25/03/18

La poesia della domenica: "La poesia che non ho scritto prima" di Raymond Carver.



La poesia che non ho scritto prima
Ecco la poesia che volevo scrivere
prima, ma non l’ho scritta
perché ti ho sentita muoverti.
Stavo ripensando
a quella prima mattina a Zurigo.
Quando ci siamo svegliati prima dell’alba.
Per un attimo disorientati. Ma poi siamo
usciti sul balcone che dominava
il fiume e la città vecchia.
E siamo rimasti lì senza parlare.
Nudi. A osservare il cielo schiarirsi.
Così felici ed emozionati. Come se
fossimo stati messi lì
proprio in quel momento.


(Traduzione di Riccardo Duranti)



The Poem I Didn’t Write

Here is the poem I was going to write
earlier, but didn’t
because I heard you stirring.
I was thinking again
about that first morning in Zurich.
How we woke up before sunrise.
Disoriented for a minute. But going
out onto the balcony that looked down
over the river, and the old part of the city.
And simply standing there, speechless.
Nude. Watching the sky lighten.
So thrilled and happy. As if
we’d been put there
just at that moment.

Raymond Carver

da “All Of Us: The Collected Poems”, New York: Alfred A.Knopf, 1998

24/03/18

Il Libro del Giorno: "Ritratti di dodici filosofi" di Sossio Giametta.



E' lo stesso Sossio Giametta - filosofo e giornalista di stanza a Bruxelles, traduttore di tutte le opere di Nietzsche per Adelphi, Rizzoli e Utet - a raccontare nella prefazione, la genesi di questo libro. 

Incontratosi per caso a Capri nel '94 durante le serate del Premio Malaparte, con Pier Luigi Vercesi, all'epoca direttore del settimanale Sette del Corriere della Sera, Giametta si sentì proporre qualche tempo più tardi di curare una rubrica fissa - un articolo tra le 6000 e le 8000 battute - nella quale raccontare un grande filosofo ogni mese. Una sfida raccolta da Giametta con entusiasmo pur conscio delle difficoltà che comportava il condensare l'intera opera di un filosofo in uno spazio - divulgativo - così compresso. 

L'esperienza - maturata in un settimanale che sotto la direzione di Vercesi coniugava l'alta qualità dei contenuti all'eleganza della veste grafica - era destinata a spegnersi rapidamente. L'arrivo del nuovo editore - Cairo - infatti piegò immediatamente il settimanale ad esigenze più abbordabili e appetibili per il grande pubblico, affidandone la direzione a Beppe Severgnini, che ne è tuttora direttore. 

La rubrica di Giametta fu dunque subito annullata, con il cambio dei direttori. 

Di quella esperienza rimane però ora testimonianza in questo libro edito da Saletta dell'Uva, che ha raccolto i dodici ritratti usciti nell'arco di un anno, in un volume dove essi sono presentati in sequenza, senza un ordine cronologico. 

Si tratta dunque di una compilazione piuttosto arbitraria che evidentemente nelle intenzioni dell'autore e del direttore di allora rappresentava soltanto la sequenza dei primi dodici titoli di un elenco che sarebbe stato molto più ricco e lungo. 

Si tratta di Nietzsche, Montaigne, Hegel, Spinoza, Giulio Cesare Vanini, Kant, Francesco De Sanctis, Schopenhauer, Aristotele, Platone, Il Mago del Nord (Johann Georg Hamann), Cartesio. 

Pur nella particolarità dell'assortimento, il libro di Giametta si fa leggere come rapido compendio, non affatto nozionistico. L'autore ha anzi l'intenzione di tessere un agile racconto la cui trama dovrebbe rivelare in pochi tratti i più significativi aspetti (e novità) di questi grandi maestri. 

Non sempre l'operazione - e la sfida di stringatezza - regge: alcuni di questi racconti sono decisamente troppo tranchant, altri fin troppo oscuri nei passaggi da un argomento all'altro di opere di autori che sono spesso sterminate e impossibili da illustrare per salti o per voli pindarici. 

Dunque più che un compendio per gli inesperti o per coloro che si dilettano con i primi rudimenti della filosofia, questo volume è adatto a coloro che già conoscono piuttosto bene l'opera dei grandi filosofi ritratti e possono così riconoscerne i lineamenti tra le sottolineature  - e spesso le provocazioni - di Giametta che non si fa problemi, come è giusto, a rendere evidenti le sue personali idiosincrasie e preferenze, come per l'amato Nietzsche di cui viene offerto un ritratto a volo d'angelo tra i più convincenti. 

Fabrizio Falconi


23/03/18

Scoperta: la Venere di Botticelli cela i dettagli anatomici della vita ?


La Venere del Botticelli cela dettagli anatomici della vita. 

Il mantello tenuto dalla dea della primavera Flora, nell'atto di coprire la Venere, infatti, cela il disegno di un polmone nascosto con la riproduzione di dettagli anatomici e colore dell'organo. 

Ispirato dalla filosofia neoplatonica che circolava alla corte dei Medici, il simbolo rappresenta l'allegoria del ciclo della vita generato dal respiro divino. 

La ricerca e' pubblicata su Acta Biomedica dal chirurgo Davide Lazzeri, studioso della medicina nell'arte. "Si tratta di un'interpretazione personale e speculativa, ma e' perfettamente in linea con quanto gia' indicato da uno studio precedente su un altro capolavoro di Botticelli, 'La primavera', dove i ricercatori Blech e Doliner avevano individuato la sagoma di due polmoni disegnata dalla vegetazione dietro la figura centrale di Venere", spiega all'ANSA il chirurgo della Clinica Villa Salaria di Roma. 

Nella 'Nascita di Venere', conservata alla Galleria degli Uffizi di Firenze, Botticelli avrebbe disegnato solo il polmone destro: il particolare drappeggio della veste, visibile sopra il braccio sinistro di Flora, rappresenterebbe l'infossatura (chiamata 'ilo polmonare') da cui passano bronchi, vasi sanguigni e nervi.

