15/09/22

"Federer è una esperienza religiosa": Quando David Foster Wallace celebrò il mito di Federer - il celebre articolo che apparve sul NYT



Quasi tutti quelli che amano il tennis e seguono i tornei maschili in televisione avranno sperimentato, negli ultimi anni, uno di quelli che potrebbero essere definiti “Federer Moments”.

Ci sono delle volte, quando guardi giocare il giovane tennista svizzero, in cui la mascella scende giù, gli occhi si proiettano in avanti ed emetti suoni che inducono il coniuge nell’altra stanza a venire a vedere se ti è successo qualcosa. Questi Federer Moments sono ancora più intensi se hai abbastanza esperienza diretta di gioco da comprendere l’impossibilità di quanto gli hai appena visto fare.

Tutti possiamo citare qualche esempio. Questo è uno. Finale dello US Open 2005, Federer contro Agassi, siamo all’inizio del quarto set, Federer ha il servizio. C’è uno scambio piuttosto lungo di colpi da fondocampo, con il caratteristico andamento a farfalla del tennis da picchiatori che predomina ai giorni nostri, con Federer e Agassi impegnati ognuno dei due a far correre l’avversario da un lato all’altro del campo, cercando di trovare il colpo vincente… fino a quando, improvvisamente, Agassi tira fuori un potente rovescio incrociato che costringe Federer a decentrarsi alla sua sinistra: ci arriva, in allungamento col rovescio, ma il tiro esce corto e tagliato, mezzo metro oltre la linea di battuta, una di quelle situazioni in cui Agassi va a nozze, e mentre Federer si scalmana per cambiare direzione e recuperare la posizione centrale, Agassi si fa sotto per prendere la palla corta di controbalzo e la scaglia con forza nello stesso angolo di prima, per cercare di prendere Federer in contropiede, e in effetti ci riesce: Federer è ancora vicino all’angolo, ma sta correndo verso il centro, e la palla ora è diretta verso un punto dietro di lui, dove stava appena un attimo fa, e non c’è tempo di girare il corpo, e Agassi segue il colpo scendendo a rete sul rovescio… ed ecco che Federer, non si sa come, riesce a invertire istantaneamente la spinta, arretra di tre o quattro passi quasi saltellando, a velocità impossibile, e colpisce la palla di diritto sul suo lato di rovescio, con tutto il peso spostato all’indietro, e quel diritto è un topspin lungolinea da urlo, e Agassi, sceso a rete, si protende per cercare di intercettarlo, ma la palla lo supera, corre lungo la linea e va a atterrare esattamente sull’angolo destro del campo di Agassi, conquistando il punto, con Federer che ancora sta danzando all’indietro quando la palla tocca terra.

E poi segue quel consueto, breve secondo di silenzio attonito prima che la folla newyorchese esploda, e in tv John McEnroe, con il suo auricolare da commentatore in testa, che dice (più che altro a se stesso, sembra): «Come ha fatto a far punto da quella posizione?». E ha ragione: considerando la posizione di Agassi e la sua straordinaria velocità, Federer doveva indirizzare la palla dentro un corridoio largo cinque centimetri se voleva superarlo, ed è quello che ha fatto, muovendosi all’indietro, senza tempo per preparare il colpo, e senza poter sfruttare il peso del corpo per imprimergli potenza. Era impossibile. Era una roba alla Matrix. Non so che razza di suoni siano usciti dalla mia bocca, ma la mia consorte dice di essere accorsa nella stanza e di aver trovato il divano pieno di popcorn e il sottoscritto in ginocchio, con gli occhi che sembravano quelli finti a palla che si trovano nei negozi di cianfrusaglie.

Questo è un esempio di Federer Moment, ed era solo in tivù, e la verità è che il tennis in tivù sta al tennis dal vivo più o meno come il video porno sta alla realtà percepita dell’amore umano.

Giornalisticamente parlando, non ho notizie succose da offrirvi su Roger Federer. A venticinque anni è il miglior tennista vivente. Forse il migliore di tutti i tempi. Biografie e profili si sprecano. Il programma di informazione della Cbs, 60 Minutes, gli ha dedicato una puntata lo scorso anno. Tutto quello che volete sapere su mister Roger Federer, il suo passato, la sua città natale in Svizzera, Basilea, il modo assennato e disinteressato con cui i genitori hanno sostenuto il suo talento, la sua carriera tennistica giovanile, i suoi iniziali problemi di fragilità e carattere, il suo amato allenatore delle giovanili, la morte accidentale di quell’allenatore, nel 2002, che lo ha al tempo stesso annichilito e temprato e lo ha aiutato a diventare quello che è oggi, i trentanove titoli conquistati finora in singolo nella sua carriera, gli otto titoli del Grande Slam, l’attaccamento, insolito per costanza e maturità, alla sua ragazza, che lo segue nei suoi viaggi (nel circuito maschile è una cosa rara) e gestisce i suoi affari (nel circuito maschile è una cosa mai sentita), il suo stoicismo di altri tempi e la sua solidità mentale e la sua bella sportività e la sua generale, evidente modestia e la sua meditata e filantropica prodigalità: è tutto a portata di Google.

Rimboccatevi le maniche. Il presente articolo vuole descrivere il modo in cui Federer viene sperimentato da uno spettatore, e il contesto in cui ciò avviene. La tesi specifica è la seguente: se non avete mai visto il ragazzo giocare dal vivo, e poi lo andate a vedere, di persona, sul sacro manto erboso di Wimbledon, in mezzo a un caldo letteralmente disidratante, seguito da vento e pioggia come nell’edizione di quest’anno, allora siete il soggetto ideale per sperimentare quella che uno degli autisti dei pulmini riservati alla stampa durante il torneo descrive come «un’esperienza che rasenta lo spirituale».

La bellezza non è l’obbiettivo degli sport di competizione, ma lo sport di alto livello è uno degli ambiti in cui la bellezza umana ha le maggiori probabilità di esprimersi. Il rapporto è più o meno quello che intercorre fra il coraggio e la guerra. La bellezza umana di cui parliamo in questa sede è una bellezza di tipo particolare: la potremmo chiamare bellezza cinetica. La sua forza e il suo fascino sono universali. Non ha niente a che vedere con il sesso o i modelli culturali. Sembra legata, in realtà, alla riconciliazione degli esseri umani con il fatto di avere un corpo.

Naturalmente, negli sport maschili nessuno parla mai di bellezza o di grazia del corpo. Gli uomini possono professare il loro “amore” per lo sport, ma questo amore deve sempre essere casto e rappresentato secondo la simbologia della guerra: eliminazione contro avanzamento, gerarchia del rango e della classifica, ossessione per le statistiche, analisi tecniche, fervore tribale e/o nazionalista, uniformi, masse rumoreggianti, striscioni, gente che si batte il petto, facce dipinte, ecc.

Per ragioni non per tutti evidenti, i codici espressivi della guerra dalla maggior parte di noi sono considerati più sicuri dei codici espressivi dell’amore. Magari la pensate così anche voi, e in questo caso il mesomorfico e marzialissimo spagnolo Rafael Nadal è l’uomo-uomo che fa per voi, con la manica tirata su a mostrare il bicipite e le autoesortazioni in stile teatro Kabuki. E per di più, Nadal è la nemesi di Federer nonché sorpresa dell’anno a Wimbledon, dato che è uno specialista della terra battuta e nessuno si aspettava di vederlo andare più avanti dei primi turni. Mentre Federer, dal primo turno alle semifinali, non ha offerto la minima sorpresa o la minima suspense competitiva. Ha surclassato ogni avversario con tale eclatante superiorità che stampa e televisione si preoccupavano che i suoi match, troppo noiosi, non riuscissero a tener testa al fervore nazionalista dei Mondiali di calcio.

Ma la finale del 9 luglio è il sogno di chiunque. Nadal contro Federer è un replay della finale del Roland Garros del mese prima, vinta da Nadal. Federer, in tutto l’anno, aveva perso appena quattro partite, ma sempre contro Nadal. E si aggiunga che Nadal aveva adattato il suo stile di gioco terragnolo all’erba, avvicinandosi più alla linea di fondo per i tiri da fondocampo, potenziando il servizio e superando la sua allergia alla rete. Al terzo turno, ha praticamente sventrato Agassi. Nella finale di quest’anno va in scena il fascino della vendetta, la dinamica re-contro-regicida, il contrasto stridente fra i caratteri. Il machismo passionale dell’Europa del sud contro la contorta, clinica abilità artistica di quella del nord. Apollo e Dioniso. Scalpello e mannaia. Destrorso e mancino. Numero uno e numero due al mondo. Nadal, l’uomo che ha spinto fino alle estreme conseguenze il tennis moderno tutto potenza e fondocampo, contro un uomo che ha trasfigurato questo tennis medesimo, eccezionale sia per precisione e varietà sia per ritmo e rapidità, ma che può essere incredibilmente vulnerabile, o intimidito, di fronte al primo. Un giornalista sportivo britannico, eccitatissimo insieme ai suoi colleghi in tribuna stampa, ripete due volte: «Sarà una guerra».

