11/12/20

Libro del Giorno: "Il libro del riso e dell'oblio" di Milan Kundera

 


E' un esperimento interessante quello di rileggere oggi i primi romanzi di Milan Kundera - e in particolare questo, uscito per la prima volta nel 1978, più di quarant'anni dopo. 

Come è noto, Kundera, nato a Brno, nell'allora Cecoslovacchia (attualmente in Repubblica Ceca), il 1º aprile del 1929, venne colpito in occidente da improvvisa e roboante popolarità dopo la pubblicazione del suo romanzo L'insostenibile leggerezza dell'essere, nel 1985 (in Italia da Adelphi). 

In un periodo storico di enorme interesse, in Occidente, per la Cortina di Ferro che stava per essere rottamata dalla Storia di lì a poco (crollo del Muro di Berlino, 1989), i romanzi di Kundera aprirono uno squarcio accessibile a tutti sulla vita e le sofferenze in uno dei paesi invasi dai sovietici, in questo caso la Cecoslovacchia, la cui effimera Primavera di Praga nel 1968 era stata soffocata dall'arrivo dei carri armati russi. 

Kundera, che nel frattempo nel 1975 era emigrato in Francia, a Parigi (riuscì poi a ottenere la cittadinanza francese nel 1981 grazie all'interessamento personale del presidente francese François Mitterrand) divenne così letto che le case editrici occidentali si affrettarono a pubblicare tutti i suoi romanzi precedenti a quello, scritti ovviamente nella sua lingua, il ceco, e esattamente: Lo scherzo (Žert, 1967); Il valzer degli addii (Valčík na rozloučenou, 1972); La vita è altrove (Život je jinde, 1973);  e per l'appunto, Il libro del riso e dell'oblio (Kniha smíchu a zapomnění, 1978) che fu tradotto da Serena Vitale per Bompiani nel 1980 e successivamente ristampato da Adelphi nel 1991.

L'ammirazione grande per questi primi romanzi, scoperti in occidente, portarono così la critica (e anche il pubblico) a distinguere nettamente l'opera di Kundera antecedente all'esilio (il cosiddetto periodo ceco), dall'opera seguente quando Kundera cominciò, a partire dal romanzo La lentezza (1995) a scrivere in lingua francese e non più in ceco. 

La critica internazionale, che era stata entusiasta e ammirata per i romanzi della prima fase, cominciò a stemperarsi, a raffreddarsi nei confronti del "Kundera francese", ancor maggiormente quando nel 2008 fu rinvenuto un documento a Praga negli archivi della Polizia e ritenuto attendibile, che testimoniava di una delazione da parte del futuro scrittore, nel 1950, nei confronti di un ventenne impegnato in un'ingenua operazione di "spionaggio" tra Germania Ovest e Cecoslovacchia; il giovane venne poi condannato a 22 anni di lavori forzati. Kundera ha sempre negato ogni responsabilità nella vicenda, che però ha continuato a pesare molto sulla sua immagine pubblica e probabilmente ne ha anche compromesso le sue chances di approdare al Nobel per la letteratura. 

Oggi che Kundera ha 91 anni e che è lontano da ogni polemica letteraria è allora forse il momento giusto per rivalutare con più freddezza il patrimonio letterario che ci ha consegnato. 

E' noto che il padre di Kundera Ludvík (1891-1971) fu direttore dell'Accademia musicale di Brno, la JAMU, e un noto pianista. Fin da piccolo Kundera studiò musica, in particolare pianoforte, e la passione per la musica tornerà spesso nei suoi testi letterari, in particolare in questo Il libro del riso e dell'oblio, che si conferma un grande romanzo del novecento europeo. Scritto all'indomani del suo arrivo a Parigi, e finalmente libero dunque, di esprimersi con maggiore crudezza sul regime politico del suo paese, dal quale si era allontanato, il romanzo è un affresco composito, o meglio ancora, come scrive Kundera stesso nelle pagine, un corpus di "variazioni" su un tema, esattamente come avviene in musica classica. 