"E' possibile che ci sia un'ulteriore simbologia legata al polmone", aggiunge Lazzeri. "L'organo potrebbe infatti ricordare anche la morte per tubercolosi della giovane musa di Botticelli, la nobildonna fiorentina Simonetta Cattaneo Vespucci, che aveva ispirato il volto della stessa Venere"

E' morto un uomo buono. Padre Anavio Pendenza. Leonessa in lutto.


Chi lo ha conosciuto personalmente non lo dimenticherà.

Leonessa si stringe intorno alla comunità dei Frati Cappuccini per la perdita del confratello Padre Anavio Pendenza. 

L’ultimo saluto, questa mattina, nella chiesa di S. Francesco del paese. Ad aspettare il feretro, proveniente dall’Ospedale di Terni dove il padre cappuccino si è spento il 20 marzo a seguito di una grave malattia, c’erano centinaia di persone commosse e silenziose. 

Si è svolta una processione con i fedeli che hanno portato la bara a spalla per le vie principali del paese con una sosta davanti al Santuario S. Giuseppe

Il rito funebre è stato presenziato dal Vescovo Domenico Pompili, dal Padre Provinciale dell’Aquila assieme ai tanti confratelli provenienti soprattutto dall’Abruzzo. 

Nella chiesa, gremita di fedeli, erano presenti anche le forze dell’ordine, il sindaco e neodeputato Paolo Trancassini e tutta la rappresentanza clericale della Diocesi Reatina e Abruzzese. 

 A far emozionare e commuovere la folla sono state soprattutto le parole di Padre Orazio nel leggere gli ultimi pensieri di Padre Anavio che ringraziava chi gli era stato vicino (P.Orazio, P.Carmine e la perpetua Simonetta) e che avrebbe tanto desiderato riposare accanto al suo confratello P.Mauro, compagno di una vita

Un lungo applauso ha concluso la cerimonia funebre accompagnata dalle voci della “corale S. Giuseppe” all’uscita dalla chiesa. Con lui, anche una parte della storia di Leonessa si è spenta. 

Appartenente all’ordine dei Frati Minori della provincia dell’Aquila, insieme a P. Mauro scomparso 15 anni or sono, P. Anavio era pietra miliare del Convento. Un uomo poliedrico, concreto e affabile, che ha dedicato alla Comunità leonessana quasi tutta la sua vita innanzitutto come religioso e divulgatore della figura di S. Giuseppe, poi come fotografo, escursionista, redattore, insegnante e scrittore

Nato a Tagliacozzo il 1 settembre 1942, è stato ordinato frate cappuccino dell’ordine minore nel ’68 ed è giunto a Leonessa nel 1970. 

Da allora è vissuto nel piccolo paese, svolgendo la funzione di parroco in alcune frazioni del comune e di abate nel convento. È proprio da qui che scriveva e redigeva le pagine della rivista bimestrale “Leonessa e il suo Santo” di cui ne era Direttore; nata nel 1964, nel corso degli anni ha raggiunto una tiratura di ben 6000 copie con il solo sostentamento delle offerte dei fedeli

Tra le tante rubriche, quella grafologica era una delle più seguite dai lettori. Padre Anavio aveva infatti ottenuto, oltre alla laurea in teologia, anche quella nel settore grafologico che gli era valsa una considerevole fama: le sue analisi di scrittura erano richieste anche oltreoceano. 

Appassionato com’era di fotografia, è stato anche l’autore del volume “La bellezza del creato”, 245 immagini contenenti una raccolta degli scatti fotografici più belli e suggestivi dell’altipiano leonessano di cui conosceva perfettamente tutti i sentieri percorsi con i suoi fedelissimi cani husky, inseparabili compagni di viaggio; varie volte ha allestito mostre fotografiche nel chiostro del Convento ottenendo grande successo. 

Di tanto in tanto si cimentava pure, a livello dilettantistico, nella produzione di profumi e liquori artigianali. 

Chi gli ha davvero voluto bene lo ricorda così, un uomo gioioso, buono e generoso, con il riflesso del sole montano negli occhi e con un gran sorriso, innamorato del sua paese adottivo al quale ha sempre voluto bene e continuerà a farlo dall’alto del cielo.

Insieme al suo carissimo confratello nonché amico Padre Mauro, Anavio Pendenza ha lasciato un segno indelebile nella storia di questo piccolo borgo montano chiamato Leonessa.

(testo di Lorenzo Santoprete). 




21/03/18

Dopo più di 30 anni riapre al pubblico l'area dei meravigliosi Horti Farnesiani al Palatino.


Far rivivere e riportare all'antico splendore tutta l'area degli Horti Farnesiani al Palatino, il giardino allestito a partire dalla meta' del Cinquecento dal cardinale Alessandro Farnese

E' l'obiettivo della direttrice del parco archeologico del Colosseo Alfonsina Russo che oggi ha inaugurato il restauro delle uccelliere farnesiane sul Palatino

Negli spazi, aperti al pubblico dopo oltre 30 anni, sono state collocate due statue prese in prestito dalla collezione Farnese del Museo Archeologico Nazionale di Napoli: il Barbaro Inginocchiato e Iside Fortuna che tornano per la prima volta nel sito originario

Messo in sicurezza e riaperto dopo lo stesso periodo anche il Ninfeo della Pioggia

 "Aldila' del consueto circuito turistico che porta i visitatori dal Colosseo al Foro Romano a volte senza il tempo necessario per assaporare la magia dei luoghi, nasce un percorso alternativo dal passo lento in un giardino inaspettato fino a quel belvedere gia' amato dai Farnese e che ancora oggi permette di riempire gli occhi della bellezza piu' autentica di Roma", ha detto Russo. 

Che ha parlato dell'inizio di un percorso: dopo il restauro delle uccelliere "la prossima estate, grazie ad una summer school organizzata con l'Universita' La Sapienza, dovrebbe iniziare il restauro degli Horti Farnesiani, il primo orto botanico della storia - che vogliamo restituire all'antico splendore. Anche il Ninfeo della Pioggia, ora messo in sicurezza, sara' interessato da un progetto di restauro grazie ad una sponsorizzazione". 