La bellezza di un grande atleta è quasi impossibile da descrivere in modo diretto. O da evocare. Il diritto di Federer è una grande frusta liquida, il suo rovescio a una mano può diventare piatto, carico di effetto o tagliato, tagliato con una spinta tale che la palla cambia forma nell’aria e schizza sull’erba ad altezza caviglia. Il suo servizio ha una velocità e un livello di precisione e varietà tale che nessun altro riesce ad avvicinarcisi; quando serve, il suo movimento è sinuoso e diseccentrico, distinguibile (in tivù) solo da un particolare schiocco tipo anguilla che coinvolge tutto il corpo al momento dell’impatto. La sua capacità di anticipazione, il suo senso del campo, sono di un altro pianeta, e il suo gioco di gambe non ha eguali nel mondo del tennis (da bambino, era anche un calciatore prodigio). Tutto questo è vero, eppure niente di tutto ciò spiega veramente qualcosa, niente evoca l’esperienza di guardare quest’uomo che gioca. Di testimoniare, in prima persona, la bellezza e la genialità del suo gioco. Ti devi avvicinare all’essenza estetica per vie indirette, girarci intorno, o come faceva San Tommaso d’Aquino col suo ineffabile soggetto di studio, cercare di definirlo dicendo ciò che non è.

Esistono tre tipi di spiegazioni valide per dar conto dell’ascendente di Federer. Una ha a che fare con il mistero e la metafisica ed è, ritengo, quella che più si avvicina alla realtà. Le altre sono più tecniche e più praticabili per un testo giornalistico. La spiegazione metafisica è che Roger Federer è uno di quei rari, soprannaturali atleti che sembrano essere esentati, almeno in parte, da certe leggi della fisica. Esempi analoghi sono quelli di Michael Jordan, che oltre a riuscire a saltare ad altezze disumane era capace di rimanere sospeso in aria un istante o due di più di quanto consentito dalla forza di gravità, e Muhammad Ali, che riusciva a “galleggiare” sul ring e a mettere a segno due o tre diretti nel tempo necessario per assestarne uno. Dal 1960 a oggi di altri esempi del genere ce n’è forse una mezza dozzina. E Federer appartiene a questa categoria, una categoria che si potrebbe chiamare geni, mutanti o incarnazioni divine. Non è mai in affanno o sbilanciato. La palla che si avvicina rimane sospesa, per lui, una frazione di secondo in più di quanto dovrebbe. I suoi movimenti sono sinuosi, più che atletici. Come Ali, Jordan, Maradona e Wayne Gretzky sembra essere al tempo stesso meno solido e più solido degli uomini che affronta. Specialmente nel completo bianco che Wimbledon ancora ama imporre ai partecipanti, Federer appare quello che forse (secondo me) è: una creatura dal corpo fatto sia di carne sia, in un modo o nell’altro, di luce.

Questa storia della palla che con spirito collaborativo rimane sospesa lì, rallentando, come se fosse suscettibile al volere dell’elvetico: la metafisica sta qui. Qui e nel seguente aneddoto. Dopo la semifinale del 7 luglio in cui Federer ha distrutto Jonas Björkman — non semplicemente battuto, distrutto — e subito prima della rituale conferenza stampa post- partita in cui Björkman, che è amico di Federer, dice di essere contento di «aver avuto un posto in prima fila» per vedere lo svizzero «giocare il tennis più vicino alla perfezione che si possa immaginare», Federer e Björkman chiacchierano e scherzano fra di loro, e lo svedese gli chiede se la palla quel giorno per lui era più grande del solito, visto come aveva giocato, e Federer gli conferma che «era grande quanto una palla da bowling o da basket». Per Federer era solo un modo modesto e scherzoso di consolare Björkman, per confermargli che anche lui era sorpreso dalla qualità del gioco espresso quel giorno; ma è anche una battuta rivelatrice di quello che è il tennis per lui. Immaginate di essere una persona con riflessi, coordinazione e velocità soprannaturali, e di giocare a tennis ad alti livelli. Giocando, non vi sembrerà di possedere dei riflessi e una velocità fuori dal comune; vi sembrerà invece che la palla sia grande, che si muova lentamente e che avete tutto il tempo che volete per colpirla. In altre parole, non proverete niente di simile alla velocità e all’abilità (empiricamente reali) che vi attribuirà il pubblico dal vivo, guardando le palline muoversi a una velocità tale da diventare indistinte masse sibilanti.

La velocità è solo un elemento. Ora passiamo al tecnico. Il tennis spesso è definito un «gioco di centimetri», ma è un luogo comune che prende come punto di riferimento più che altro il punto in cui atterra la pallina. Se il punto di riferimento è il giocatore che colpisce la palla in arrivo, allora il tennis è più correttamente un gioco di micron: cambiamenti tanto sottili da essere quasi inesistenti riguardo al momento dell’impatto, avranno ripercussioni considerevoli sulla direzione e la traiettoria della palla. Lo stesso principio spiega perché la minima imprecisione quando si mira a un bersaglio con un fucile farà sbagliare il tiro, con un bersaglio sufficientemente lontano.

Per illustrare la tesi, rallentiamo il tutto. Immaginate di essere un giocatore di tennis, posizionato appena dietro la linea di fondo sull’angolo destro. L’avversario vi serve una palla sul diritto, voi ruotate in modo che il vostro fianco sia sulla traiettoria della palla in arrivo, e cominciate a portare indietro la racchetta per effettuare la risposta di diritto. Continuate a visualizzare il punto in cui vi trovate quando siete a metà del movimento: la palla ora è all’altezza del fianco più avanzato, a una quindicina di centimetri dal punto di impatto.

Consideriamo alcune delle variabili implicate. Sull’asse verticale, cambiare l’angolo di inclinazione della testa della racchetta di un paio di gradi soltanto produrrà rispettivamente un topspin o un colpo di taglio; mantenendola perpendicolare, verrà fuori un diritto piatto, senza effetto. Orizzontalmente, spostare anche di pochissimo a sinistra o a destra la testa della racchetta, e colpire la palla un millisecondo prima o dopo farà la differenza tra una risposta incrociata e un lungolinea. Ulteriori, piccole modifiche nella curva del movimento del vostro colpo da fondocampo e dell’accompagnamento del colpo contribuiranno a determinare se la palla supererà la rete a una distanza lontana o vicina dal bordo della medesima, e questo, insieme alla velocità del colpo (e a certe caratteristiche dell’effetto che imprimete alla palla) determinerà la profondità della risposta, l’altezza del rimbalzo, ecc. Queste, naturalmente, sono solo le distinzioni di massima: per esempio, c’è la distinzione tra topspin potente e topspin morbido, o quella fra colpo incrociato da un angolo all’altro del campo e colpo incrociato appena accennato, e così via. E poi c’è anche la questione della distanza a cui consenti alla palla di avvicinarsi al tuo corpo, della presa che usi, di quanto pieghi le ginocchia e/o di quanto porti avanti il peso, se sei in grado o meno di guardare la palla e simultaneamente vedere cosa sta facendo il tuo avversario dopo aver servito. Anche tutte queste cose contano. E in più c’è il fatto che non stai mettendo in moto un oggetto statico, stai invertendo la traiettoria e (in varia misura) l’effetto di un proiettile che arriva verso di te, a una velocità, nel caso del tennis professionistico, tale da rendere impossibile un pensiero cosciente. Il servizio di Mario Ancic, ad esempio, spesso viaggia a una velocità intorno ai 210 chilometri orari. Considerando che dalla linea di fondocampo di Ancic alla vostra intercorre una distanza di poco meno di 24 metri, questo significa che il suo servizio impiega 0,41 secondi per arrivare fino a voi. È meno del tempo necessario per battere le ciglia due volte, rapidamente.

La conclusione è che il tennis professionistico comporta intervalli di tempo troppo brevi per agire in modo deliberato. Da un punto di vista temporale, siamo piuttosto nel raggio d’azione dei riflessi, reazioni esclusivamente fisiche, che bypassano il pensiero cosciente. E ciononostante, rispondere a un servizio in modo efficace dipende da un ampio insieme di decisioni e aggiustamenti fisici molto più consapevoli e intenzionali di un battito di ciglia, del sobbalzo che facciamo quando qualcosa ci spaventa, ecc.