Come scrisse lo stesso autore, qualche anno più tardi: «Nel Libro del riso e dell’oblio, la coerenza dell’insieme è data unicamente dall’unicità di alcuni temi (e motivi), con le loro variazioni. È un romanzo, questo? Io credo di sì»

E lo stesso vale per i numerosissimi lettori che questo libro ha avuto dal 1979 a oggi e che vi hanno riconosciuto una delle più audaci imprese letterarie del nostro tempo: un «romanzo in forma di variazioni». 

Cambiano totalmente i personaggi e le situazioni, in ciascuna delle sette parti in cui (come d’obbligo in Kundera) il libro si divide.

Ciascuna è autosufficiente – e tutte si susseguono «come le diverse tappe di un viaggio che ci conduce all’interno di un tema, all’interno di un pensiero, all’interno di una sola e unica situazione la cui comprensione, per me, si perde nell’immensità». Su tutto, un gesto si mostra con peculiare insistenza: il tentativo di sottrarsi alla cancellazione di ciò che è avvenuto. Come dice un personaggio del romanzo: «la lotta dell’uomo contro il potere è la lotta della memoria contro l’oblio».

E' questo il tema del romanzo, ed è questo che resta intatto dopo 42 anni. Esattamente come la protagonista, la giovane Tamina, che ha perso il marito, e che ritorna nelle diverse parti del libro, il compito di Kundera è quello di non disperdere la memoria, anzi, di rendere la memoria un compito di sopravvivenza.  Seppure nella piena consapevolezza che alla fine è proprio grazie all'oblio, alla leggerezza di cui parlerà molto nel romanzo seguente, al riso dell'ironia che questa vita diventerà sopportabile, anche nella tragedia della perdita, nella circostanza della sconfitta, che ha segnato l'esistenza nella sua parte più autentica, quella della gioventù.

Fabrizio Falconi - 2020

Milan Kundera 

Il libro del riso e dell’oblio 

Traduzione di Alessandra Mura 

Fabula, 51 1991, 3ª ediz., pp. 273 

 € 24,00 

09/12/20

ItalianWays: La Casa Museo Hendrik Christian Andersen a Roma, un luogo meraviglioso


La Casa Museo Hendrik Christian Andersen, a Roma, è dedicata a un artista interessante da vari punti di vista, il cui legame con la capitale d’Italia fu fortissimo.

Nell’Urbe, Andersennorvegese di Bergen, classe 1872si stabilì intorno ai vent’anni, proprio in questo magnifico palazzo liberty, “Villa Hélène”, che fungeva da sua abitazione e studio d’arte. Lo scultore decise che dopo la propria morte il palazzo e la collezione di statue da lui realizzate sarebbero diventati di proprietà dello Stato italiano. Così dal 1978 l’edificio è aperto al pubblico.

Lo studioso Fabrizio Falconi spiega che la complessa personalità di Andersen conteneva elementi di megalomania, come si può osservare anche dalle dimensioni delle sue sculture, e di idealismo.

Andersen, continua Falconi, aveva studiato arte nelle più prestigiose scuole europee e, durante le molte ore passate ad analizzare le opere dei più grandi maestri, aveva maturato la convinzione che solo l’arte potesse salvare l’umanità, minacciata in quegli anni da conflitti spaventosi e guerre mondiali. Vagheggiava la realizzazione di una grande città mondiale, una sorta di capitale planetaria dell’arte e della cultura, in grado di trasmettere agli uomini ideali di pace e armonia, già inseguiti prima di lui da grandi geni delle discipline più disparate.

A Roma Andersen incontrò Henry James, il grande scrittore, più vecchio di lui di circa trent’anni, col quale stabilì un legame strettissimo, ricordato da numerose lettere che testimonierebbero come tra i due vi fosse una forte attrazione e un grande coinvolgimento sentimentale (F. Falconi, “Misteri e segreti dei rioni e dei quartieri di Roma”, Newton Compton, Roma 2013)

Fonte: Italianways



08/12/20

40 anni senza John Lennon - "Happy Xmas (War is Over)" Storia di una canzone leggendaria

 


40 anni fa  John Lennon veniva ucciso a New York.  Il mondo lo celebra e noi lo celebriamo con una delle sue canzoni immortali, particolarmente adatta a questo momento che l'umanità vive, dove a pochi giorni dal Natale si combatte una guerra fatta non con le armi e tra popoli (per fortuna), ma contro un aggressore  virale, biologico.  E' l'occasione comunque per riascoltarla e per ricostruirne la storia. 