A breve dovrebbe aprire anche la Casina Farnese con un accesso contingentato. Intanto la fontana denominata il Teatro del Fontanone ha gia' ritrovato l'aspetto originario: e' stata liberata dalle incrostazioni calcaree e sono tornati visibili il gioco d'acqua e la composizione di vasche. In occasione della inaugurazione e' stata presentata anche la mostra "Il Palatino e il suo giardino segreto nel fascino degli Horti Farnesiani" organizzata da Electa, promossa dal Parco Archeologico del Colosseo e curata da Giuseppe Morganti, che - tra le altre cose - utilizza tecnologie digitali immersive e apparati multimediali creando una sorta di viaggio nel tempo nel Ninfeo della Pioggia e guidando il visitatore attraverso pannelli illustrati.

20/03/18

La meravigliosa opera di Turner in mostra al Chiostro del Bramante da Giovedì.


Per la prima volta in mostra a Roma una raccolta di opere esclusive dell’artista inglese Joseph Mallord William Turner dal 22 marzo al 26 agosto 2018 al Chiostro del Bramante.

Una collezione unica, espressione del lato intimo e riservato di J.M.W. TURNER (23 aprile 1775 – 19 dicembre 1851), donata interamente all’Inghilterra e conservata presso la Tate Britain di Londra, che con questa mostra segna l’inizio di una importante collaborazione con il Chiostro del Bramante.

Conosciute oggi come ‘Turner Bequest’, molte delle opere esposte provengono dallo studio personale dell’artista e sono state realizzate nel corso degli anni per il suo ‘proprio diletto’ secondo la bella espressione del critico John Ruskin.

Un piacere estetico e visivo che conserva ricordi di viaggi, emozioni e frammenti di paesaggi visti durante i suoi soggiorni all’estero.

Era infatti abitudine dell’artista lavorare sei mesi all’aria aperta durante la bella stagione e solo in inverno chiudersi nel suo studio per riportare su tela i ricordi di ciò che aveva visto dal vivo.

Più di 90 opere d’arte, tra schizzi, studi, acquerelli, disegni e una selezione di olii mai giunti insieme in Italia, caratterizzano il percorso espositivo della grande mostra “TURNER. Opere della Tate” dedicata al celebre e rinomato maestro dell’acquerello che con la sua pittura ha influenzato più di una generazione di artisti, quali Claude Monet, Caspar David Friedrich, Vincent Van Gogh, Edgar Degas, Paul Klee, Franz Marc, Wassily Kandinsky, Gustav Klimt, Mark Rothko, James Turrell e Olafur Eliasson.

Natura e romanticismo si fondono nella raffigurazione perfetta del sublime e nella contemplazione di una forza inarrestabile, quasi misteriosa, che andava rievocata per rispondere al bisogno dell’artista di ricercare un linguaggio in constante evoluzione che anticipasse i tempi e le mode artistiche.

Ed è proprio nella capitale inglese, città con più aspettative, grazie a mostre d’arte, spettacoli teatrali e iniziative nel campo delle scienze e della letteratura, che TURNER produce immagini emotivamente intense che divengono il mezzo attraverso il quale l’uomo si sente finalmente libero di sognare.


Divisa in sei sezioni, la mostra invita il visitatore a scoprire cronologicamente l’evoluzione del linguaggio artistico del più grande pittore romantico.

TURNER 
Opere della Tate 
A cura di David Blayney Brown 
2 marzo 2018 / 26 agosto 2018 
Catalogo: Skira Editore 

Informazioni: 06 68809035 – infomostra@chiostrodelbramante.it
Chiostro del Bramante – Via della Pace, Roma
aperto tutti i giorni: lun – ven 10.00 > 20.00 
sab – dom 10.00 > 21.00 (la biglietteria chiude un’ora prima)

VENDITA BIGLIETTI ONLINE: http://bit.ly/turner_tickets BIGLIETTI (audioguida in omaggio) Intero 14,00 € Ridotto 12,00 € *Per maggiori informazioni sull’offerta didattica e sui costi: chiostrodelbramante.it/turner-didattica-laboratori

19/03/18

Ritrovata la Triumph di "Marcello" ne "La dolce vita": era a Rimini.


Chi non ricorda la meravigliosa Triumph nera guidata da Marcello, ne "La Dolce Vita", con la quale Mastroianni scarrozza di notte la meravigliosa Anita in giro per Roma ? 

Ebbene, è stata ritrovata da un appassionato di auto d'epoca, Filippo Berselli, avvocato ed ex parlamentare. 

L'auto - considerata al terzo posto in una classifica americana delle 10 più celebri della storia del cinema - è stata ritrovata per caso. Berselli era da tempo a caccia di una Triumph T3 - lo stesso modello di quella de La Dolce Vita e su internet si è imbattuto proprio nella vendita di un esemplare di questa auto, subito incuriosito dal fatto che fosse stata immatricolata sin dall'origine in Italia. 

Contattato il venditore e dopo una breve trattativa la acquista.  Salvo scoprire poco dopo, dall'esame cronologico del Pra che la targa di prima immatricolazione era stata Roma 324229 e risaliva al 15 luglio 1958.  

Da un esame più approfondito della carta di circolazione, Berselli scopriva poi che dopo un paio di passaggi proprietari, l'auto era stata rivenduta nel maggio 1959 alla società di produzione film Riama: proprio la società di Rizzoli e Amato che aveva prodotto La Dolce Vita. 

Ricostruendo la vicenda per intero, Berselli ha appurato che il primo proprietario fu Armando Berni, nipote del re delle fettuccine Alfredo dell'omonimo, celebre ristorante di Piazza Augusto Imperatore, che all'epoca era frequentato dal jet-set internazionale.  


Nei mesi successivi Berni  intestò poi l'automobile a Maurizio Conti che all'epoca era un attore alle prime armi, con qualche particina in pellicole del genere Peplum e anche nel Bell'Antonio a fianco di Mastroianni e anche ne La Dolce Vita.

Anche Conti frequentava il ristorante Alfredo ed era amico di Armando Berni. Rintracciato da Berselli, Maurizio Conti - ancora vivo e in forma, ha raccontato di non aver mai guidato la vettura, ma di aver fatto soltanto da prestanome al Berni, che forse aveva già troppe auto intestate. 