Per riuscire a rispondere con efficacia a un servizio potente ci vuole quello che qualcuno chiama “senso cinestetico”, che significa la capacità di controllare il corpo e le sue estensioni artificiali tramite un sistema complesso e molto rapido di compiti. La nostra lingua ha un vasto campionario di termini per descrivere i vari elementi di questa capacità: percezione, tocco, forma, propriocezione, coordinamento, coordinamento occhio-mano, cinestesia, grazia, controllo, riflessi, e via elencando. Per i giovani tennisti promettenti, l’obbiettivo principale dei durissimi programmi di allenamento quotidiani di cui si sente parlare è affinare il senso cinestetico.  

Siamo sul 2-1 per Nadal nel secondo set della finale, e lo spagnolo è al servizio. Federer ha vinto il primo set lasciando l’avversario a zero, ma poi ha avuto un leggero calo, come a volte gli succede, e si è trovato subito sotto di un break. Siamo ai vantaggi, è avanti Nadal, un punto con 16 tocchi. Rispetto a Parigi, le battute di Nadal sono molto più veloci, e in questo caso serve centrale. Federer tiene a galla la palla con un diritto morbido alto: può permetterselo perché Nadal non scende mai a rete dopo il servizio. Lo spagnolo effettua un tipico diritto potente in topspin, con palla indirizzata in profondità sul rovescio di Federer; Federer replica con un rovescio in topspin ancora più potente, quasi un colpo da terra battuta. Nadal è preso di sorpresa ed è costretto ad arretrare leggermente e risponde con una palla corta, bassa e tesa, che atterra appena oltre la T della linea di battuta, sul diritto di Federer. Contro qualsiasi altro avversario, più o meno, Federer su una palla del genere potrebbe semplicemente chiudere il punto, ma una delle ragioni per cui Nadal lo mette tanto in difficoltà è che è più veloce degli altri, può arrivare su palle su cui gli altri non arrivano: e quindi Federer in questo caso si limita a incrociare di diritto, piatto e di forza media, cercando, più che il colpo vincente, una palla bassa e non troppo angolata, che costringe Nadal a salire decentrandosi sul lato destro, quello di rovescio per lui. Nadal effettua un rovescio lungolinea in corsa; Federer, sempre di rovescio, restituisce la palla tagliata con un backspin, sulle stessa linea, lenta e fluttuante, costringendo Nadal a tornare nello stesso punto. Nadal rimanda la palla indietro tagliandola — e siamo a tre colpi lungo la stessa linea — e Federer a sua volta gliela rimanda indietro, sempre tagliata e sempre nello stesso punto, questa volta ancora più lenta e più fluttuante, e Nadal pianta i piedi per terra e spara un violento rovescio a due mani in lungolinea sempre sullo stesso lato, è come se ormai lo spagnolo avesse piantato le tende sul suo lato destro: non cerca più di tornare indietro al centro della linea di fondo tra un colpo e l’altro, Federer lo ha come ipnotizzato. Ora lo svizzero tira fuori un rovescio in topspin, profondo e violentissimo, di quelli che fanno sibilare la palla, in un punto leggermente spostato sulla sinistra di Nadal: Nadal ci arriva e spara un diritto incrociato; Federer risponde con un rovescio incrociato ancora più forte e potente sulla linea di fondo, talmente veloce che Nadal deve colpire di diritto all’altezza del piede di appoggio e poi correre verso il centro mentre la palla atterra a mezzo metro circa da Federer, di nuovo sul rovescio. Federer fa un passo avanti e confeziona un altro rovescio incrociato, ma completamente diverso, molto più corto e angolato, un angolo che nessuno avrebbe previsto, e talmente potente e carico di effetto che atterra corto, appena al di qua della linea laterale, schizzando via dopo il rimbalzo, e Nadal non può avanzare per intercettare il tiro e non può arrivarci lateralmente sulla linea di fondo, a causa dell’angolazione e dell’effetto: fine del punto. È un punto spettacolare, un Federer Moment: ma guardandolo dal vivo, ti rendi conto che è anche un punto che Federer ha cominciato a costruire quattro o cinque colpi prima. Tutto quello che è avvenuto dopo quel primo lungolinea tagliato è stato progettato dalla svizzero per abbindolare Nadal, cullarlo e poi spezzargli il ritmo e l’equilibrio aprendosi quell’ultimo, inimmaginabile angolo, un angolo che sarebbe stato impossibile senza un topspin estremo.

Federer non ha niente da invidiare a Lendl e ad Agassi quanto a potenza dei colpi, si solleva da terra quando colpisce ed è capace di colpire da fondocampo con una potenza che nemmeno Nadal. La raffinatezza, il tocco e la classe non sono morti nell’era del tennis dei picchiatori. Perché ora, nel 2006, siamo ancora nell’era del tennis dei picchiatori: e Roger Federer è un picchiatore di prima categoria, uno dei più agguerriti.

Il fatto è semplicemente che lui non è soltanto questo. È anche la sua intelligenza, la sua capacità occulta di anticipare gli eventi, il suo senso del campo, la sua capacità di interpretare e manipolare gli avversari, di mescolare effetto e velocità, di sviare e mascherare, di usare capacità di visione tattica, vista periferica e gamma cinestetica invece della semplice potenza meccanica, e tutto questo ha messo in mostra i limiti, e le possibilità, del tennis maschile così come viene giocato oggi.

Roger Federer sta dimostrando che la velocità e la potenza del tennis professionistico odierno sono semplicemente lo scheletro, non la carne.

Federer, in senso figurato e in senso letterale, ha reincarnato il tennis maschile, e per la prima volta da anni il futuro di questo sport appare imprevedibile.


Federer is a religious experience di David Foster Wallace apparve originariamente in inglese su The New York Times del 20 agosto 2006 e, in traduzione italiana di Fabio Galimberti, su Repubblica del 3 settembre 2006 con il nuovo titolo “Federer il mutante e il segreto del tennis perfetto”. 

Fonte: Gli Scritti 

14/09/22

Ecco "The Princess", il documentario prodotto da HBO sulla vita di Lady Diana Spencer

 La famosa foto di Diana sul trampolino del Sokar (ex Jonikal) nell'estate del 1997, a Porto Sole, in Sardegna, una settimana prima della sua morte.

Ho visto in queste ore "The Princess", il documentario diretto da Ed Perkins, e prodotto da Lighthouse in collaborazione con HBO, dedicato alla vicenda e alla vita di Lady Diana Spencer.
Si tratta di un lavoro di grande qualità, soprattutto per la sua originalità: non c'è infatti voce narrante, non c'è un "racconto" (o peggio ancora una "narrazione", termine ormai insentibile) di una vicenda ormai, nelle sue grandi linee, nota a tutti.
C'è invece un documentario affidato soltanto a uno stringato montaggio con una impressionante quantità di materiale d'epoca, a partire dalla diciannovenne Diana, quando nell'anno 1980, incappa nel principe di Galles, futuro re d'Inghilterra, e ne diviene la sposa.
Naturale che il documentario, uscito con imprevedibile "tempismo", visto proprio in questi giorni, susciti interesse, riguardo alle famose e in parte famigerate questioni riguardanti la royal family inglese.
Quel che ne viene fuori è un ritratto "definitivo" di una giovanissima donna che - piuttosto inconsapevolmente e ingenuamente - pensò di trovare il suo posto - sposa, madre - in un ambiente tutto sommato ostile, che non era il suo.
Quando accadde quello che era inevitabile accadesse, la Principessa si ostinò a non "scomparire", come si augurava la monarchia inglese. Manifestò una personalità forte, orgogliosa, che fece di tutto per rivendicare il diritto a esistere, a parlare, e anche ad amare, fuori dal recinto dove si trovò a vivere per lunghi anni vicino a un uomo che non l'amava, né aveva mai pensato che fosse necessario farlo.
Pagò dunque questa ostinazione in prima persona con una morte assurda e violenta. E forse, nei giorni in cui Carlo III sta per ricevere la corona di Re, è bene parlarne o ricordare questa donna che voleva essere "normale", che voleva essere "se stessa", ma che scelse la via più proibitiva per esserlo.

13/09/22

Cos'è la strana creatura scolpita da Bernini che appare nella Fontana dei Fiumi a Piazza Navona? Lo si scopre tra le pagine di "Porpora e Nero"

 



Che cos'è quella stranissima creatura che si erge dalle acque proprio al centro della meravigliosa Fontana dei Fiumi realizzata dal genio di Gian Lorenzo Bernini a Piazza Navona ? 