Happy Xmas (War Is Over) fu composto da John Lennon e Yoko Ono, pubblicato come singolo natalizio, il 6 dicembre del 1971, con la melodia del brano tratta da uno standar folk: Stewball.

La canzone fu incisa ai Record Plant (East) Studios di New York il 28 e 29 ottobre 1971, sotto la produzione di Phil Spector, e nacque come brano di protesta contro la guerra in Vietnam, diventando in seguito uno tra i più noti classici natalizi.

Il pezzo venne accreditato alla Plastic Ono Band insieme al coro gosperl Harlem Community Choir, che partecipò all'incisione, pubblicata in USA in concomitanza con le festività natalizie del '71, e l'anno successivo in Europa. Lennon compose il pezzo all'inizio dello stesso mese, registrandone anche una versione demo, con il testo ancora incompleto, soprattutto nella contromelodia che utilizzava il sottotitolo, slogan usato per la sua campagna per la pace della fine del '69.

All'inizio del brano, Lennon e la Ono augurano un buon Natale ai loro due figli,rispettivamente Julian e Kyoko, dai quali all'epoca vivevano separati.

Il brano folk che servì d'ispirazione a Lennon  è una tipica canzone-racconto circa un cavallo da corsa che beve sempre troppo vino, un "canto di lavoro" dei neri americani con parole provenienti dalla Gran Bretagna, "derivante rispettivamente dalla ballata The Noble Skewball con un nuovo testo di epoca Elisabettiana intitolato Go from My Window." 

Anche negli anni successivi alle pubblicazioni ufficiali, in occasione del  Natale, il brano è più volte entrato nella classifica britannica.



Così questo è il Natale,
e cosa hai fatto?
un altro anno è passato
ed uno nuovo è appena iniziato
e così questo è il Natale
spero che ti diverta
con il più vicino e il più caro
col più vecchio e il più giovane

un felice Natale
e un meraviglioso anno nuovo
speriamo che sia davvero un buon anno
senza alcuna paura

e così questo è il Natale (la guerra è finita)
per i deboli e per i forti (se lo vuoi)
per i ricchi e per i poveri (la guerra è finita)
il mondo è così sbagliato (se lo vuoi)
e così buon Natale (la guerra è finita)
per i neri e per i bianchi (se lo vuoi)
per i gialli e per i neri (la guerra è finita)
fermiamo tutte le guerre (adesso)

un felice Natale
e un meraviglioso anno nuovo
speriamo che sia davvero un buon anno
senza alcuna paura

così questo è il Natale (la guerra è finita)
e cosa abbiamo fatto? (se lo vuoi)
un altro anno è passato (la guerra è finita)
ed uno nuovo è appena iniziato (se lo vuoi)
e così questo è il Natale (la guerra è finita)
spero che ti diverta (se lo vuoi)
con il più vicino e il più caro (la guerra è finita)
col più vecchio e il più giovane (adesso)

un felice Natale
e un meraviglioso anno nuovo
speriamo che sia davvero un buon anno
senza alcuna paura

la guerra è finita, se lo vuoi
la guerra è finita, adesso

testo originale:

So this is Christmas
And what have you done
Another year over
A new one just begun
I hope you have fun
The near and the dear ones
The old and the young

And a happy New Year
Let's hope it's a good one
Without any fears

So this is Christmas
For weak and for strong
The rich and the poor ones
The war is so long
For black and for white
For yellow and red ones
Let's stop all the fights

So this is Christmas
And a happy New Year
Let's hope it's a good one
Without any fears

So this is Christmas
And what have we done
Another year over
A new one just begun
We hope you have fun
The near and the dear ones
The old and the young

So this is Christmas
(And a happy New Year)
Ooh, oh
(Let's hope it's a good one)
It's a good, it's a good one
Without any fear

War is over, if you want it
War is over, now


07/12/20

L'epica impresa degli "Scariolanti romagnoli" che nel 1884 bonificarono la palude di Ostia infestata dalla Malaria.