A un certo punto, Armando evidentemente decise di riappropriarsi della macchina: aveva avuto un'offerta da Fellini stesso, o dai produttori, che frequentavano il ristorante della Dolce Vita. E così la Triumph passò nelle mani della Riama cinematografica. 

Oggi l'auto, dopo essere stata esposta nel 2016 nella rassegna Effetto Notte - e dopo un accurato restauro in una carrozzeria di Rimini (per incredibile coincidenza era andata a finire proprio nella città del Regista....) - fa bella mostra di sé in importanti rassegne d'auto d'epoca internazionali.

Fabrizio Falconi

fonte: Emilia Costantini, Quella spider che segnò la Dolce Vita, il Corriere della Sera, 18 giugno 2016.



16/03/18

Ecco i Sette Nuovi Musei da visitare nel 2018 !

Il Louvre Abu Dhabi, Emirati Arabi

I sette musei da visitare nel 2018

Dal Louvre di Abu Dhabi alla Casa Lego danese, dall’Urban Nation di Berlino alla Zeitz Mocaa di Città del Capo; ecco i nuovissimi luoghi della cultura che meritano un viaggio.


Louvre Abu Dhabi, Emirati Arabi
Inaugurato lo scorso novembre, il faraonico museo Louvre Abu Dhabifirmato dall’architetto Jean-Nouvel, è una meraviglia architettonica tutta da scoprire. Sorge sull’isola Saadiyat, non lontano dal cuore finanziario della capitale degli Emirati, ed è formato da 55 edifici bianchi ispirati a una Medina orientale, coperti da una cupola in acciaio di 180 metri di diametro. Il museo ospita opere di tutte le epoche e civiltà; tra i pezzi esposti più prestigiosi ci sono un Corano del VI secolo, una Bibbia gotica e una Torah dello Yemen come simbolo di fratellanza e di scambio di culture. Il museo offre dunque uno sguardo sull’arte universale - dalla Preistoria fino ai giorni nostri, passando per l’Antico Egitto, la Grecia e la Roma imperiale - con più di 300 opere provenienti da 13 musei francesi e varie sezioni dedicate alle mostre temporanee; solo una piccola parte, con 23 gallerie permanenti, è invece destinato all’arte moderna e contemporanea. Info:www.louvreabudhabi.ae
Curiosità: la cupola che ricopre il museo è pesante quasi quanto la Torre Eiffel ed è formata da 7.850 stelle metalliche, che creano un gioco di luci e ombre ispirato ai suk orientali. Il Paese ha pagato quasi un miliardo di euro al governo francese per poter usare per 30 anni il nome del suo museo più famoso, il Louvre.

Lego House, Danimarca
E’ nato lo scorso settembre a Billund, la città natale della Lego in Danimarca, il museo dedicato ai mattoncini colorati più famosi al mondo. La casa della Lego è un luogo dove grandi e piccoli possono divertirsi giocando e creando, secondo la filosofia della celebre azienda danese. Sorge su 12mila metri quadrati nel cuore della città di Billund e ospita 21 blocchi con attrazioni a pagamento e spazi all’aperto, come la Lego Square, una grande piazza al centro del museo dove gli ospiti possono giocare liberamente o concedersi un’esperienza gourmet in uno dei 3 ristoranti presenti. Cuore della Lego House sono le “experience zones”, che si sviluppano in 4 aree di gioco colorate, dove ogni colore rappresenta un aspetto dell’apprendimento dei bambini: rosso è creativo, blu cognitivo, verde sociale e giallo emozionale. Completano l’esperienza una magnifica galleria “Masterpiece” dove i visitatori possono esporre le proprie creazioni e la “History Collection”, uno spazio dedicato al racconto e alla storia dell’azienda.
Curiosità: i 21 blocchi del museo sono sovrapposti in modo sfalsato, proprio come i mattoncini Lego; la facciata è ricoperta da tegole in cotto che danno l’impressione di essere un mattonicino, così come il tetto, coronato da un gigantesco Lego in scala gigante. Non lontano dal museo sorge il parco dei divertimenti Legoland dove il mondo in miniatura è fatto di mattoncini colorati.

Urban Nation, Germania
Nel quartiere Schöneberg di Berlino è nato da pochi mesi il primo museo dedicato all’esposizione, allo studio e alla promozione della street art, l’arte contemporanea urbana, che vanta anche una biblioteca tematica con oggetti e più di 5mila libri, donati da Martha Cooper, la reporter americana che negli anni Settanta documentò la nascita del fenomeno artistico a New York. Il museo rappresenta un punto di riferimento importante per artisti, appassionati d’arte, berlinesi e turisti e offre un laboratorio didattico agli studenti. La facciata del museo, disposto su due piani con muri alti sette metri, è ricoperta di grandi pannelli modulari sui quali gli artisti realizzano graffiti e murales; i pannelli con le opere d’arte sono rimovibili per poter essere trasportati in altre parti della città o conservati all’interno del museo. Info: urban-nation.com
Curiosità: un corridoio/passerella all’interno del museo tra murales e graffiti crea un effetto “distanza”, come se le opere fossero sulla strada o sulle pareti di muri o edifici in giro per la città. “Il museo”, ha spiegato l’architetto progettista Thomas Willemeit “deve riflettere l’aspetto dinamico e non convenzionale della street art”.