Le forme del tutto inconsuete hanno procurato molti grattacapi agli studiosi della storia dell'arte che soltanto in tempi recenti sono riusciti ad individuare l'animale misterioso al quale si ispirò Bernini, la cui vicende è strettamente legata al nome e al sapere sconfinato di un grande personaggio che visse a Roma negli stessi anni di Bernini (morirono anche a pochi giorni di distanza): il gesuita Athanasius Kircher, nato in Germania, vissuto a Roma, grande erudito, consigliere di principi e papi, collezionista compulsivo di rarità preziose proveniente da ogni angolo di mondo che allora veniva scoperto. 

Ne fu un esempio l’armadillo – il cui nome nella lingua degli indigeni Guaranì era Tatu un animale che nessun europeo aveva mai visto fino a quando un missionario gesuita al seguito dei conquistadores spagnoli pensò bene di spedirne un esemplare a Kircher. Il gesuita lo imbalsamò e lo appese al soffito, proprio all’entrata del suo Museo del Mondo: i visitatori ne restarono così impressionati, che perfino Gian Lorenzo Bernini prese ispirazione da quella strana creatura per immaginare e realizzare il drago che oggi si può ammirare tra le diverse sculture ornanti la Fontana dei Fiumi di Piazza Navona, e che per molto tempo fu scambiato per un coccodrillo.

L'armadillo-drago fa la sua comparsa ed è uno degli anelli-chiave per risolvere il mistero contenuto nel romanzo "Porpora e Nero" di Fabrizio Falconi, frutto di molti anni di appassionante ricerche. 

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12/09/22

E' morto il grande Javier Marìas. Il ricordo

 


Si è spento ieri sera, alla soglia dei 71 anni, il grande Javier Marìas, uno degli scrittori più importanti degli ultimi decenni. 

Non sapeva mai cosa sarebbe accaduto nei suoi libri, scopriva le cose che succedevano nel momento in cui le raccontava Javier Marias, il grande scrittore spagnolo morto oggi a 70 anni per una polmonite.

Dato piu' volte tra i favoriti alla vittoria del Premio Nobel, traduttore, giornalista, autore di 'Tutte le anime', 'Domani nella battaglia pensa a me' e 'Berta Isla' aveva raccontato lui stesso di scrivere senza una mappa, avendo pero' una bussola: "Non e' che non sappia dove voglio andare, ma non conosco la strada da percorrere, comincio senza sapere molto di quello che raccontero', non cambio nulla dei miei romanzi, come non possiamo cambiare nulla del nostro passato". 

Le zone d'ombra, il non detto, il non rivelato, l'impossibilita' di conoscere se stessi e le persone piu' vicine sono la materia che ha sempre stimolato la sua scrittura dove temi universali come il matrimonio, il tradimento, l'amore, i segreti si sono sempre accesi di una nuova e a volte inquietante luce. Figlio del filosofo Julián Marías e dell'insegnante Dolores Franco, nipote del singolare regista Jesús Franco, Javier Marias era nato il 20 settembre 1951 a Madrid in una famiglia di intellettuali anti-franchisti. 

Ha trascorso lunghi periodi dell'infanzia negli Stati Uniti dove il padre insegnava. Laureato in letteratura inglese all'Universita' Complutense di Madrid ha insegnato per un periodo all'Universita' di Oxford e negli Stati Uniti e ha tradotto in spagnolo importanti autori di lingua inglese da Thomas Hardy a Joseph Conrad e da Yeats a Stevenson. 

Fin dall'esordio nel 1971 con 'I territori del lupo', un romanzo particolare in cui 85 pellicole cinematografiche nordamericane visionate a Parigi erano diventate un 'opera letteraria, e' stato evidente il suo sperimentalismo e la rottura con la tradizione letteraria spagnola. Sono seguiti 'Traversare l'orizzonte' e nel 1978 El monarca del tiempo. Tra i suo romanzi, tutti pubblicati in Italia da Einaudi: 'Un cuore cosi' bianco', 'Gli innamoramenti', 'Cosi' ha inizio il male'. 

Il grande successo internazionale e' arrivato con 'Tutte le anime' che ha per protagonista un docente spagnolo a Oxford, con lo shakesperiano 'Domani nella battaglia pensa a me' in cui un ghost writer va a casa della donna sposata con cui ha una relazione e lei muore all'improvviso tra le sue braccia e con 'Il tuo volto domani'. 

Con il suo ultimo romanzo, 'Tomas Nevinson', uscito in Italia nel 2022 per Einaudi, aveva vinto a giugno il Premio Gregor Von Rezzori. "Quasi un monito che ci ricorda di continuare a coltivare i pensieri larghi" come sottolineava la motivazione della giuria. Il libro non e' un seguito ma "forma una coppia" con il fortunatissimo 'Berta Isla', il suo primo romanzo ad avere come titolo il nome di un personaggio. 

Un romanzo incentrato su una spia, con cui aveva raggiunto l'apice di un percorso intorno al segreto da cui tutti, piu' o meno, siamo toccati. "Bisogna nascondere una parte di se stessi, non le cose terribili, non ingannare, ma non bisogna mai rivelare tutto di se" aveva raccontato lo scrittore all'ANSA al Salone del Libro di Torino nel 2018. 

Nell'ultimo romanzo di 600 pagine Tomas Nevison, scomparso da dodici anni e dato per morto anche dalla moglie Berta Isla, torna nei servizi segreti e l'ordine che deve eseguire e' dei piu' atroci: individuare e uccidere una donna che nel 1987 aveva preso parte ad alcuni attentati dell'Ira e dell'Eta

Tanti i riferimenti e le citazioni letterarie - da Shakespeare a Baudelaire, da William Blake a Dante - come accade spesso nei viaggi che si compiono con le opere di Marias. Tanti i prestigiosi premi ricevuti dallo scrittore spagnolo tra cui il prestigiosissimo Rómulo Gallegos, il Prix Femina Etranger e molti i riconoscimenti avuti in Italia come il Premio Internazionale Bottari Lattes Grinzane e il Nonino. Marias, che parlava molto bene in italiano, era convinto che "non bisogna mai raccontare tutto, ma lasciare una parte di mistero per sorprendere sempre chi ti sta accanto" ed e' quello che ha fatto con la sua vita e con la straordinaria opera di creativita' che sono i suoi romanzi. 

11/09/22

Poesia della domenica: "I'm the one who doesnt' look for you"/ Sono io che non ti cerco di Fabrizio Falconi (Traduzione in angloamericano di Lynne Lawner)




I’m the one who doesn’t look for you
or else you’re the one who doesn’t reveal herself; 
I dig in the wrong place 
or else you’ve gone and hidden yourself 
in endless, moist earth. 
I’m the one who doesn’t ask you 
or else you’re the one who fails to answer; 
I’m the one who gets lost 
or else you’re the one who flees. 
I’m simply at the place where I started 
or else you keep moving with no purpose 
just like a caged animal.


Sono io che non ti cerco
o tu a non mostrarti,
sono io che scavo nel punto sbagliato
o tu a nasconderti
nell'umida terra sconfinata.
Sono io a non chiederti
o tu a non rispondere,
sono io a perdermi
o tu a fuggire.
Sono semplicemente io
al punto di sempre
o tu a muoverti senza scopo
come una bestia in gabbia.


Fabrizio Falconi - da Sub specie aeternitatis, 2003  - traduzione dall'italiano di Lynne Lawner 

10/09/22

LIBRO DEL GIORNO: "Bruciare i giorni" di James Salter

 



James Salter, in vita, è stato sempre considerato un outsider. 

Soltanto negli ultimi anni, prima della morte avvenuta a Sag Harbor il 19 giugno 2015, a 90 anni, egli cominciò a ricevere riconoscimenti per la sua opera di scrittore. 

Alle spalle aveva già parecchie vite vissute: nato James Horowitz a New York nel 1925, Salter era entrato giovanissimo all'Accademia Militare degli Stati Uniti, a West Point, e nel 1945 era entrato nell'Air Force, dove prestò servizio per dodici  lunghi anni tra il Pacifico, l'Europa, gli Stati Uniti d'America e la Corea, dove partecipò a diverse missioni sul suo caccia. 

Lasciato l'esercito con parecchi rimpianti - diversi tra i suoi ex compagni piloti, tra cui Buzz Aldrin finirono nel programma Apollo della NASA - a partire dal 1956 Salter cominciò a scrivere e a pubblicare, con lo pseudonimo che aveva scelto. 

