15/03/18

"I due più importanti incontri della mia vita: con Krishnamurti e con Albert Einstein". Una bellissima intervista a proposito del grande fisico David Bohm.

David Bohm con Krishnamurti

Pubblico questa bellissima intervista realizzata da Simeon Alev allo scrittore e fisico David F. Peat - che oggi vive in Italia, in Toscana - per la rivista digitale Innernet.

David Peat è stato per molti anni amico intimo e biografo di uno dei più grandi fisici del Novecento, David Bohm. 

In questa bellissima e lunga intervista, Peat racconta l'amicizia di Bohm con Krishnamurti, la loro lunga proficua collaborazione, i loro dialoghi, e l'altra con Albert Einstein. Si parla di fisica, del senso della nostra vita biologica nell'Universo, della Teoria dei Quanti, della meccanica quantistica, delle teorie unificanti e di molto altro.  Buona lettura. 

La vita di molti scienziati fu influenzata dal grande insegnante spirituale J. Krishnamurti, ma nessuno di loro ebbe un rapporto intimo e duraturo con lui come lo ebbe David Bohm.
Bohm e Krishnamurti si incontrarono la prima volta nel 1961 e la loro amicizia si protrasse fino alla morte di Krishnamurti, nel 1986 (anche se nel 1984 entrò in crisi).
Bohm iniziò la carriera come pupillo di J. Robert Oppenheimer, il direttore del Manhattan Project, il progetto finalizzato alla realizzazione della bomba atomica, durante la seconda guerra mondiale. All’epoca del suo primo incontro con Krishnamurti, Bohm si era già guadagnato una grande e discussa fama come uno dei più brillanti fisici teoretici della nostra era. Egli aveva sviluppato la teoria del plasma – il quarto stato conosciuto della materia, dopo quello solido, liquido e gassoso – e la sua analisi del comportamento plasmatico degli elettroni nei metalli aveva posto le fondamenta per gran parte della fisica degli stati solidi.
Bohm, inoltre, esercitò un ruolo centrale nel dibattito sulla teoria dei quanti (ancora in corso ai giorni nostri), e fu l’autore di molte, provocatorie “interpretazioni” del quanto. Durante gli anni del suo insegnamento a Princeton, divenne amico di Albert Einstein, il quale, dopo aver trascorso vari anni cercando, senza successo, un’alternativa alla versione generalmente accettata della meccanica quantica, sembra aver indicato in Bohm il suo “successore intellettuale”, affermando: «Se qualcuno potrà riuscirci, questi è Bohm».

