31/08/14

Lettura della domenica: "Ogni storia d'amore è potenzialmente una storia di sofferenza" (Julian Barnes).





Siamo creature destinate al piano orizzontale, a vivere coi piedi per terra, eppure - e perciò - aspiriamo a elevarci.

Da spettatori terragni quali siamo, qualche volta ci è dato di raggiungere gli dèi. Alcuni di noi lo fanno attraverso l'arte, altri con la religione; nove su dieci, con l'amore.

Ma se è vero che possiamo elevarci, allo stesso modo rischiamo di precipitare. Non sono molti gli atterraggi morbidi. Ci può succedere di rimbalzare sulla terra, trascinati da una violenza spaccaossa che abbatte lungo una linea ferroviaria straniera.

Ogni storia d'amore è potenzialmente una storia di sofferenza. Se non subito, in un secondo tempo. Se non per l'uno, per l'altro. Per tutti e due, qualche volta.

Ma allora perché non facciamo che ambire all'amore ? Perché l'amore è il punto di incontro fra verità e prodigio. Verità come nella fotografia; prodigio, come nel volo aerostatico.


Julian Barnes, Livelli di Vita, traduzione di Susanna Basso, Einaudi 2013, pag. 38 e 39. 

30/08/14

'Kafka e il digiunatore', un libro prezioso di Raoul Precht.





Sono davvero molti i modi nei quali, dagli anni successivi alla sua morte, gli scrittori - fino ai giorni nostri - si sono misurati col genio di Franz Kafka, quasi del tutto misconosciuto nel breve volgere della sua vita. 

Come ricorda Raoul Precht, in questo prezioso libretto - Kafka il digiunatore, appena uscito per Nutrimenti editore - tra il 1908 anno di pubblicazione del suo primo libro (all'editore di allora, Wolff ci vollero ben quindici anni per esaurirne la tiratura di sole ottocento copie !) e il 1924, quando uscì l'ultimo, proprio questo racconto, Il digiunatore, Kafka pubblicò appena sette volumetti di racconti, con una scarsissima eco di critica e pubblico, al quale il suo nome resta sostanzialmente sconosciuto. 

La gloria postuma di Kafka iniziò dunque soltanto dopo il 3 giugno del 1924, cioè dopo la morte di Kafka, avvenuta nel sanatorio di Kierling, nei pressi di Vienna, all'età di soli quarantuno anni. 

E iniziò grazie alle opere che furono salvati dal fuoco dall'amico Brod (Kafka aveva lasciato disposizioni molto severe che prevedevano la distruzione tra le fiamme di gran parte della sua produzione), tra questi anche uno degli ultimissimi racconti di Kafka, o forse l'ultimo in assoluto, questo Il digiunatore, che Raoul Precht traduce direttamente dal tedesco in una nuova edizione. 

Due testi accompagnano poi il racconto, nelle pagine del quale Kafka descrive le peripezie di uno di quei famosi digiunatori che nei primi anni del secolo si esibivano nelle piazze e nei circhi d'Europa e d'America, chiusi in gabbie ermetiche per dimostrare al pubblico (pagante) accorrente che riuscivano a fare completamente a meno del cibo per trenta o quaranta giorni. 

Non è un caso, sottolinea Precht, che Kafka, al termine della sua infelice vicenda terrestre, accudito dalla giovanissima compagna Dora, conosciuta un anno prima, abbia scelto proprio questo tema e questa figura, quella del digiunatore, colui che si ritira da tutto, che è schifato dal cibo - da quello che amano tutti gli altri - e che si lascia scivolare in un oblio dove anche la sua bizzarra, ambigua arte verrà del tutto dimenticata. 

Un finale amarissimo per un uomo e un artista che si era sentito sempre - anche orgogliosamente - fuori posto tra i (gusti dei) suoi conterranei e in definitiva anche nel (crogiolo di convenzioni e di cinismi del) mondo. 