I suoi romanzi non avevano successo. O almeno, non quello che Salter sperava o si aspettava. Ripiegò sul cinema. Scrisse sceneggiature per diversi film, ne diresse perfino uno, con la giovane Charlotte Rampling protagonista, si intitolava Three, nel 1969, che fu un totale fiasco. 

Nel frattempo però si era trasferito con la famiglia nella vecchia Europa e, muovendosi tra Londra, Parigi e Roma, tra gli anni '60 e '70 frequentò il bel mondo di allora, avvicinò i grandi, a volte lavorò con loro, conobbe molte donne, le amò, tornò a scrivere. 

Alla fine la sua opera letteraria consiste in un pugno di romanzi, e in un paio di libri di racconti. In Italia Guanda sta meritatamente traducendoli tutti: The Hunters, 1957 (Per la gloria, 2016) A Sport and a Pastime, 1967 (Un gioco e un passatempo, 2015) Light Years, 1975 (Una perfetta felicità, 2015) Cassada, 2000 (La solitudine del cielo, 2017) Last Night, 2005 (L'ultima notte,  2016) All That Is, 2013 (Tutto quel che è la vita, 2014) The Art Of Fiction, 2016 (L'arte di narrare, 2017) Burning the days, 1997 (Bruciare i giorni, 2018) Dusk and other stories, 2011 (Crepuscolo e altre storie,  2022).

Bruciare i giorni è dunque la sua ultima opera-romanzo, prima dei racconti finali del 2011. Ed è  un grande, corale riassunto della sua vita.  Un romanzo cioè "memoriale", che esprime bene la filosofia di Salter riguardo la letteratura (e la vita): soltanto ciò che viene ricordato, e dopo essere stato ricordato viene scritto, solo questo, viene salvato. 

Salvato dall'oblio e dalla insensatezza della vita. I poeti, gli scrittori, i saggi e le voci del loro tempo, scrive a un certo punto, formano un coro, l'inno che condividono è lo stesso: grande e piccolo sono uniti, il bello vive, il resto muore, e niente ha senso a parte l'onore, l'amore e quel poco che il cuore conosce. 

Il memoriale di Salter raggiunge livelli di compulsività e di ossessione: le quattrocentosedici pagine sono un carosello rutilante di incontri, di vissuto, di giorni bruciati, appunto, che si susseguono in fila nei ricordi dello scrittore, senza apparente soluzione di continuità. 

C'è una urgenza di salvare il salvabile, di cementare (per quello che possono fare la letteratura e i libri) la memoria di una vita vissuta, fortunata e piena. 

E l'operazione riesce ad essere avvolgente e ipnotica per il lettore, per merito dello stile di Salter, che si può apprezzare anche negli altri suoi romanzi e che ha portato il Washington Post a definirlo come "il romanziere contemporaneo più amato e apprezzato dagli scrittori." 

Salter, come il John Williams di Stoner, è un distillatore di parole. Ciascuna frase sembra cesellata nell'essenziale. Un rigo basta a descrivere uno stato di vita, un fallimento, una perdita, la ferita di un paesaggio, l'ebrezza di un lungo incontro. 

Il libro è praticamente diviso in due grandi parti: nella prima, Salter racconta la sua vita di cadetto a West Point, e di pilota, la sua vita che in quegli anni è tutta concentrata sul volo. 

Nella seconda, il racconto si incentra sulla scrittura, gli incontri, il cinema: New York, Robert Redford e Polanski, Parigi vista con meraviglioso disincanto da espatriato, fino alla Roma di Pasolini e Laura Betti. 

Salter rivela, evocandone il ricordo, come avviene parzialmente anche negli altri romanzi, tutto quel che può essere la vita, a saperla e volerla raccontare. Una musica sincopata, che a tratti accarezza come vento poetico, e a volte, il più delle volte, strugge. Il senso, se c'è, è altrove. Basta, per ora, il racconto.   

07/09/22

"(in)abisso" - una poesia di Fabrizio Falconi

 



in(abisso) 



generale tempo del senso perso,
ecco i tuoi amici distratti
ecco coloro che se ne sono andati,
i marinai del vento contrario,
ecco i monchi pazzi
ecco le vedove
ecco mio padre che sorride
e quello che un solco venerabile
ha lasciato, eccoli in corteo:
non vedi come conta i denti la ruota
del tempo soppesato da te,
non vedi come si ribella
reclama un nuovo visibile
spavento, uno spavento che finisca
in riso e non si penta e non scolori
mai
nel pianto.


06/09/22

"Dammi forza", una poesia di Fabrizio Falconi






Dammi forza 
e un quieto scomparire, 
di questo poco
sventolio evanescente 
non voglio ricordare
neppure
l'ombra o l'inizio.


Fabrizio Falconi, da "L'ombra del ritorno", Campanotto, Udine 1998, e da "Poesie 1996-2007", Prefazione di Robert P. Harrison, Postfazione di Marco Guzzi, Campanotto, Udine, 2007 

05/09/22

Quando gli scrittori si odiano (e si sfidano perfino a duello): Ungaretti/Bontempelli, Garcia Marquez/Vargas Llosa, Naipaul/Theroux, Neruda/Huidobro

La celebre foto del duello a filo di spada tra Giuseppe Ungaretti e Massimo Bontempelli

Se non sono particolarmente ipocriti non è facile trovare due scrittori famosi che si amino. Spesso si ignorano. Perché l' invidia, la rivalità, l' arroganza sono sentimenti inconfessabili che, se scoperti, rimpiccioliscono l' anima di chi li prova. 

Così, quando si picchiano, come fu il caso di Garcia Marquez e Vargas Llosa il 12 febbraio del '76, finiscono per nasconderlo anche ai biografi. L’episodio tra i due è leggendario e misterioso. Avvenne a Città del Messico, luogo che per entrambi aveva significati speciali, nel Palazzo delle Belle Arti. Mario Vargas Llosa, il più grande scrittore peruviano di sempre, si avvicinò a Gabriel García Márquez, il più grande scrittore colombiano di sempre. Gli urlò: “Questo è per quello che hai fatto a Patricia a Barcellona!”. E diede a Márquez un pugno in faccia così forte da farlo cadere a terra, lesionargli il volto e una spalla, lasciarlo con un occhio nero per giorni. 

Vargas Llosa se ne andò, Márquez non reagì. 

Racconta Elena Poniatowska, grande scrittrice messicana, che García Márquez andò in un ristorante vicino a farsi dare una bistecca congelata da mettersi sulla faccia, e poi andò via anche lui a bordo di una Volkswagen. 

Da allora nessuno parlò più. Non una parola sul pugno più famoso della letteratura latinoamericana, non una parola su Patricia, che era la moglie di Vargas Llosa con cui, nell’ultimo periodo, García Márquez era diventato amico stretto. Ma soprattutto, non una parola tra le due più grandi penne dell’intero continente. Era il 1976 e per i successivi quarant’anni, fino a che Gabo non è morto nel 2014, i due non si sono mai più rivolti la parola

Un duello molto famoso fu quello fra Giuseppe Ungaretti e Massimo Bontempelli che incrociarono le spade il 9 agosto del 1926. 

I due scrittori dopo un incontro casuale nel quale si erano accusati a vicenda di «maldicenze letterarie» si diedero appuntamento nella villa romana di Luigi Pirandello. Vinse Bontempelli che infilò la spada nell' avambraccio destro di Ungaretti procurandogli una ferita di «tre centimetri». 

Più recente è lo sgarbo che ha messo fine all' amicizia fra lo scrittore di origine indiana Naipaul, premio Nobel per la letteratura nel 2001, e l' americano Paul Theroux

L' avventura è succosa perché Theroux aveva addirittura scritto nel 1998 Biografia di un' amicizia, un libro di memorie nel quale il soggetto era proprio Naipaul. 

Sta di fatto che un giorno, spulciando lo scaffale di un rigattiere, Theroux trovò un suo libro di viaggi con tanto di dedica in prima pagina al suo amatissimo amico. Quando chiese spiegazioni Naipaul confesso s' era disfatto del libro, come di tutti gli altri, che Theroux gli aveva gelosamente donato. 

L' invidia verso la fama meritata o immeritata poi può far di peggio: due grandi poeti e grandi amici come i cileni Pablo Neruda e Vicente Huidobro smisero di parlarsi quando in un' antologia il secondo ricevette qualche riga in più di biografia rispetto al primo. Mentre il terzo incomodo, Pablo De Rokha, morì suicida espulso dal partito comunista dagli amici di Neruda.