Musée YSL Marrakech, Marocco
Inaugurato lo scorso ottobre in un palazzo color ocra con una cornice in pizzo di mattoni, il nuovo museo dedicato a Yves Saint Laurent è un omaggio alla moda e alla creatività dello stilista francese, scomparso dieci anni fa, e allo speciale rapporto d’amore che aveva con Marrakech, luogo ispiratore delle sue collezioni. Dal primo viaggio nella città marocchina nel 1966, infatti, lo stilista francese non smise di tornarci fino al 1980 quando la scelse come seconda casa, vivendo nella villa ai Jardin Majorelle con il compagno Pierre Bergé, uno dei luoghi che ogni visitatore ammira arrivando a Marrakech, tra le piante di cactus del giardino botanico e il blu cobalto delle pareti della villa. Il museo dedicato a Yves Saint Laurent, voluto della Fondation Pierre Bergé–Yves Saint Laurent e costruito vicino ai giardini Majorelle, è stato concepito come un grande centro culturale che comprende uno spazio espositivo permanente, una galleria temporanea di mostre, una biblioteca di ricerca, un auditorium, una libreria e una caffetteria con terrazza. La facciata è un raffinato incastro di volumi quadrati e circolari, alti e bassi, pieni e vuoti, che ricorda le sculture cubiste; i materiali usati sono tipicamente maghrebini: terracotta, pietra, ceramica e marmo. Se l’esterno è opaco, l’interno è volutamente luminoso, liscio e vellutato proprio come il rivestimento di una giacca sartoriale. Info: www.museeyslmarrakech.com
Curiositàal piano interrato c’è il dipartimento di conservazione: è una “camera di Tutankhamon”, un luogo speciale supportato da sofisticati sistemi hi-tech che oltre a conservare a temperature ottimali, è in grado di anticipare, prevenire e ostacolare il deterioramento naturale dei pezzi esposti, cioè di scarpe, cappelli, gioielli, vestiti a trapezio, cappotti di lamé, cappe di taffetà con buganvillee ricamate e altri capi d’alta moda.

Wien Museum Beethoven Museum, Austria
Da fine novembre Vienna ha un nuovo museo dedicato al grande compositore Ludwig van Beethoven, che nella capitale viennese visse molto a lungo, prima per prendere lezioni da Mozart e poi come allievo di Joseph Haydn. Il nuovo museo, che si trova al 6 di Probusgasse nel distretto termale di Heiligenstadt, fuori dal centro della capitale, è il risultato dell’ampliamento di uno degli appartamenti dove visse il compositore tedesco, che qui cercò di curare i disturbi all’udito di cui soffriva. L’allestimento museale, moderrno e interattivo, permette di conoscere la storia della cultura viennese tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento e di approfondire la figura di uno dei massimi compositori di tutti i tempi. All’interno 14 stanze raccontano attraverso gli oggetti e le testimonianze alcune tematiche legate alla vita e alle opere di Beethoven: la storia della casa, il trasferimento da Bonn a Vienna, il soggiorno a Heiligenstadt, le composizioni e le rappresentazione teatrali dell’epoca. In questa casa-museo a 32 anni Beethoven, in preda a un profondo sconforto, scrisse il “Testamento di Heiligenstadt”, una lettera ai fratelli, che non fu mai spedita, dopo aver appreso di essere destinato alla sordità. Sempre in questo appartamento si dedicò alla stesura di alcune opere, tra cui le tre sonate per pianoforte che compongono l’Op. 31, l’oratorio “Christus am Ölberge” e la “Sinfonia eroica”. Info: www.wienmuseum.at/de/standorte/beethoven-museum.html
Curiosità: nel museo sono esposti tubi acustici, una buca del suggeritore che Beethoven metteva sul pianoforte per amplificare il suono, e alcune uova, che simboleggiano il carattere irascibile del compositore. Nelle “stazioni” sonore, inoltre, si può avere una percezione simulata dell’affievolirsi dell’udito del compositore tedesco.

Zeitz Mocaa, Sudafrica
Il Museum of Contemporary Art Africa, inaugurato lo scorso settembre a Città del Capo, è il punto di riferimento per l’arte contemporanea nel continente africano, un Paese dalle molte potenzialità e in continua attesa di rilancio. Il museo Zeitz Mocaa potrebbe finalmente rappresentare questa possibilità grazie anche all’intervento di un ente no profit che sostiene gli artisti africani. Gran parte delle opere sono di proprietà del collezionista tedesco Jochen Zeitz, ma presto arriveranno nuove risorse e nuovi curatori, che punteranno sugli artisti africani e su elementi quali la multimedialità e le piattaforme digitali. L’enorme museo, dall’architettura spettacolare, è stato progettato dal britannico Thomas Heatherwick ed è di proprietà di V&A Waterfront, la società che possiede l’area del porto della capitale sudafricana. All’interno si trovano 80 gallerie, una collezione permanente, mostre temporanee e un centro per la fotografia, oltre a ristoranti e a un centro commerciale. Info: zeitzmocaa.museum
Curiosità: i 9.500 metri quadrati della struttura sono distribuiti su 9 piani, ai quali si accede da un imponente atrio che il progettista ha realizzato a forma di chicco di mais dei silos di cemento, dove un tempo si immagazzinava il grano.

Thomas Dane Gallery, Italia
Il gallerista inglese Thomas Dane ha inaugurato a fine gennaio un nuovo spazio espositivo al primo piano di Casa Ruffo, splendido palazzo ottocentesco nel cuore di via Chiaia, a Napoli. Un’elegante atmosfera neoclassica domina le 5 sale espositive, gli uffici e il grande salone centrale della galleria di Casa Ruffo, raffinato e sobrio, con una veranda che collega le opere dell’interno con la città campana; una splendida terrazza si affaccia su Capri e regala uno scenario mozzafiato. La galleria, che ogni mese ospita nuove esposizioni, è stata affidata alla direzione di Federica Sheehan, che formatasi tra New York e Milano, vive stabilmente a Napoli da sette anni. Info: www.thomasdanegallery.com
Curiosità: per Thomas Dane quella di Napoli è la prima sede esterna, la prima esperienza di galleria fuori da Londra; “Siamo rimasti molto colpiti“, racconta il gallerista, “dal grande riscontro ricevuto. Sono venute tantissime persone provenienti da tutta Europa, sicuramente per il grande interesse che questa città generaVolevamo essere presenti”, ha continuato Thomas Dane in una città ricca di storia e di opportunità per i nostri artisti. È una città unica, con la sua grande cultura e le sue peculiarità”.

15/03/18

La celebre foto di Benigni e Berlinguer: un ricordo personale.


Avevo 24 anni e quel giorno era un magnifico pomeriggio di giugno, quando Roma ancora non si era trasformata in una città dal clima sub-tropicale, con temperature a 40 gradi e siccità terribile. 

Sulla terrazza del Pincio soffiava il ponentino, e noi ragazzi - che frequentavamo Villa Borghese come il nostro magnifico jardin d'été - fummo attratti dai suoni amplificati di una band che provava un concerto sul palco allestito proprio dirimpetto alla balaustra del Valadier. 