Il suo occhio scrutatore, per molti versi implacabile, non poteva non restare così attratto dal fenomeno parossistico e paradossale dei digiunatori dell'epoca, un mondo che Precht ricostruisce con alcune foto dell'epoca e molta, accurata ricerca bibliografica, nell'ultimo capitolo del suo libro: l'affresco di un'epoca per alcuni versi ingenua (anche se non innocente), ma giunta ormai alla fine, che sarebbe stata spazzata via dall'orrore azzerante dei totalitarismi europei e del secondo conflitto mondiale. 

Fabrizio Falconi

29/08/14

"Costruire una cattedrale", il senso della vita (Michelangelo Antonioni e Ingmar Bergman).




Il 30 luglio del 2007, sette anni fa, morirono proprio nello stesso giorno, per uno scherzo del caso, due dei più grandi cineasti del Novecento: Michelangelo Antonioni e Ingmar Bergman. 

In quei giorni i giornali si riempirono di commenti, vecchie interviste, dotti interventi critici. Molti si chiedevano: cosa questi due uomini, questi due indagatori, avevano capito più di noi del mistero della vita?

Si erano avvicinati, attraverso la loro arte, a una qualche verità definita ? Avevano percepito una maggiore chiarezza intorno alla tragica bellezza della vita ?

Io, che per anni - come molti - mi ero nutrito dei film di entrambi (specie di quelli di Bergman, che mi hanno accompagnato in ogni stagione della mia vita), sono rimasto colpito dalle parole del maestro svedese rilasciate tanto tempo fa a un giornalista, nella hall di un albergo, riesumate da un quotidiano nei giorni dopo la sua morte: 

Se mi chiede il fine generale dei miei film, rispondo che vorrei essere stato uno degli artisti che hanno creato la cattedrale di Chartres. Ma alludo, con questa idea, sopratttutto a una cattedrale che rappresenta per me la vita culturale, l'attività artistica. Ebbene io penso che ogni artista, soprattutto europeo, debba portare la sua piccola pietra per la costruzione della cattedrale. Si tratta solo di una piccola pietra, ma è molto importante. E' il nostro dovere, il nostro unico modo di vivere, di esistere, perfino di respirare. Costruire la cattedrale significa combattere contro le ipocrisie, contro le ingiustizie, contro le guerre, contro l'oppressione, contro la menzogna. E' una lotta difficile perchè se è vero che c'è chi vuole costruire, c'è anche chi vuole distruggere. E questa gente che vuole distruggere è tanta, ed è tenace. E' così facile distruggere, ed è così difficile creare.... Ma anche se la cattedrale una volta costruita, può essere demolita e non esistere più, noi dobbiamo edificarla. Solo così saremo migliori.

Ho meditato a lungo su queste parole. 

In fondo davvero la nostra vita, quella di tutti, non solo degli artisti non è altro che questo: costruzione. E costruire vuol dire evidentemente entrare in un disegno di armonia, in una ricerca di bellezza, di forme, di struttura, di senso. Costruire non si può, senza saper chiedere, perché nessuno di noi sa costruire qualcosa completamente da solo. 

Così è stato per Ingmar e Michelangelo che hanno fatto in virtù dei loro talenti, ma hanno fatto grazie al talento grande, normale e minimo di chi ha lavorato ogni giorno, insieme a loro. 

Detto molto semplicemente, è questo forse il senso ultimo della vita. 

Fabrizio Falconi - © riproduzione riservata. 


27/08/14

Erica Jong: "Ho detto tante cose terribili, ma ero giovane e cinica."



Al volante di un fuoristrada nero, Erica Jong aspetta davanti alla stazione di Westport, Connecticut. C’è una coperta sul sedile posteriore per evitare che, quando i cani saltano a bordo, lo coprano di peli. Poco dopo, Ken arriva puntuale in treno da Manhattan, con il Times, il Post e il Daily News sotto il braccio e, a tracolla, una borsa che gli curva la schiena. Lei gli cede il posto alla guida. Lui imposta il navigatore per trovare il ristorante Whelk. «Questa macchina è nuova, ci sta facendo impazzire» commenta Erica nell’elegante tubino nero e giallo.