02/09/22

Alejandro Inarritu, uno dei più grandi registi contemporanei, a Venezia: "Nessun regista può prescindere da Fellini"

 


Alejandro Gonzalez Inarritu non conosce l'italiano, ma apprezzerebbe il termine "spatriato", perche' rappresenta la sua condizione, sulla cui elaborazione ha costruito il nuovo film, il primo a sette anni da Revenant che nel 2015 valse l'Oscar a Leonardo DiCaprio. 

S'intitola non a caso Bardo, che sta piu' o meno per limbo, per condizione di mezzo tra mondo dei vivi e quello dei morti. 

"Io sono nel mezzo, sono messicano per gli Stati Uniti, americano in Messico", ha detto il regista di Amores Perros, 21 grammi, Biutiful, Birdman, che in concorso a Venezia 79 ha portato un film epico, monumentale, tre ore della vita di Silverio Gama, "emigrato di prima classe", giornalista, documentarista, scrittore di successo alle prese con un bilancio di vita

Non casuale: "Sono alla vigilia dei miei 60 anni, sono portato a riflettere, è un momento chiave della mia vita, sono pronto a capire, dal 2012 poi con un monaco vietnamita faccio meditazione, la trovo liberatoria, mi aiuta a vedere con distacco le cose, senza temere il giustizio degli altri, ad accettarmi insomma", ha raccontato. "Il successo ha un sapore un po' amaro, e' una posizione privilegiata, ma tante sono le attese, gli obblighi, nulla e' mai abbastanza, il successo porta a sacrifici, ad esempio per la tua famiglia", ha rivelato.

Il film è autocritico, sulla scelta di migrare ("migliaia di persone lo fanno non avendo altre opportunita'"), sulla condizione di chi va via dal paese. "Proprio oggi 1 settembre e' un anniversario importante: il 1 settembre 2001 con la mia famiglia abbiamo lasciato il Messico e siamo andati a vivere a Los Angeles, pensavamo per un anno, invece non siamo piu' andati via, ma questa assenza mi rincorre ogni giorno, il Messico diventa uno stato mentale e le storie che racconto in Bardo interpretano questa assenza"

Al suo personaggio (interpretato da Daniel Gime'nez Cacho) fa fare un viaggio emozionale, in cui la biografia vera del regista ha un confine incerto con la finzione, "e' auto-finzione" ma comunque gli fa dire di essere "al servizio dei gringos", ossia degli americani, di far parte del loro sistema. 

'Bardo - La cronaca falsa di alcune verita'' (al cinema e poi dal 16 dicembre su Netflix che lo ha prodotto) racconta un viaggio sospeso tra memorie e vissuto di Gama che sta per ricevere, primo messicano e latino americano, un prestigioso premio in America e per questo viene festeggiato anche in patria dove fa ritorno dopo anni. 

Nel coma che lo coglie dopo un infarto c'e' il sogno di questo viaggio tra Los Angeles e il Messico e ritorno e la storia di se stesso e della sua famiglia, ma c'e' anche la storia del Paese sotto scacco americano (Amazon si compra la Bassa California, "del resto oggi le corporazioni sono piu' ricche di tanti paesi, Walmart ha 3 milioni di dipendenti, c'e' un ritorno al feudalesimo delle corporazioni", ha detto), la tragedia dei migranti che provano a passare il confine (come aveva fatto nel commovente esperimento immersivo Carne Y Arena), la vita dei messicani poveri in California.

Tutto come un sogno, "perche' la realta' non esiste, piuttosto e' il senso che dai ad eventi che vivi, e' tutto finzione"

Inarritu paga il suo personale tributo al cinema del maestro di Rimini e con sincerita' lo ammette: "Fellini e' un santo protettore, come Bunuel, Roy Anderson, Jodorowsky. Non c'e' un cineasta che non sia stato infettato da Fellini cosi' come nessun musicista puo' prescindere da Mozart o da Bach. Il suo cinema e' il mezzo piu' simile ai sogni. E spero che santo Fellini mi abbia protetto anche questa volta".

Fonte: Alessandra Magliaro per ANSA

01/09/22

I 100 anni di Vittorio Gassman: la commovente lettera che gli ha scritto il figlio Alessandro

 



Nel giorno in cui il grande Vittorio Gassman avrebbe compiuto 100 anni e la Mostra del Cinema in corso a Venezia gli tributa i doverosi omaggi, riporto qui la commovente lettera aperta scritta da Alessandro Gassman a suo padre, Vittorio, qualche anno fa e pubblicata su IO Donna - Corriere della Sera .

E' molto bella e forte, priva di retorica, e traccia un ritratto veritiero e partecipato di uno dei più grandi attori italiani di sempre. 

Tua madre, piccola donna, giovane vedova, ebrea e con due figli minori a carico, fu straordinaria durante il fascismo a portare avanti una famiglia da sola. Dicevi sempre che il funerale di tuo padre, nonno Heinrich, un gigante tedesco di quasi due metri, fu il primo momento della tua vita nel quale ti sentisti al centro dell’attenzione. E scopristi che starci non ti dispiaceva, anzi. 

A quattordici anni perdere un padre è dura ma, con una madre come Luisa accanto, sicuramente avrete avuto un sostegno incredibile e anche per questo sei diventato quello che tutti conoscono. Con il susseguirsi degli anni, dei figli, delle mogli, dei premi, dei trionfi, forse ti sei accorto che quel bambino che si sentì importante durante il funerale del papà, in realtà non avrebbe dovuto starci lì al centro, ma che magari una collocazione più “laterale” ti avrebbe regalato una vita forse meno esplosiva e divertente ma più felice, più a te consona

Certo avremmo tutti perso tonnellate di risate ed emozioni, molte donne non si sarebbero innamorate, il termine “mattatore” avrebbe assunto altri significati, molti registi non avrebbero trovato il loro straordinario protagonista… Ma tu, forse, avresti vissuto

 Non hai mai una sola volta viaggiato per diletto, ma solo per lavoro. Mai ti sei fatto un regalo, tranne qualche macchina sportiva. Che, peraltro, guidavi male. Ricordo viaggi da Roma alle Alpi, schiacciato nel sedile posteriore pieghevole della tua Porsche verde pisello, con la quale raggiungevi velocità estreme per poi inchiodare immotivatamente; il frastuono assordante del motore dietro la mia testa; quell’odore di pelle che mi dava il voltastomaco. Molte pipì silenti sul ciglio della strada, molte sigarette scroccate, centinaia di pacche inaspettate dietro le spalle, che ti spostavano e che erano sempre seguite da una risata infantile e coinvolgente, e che ora inspiegabilmente mi mancano.

Cosa ti sia perduto in questi venti anni da quando sei andato “altrove”, è difficile da raccontare. Difficile perché molto è accaduto, molto è cambiato il Paese e profondamente lo sono gli italiani, tanto che se esistesse oggi il tuo Bruno Cortona del Sorpasso probabilmente sarebbe considerato dai più uno sfigato. In questo momento storico poi – dove le cose dovranno cambiare per davvero, con una epidemia che ha stravolto e stravolgerà la società, gente impreparata, rammollita da sessanta anni di ozio e perdita di riferimenti culturali – manca la voce della tua generazione, la voce di chi una “guerra” l’ha vissuta e le è sopravvissuto. 

Siete in molti lì, sei in buona compagnia: Ugo, Luciano, Dino, Ettore, Mario, Adolfo, Paolo, Ennio, Suso, Franco (Tognazzi, Salce, Risi, Scola, Monicelli, Celi, Flaiano, Cecchi D’Amico, Zeffirelli, ndr). Sempre se esiste un lì… Se nella frase che ripetevi (penso fosse del tuo amico grande sceneggiatore, Sergio Amidei) «Solo gli stronzi muoiono!» ci fosse verità, lì, dove ti trovi, sarebbe molto meno frequentato

Dell’oggi probabilmente avresti apprezzato l’accelerazione della vita, tu che eri come me iperaccelerato: ti innervosivi, come me, per lungaggini o inceppi di qualunque sorta. Avresti probabilmente fatto un utilizzo puramente letterario dei social, avresti mandato a quel paese tutti coloro – e sono tanti – che parlano sempre, che si occupano della distruzione sistematica della nostra sublime lingua, della perdita dei congiuntivi, della semantica, del fatto che nessuno più sappia cosa sia l’anacoluto. Non possono parlare meglio, perché i pensieri sono piccoli, veloci, furbeschi, corrotti, interessati. 