Sono trascorsi 136 anni da quando, il 25 novembre 1884, arrivarono in 500 da Ravenna per bonificare Ostia e Fiumicino. Fuggivano dalla fame, dalla disoccupazione e dalla repressione poliziesca ma andavano incontro alla malaria.

Arrivarono in treno direttamente a Fiumicino, e a Roma quei romagnoli "anticlericali, sovversivi e accoltellatori" non li fecero neanche fermare.

Il loro primo contatto con la palude lo ebbero attraversando il Tevere sul traghetto "La Scafa" guidato da un vecchio, ribattezzato Caronte, che li mise in guardia:"Sull’altra riva c’è l’inferno".

E poi il custode del borgo di Ostia Antica, unico abitante del luogo, che giallo e febbricitante, spiegò loro:"Qui non vive nemmeno il diavolo".

Molti si spaventarono, ma vennero fermati da Baldini e Armuzzi che li esortarono:"Pensavate di andare all’osteria? Siete partiti da eroi e volete tornare da vigliacchi?".

Tanto bastò per farli rimanere e il lavoro cominciò con la costruzione del "Grande Canale dello Stagno" che oggi conosciamo come Canale dei Pescatori e con lo scavo di chilometri di canali.

Gli scariolanti romagnoli, oltre al duro lavoro di bonifica del territorio, portarono una civiltà: costruirono alloggi, l’infermeria e i locali comuni; tutti i soci prendevano una paga uguale e se uno di loro si fosse ammalato veniva pagato lo stesso.

Morirono in cento solo nel primo anno e al completamento del lavoro, dopo sette lunghi anni, il numero delle vittime della malaria salì fino a seicento.
Sono trascorsi 136 anni da quando la foce del Tevere si apriva in un delta palustre e deserto, 135 anni dall’epica impresa della bonifica di Ostia.




05/12/20

Byung-Chul Han: "Per poter pensare ci vogliono silenzio e vuoto"


Byung-Chul Han è uno dei più interessanti filosofi contemporanei. Questo è un brano dell'intervista rilasciata al Suddeutsche Zeitung nel dicembre del 2012 e che oggi appare quanto mai attuale. 

E' nato in Corea del Sud nel 1959 e ora è professore di filosofia e studi culturali all'Università delle Arti di Berlino. È diventato noto grazie al suo bestseller »Die Müdigkeitsgesellschaft« (2010) sulla crescente cultura dell'autosfruttamento. Nel suo libro “The Transparency Society” (2012) descrive come ci stiamo sviluppando in una società di controllo totalitario con il pretesto della democrazia e della libertà di informazione.

Credi che il networking digitale avrà effetti negativi sulla psiche delle persone a lungo termine? 

Non puoi dirlo oggi. Ma quello che colpisce è che comunichiamo così tanto che non ci sono più pause, non ci sono più silenzioUna lacuna in mezzo a questa marea di informazioni ci sembra insopportabile perché le interruzioni non hanno più un ruolo nella nostra società dell'informazioneLa rottura è la morte. Ed è per questo che spettegoliamo e disimpariamo a distinguere ciò che è importante da ciò che non è importante. Omettere e dimenticare può essere molto produttivo, per non parlare dell'intuizione, che perdiamo nella quantità di informazioni. Per poter pensare ci vogliono silenzio e vuoto.

E non ce ne sono quasi più

Sì, stiamo attualmente vivendo un'enorme accelerazione nel ciclo di segni, informazioni e capitaliPer questa accelerazione, tutti i segreti, le ritirate, le unicità, gli angoli e gli spigoli devono essere eliminatiSolo nella società della trasparenza il flusso permanente di informazioni e beni non incontra più resistenza. Nella società della trasparenza tutto è rivolto all'esterno, rivelato, spogliato ed esposto. Ci esponiamo all'attenzione.

Qual è la conseguenza?