Era per l'esattezza venerdì 17 giugno del 1983 e il Partito Comunista aveva organizzato diverse manifestazioni in giro per Roma, di cui questa al Pincio. 

Di lì a qualche giorno, il 26 giugno si sarebbe votato per le elezioni politiche, quelle che avrebbero visto un deciso calo della Democrazia Cristiana e il PCI quasi al 30 per cento (dopo quelle elezioni il presidente del Consiglio sarebbe diventato, per la prima volta, il socialista Bettino Craxi). 

Al contrario di come si è immaginato dopo quella celebre foto, c'era pochissima gente di fronte al palco in quel pomeriggio - non più di un centinaio di persone, perlopiù curiosi come noi che erano venuti ad assistere alle prove del concerto, in programma qualche ora più tardi. 

Sul palco c'era già però Roberto Benigni, che era già molto amato e che qualche anno prima, nel 1977, aveva interpretato il film diretto da Giuseppe Bertolucci, Berlinguer ti voglio bene

Benigni, come era suo stile, accorgendosi che già un po' di pubblico s'era radunato, mise in scena un ironico comizio di una decina di minuti, facendo sbellicare i presenti. Ma la vera sorpresa accade qualche minuto dopo. 

Successe infatti che sul palco si materializzò all'improvviso nientemeno che il segretario del PCI  Enrico Berlinguer, il quale in quei giorni di campagna elettorale girava per Roma visitando i diversi palchi allestiti in città.

Forse aveva promesso a Benigni - e al giovanissimo Walter Veltroni che aveva organizzato la manifestazione del Pincio e che si intravvede infatti chiaramente in piedi sullo sfondo nella fotografia - di fare una apparizione. 

Non appena Benigni lo scorse, di lato al palco, lo chiamò, lo fece venire al microfono di fianco a sé e disse, dopo avergli stretto la mano: “io vorrei prenderlo in collo ma lui non si farà prendere, sarebbe il mio sogno prendere in collo Enrico Berlinguer”. 


Così avvenne: sotto i nostri occhi stupefatti, subito dopo lo prese effettivamente in braccio per pochi secondi. Berlinguer non si sottrasse al gesto e sorrise di gusto allo scherzo del toscanaccio. 


La scena fu la fortuna di un paio di paparazzi, che si trovavano lì per l'occasione e che realizzarono una foto divenuta poi incredibilmente famosa, anche all'estero.

Enrico Berlinguer, protagonista della svolta "eurocomunista"" – aveva da poco portato il PCI, il maggior partito comunista nell’Europa occidentale, al miglior risultato mai raggiunto, il 34,4 per cento alle elezioni politiche del 1976. 

Era poi seguito, appena due anni più tardi il sequestro di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse e il suo assassinio, che inaugurarono una stagione difficilissima per l'Italia e anche e soprattutto per la sinistra italiana. 

Berlinguer morì appena un anno dopo questa foto: l’11 giugno 1984, a Padova, dopo l'ictus che lo aveva colpito quattro giorni prima, mentre stava tenendo un comizio in piazza della Frutta. 

Si concludeva così, drammaticamente, una intera stagione politica. 

A noi, giovani di allora, aver assistito al bagliore - questo sì, assai romantico - di questo fecondo tramonto. 

Fabrizio Falconi
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++ Scoperto autoritratto di Michelangelo in un disegno ! ++




Michelangelo potrebbe aver nascosto una sua caricatura nel ritratto dell'amica e poetessa Vittoria Colonna, eseguito nel 1525 e oggi conservato al British Museumdi Londra: e' la piccola sagoma di un uomo intento a dipingere, quella che emerge osservando attentamente i tratti di penna che definiscono le pieghe dell'abito della nobildonna, all'altezza dell'addome. 

A indicarlo e' lo studio pubblicato sulla rivista Clinical Anatomy da Deivis de Campos, dell'Universita' federale di Scienze della salute di Porto Alegre, in Brasile. 

fonte ANSA

"I due più importanti incontri della mia vita: con Krishnamurti e con Albert Einstein". Una bellissima intervista a proposito del grande fisico David Bohm.

David Bohm con Krishnamurti

Pubblico questa bellissima intervista realizzata da Simeon Alev allo scrittore e fisico David F. Peat - che oggi vive in Italia, in Toscana - per la rivista digitale Innernet.

David Peat è stato per molti anni amico intimo e biografo di uno dei più grandi fisici del Novecento, David Bohm. 

In questa bellissima e lunga intervista, Peat racconta l'amicizia di Bohm con Krishnamurti, la loro lunga proficua collaborazione, i loro dialoghi, e l'altra con Albert Einstein. Si parla di fisica, del senso della nostra vita biologica nell'Universo, della Teoria dei Quanti, della meccanica quantistica, delle teorie unificanti e di molto altro.  Buona lettura. 

La vita di molti scienziati fu influenzata dal grande insegnante spirituale J. Krishnamurti, ma nessuno di loro ebbe un rapporto intimo e duraturo con lui come lo ebbe David Bohm.
Bohm e Krishnamurti si incontrarono la prima volta nel 1961 e la loro amicizia si protrasse fino alla morte di Krishnamurti, nel 1986 (anche se nel 1984 entrò in crisi).
Bohm iniziò la carriera come pupillo di J. Robert Oppenheimer, il direttore del Manhattan Project, il progetto finalizzato alla realizzazione della bomba atomica, durante la seconda guerra mondiale. All’epoca del suo primo incontro con Krishnamurti, Bohm si era già guadagnato una grande e discussa fama come uno dei più brillanti fisici teoretici della nostra era. Egli aveva sviluppato la teoria del plasma – il quarto stato conosciuto della materia, dopo quello solido, liquido e gassoso – e la sua analisi del comportamento plasmatico degli elettroni nei metalli aveva posto le fondamenta per gran parte della fisica degli stati solidi.
Bohm, inoltre, esercitò un ruolo centrale nel dibattito sulla teoria dei quanti (ancora in corso ai giorni nostri), e fu l’autore di molte, provocatorie “interpretazioni” del quanto. Durante gli anni del suo insegnamento a Princeton, divenne amico di Albert Einstein, il quale, dopo aver trascorso vari anni cercando, senza successo, un’alternativa alla versione generalmente accettata della meccanica quantica, sembra aver indicato in Bohm il suo “successore intellettuale”, affermando: «Se qualcuno potrà riuscirci, questi è Bohm».