Avresti tifato tuo nipote Leo a Sanremo (ha vinto il Festival nella categoria “Nuove proposte”, ndr), ti sarebbe piaciuto per la sua voce, il suo coraggio e la sua umiltà. Avresti tifato per Geko (il calciatore della Roma Edin Džeko, ndr). Forse avresti anche apprezzato il mio lavoro. Avresti apprezzato alcuni nuovi registi e attori, detestato il populismo, perché vi avresti riconosciuto avvisaglie di un passato per te spaventoso. Mi avresti visto invecchiare, somigliarti di più, osservare la mia lunga schiena piegarsi leggermente in avanti per la classica lordosi di famiglia che ci accomuna, ma avrei continuato a farti ridere come nessun altro è mai riuscito. Ecco, quello che mi manca di te, soprattutto, è uno spettatore al quale fare da “buffone”. Invecchiando e avendo responsabilità, non lo faccio più spesso, nessuno ride quanto ridevi tu, nessuno adora essere preso in giro da me quanto piaceva a te, eppure penso che invece, quella rimanga la mia dote migliore. Ti abbraccio senza mascherina, e ti bacio anche sulle labbra, cosa che ti avrebbe fatto schifo. Ma con te posso farlo, come faccio da venti anni e come – rassegnati – farò per sempre. Ti voglio bene. 
A.

31/08/22

L'incredibile Karma di Roman Polanski sull'America

 

Roman Polanski contestato dal gruppo delle "Femen" qualche anno fa a Parigi

Trovo una vecchia intervista a Roman Polanski, rilasciata a Panorama il 9 gennaio 1975 (il Panorama di Lamberto Sechi) e salto sulla sedia quando trovo questo passaggio:
(Ricordo che nel 1975 sono passati soltanto 6 anni dal massacro di Cielo Drive, in cui Manson e la sua banda ha ucciso la moglie di Polanski, Sharon Tate incinta a due settimane dal parto e i suoi amici. L'intervistatore dunque chiede al regista: "Ma lei non se l'è presa con l'America (dopo l'assassinio della moglie, Sharon Tate)? Polanski risponde così:)
"Non sono così primitivo. Amo l'America. L'America è un'esperienza nella storia dell'umanità, forse la sola che abbia funzionato. E' l'unico paese veramente democratico... quello che è successo è il prezzo che si paga per la libertà, per la democrazia... Davvero bisogna vivere in America per ammirare questo paese. Quando leggo un fatto di cronaca, mi dico sempre che SE DOVESSI ESSERE ARRESTATO DALLA POLIZIA, PER UNA RAGIONE GIUSTA O INGIUSTA, PREFERIREI CHE SUCCEDESSE IN AMERICA PIUTTOSTO CHE IN QUALSIASI ALTRO PAESE. Ed è già molto. E' un paese in cui LA LEGGE FUNZIONA: se ne può criticare l'applicazione, non il principio."
E' stupefacente la quantità di Karma presente in questa frase:
Come è noto infatti, SOLTANTO 2 ANNI DOPO il rilascio di questa intervista, nel 1977, Polański venne accusato a Los Angeles di "violenza sessuale con l'ausilio di sostanze stupefacenti" ai danni di una ragazzina di tredici anni e undici mesi, Samantha Geimer, modella, figlia di una conduttrice televisiva; il fatto avvenne nella villa di Jack Nicholson. L'accusa comprendeva in tutto sei capi d'imputazione.
A causa dell'età della vittima, fu prescritta ai sensi di legge, una perizia psichiatrica del reo, per la quale Polanski fu mandato per 90 giorni nella prigione di Stato californiana a Chino. Dopo 42 giorni Polański venne rilasciato anticipatamente con una valutazione che consigliava una pena detentiva con la condizionale, quindi senza più detenzione. Quando emerse che il giudice non avrebbe seguito la proposta, il regista dagli Stati Uniti fuggì a Londra. Poco dopo si trasferì a Parigi per evitare l'estradizione da parte del Regno Unito. Da allora, cioè da 45 ANNI, evita l'ingresso negli Stati Uniti, nonché negli stati dai quali può temere l'estradizione. Dato che dal 1975 possiede la cittadinanza francese, non può essere estradato dalla Francia agli Stati Uniti.
Più volte, nel corso degli ultimi decenni, Polanski si è dichiarato fortemente "perseguitato dalla giustizia americana".

Fabrizio Falconi - 2022

30/08/22

12 Settembre 1928: Muore Italo Svevo, gigante della letteratura italiana, "ebreo a metà"

 


Sta per avvicinarsi l'anniversario della morte di uno tra i più grandi scrittori italiani di sempre. 

Il 13 settembre 1928, infatti, Italo Svevo morì, alcuni giorni dopo essere rimasto ferito in un incidente stradale a Motta di Livenza, vicino alla natia Trieste. Aveva 68 anni.

Questo è il ricordo che ne fa il quotidiano israeliano Haaretz: 

Sebbene Svevo abbia scritto per la maggior parte della sua vita, è stato solo in tarda età che la critica si è accorta di lui e i lettori hanno iniziato a comprare i suoi libri. Questo piacevole cambiamento era avvenuto in gran parte grazie agli sforzi di James Joyce, che si era dato da fare per far tradurre dall'italiano e pubblicare all'estero le opere del suo vecchio amico.

Aron Ettore Schmitz, come era stato chiamato alla nascita, era nato il 19 dicembre 1861 a Trieste, allora parte dell'Austria. (Pochi anni dopo entrò a far parte dell'impero austro-ungarico; dopo la prima guerra mondiale fu annessa all'Italia). Era il sesto degli otto figli di Francesco Schmitz, un commerciante tedesco-ebraico di articoli in vetro, e della ex Allegra Moravia, un'ebrea originaria di Trieste.

Aron crebbe parlando il tedesco e il dialetto triestino dell'italiano. Come ha notato il suo biografo P.N. Furbank, il nome di penna "Italo Svevo" - che significa "Italus lo Svevo" - era un'indicazione dell'identità "ibrida" che Schmitz sentiva.

Frequentò la scuola elementare ebraica, dopodiché fu mandato in un collegio di lingua tedesca vicino a Wuerzburg, in Baviera. Dopo aver conseguito il diploma di scuola secondaria, nel 1880, voleva lavorare solo come scrittore. Il padre, però, si aspettava che entrasse nel mondo degli affari e lui tornò a Trieste per iniziare gli studi all'Istituto Superiore Revoltella, una scuola commerciale.

Francesco Schmitz, nel frattempo, investì tutto il suo capitale in un'azienda di soffiatura del vetro che, quando fallì, lo lasciò non solo in bancarotta ma anche a malapena in grado di funzionare.

Per mantenere la famiglia, Ettore lasciò la scuola e iniziò a lavorare nel reparto corrispondenza commerciale della Unionbank di Vienna, a Trieste, lavoro che mantenne per i successivi 18 anni. Tutto il tempo libero di Svevo, però, era dedicato alla lettura e alla scrittura, e iniziò a pubblicare racconti e saggi quasi nello stesso periodo in cui iniziò a lavorare in banca.

La sua esperienza in banca gli servì anche come materiale per il suo primo romanzo, "Una vita", completato nel 1888, che riguarda un impiegato di banca che insegue la figlia del suo capo, per poi fuggire da lei quando lei lo accetta. Come tutti gli altri suoi primi romanzi, "Una vita" fu autopubblicato.

Nel 1896, dopo la morte di entrambi i genitori, Svevo sposò Livia Veneziane, una cugina e una cattolica romana praticante. Egli stesso non era interessato alla vita religiosa - insistette per una cerimonia nuziale laica - ma dopo che Livia si ammalò gravemente, dopo la nascita del loro primo figlio, e immaginò che la sua malattia fosse una punizione per aver sposato un ebreo, Svevo si offrì di sottoporsi al battesimo.

Dopo aver pubblicato il suo secondo romanzo, "Senilità" (in inglese "As a Man Growser Older"), nel 1898, e aver visto che non aveva avuto successo, Svevo decise di smettere di pubblicare, pur continuando a scrivere. Come spiegò: "Scrivere si deve. Quello che non si deve fare è pubblicare".

L'anno successivo iniziò a lavorare per il suocero, proprietario di una fabbrica di vernici marine di grande successo. Per 25 anni non pubblicò nulla.

Avendo l'incarico di aprire una filiale dell'azienda di vernici in Inghilterra, Svevo iniziò a prendere lezioni di inglese alla scuola Berlitz di Trieste, dove il suo insegnante era un giovane James Joyce.

Joyce, che conosceva Ettore come "Hector", condivise con il suo studente alcune sezioni del suo "Dubliners" e Svevo ricambiò con alcuni dei suoi lavori. Joyce lo esortò a continuare a scrivere e Svevo autopubblicò in italiano quello che divenne il suo romanzo più famoso, "Le Confessioni di Zeno", nel 1923.

