli idolatri» la Chiesa ha goduto pace, ma che dal secondo millennio le eresie l’hanno divisa. Eretico è il Cristianesimo «papista, culla di tutte le eresie e di tutti gli errori», partito male nel medioevo è andato addirittura peggiorando, esagerando le proprie dottrine ecclesiologiche, mariologiche e col concilio Vaticano II arrivando a corrompere la liturgia: quel concilio che ha inventato la «pan-religione» e ha riconosciuto una «vita spirituale» nelle altre fedi, ha perfino protetto i gruppi carismatici e la new age, ricevendo in cambio la vergogna della corruzione.

Peggio ancora i Protestanti che hanno perduto i sacramenti. Secondo i firmatari di questa «confessione di fede», dunque, l’unico dialogo ammissibile con questi eretici passa dal loro battesimo (quello che hanno ricevuto non vale niente per la mancanza di una vera confessione trinitaria): e il patriarcato di Costantinopoli e il santo sinodo che hanno impegnato la Chiesa d’Oriente nel cammino ecumenico — la «pan-eresia» — andrebbero trattati come eretici e loro favoreggiatori.


La risposta del patriarca ecumenico Bartholomeos I e del santo sinodo è arrivata da qualche settimana sul tavolo dell’arcivescovo ortodosso di Atene al quale si chiede di prendere posizione contro queste «tendenze zelote» presenti non da oggi nell’ortodossia greca. Costantinopoli chiede di uscire dall’ambiguità: se la «confessione» dicesse la verità tutta la gerarchia dell’Oriente si sarebbe macchiata del crimine contro la fede che sarebbe l’ecumenismo. Ma i metropoliti che l’hanno firmata verrebbero a dire che il Credo non è sufficiente, ma ha bisogno di una ulteriore espansione, per l’appunto di tipo antiecumenico. E in nome della tradizione violerebbero la disciplina della tradizione. Il santo sinodo usa parole chiare: «Vogliamo credere che i Gerarchi che hanno firmato non abbiano compreso che stanno guidando uno scisma» e ricorda che l’impegno ortodosso nel dialogo ecumenico è stato preso sinodalmente da tutte le Chiese nel 1986.


Così, con una presa di posizione ancora per un attimo interlocutoria ma assai severa nella sostanza, prova il rischio di divisione contenuto in quell’assalto che esaspera una tendenza da sempre presente negli ambienti monastici. Cosa accadrà fra le sponde dell’Egeo è difficile a dirsi: ma il senso più profondo di questa iniziativa contro l’ecumenismo, il dialogo con l’Ebraismo e con l’Islam non sta in una questione infraortodossa.


La mossa degli zeloti d’Oriente ricorda troppo da vicino — per lessico e perfino per obiettivi polemici — il tradizionalismo cattolico, l’integrismo luterano, il fondamentalismo congregazionalista, i fuoriusciti anglicani. È come se il grande desiderio di unità che le Chiese avevano letto nel Vangelo durante il Novecento producesse la stessa insofferenza dentro tutte le Chiese: al punto che si può dire se c’è una cosa oggi ecumenicamente condivisa fra le Chiese è l’antiecumenismo di minoranze riottose, il ribellismo di sacche resistenti al dialogo, eccitate dalla presunzione di rappresentare la tradizione e l’identità, anche a costo di cercarla nel fondo del proprio ombelico.


Un sociologo direbbe che è naturale così: man mano che procede la globalizzazione della cultura e
dei costumi (quella dei mercati in fondo è almeno vittoriana...) ogni appello alle piccole patrie, alle
lingue, alla nobilitazione identitaria delle tradizioni guadagna ascolto. Che questo capiti nelle Chiese e fra le fedi dunque non meraviglia: dice soltanto che le risorse interiori e la lungimiranza spirituale con la quale, in contesti non meno difficili, altre generazioni avevano capito che ogni divisione prepara la catastrofe sono finite, o forse non sono state alimentate in tempo.