Il giovane Bohm con Albert Einstein
Ma David Bohm forse è più conosciuto, specialmente tra chi non è scienziato, per una teoria che è allo stesso tempo il frutto di una ricerca spirituale lunga una vita e il risultato di una profonda intuizione scientifica. Si tratta della teoria dell’ordine sottinteso, fondata su una visione globale, totale, nella quale la materia e la coscienza sono unite.
Bohm sembra essere stato ossessionato, sin da piccolo, dall’idea secondo cui viviamo in un universo nel quale la materia e il significato sono inseparabili; si dice che la parola “totalità”, da egli impiegata nel primo incontro con Krishnamurti per descrivere il suo lavoro scientifico, fece balzare quest’ultimo dalla sedia per dare un abbraccio a Bohm.
Leggendo Wholeness and the Implicate Order di David Bohm (in italiano Universo, mente, materia, RED edizioni), ho avuto spesso dei sentimenti simili. L’ampiezza e l’integrità della sua visione è efficacemente riflessa nella sua esposizione, che è allo stesso tempo lucida, ampia, precisa e profondamente, misteriosamente toccante. Leggendo Bohm, si rimane molto spesso sbalorditi dalla sua abilità nel connettere fenomeni di ordine radicalmente diverso, oltre che dalla sua passione per scoprire l’interrelazione e la coesione dinamica di un mondo generalmente considerato una forma di caos meccanizzato nel quale gli esseri umani sono destinati a svolgere una piccola parte.
Una volta abbandonata la vantaggiosa posizione di isolamento e distacco, l’essere umano si scopre profondamente inserito in un universo indivisibile che è allo stesso tempo reale ed eternamente misterioso; un unico evento multidimensionale senza inizio o fine.
Per molti colleghi di Bohm, comunque, la sua insistenza sul fatto che l’universo fosse da un lato intrinsecamente ordinato, dall’altro impossibile da comprendere appieno, era irritante piuttosto che fonte di ispirazione. Rievocando una frustrante intervista con Bohm nel libro The End of Science: Facing the Limits of Knowledge in the Twilight of the Scientific Age (La fine della scienza: a tu per tu con i limiti della conoscenza nel crepuscolo dell’Era Scientifica), lo scrittore di scienza John Horgan scrive: “Bohm anelava a conoscere, a scoprire il segreto di ogni cosa, sia attraverso la fisica… sia attraverso la conoscenza mistica. Tuttavia, insisteva sul fatto che la realtà era inconoscibile, perché, credo, provava repulsione verso l’idea della finalità”.
La premessa da cui parte Horgan, non insolita al giorno d’oggi, è che nel giro di venti anni la scienza avrà risposto a tutte le domande più importanti dell’uomo. Ma quello che Bohm riesce a comunicare in modo piuttosto chiaro durante quella intervista, è la sua concezione secondo cui le risposte finali non sono poi così importanti quanto il cercare di conoscere il mondo nel quale viviamo senza idee o conclusioni fisse. Fu caratteristico di Bohm insistere sul fatto che le idee fisse che sottintendono le ipotesi scientifiche non sono di aiuto, ma di ostacolo, e che una metodologia che unisca il rigore all’apertura mentale è la migliore per restare al passo della verità, man mano che essa si rivela nel corso dell’indagine scientifica.
Ma Bohm trovava ugualmente inadeguata la flessibilità senza il rigore, così comune nella vita spirituale. In un’intervista rilasciata per la rivista ReVision nel 1981, egli disse: “Dal momento in cui il mistico sceglie di parlare della sua esperienza… deve seguire le regole che governano il mondo ordinario, il che significa che deve essere ragionevole, logico e chiaro”.
E questo Bohm non lo chiedeva solo ai mistici, ma soprattutto ai fisici quantici contemporanei, molti dei quali, alla luce delle paradossali scoperte sul regno subatomico, si erano sentiti dispensati dalla necessità di offrire spiegazioni concrete o avevano sviluppato teorie e persino cosmologie più mistificanti delle visioni di uomini religiosi o spirituali. Ironicamente, fu proprio la richiesta di Bohm di spiegazioni puramente fisiche dei fenomeni quantici che lo portò a essere evitato da molti suoi colleghi.
Tuttavia, coloro che approvavano questo invito nutrivano per Bohm una grande fedeltà. Uno di questi è lo scrittore e fisico F. David Peat, che da giovane ascoltò catturato le spiegazioni di Bohm sulla meccanica quantica alla radio “BBS”, senza sapere che diversi anni più tardi avrebbe incontrato il suo eroe, apparentemente per caso, che sarebbero diventati amici e colleghi, che avrebbero scritto un libro insieme (Science, Order and Creativity), e che lui stesso avrebbe scritto alla fine la biografia di Bohm, Infinite Potential: The Life and Times of David Bohm.
Autore di molti libri, Peat è un uomo dai molteplici interessi, che l’hanno portato a girare tutto il mondo: tra questi la fisica moderna, le arti visive, la psicologia junghiana e la spiritualità dei nativi americani. La nostra intervista è stata condotta telefonicamente da Pari, il paese vicino a Siena dove egli vive attualmente. E’ stato un piacere parlare di David Bohm con qualcuno che lo conobbe intimamente e i cui ricordi sono ancora vivi nella sua memoria. Come si intuisce dalla nostra conversazione, il pensiero di Peat è stato influenzato, sotto molti aspetti, da Bohm.
Infinite Potential è un ritratto completo e imparziale. La maggior parte del lavoro di Bohm è una straordinaria fonte di ispirazione, frutto di una grande integrità, ma Peat ha ben presenti anche i difetti del suo amico. “Bohm visse per il trascendente”, scrive Peat, “sognava una luce universale… Ma la sua vita fu caratterizzata da una grande sofferenza e da periodi di grave depressione. Durante la sua vita, non raggiunse mai la completezza; tutto ciò che conquistò, e di cui ancora avvertiamo i benefici, fu raggiunto solo al prezzo di grandi sacrifici”.
Simeon Alev: Perché pensa che fosse importante scrivere una biografia di David Bohm, in questo momento?
David Peat: Penso che sia un libro utile perché aiuta a mettere la vita di Dave in prospettiva e perché riunisce tutta la sua opera, cosa che non è mai stata fatta prima. Dave aveva fatto cenno al proposito di scrivere un’autobiografia – da solo o con l’aiuto di qualcuno – e dopo la sua morte, nel 1992, ne parlai con le persone che gli erano state più vicini. Tutti eravamo preoccupati dal fatto che un’altra persona avrebbe potuto improvvisare una biografia, per cui decidemmo che forse avremmo dovuto farne una noi, e subito.
Vede, sembra che il lavoro di Dave abbia molti aspetti diversi: in esso troviamo, per esempio, le ricerche giovanili sul plasma, la teoria delle variabili nascoste, l’ordine sottinteso e la ricerca di nuovi ordini nella fisica; inoltre, la collaborazione con Krishnamurti e le ricerche sulla coscienza e sul significato del soma. Ma quando si considera la sua vita come un tutto, ci si accorge che questi sono aspetti dello stesso modo di vedere l’universo, e quindi non sono diversi. Ho pensato che sarebbe stata una buona cosa che la gente sapesse ciò, particolarmente coloro che, nel mondo della fisica, hanno cominciato a selezionare le idee di Dave, scegliendone alcune piuttosto di altre. Ho pensato che sarebbe stato utile presentarle tutte insieme, in modo che le persone possano rendersi conto del loro livello di integrazione, cosa che non comprendono del tutto nemmeno coloro che conobbero abbastanza bene Bohm.
Simeon Alev: La sua vita e il suo lavoro furono un tutt’uno coerente.
David Peat: Sì, mi sembra che ogni cosa sia legata al resto; semplicemente, non puoi estrarne una parte.
Simeon Alev: Dunque, sembra che la vita e il lavoro di Bohm contengano un messaggio globale per l’umanità?
David Peat: Beh, in un certo senso il messaggio è questa stessa visione dell’interezza… Che naturalmente non è nuova; è contenuta in molte altre filosofie e se ne parla da tempo. Ma credo che ogni volta che qualcuno ne parla, la rinnova o la reinventa, riportandola in vita per il tempo presente. E io penso che David lo abbia fatto per la nostra epoca. Egli, inoltre, evidenziò il fatto che la scienza si era scissa sia all’interno di se stessa sia dalle tematiche spirituali e dalla riflessione sulla coscienza e il sé. E nella biografia è possibile vedere come queste idee si esprimessero attraverso la sua lotta. La sua vita fu allo stesso tempo l’intuizione di qualcosa di trascendente e una lotta per raggiungere questa condizione di integrità. E oggi il suo lavoro appare sempre più rilevante.