Nuovo tipo di romanzo, "Confessioni" è il libro di memorie di Zeno Cosini, scritto su richiesta del suo psicanalista, al quale si era rivolto per capire la sua dipendenza dal tabacco.

Joyce mostrò "Confessioni" a due critici francesi, che ne organizzarono la pubblicazione nel loro Paese. L'accoglienza entusiastica che ebbe in quel paese indusse la critica italiana a riconsiderare l'opera di Svevo, che finalmente, in quelli che finirono per essere gli ultimi anni di vita, cominciò a ricevere i riconoscimenti che prima gli erano sfuggiti.

Il 12 settembre 1928, mentre torna con la famiglia da un periodo di cure termali a Bormio, Svevo è coinvolto in un incidente stradale presso Motta di Livenza (provincia di Treviso), in cui rimane ferito apparentemente in maniera non grave

Nella vettura ci sono il nipote Paolo Fonda Savio, l'autista e la moglie Livia. 

Secondo la testimonianza della figlia Svevo si sarebbe fratturato solo il femore, ma mentre viene portato all'ospedale del paese ha un attacco di insufficienza cardiaca con crisi respiratoria, anche se non muore immediatamente. 

Raggiunto il nosocomio peggiora rapidamente: in preda all'asma, muore 24 ore dopo l'incidente, alle 14:30 del 13 settembre. La causa del decesso sono asma cardiaco sopraggiunto per l'enfisema polmonare di cui soffre da tempo e lo stress psicofisico dell'incidente.

Il quarto romanzo, Il vecchione o Le confessioni del vegliardo, una "continuazione" de La coscienza di Zeno, rimarrà incompiuto. 

29/08/22

Le incredibili circostanze che consentirono a Roman Polanski di salvarsi dall'Olocausto quando aveva 10 anni. L'emozionante incontro con i nipoti dei suoi salvatori

 

Roman Polanski adolescente, nel dopoguerra

Salvarono Roman Polanski durante la Shoah ed ora sono 'Giusti tra le nazioni', il massimo riconoscimento con cui il Mausoleo della Memoria di Yad Vashem a Gerusalemme onora chi ha protetto gli ebrei dai nazisti a rischio della propria vita. 

In Polonia un nipote di Stefania e Jan Buchala, la coppia di contadini cattolici che nascosero il piccolo Roman e lo salvarono, hanno ricevuto la legittimazione pubblica di un atto di grande coraggio. 

Quella di Polanski è una storia dal passato travagliata. Nato a Parigi nel 1933 da genitori polacchi - padre ebreo, Maurycy Liebling (in seguito Polanski), e madre cattolica, ma di origini ebraiche, Bula Katz-Przedborska - Polanski nel 1937, quando aveva solo 4 anni,  fu riportato in Polonia, mentre già la persecuzione anti ebraica era oramai all'apice nella vicina Germania e la guerra non sembrava poi così lontana.

Una scelta per molti versi incomprensibile e fatale, motivata, sembra, dal fatto che il padre di Roman temeva la persecuzione degli ebrei da parte dei francesi, sottovalutando in modo incredibile quel che stava succedendo in Germania, alle porte del suo paese. Non appena i tedeschi conquistarono la Polonia infatti, la sua famiglia fu confinata nel Ghetto di Cracovia: il padre fu poi deportato a Mauthausen mentre la madre finì ad Auschwitz. 

Roman Polanski con il padre Maurycy, sopravvissuto a Mauthausen, negli anni '70


Ma prima, i genitori cercarono di mettere in salvo il figlio, fiduciosi che potesse nascondersi in mezzo al resto della popolazione polacca. 

L'occasione fu fornita dalla madre: in quanto donna delle pulizie impiegata nel Castello Reale di Wawel, residenza del governatore nazista della Polonia Hans Frank in pieno centro di Cracovia, la donna poteva uscire dal Ghetto con un permesso

In una circostanza favorevole riuscì a portare con sé Roman insegnandogli la strada per arrivare all'appartamento di Heinrich e Casimira Wilk, una coppia di amici di famiglia cattolici

Nel marzo del 1943, prima di essere deportati, il padre portò il ragazzo nei pressi del reticolato che circondava il Ghetto e, dopo aver tranciato il filo metallico, lo fece scappare indirizzandolo verso la casa dei Wilk. 

Da loro Polanski restò nascosto per un certo periodo prima di essere trasferito da un'altra coppia di cattolici, Boleslav e Yadwiga Putek. Ma fu solo una tappa: la destinazione finale fu un isolato villaggio vicino Cracovia dove vivevano Stefania e Jan Buchala, poveri contadini con già tre figli. 

Roman Polanski sopravvisse ai nazisti e, alla fine della guerra, si riunì al padre scampato alla morte a Mauthausen. Ma non rivide più la madre, uccisa ad Auschwitz. 

Nella deposizione per Yad Vashem, il regista - come ricorda Haaretz - ha scritto: "Stefania, senza alcuna ricompensa, solo per amore degli altri, ha messo a rischio la sua vita, quella del marito e dei suoi figli, nascondendomi a casa sua per quasi 2 anni. Durante questo tempo, nonostante la povertà e la penuria di di cibo per la sua famiglia, mi ha nascosto e nutrito. Dopo la guerra, come regista, ho viaggiato per due volte in Polonia nel villaggio vicino Cracovia. Sfortunatamente non ho trovato nessun segno di vita da parte loro".

Stefania e Jan erano infatti morti entrambi nel 1953 e sepolti in una tomba poi svuotata per far posto ad altri deceduti. Ma il regista non si è arreso: dopo infinite ricerche e indagini negli archivi, ha finalmente rintracciato un loro congiunto

E quindi è stato Stanislaw Buchala a ricevere il riconoscimento di Yad Vashem a nome dei parenti che hanno salvato un piccolo ragazzino ebreo diventato un grande regista

Roman Polanski con Stanislaw Buchala, nipote della coppia di contadini che salvarono la vita a lui, bambino


Polanski utilizzò i suoi ricordi di bambino nel suo film più commovente, Il Pianista, e recentemente è tornato in patria paterna realizzando, nel ruolo di protagonista e non dietro la macchina da presa, il documentario Polanski Horowitz Hometown. Nonostante i suoi 89 anni appena compiuti, lo scorso 18 agosto, il regista resta sempre attivo e questo documentario è stato premiato al Festival di Cracovia. 

Ma qual è la trama di questa opera? Accompagnato dal suo amico di sempre e sopravvissuto alla Shoah, uno degli ebrei salvati da Oskar Schindler, il celebre fotografo Ryszard Horowitz che conobbe, durante la guerra, nel Ghetto di Cracovia, Polanski si è confrontato con il suo doloroso passato

Come ha sottolineato Mateusz Kudla, regista e produttore del documentario, messo in atto assieme ad Anna Kokoszka Romer, il filmato si concentra “sulla memoria, sul destino e sul trauma. Attraverso questi due personaggi, che hanno avuto la fortuna di sopravvivere, – ha proseguito Kudla in un’intervista all’Agenzia di stampa francese France Press (AFP) – abbiamo voluto mostrare la tragedia di tutti gli abitanti del Ghetto che non ce l’hanno fatta”. 

Il documentario è forte ed emozionante in alcune scene. Infatti, in una delle sequenze, Polanski ricorda di aver visto un ufficiale nazista sparare a una donna anziana, con il sangue che schizzava dappertutto. “Terrorizzato, corsi attraverso il corridoio dietro di me e mi nascosi nelle scale” ha rievocato il regista nel filmato. Nonostante all’epoca avesse solo sette anni, quando la Seconda Guerra Mondiale cominciò, Roman ha trattenuto nella memoria ogni dettaglio. 

All’amico Horowitz, Polanski racconta che quell’episodio fu “il mio primo incontro con l’orrore”. 

Polanski a 18 anni con un amico

Un momento molto commovente della pellicola è l’incontro fra Polanski, visibilmente commosso, e i nipoti di Stefania e Jan Buchala, i contadini polacchi cattolici che lo nascosero dai nazisti.

Come ha puntualizzato il Times of Israel, il documentario Hometown si concentra sull’infanzia di Polanski, evitando qualsiasi riferimento agli scandali da lui vissuti, che l’hanno bandito da Hollywood e gli precludono il ritorno in America per “timore di essere arrestato”. Soddisfatti del lavoro svolto, i registi Mateusz Kudla e Anna Kokoszka Romer hanno dichiarato che “si tratta di qualcosa che rende Roman Polanski testimone della storia e utile a impedire che tutto questo possa accadere di nuovo in futuro”. Si sono poi augurati che presto il documentario possa essere distribuito e disponibile online o in streaming.