Scene di una tranquilla vita di coppia in questa specie di colonia estiva dei newyorchesi. Ma quello che colpisce è quanto siano cambiate le cose da quando l’autrice di Paura di volare aprì il suo bestseller con la seguente massima: «Bigamia vuol dire un marito di troppo, monogamia pure».

Sono passati quarant’anni e, due settimane fa, Erica ha festeggiato le nozze d’argento. Venticinque anni con lo stesso uomo. «Non ci avrei creduto se me l’avessero detto» racconta infilzando i gamberetti fritti in salsa barbecue, inframmezzati da sedanini sottaceto.

Proprio lei che sentenziò che «anche se si ama il proprio marito, arriva inevitabilmente il momento in cui scopare con lui è come mangiare un formaggino alla panna: riempie, ingrassa perfino, ma niente sapori eccitanti… e quello che si vuole invece è un pezzo di camembert stagionato» — adesso spizzica dal piatto di Ken le vongole con bacon, anch’esse in salsa barbecue.

«Ho detto tante cose terribili sul matrimonio, ma ero giovane e cinica. Ora penso che la cosa più preziosa sia avere qualcuno che ti guarda le spalle». Lancia uno sguardo al marito, seduto al suo fianco sullo sfondo delle acque verdi e placide del Long Island Sound, il braccio di mare che separa Long Island dal Connecticut.
«Penso che il matrimonio sia molto importante… se è quello giusto» conclude. Ma Ken puntualizza: «È importante anche se non è quello giusto. È così che mi guadagno da vivere». Fa l’avvocato ed è specializzato in divorzi difficili (etero e gay).

Venticinque anni fa, li ha presentati un’amica comune a New York. «Ma la storia interessante — interviene l’avvocato, sollevando prontamente lo sguardo dai cavatelli al nero di calamari — è come abbiamo deciso di sposarci. Ci frequentavamo da un paio di mesi, ma non avevo mai incontrato i genitori di Erica. Anche loro avevano una casa per i weekend qui in Connecticut e così un sabato sono venuti a trovarci. Ho conosciuto suo padre, uomo incantevole, e ho conosciuto sua madre. Più tardi, in auto su Riverside Avenue, ho detto a Erica: “Ti ho amato dal momento in cui ti ho incontrata, ma non capivo perché. Adesso so che hai bisogno di me».




26/08/14

"Il lungo sguardo" di Elizabeth Jane Howard, un grande romanzo sull'interiorità.




E' davvero una gran bella sorpresa la pubblicazione italiana di Il lungo sguardo di Elizabeth Jane Howard, da Fazi Editore che con questo romanzo può ripetere il grande e imprevisto successo di Stoner, diventato per propagazione via passaparola, un caso editoriale.  

Elizabeth Jane Howard è infatti, come l'americano John Williams, un autore quasi del tutto sconosciuto in Italia, anche se a lei si debbono quindici romanzi di successo, offuscati da un profilo biografico seducente (era una donna molto bella) e disastroso.

Nata a Londra 1923 e morta da pochi mesi a  Bungay, la Howard  veniva da una famiglia benestante (suo padre era un mercante di legname e sua madre una ballerina russa) e da una infanzia infelicitata da molestie sessuali subite dal padre e da una depressione cronica della madre.

Prima di sposarsi giovanissima - a diciannove anni, una via di fuga dalla famiglia - studiò recitazione e fece anche l’indossatrice.

Ma anche il resto della vita della Howard non fu semplice: una figlia, due matrimoni, una terza unione ventennale con lo scrittore Kingsley Amis, il padre di Martin, uno dei più grandi scrittori inglesi contemporanei. 

Alla infelicità personale la Howard tentò di porre rimedio con una incessante attività di scrittore, culminata nella saga familiare The Cazalet Chronicles, che le guadagnò un enorme successo (oltre un milione di copie). 