Sosteniamo il turbo-capitalismo e la società della performance neoliberale rendendoci tutti una merceL'unico valore che ancora esiste è il valore espositivo. Questa è una drastica riduzione della vita e dell'esistenza.

Ma continuiamo a inviare messaggi per mostrare quanto siamo unici. 

Un errore. Facebook è un luogo in cui tutti sono uguali perché vogliono essere diversi. Ognuno ha la forma di una merce in modo che possa adattarsi al sistema. Nessuno può essere diverso su FacebookE il centro dell'uguaglianza è il pulsante "Mi piace". Perché non c'è il pulsante "Non mi piace"? Una guida per gli appuntamenti su Internet dice: Milioni di donne ti stanno aspettando. E cosa fanno gli uomini? Confronta. Separare la parola:
Confronta, che significa: fai tutto allo stesso modo. Viviamo nell'inferno dello stesso,
in cui le esperienze erotiche non sono più possibili.

È perché siamo troppo narcisisti? 

Sì, il mio nuovo libro parla di questo. Si chiama Agony of Eros e descrive che diventiamo depressi perché ci incontriamo solo ovunque. Siamo esausti di noi stessi, l'Eros, invece, è un'esperienza che l'uno viene strappato da sé dall'altroÈ un segno distintivo di una società sempre più narcisistica che l'altro scompaiaE con esso l'eros, cioè la possibilità dell'amore.

Dove vedi il limite per questo sviluppo? 

Penso che stiamo andando verso il disastro.

Ma l'anticapitalismo è di nuovo chic e la consapevolezza ecologica ancora di più. Non è possibile rompere la logica della trasparenza e della crescita e riformare il sistema prima che imploda?


Non importa quanto lontano si pensi, gli umani imparano solo attraverso i disastri, mai attraverso l'intuizioneNon ci sarebbe pace in Europa oggi senza la seconda guerra mondiale. Arthur Schnitzler una volta disse: “Le persone si comportano come i bacilli. Crescono e distruggono lo spazio in cui vivono, per cui alla fine periscono loro stessi. ”Questo confronto ha senso per me. Moriamo perché non siamo consapevoli dell'ordine superiorePoiché siamo in costante crescita, moriremo da quella crescita.

Quale potrebbe essere questo ordine superiore?


Solo un essere saprebbe che sarebbe più intelligente di noi.

Lo Spiegel una volta ti ha definito il "filosofo del cattivo umore". Adesso sappiamo perché.


Preferirei essere un filosofo di cattivo umore piuttosto che un filosofo di buon umore. Ad essere onesti, non sono affatto dell'umore. A volte sono triste, ma è diverso. Il pensiero è sempre una forma di resistenza. E sì, penso di sfuggire alla morte e servire la vita.


04/12/20

Libro del Giorno: "Le civette impossibili" di Brian Phillips

 


In tempi così come quelli che stiamo vivendo, questo libro è ossigeno puro. L'ha pubblicato da poche settimane l'editore Adelphi, nella Collana dei casi, e lo ha scritto un grande giornalista sportivo americano, erede di quella tradizione anglosassone che prende molto sul serio lo sport e l'avventura, nobilitandola come genere letterario. E' perciò un libro colto e divertente, da cui si impara molto. Ed è anche un libro di viaggi o un "libro in viaggio", una sorta di Bruce Chatwin più leggero e ironico, ma con la medesima curiosità dettata dal gusto per la scoperta, dell'altrove come luogo dell'affascinante. 

Brian Phillips - come scrive Davide Coppo che lo ha intervistato per Rivista Studio -  è americano, ama il calcio (e tante altre cose, ma principalmente il calcio) e ne scrive per lavoro. Ha un sito, si chiama The Run of Play, e scrive anche per Grantland, una delle migliori riviste (e sito online) e siti di sport e pop del panorama web.   Brian può essere definito una delle migliori penne sportive del pianeta senza eccedere in adulazione. Quello che fa è difficilmente descrivibile, è una sorta di mix tra cultura pop, cultura sportiva, e cultura letteraria. Qualcosa - scrive Coppo -  che ti fa vedere le cose da punti di vista completamente inediti.