13/03/18

Il Libro del Giorno: "Distacchi" di Judith Viorst


E' salutare, anche se duro leggere e meditare su questo libro, scritto dalla psicoanalista Judith Viorst nel lontano 1986, e divenuto con gli anni un long-seller in tutto l'Occidente. 

Uno studio che affronta il legame vitale tra ciò che si perde nella vita e ciò che si guadagna, e atutto ciò che si deve rinunciare per poter crescere. 

Viorst parte dalla constatazione che la vita umana è continuamente costellate di perdite, che si verificano lungo tutto il corso della vita e che sono necessarie allo sviluppo stesso della vita e alla crescita psicologica.

Sono, naturalmente, perdite dolorose, a partire dalla rinuncia del bambino alla madre, alle prime separazioni con la madre che l'ha generato, passando per tutte le nostre scelte adulte, cui corrispondono sempre a parziali o totali rinunce o compromessi. 

In 20 densi capitoli, Distacchi descrive la faticosa separazione del sé che avviene nell'io-bambino, la fine dell'infanzia, la difficile gestione dei rapporti di amicizia - che non possono essere sempre completi, ma limitati - la separazione e il lutto amoroso, il distacco - comprensivo di amore e odio - nel matrimonio, il distacco dalla propria immagine giovanile quando si comincia a invecchiare, fino all'ultima e più drammatica separazione rappresentata dalla morte.

Dal modo in cui affrontiamo queste separazioni necessarie - sostiene Viorst - dipende la qualità del nostro crescere come esseri adulti e consapevoli. Dalla comprensione che ogni rapporto umano è ambivalente - e quindi non perfetto - dipende  la nostra maturità e la nostra responsabilità.  Nell'abbandonare le nostre aspettative impossibili, scrive Viorst, "diventiamo un Sé che si lega affettivamente, rinunciando alle visioni ideali di un'amicizia, di un matrimonio, di figli, di una vita familiare perfetti per le dolci imperfezioni di relazioni tutte-troppo umane". 

Ci sono insomma tante cose che dobbiamo abbandonare per poter crescere.  Perché non possiamo amare qualcosa profondamente senza diventare vulnerabili una volta che lo perdiamo.  E non possiamo diventare persone separate, persone responsabili, "persone che stringono rapporti, persone che riflettono, senza perdere qualcosa, senza abbandonare, senza lasciare andare via".

Naturalmente ciascun essere umano sa quanto possa essere doloroso il distacco dalle cose che si amano, fuori e dentro di noi. 

Il libro di Viorst, pur partendo da assunti strettamente freudiani - e questo è il limite, non trascurabile di questo lavoro - non indora la pillola: alcuni capitoli, anzi, come quello sull'invecchiare, sulla morte, e sulla separazione dall'essere bambini, sono dolorosi, necessariamente dolorosi, e non offrono facili vie d'uscita. 

E' però un libro importante anche - e proprio - per questo, in tempi piuttosto vacui e inconsistenti. Ripartire dalla necessità della perdita e dalla consapevolezza lucida e faticosa del lutto - in tutte le nostre cose - può offrire un modo nuovo - e certamente più pieno e vero, di vivere le nostre esistenze. 

Fabrizio Falconi
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