L'eco della vita della Howard risuona fin troppo incessantemente in questo che viene considerato il suo capolavoro.  Il lungo sguardo (traduzione non proprio felice dell'originale The Long View), pubblicato nel 1956 è la cronaca di una infelicità: quella di coppia, dei coniugi Antonia e Conrad, Mrs. e Mr. Fleming, e quella personale di Antonia, alle cui radici si risale attraverso una narrazione - a ritroso - che comincia negli anni '50 e torna indietro fino al 1924.

Siamo di fronte ad una scrittura di alto livello. Sofisticata, sulla scia della lezione magistrale di Henry James, ma sempre concentrata su un punto focale della narrazione: l'interiorità.  Il mistero della vita interiore, delle ombre che la attraversano, delle ferite che restano, dei piaceri e delle consolazioni che esaltano ma non consolano. 

I personaggi maschili del romanzo della Howard sono tutti orribili.  Cinici come Mr. Fleming, perso nella sua presunzione di dirigere il mondo delle cose, distaccato ed efferato; patetici come il marinaio che viene a riscaldare brevemente la dispersione di vita di Antonia; terrificante come il Geoffrey che abusa della ingenuità e dell'incanto della diciannovenne (come all'epoca in cui si è sposata l'autrice) Antonia. 


Ma è il personaggio di Antonia quello che resta sempre al centro, in una sorta di sofferta e consapevole auto-biografia.
Una biografia costruita intorno ad un vuoto che niente e nessuno sembra capace di riempire veramente. Perché è la vita, la vita vera - e in definitiva l'amore, che della vita è la massima e la più efficace espressione - che manca, anche in una vita esteriormente, apparentemente, superficialmente, inutilmente scintillante come quella di Antonia. ...O di Elizabeth ?


Elizabeth Jane Howard negli anni '50.


25/08/14

Le cose non sono mai come sembrano (e nemmeno come sono).





Non solo le cose non sono mai come sembrano, ma non sono nemmeno come sono.

Sembra inevitabile e rassicurante dare un nome alle cose, definirle. Farle essere come sostanza.

Ma, come sappiamo bene da qualche decennio, ogni cosa è più cose. E più cose tutte insieme. Lo è in natura e lo è in ogni essere umano.

Nello stesso senso della percezione che ne avevano avuto i padri greci, tutto è molteplice.

Il desiderio di imprigionare le cose nasce dalla paura di perdersi, di confondersi, di non trovare più approcci saldi, sicuri, di smemorarsi nella stessa infinitezza del mondo.

Ma c'è una sincerità più profonda.

Quella di abbandonare la pretesa di ordinare il mondo e di accettarne la straripante bellezza, quella evidente e quella nascosta.

Se si accetta, si crede.  Non ascoltare più soltanto il suono monotono della nostra mente (isolata dal mondo, nostalgica di questo isolamento, malata).

Si scopre così che la maggior parte delle cose che si credono (di qualunque natura) si credono sulla base di un principio volitivo (convinzioni, pregiudizi,consuetudini, ragionamenti, motivazioni) e solo in minima parte sulla base di quel che si sente (istinto, cuore, interiorità).

Ma il cuore ha conoscenze che attingono ad una fonte più profonda. E ignota.

Ascoltarla, bisogna.



Fabrizio Falconi - © riproduzione riservata. 

03/08/14

La poesia della domenica - "Gente, il sesso non è mai stato", di Gregory Corso.