Le Civette impossibili è un libro composito, fatto di storie apparentemente del tutto scollegate ambientate in angoli diversissimi del pianeta.  Alcune di queste parti ricalcano il format del reportage giornalistico, arricchendolo però con una vena narrativa pura e brillante dentro la quale l'autore entra e esce nel ruolo di voce narrante e/o testimone.

Anche quando si comincia a conoscere Brian Phillips, come è scritto nella bandella – dopo aver partecipato con lui a una corsa di cani da slitta attraverso l’Alaska, o essersi fatti spiegare in dettaglio il complicatissimo rituale dell'antica arte del Sumo giapponese –, è dif­ficile capire dove porterà la prossima tap­pa: senza preavviso, ci si può ritrovare fra le tigri (e i cacciatori di tigri) della giungla indiana, nella dacia di Jurij Norštejn a par­lare del suo Cappotto (e del perché non si decida a finirlo), o nelle vene dell’America profonda in cui Phillips è cresciuto. Quel che però è certo è che passando il tempo insieme a Phillips è impossibile annoiarsi, e non essergli grati per le infinite sorprese che ogni viaggio, non importa se in un al­tro continente o nel cinema vicino a casa, finisce per riservare.

Un libro da consigliare e da leggere con vero piacere.

03/12/20

L'incredibile storia dei due fratellini salvati sull'ultima scialuppa del Titanic

 


Molto più commovente della storia d’amore raccontata nel film Titanic, questa è la straordinaria esperienza di due fratellini sopravvissuti al naufragio del transatlantico, conosciuti come gli “orfani del Titanic”, gli unici bambini che si siano salvati senza avere al fianco un genitore o un tutore.

Michel Navratil, un sarto di origine slovacca che viveva in Francia, si era imbarcato con i due figli Michel Marcel (12 giugno 1908-30 gennaio 2001) ed Edmond (1910-1953). 

I bambini erano stati sottratti alla custodia della madre, così l’uomo assunse il falso nome di Louis M. Hoffman, mentre i figli furono registrati come Lolo e Momon

Durante il viaggio, come passeggeri di 2° classe, papà Navratil fece credere di essere vedovo, dimostrandosi un genitore attento e amorevole. Dopo la collisione con l'iceberg, avvenuta alle ore 23.40 del 14 aprile 1912, l’ultima scialuppa di salvataggio ad essere calata fu la “D”, alle ore 2.05 delle notte. 

Mentre rimanevano ancora 1500 persone a bordo, solo 47 passeggeri, potevano sperare di salvarsi salendo sulla “D”. I marinai del Titanic fecero imbarcare solo donne e bambini, e Navratil, compiendo l’ultimo gesto d’amore per i suoi figli, riuscì a calarli nella scialuppa.

Michel, che all’epoca non aveva ancora quattro anni, in seguito raccontò che al momento del distacco il padre gli disse: “Figlio mio, quando vostra madre verrà a prendervi, come sicuramente farà, dille che l’ho amata veramente, e ancora la amo. Dille che mi aspettavo che lei ci raggiungesse, affinché noi tutti potessimo vivere felicemente insieme nella pace e nella libertà del Nuovo Mondo.”


02/12/20

Uno degli angoli più suggestivi di Roma: San Giovanni in Oleo, duemila anni di storia

 


San Giovanni in Oleo, la memoria dell’apostolo amato da Gesù

 

A Roma, si sa, si parla sempre di Pietro e di Paolo. Ma si ignora spesso l’importante passaggio di quelli che furono gli altri apostoli di Gesù, a cominciare di quelli più importanti: gli Evangelisti. Pochi romani saprebbero oggi rispondere alla domanda se risulta un passaggio a Roma di San Giovanni, l’Evangelista, quello che i Vangeli definiscono il prediletto da Gesù.

Eppure questa presenza non solo è documentata. Ma è anche testimoniata da un culto bi-millenario, mai decaduto.