Gente, il sesso non è mai stato
altro che una miscela
di corpi che fanno l'uno
per l'altro
ciò che piace
a loro e all'evoluzione
fare
per desiderio
o disperazione
o necessità
Non hanno alcun scopo
se non l'amore
e lo scopo della vita
I sessualisti
sono prodotti del sesso
Siamo fatti del sesso
Il sesso ha fatto l'Esercito della salvezza
Siamo sesso
Non c'è nulla di Oscuro
intorno a questa magia
E quelle fitte di desiderio
che vi fanno star male
Quei sogni impensabili
che vi riempiono di dubbi
- finché gioie selvaggie sgorgano
da uno spirito entusiastico
mangiate la polvere! GRIDATE!
Grazie a Dio i pensieri
eccitano quanto la carne
Grazie a Dio c'è un posto
in tutto questo lui e lei
e lui e lei
e lei e lui
per un me e me -.

Folks, sex has never been
more than a blend
of bodies doing for one
another
that which pleases
them and evolution
to do
either in desire
or in desperation
or in necessity
It serves no purpose
other than love
and life’s purpose Sexualists
are a product of sex
We are made by sex
Sex made the Salvation Army
We are sex
There is nothing dark
about this magic
And those pangs of lust
which make you sick
Those unthinkable dreams
which fill you with doubt
- as long as wild joys emit
from an enthusiastic spirit
eat the dust! shout!
Thank God there’s a place
in all this he and she
and he and he
and she and she
for a me and me –

Gregory Nunzio Corso - (1930-2001)

La Tomba di Gregory Corso al Cimitero Acattolico di Roma (foto di Fabrizio Falconi). 

02/08/14

Il Castello Miramare a Trieste e la leggenda nera (Monumenti esoterici d'Italia)





Il Barone Bernard Cyril Freyberg è uno di quei personaggi che hanno attraversato pagine cruciali della storia da protagonisti, ma senza lasciare, per strani motivi, tracce memorabili. Pochi sanno che fu proprio questo generale, neozelandese, a guidare le operazioni,  dopo aver partecipato alle campagne di Creta e del Nord Africa, del controverso bombardamento dell’Abbazia di Montecassino, insieme al generale Clark,  nel febbraio del 1944. Il parziale fallimento di quella operazione – l’Abbazia non nascondeva truppe tedesche come si credeva – non compromise l’avanzata delle truppe alleate e la progressiva conquista dell’Italia da sud a nord.

I primi giorni di maggio del 1945, le truppe neozelandesi sono in Friuli. Passano il Tagliamento, poi all’alba del 2 maggio l’Isonzo, trovandosi di fronte le truppe dei partigiani jugoslavi del generale Tito, che provenendo da nord, sono già entrate a Trieste.  I neozelandesi formano due colonne, l’una prende la via interna attraversando il Carso, l’altra segue la strada costiera e raggiunge il Castello di Miramare a mezzogiorno.

Alle quattro del pomeriggio, anche le truppe neozelandesi sono a Trieste, accolte in strada dalla popolazione. I tedeschi si arrendono. A loro penseranno gli jugoslavi, con esecuzioni sommarie nelle famigerate foibe. Il comando neozelandese si installa all’Hotel de Ville, in pieno centro.  Ma, dopo aver parlato con il comandante jugoslavo Vodopivez, il generale Freyberg, che comanda le truppe neozelandesi, fa ritorno al Castello Miramare: in quel luogo, di cui ha sentito così tanto parlare, ha deciso di porre il suo quartiere generale. 

Quando però, la mattina dopo, gli attendenti jugoslavi lo vengono a cercare, per comunicargli che Vodopivez ha assunto il comando generale della città di Trieste, si trovano di fronte la scena del Barone Freyberg che anziché accogliergli nelle sale del Castello, li riceve fuori da una rudimentale tenda da campo, allestita nei giardini.

Dopo molti giorni di cammino e di battaglie, è piuttosto strano vedere questo generale, di alto lignaggio e di nobili natali, approdato in una residenza principesca, dormire in una tenda da campo.

Sarà lo stesso Freyberg a spiegare la scelta ai suoi luogotenenti: quel bellissimo luogo, il Castello Miramare, dice, ha una fama sinistra. Chiunque vi abiti, spiega il Barone, è destinato a morire prematuramente e in terra straniera.