Di Giovanni si ricorda l’attività di predicatore instancabile, dopo la morte di Gesù, e soprattutto della sua presenza a Patmos, nell’Egeo, dove scriverà le terribili ed enigmatiche visioni contenute nell’Apocalisse. Ma tra queste due fasi, Giovanni transitò anche a Roma.

E’ Tertulliano a raccontarci che nell’anno 89 d.C., mentre Giovanni si trovava ad Efeso, si scatenò una nuova ondata di persecuzioni nei confronti dei cristiani ad opera dell'imperatore Domiziano. Tertulliano racconta che Giovanni venne arrestato e condotto a Roma, quindi torturato nei pressi di Porta Latina e infine condannato a morte.

Di lì a poco questa pena però verrà commutata in quella dell'esilio nell'isola di Patmos.

Sul luogo dove venne sottoposto alla tortura dell’olio bollente venne costruita la chiesa di San Giovanni in Oleo. Non si tratta anzi, di una vera e propria chiesa, ma di un piccolissimo oratorio,  un tempietto  a pianta ottagonale, che sorge nei pressi della Porta Latina.  Nelle forme attuali fu costruito all’inizio del ‘500 su commissione del vescovo francese Benoit Adam, su un precedente martiryum costruito in epoca paleocristiana. Il piccolo edificio fu poi restaurato dal grande Borromini nel 1657 per incarico del cardinale Francesco Paolucci che intendeva trasformarlo in una cappella per la sua potente famiglia.

E’ opportuno riflettere sul fatto che Giovanni, secondo quanto tramandatoci dalle scritture e le fonti antiche fu l’unico degli apostoli che non morì subendo il martirio, ma per morte naturale, in età veneranda. 


Anche in questo senso , egli occupa dunque un posto a sé nella storia del Cristianesimo. Giovanni, come abbiamo detto, è il prediletto di Gesù e fratello di Giacomo il Maggiore. Dopo la resurrezione di Gesù è il primo, insieme a Pietro, a ricevere da Maria Maddalena l’annuncio del sepolcro vuoto, ed è il primo a giungervi, entrandovi poi dopo Pietro.


Dopo l’ascesa al cielo di Gesù,
  gli Atti degli Apostoli ce lo mostrano accanto a Pietro in occasione della guarigione dello storpio al Tempio di Gerusalemme e poi nel discorso al Sinedrio, dopo il quale fu catturato e poi con Pietro incarcerato.

Sempre insieme a Pietro si reca in Samaria. Nell’anno 53 d.C. Giovanni si trova ancora a Gerusalemme: Paolo infatti lo nomina (Gal 2, 9) insieme a Pietro e a Giacomo come una delle colonne della Chiesa. Ma verso il 57 Paolo nomina a Gerusalemme solo Giacomo il Minore: dunque Giovanni non c’è più, trasferitosi a Efeso, come concordemente testimoniano le fonti antiche, fra le quali basterà citare, per tutte, Ireneo (Contro le eresie, III, 3, 4): La Chiesa di Efeso, che Paolo fondò e in cui Giovanni rimase fino all’epoca di Traiano, è testimone veritiera della tradizione degli apostoli.  La permanenza di Giovanni a Efeso, dove scrive il Vangelo (secondo quanto afferma ancora Ireneo), è interrotta, come le stesse fonti antiche ci dicono, dalla persecuzione subita sotto Domiziano (imperatore dall’81 al 96), probabilmente verso l’anno 95. Si innesta qui la tradizione, riportata anche da molti autori antichi, del suo viaggio a Roma e della sua condanna a morte in una giara di terracotta colma di olio bollente, dalla quale l’ormai vecchio apostolo uscì illeso, salvo dalle bruciature, suscitando lo sconcerto dei suoi aguzzini. 

E vediamo qui quali sono le fonti: la fonte più antica che ce ne parla è Tertulliano, intorno all’anno 200 d.C.: Se poi vai in Italia, trovi Roma, da dove possiamo attingere anche noi l’autorità degli apostoli. Quanto è felice quella Chiesa, alla quale gli apostoli profusero tutta intera la dottrina insieme con il loro sangue, dove Pietro è configurato al Signore nella passione, dove Paolo è incoronato della stessa morte di Giovanni il Battista, dove l’apostolo Giovanni, immerso senza patirne offesa in olio bollente, è condannato all’esilio in un’isola (La prescrizione contro gli eretici, 36).