E’ il motivo per cui, lui che tiene molto a tornare sano e salvo alla fine della guerra dalla sua famiglia che lo aspetta agli antipodi in Nuova Zelanda, preferisce evitare di soggiornare all’interno delle mura del Castello.

Ma come poteva, un generale neozelandese, nel pieno della guerra, essere al corrente di una storia come quella, così distante, così lontana nello spazio e nel tempo ?

Evidentemente, il Castello Miramare di Trieste aveva già molto fatto parlare di sé e non doveva essere estraneo a questo comportamento del generale Freyberg, il fatto che egli fosse un veterano della rivoluzione messicana. Era probabilmente proprio lì, in Messico, che aveva sentito nominare per la prima volta il Castello Miramare, la residenza fatta costruire dall’Imperatore Massimiliano d’Asburgo, che proprio al di là dell’Oceano, in Messico aveva trovato il suo Regno e la sua ignominiosa fine, fucilato come un qualsiasi traditore o rivoltoso, il 19 giugno del 1867 a Santiago de Querétaro.

In realtà la fama sfortunata del Castello non era legata soltanto a Massimiliano, ma anche ad altri principi che transitarono successivamente per quei luoghi.  

(segue) 

Tratto da Fabrizio Falconi, Monumenti esoterici d'Italia, Newton Compton, 2013

01/08/14

Cioran: "La vita non è possibile che grazie alla dimenticanza" (Luoghi ritrovati).




In un prezioso (e introvabile) libretto, pubblicato da I Quaderni del Battello Ebbro nel 1995, Luoghi ritrovati a cura di Fulvio Del Fabbro, era riportato il contenuto di una intervista, tratta da un filmato realizzato nel 1991 tra Parigi e Bucarest a due grandi personalità della cultura rumena: Emil Cioran e Petre Tutea. 

Il primo, notissimo in Occidente, e residente in Francia dal 1937, rievoca l'infanzia in Romania e gli anni trascorsi a Parigi da eterno studente, con il rinnegamento delle sue radici fino al rifiuto di usare la lingua madre. 

Il libro è pieno di meravigliose illuminazioni che Cioran dispensa nel suo tipico stile apparentemente trasandato

Eppure ogni parola, ogni virgola di Cioran, riletta anche dopo molti anni, ha il dono della essenzialità e della esattezza, come capita molto raramente, sempre più raramente di incontrare oggi. 

Riporto un paio di brani. 

Prima di conoscere l'insonnia, dice Cioran, ero una persona quasi normale.  Per me è stata una rivelazione... quando ho perduto il sonno mi sono reso conto di come esso sia una cosa straordinaria. 

Perché la vita è sopportabile solo grazie al sonno.  Ogni mattina inizi una nuova avventura o la stessa avventura, ma con una interruzione.  L'insonnia è una rivelazione straordinaria perché sopprime l'incoscienza. Passi ventiquattro ore al giorno in uno stato di lucidità, cosa che eccede la capacità di sopportazione dell'essere umano.

E' una sorta di atto eroico, perché ogni giorno è una lotta perduta in partenza.  La vita non è possibile che grazie alla dimenticanza.

Non puoi prepararti a una veglia senza fine. E' una sensazione di flatterie, come se non facessi più parte dell'umanità.

**

In tutte le persone disturbate che ho conosciuto nella mia vita, e ne ho conosciute molte, ho osservato senza eccezioni una coscienza molto più viva di tutte le altre. 

E' un individuo uscito in qualche modo dal suo quadro naturale. Questo non è vero per i folli, ma per gli uomini con un pizzico di demenza  lo è. Così ho sempre creduto e credo ancora che ci sia una grande differenza tra chi è derangé e chi non lo è. Cioè uno che funziona a metà, per dirla così, può darsi faccia una esperienza metafisica molto più profonda di un normale filosofo.

Perché nella vita quello che è importante è quello che ha compreso direttamente, con la tua propria esperienza. Non dai libri.


Fabrizio Falconi