Un’altra testimonianza è quella di
 Girolamo, che alla fine del IV secolo scrive: Giovanni terminò la sua propria vita con una morte naturale. Ma se si leggono le storie ecclesiastiche apprendiamo che anch’egli fu messo, a causa della sua testimonianza, in una caldaia d’olio bollente, da cui uscì, quale atleta, per ricevere la corona di Cristo, e subito dopo venne relegato nell’isola di Patmos. Vedremo allora che non gli mancò il coraggio del martirio e che egli bevve il calice della testimonianza, uguale a quello che bevvero i tre fanciulli nella fornace di fuoco, anche se il persecutore non fece effondere il suo sangue (Commento al Vangelo secondo Matteo, 20, 22). Alle antiche fonti cristiane sul martirio di Giovanni a Roma si può poi aggiungere con buona attendibilità anche l’allusione del pagano Giovenale (inizi del II secolo), che, nella IV Satira, critica Domiziano raccontando l’episodio della convocazione del Senato per decidere che fare di un enorme pesce, venuto da lontano e portato all’imperatore, che viene destinato a essere cotto in una profonda padella.

Come nello stile delle Satire, il pesce sarebbe appunto Giovanni, il povero pazzo cristiano.  E' una ipotesi affascinante frutto dello studio pubblicato recentemente da una ricercatrice italiana, Ilaria Ramelli.

Se la ipotesi fosse giusta, ci troveremmo di fronte alla clamorosa conferma da parte di una fonte pagana, di una lunga tradizione prima orale e poi scritta, tutta cristiana. Il che ancora una volta avvalorerebbe la tesi che alla base di testimonianze così antiche ci sono sempre riscontri reali, storici, effettivi.


Tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri e Segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton, Roma, 2013, 2018

01/12/20

Ecco perché Mario Luzi non vinse mai il Nobel - Il libraio di Stoccolma


Giacomo Oreglia, titolare dell'Italica di Stoccolma, che pubblicava autori italiani, pattuiva con essi che, in caso di vincita del Nobel, avrebbero dovuto riconoscergli un contributo

Quasimodo tenne fede alla parola e gli diede 20 milioni; Montale, invece, che ne aveva promesso 50, si limito' a chiedergli se in Svezia il Premio venisse tassato dallo Stato

Lo scrive oggi sul quotidiano "Libertà'" di Piacenza, Sebastiano Grasso in un articolo dedicato all'anniversario della morte di Mario Luzi, piu' volte nella rosa dei Nobel

Secondo Grasso a Luzi rimase il rimpianto del mancato Nobel e la colpa, a suo avviso, per molti, era stata proprio di Oreglia. 

"Piemontese di Mondovi', nel 1949 Oreglia si trasferisce a Stoccolma, dove fonda l'Italica, casa editrice che traduce autori italiani

Fra essi, Quasimodo e Montale (entrambi vincitori del Nobel di letteratura: una delle condizioni per potere avere il Premio e' quella di essere tradotti in svedese). 

Oreglia, che pubblica diversi libri di Luzi e insegna all'Istituto italiano di Cultura, quando la Farnesina decide di sistemare giuridicamente il personale precario estero e a Stoccolma arriva come ambasciatore Sergio Romano, deve scegliere se fare il docente o l'editore. 

Qualcuno suggerisce una soluzione "tecnica": intestare l'«Italica» alla figlia

Oreglia non solo rifiuta, ma attacca l'ambasciatore Romano su giornali svedesi - racconta ancora Grasso - e italiani, facendo la vittima (ruolo che non gli si addice proprio), urlando che, senza l'Italica, Quasimodo e Montale non avrebbero avuto il Nobel.

Nell'operazione coinvolge la natura generosa di Luzi, che sposa le sue ragioni e interviene a suo favore. Le polemiche, pero', non piacciono agli Accademici, che accantonano definitivamente il nome del poeta toscano"