Il giovane Bohm con Albert Einstein
Ma David Bohm forse è più conosciuto, specialmente tra chi non è scienziato, per una teoria che è allo stesso tempo il frutto di una ricerca spirituale lunga una vita e il risultato di una profonda intuizione scientifica. Si tratta della teoria dell’ordine sottinteso, fondata su una visione globale, totale, nella quale la materia e la coscienza sono unite.
Bohm sembra essere stato ossessionato, sin da piccolo, dall’idea secondo cui viviamo in un universo nel quale la materia e il significato sono inseparabili; si dice che la parola “totalità”, da egli impiegata nel primo incontro con Krishnamurti per descrivere il suo lavoro scientifico, fece balzare quest’ultimo dalla sedia per dare un abbraccio a Bohm.
Leggendo Wholeness and the Implicate Order di David Bohm (in italiano Universo, mente, materia, RED edizioni), ho avuto spesso dei sentimenti simili. L’ampiezza e l’integrità della sua visione è efficacemente riflessa nella sua esposizione, che è allo stesso tempo lucida, ampia, precisa e profondamente, misteriosamente toccante. Leggendo Bohm, si rimane molto spesso sbalorditi dalla sua abilità nel connettere fenomeni di ordine radicalmente diverso, oltre che dalla sua passione per scoprire l’interrelazione e la coesione dinamica di un mondo generalmente considerato una forma di caos meccanizzato nel quale gli esseri umani sono destinati a svolgere una piccola parte.
Una volta abbandonata la vantaggiosa posizione di isolamento e distacco, l’essere umano si scopre profondamente inserito in un universo indivisibile che è allo stesso tempo reale ed eternamente misterioso; un unico evento multidimensionale senza inizio o fine.
Per molti colleghi di Bohm, comunque, la sua insistenza sul fatto che l’universo fosse da un lato intrinsecamente ordinato, dall’altro impossibile da comprendere appieno, era irritante piuttosto che fonte di ispirazione. Rievocando una frustrante intervista con Bohm nel libro The End of Science: Facing the Limits of Knowledge in the Twilight of the Scientific Age (La fine della scienza: a tu per tu con i limiti della conoscenza nel crepuscolo dell’Era Scientifica), lo scrittore di scienza John Horgan scrive: “Bohm anelava a conoscere, a scoprire il segreto di ogni cosa, sia attraverso la fisica… sia attraverso la conoscenza mistica. Tuttavia, insisteva sul fatto che la realtà era inconoscibile, perché, credo, provava repulsione verso l’idea della finalità”.
La premessa da cui parte Horgan, non insolita al giorno d’oggi, è che nel giro di venti anni la scienza avrà risposto a tutte le domande più importanti dell’uomo. Ma quello che Bohm riesce a comunicare in modo piuttosto chiaro durante quella intervista, è la sua concezione secondo cui le risposte finali non sono poi così importanti quanto il cercare di conoscere il mondo nel quale viviamo senza idee o conclusioni fisse. Fu caratteristico di Bohm insistere sul fatto che le idee fisse che sottintendono le ipotesi scientifiche non sono di aiuto, ma di ostacolo, e che una metodologia che unisca il rigore all’apertura mentale è la migliore per restare al passo della verità, man mano che essa si rivela nel corso dell’indagine scientifica.
Ma Bohm trovava ugualmente inadeguata la flessibilità senza il rigore, così comune nella vita spirituale. In un’intervista rilasciata per la rivista ReVision nel 1981, egli disse: “Dal momento in cui il mistico sceglie di parlare della sua esperienza… deve seguire le regole che governano il mondo ordinario, il che significa che deve essere ragionevole, logico e chiaro”.
E questo Bohm non lo chiedeva solo ai mistici, ma soprattutto ai fisici quantici contemporanei, molti dei quali, alla luce delle paradossali scoperte sul regno subatomico, si erano sentiti dispensati dalla necessità di offrire spiegazioni concrete o avevano sviluppato teorie e persino cosmologie più mistificanti delle visioni di uomini religiosi o spirituali. Ironicamente, fu proprio la richiesta di Bohm di spiegazioni puramente fisiche dei fenomeni quantici che lo portò a essere evitato da molti suoi colleghi.
Tuttavia, coloro che approvavano questo invito nutrivano per Bohm una grande fedeltà. Uno di questi è lo scrittore e fisico F. David Peat, che da giovane ascoltò catturato le spiegazioni di Bohm sulla meccanica quantica alla radio “BBS”, senza sapere che diversi anni più tardi avrebbe incontrato il suo eroe, apparentemente per caso, che sarebbero diventati amici e colleghi, che avrebbero scritto un libro insieme (Science, Order and Creativity), e che lui stesso avrebbe scritto alla fine la biografia di Bohm, Infinite Potential: The Life and Times of David Bohm.
Autore di molti libri, Peat è un uomo dai molteplici interessi, che l’hanno portato a girare tutto il mondo: tra questi la fisica moderna, le arti visive, la psicologia junghiana e la spiritualità dei nativi americani. La nostra intervista è stata condotta telefonicamente da Pari, il paese vicino a Siena dove egli vive attualmente. E’ stato un piacere parlare di David Bohm con qualcuno che lo conobbe intimamente e i cui ricordi sono ancora vivi nella sua memoria. Come si intuisce dalla nostra conversazione, il pensiero di Peat è stato influenzato, sotto molti aspetti, da Bohm.
Infinite Potential è un ritratto completo e imparziale. La maggior parte del lavoro di Bohm è una straordinaria fonte di ispirazione, frutto di una grande integrità, ma Peat ha ben presenti anche i difetti del suo amico. “Bohm visse per il trascendente”, scrive Peat, “sognava una luce universale… Ma la sua vita fu caratterizzata da una grande sofferenza e da periodi di grave depressione. Durante la sua vita, non raggiunse mai la completezza; tutto ciò che conquistò, e di cui ancora avvertiamo i benefici, fu raggiunto solo al prezzo di grandi sacrifici”.
Simeon Alev: Perché pensa che fosse importante scrivere una biografia di David Bohm, in questo momento?
David Peat: Penso che sia un libro utile perché aiuta a mettere la vita di Dave in prospettiva e perché riunisce tutta la sua opera, cosa che non è mai stata fatta prima. Dave aveva fatto cenno al proposito di scrivere un’autobiografia – da solo o con l’aiuto di qualcuno – e dopo la sua morte, nel 1992, ne parlai con le persone che gli erano state più vicini. Tutti eravamo preoccupati dal fatto che un’altra persona avrebbe potuto improvvisare una biografia, per cui decidemmo che forse avremmo dovuto farne una noi, e subito.
Vede, sembra che il lavoro di Dave abbia molti aspetti diversi: in esso troviamo, per esempio, le ricerche giovanili sul plasma, la teoria delle variabili nascoste, l’ordine sottinteso e la ricerca di nuovi ordini nella fisica; inoltre, la collaborazione con Krishnamurti e le ricerche sulla coscienza e sul significato del soma. Ma quando si considera la sua vita come un tutto, ci si accorge che questi sono aspetti dello stesso modo di vedere l’universo, e quindi non sono diversi. Ho pensato che sarebbe stata una buona cosa che la gente sapesse ciò, particolarmente coloro che, nel mondo della fisica, hanno cominciato a selezionare le idee di Dave, scegliendone alcune piuttosto di altre. Ho pensato che sarebbe stato utile presentarle tutte insieme, in modo che le persone possano rendersi conto del loro livello di integrazione, cosa che non comprendono del tutto nemmeno coloro che conobbero abbastanza bene Bohm.
Simeon Alev: La sua vita e il suo lavoro furono un tutt’uno coerente.
David Peat: Sì, mi sembra che ogni cosa sia legata al resto; semplicemente, non puoi estrarne una parte.
Simeon Alev: Dunque, sembra che la vita e il lavoro di Bohm contengano un messaggio globale per l’umanità?
David Peat: Beh, in un certo senso il messaggio è questa stessa visione dell’interezza… Che naturalmente non è nuova; è contenuta in molte altre filosofie e se ne parla da tempo. Ma credo che ogni volta che qualcuno ne parla, la rinnova o la reinventa, riportandola in vita per il tempo presente. E io penso che David lo abbia fatto per la nostra epoca. Egli, inoltre, evidenziò il fatto che la scienza si era scissa sia all’interno di se stessa sia dalle tematiche spirituali e dalla riflessione sulla coscienza e il sé. E nella biografia è possibile vedere come queste idee si esprimessero attraverso la sua lotta. La sua vita fu allo stesso tempo l’intuizione di qualcosa di trascendente e una lotta per raggiungere questa condizione di integrità. E oggi il suo lavoro appare sempre più rilevante.

13/03/18

Il Libro del Giorno: "Distacchi" di Judith Viorst


E' salutare, anche se duro leggere e meditare su questo libro, scritto dalla psicoanalista Judith Viorst nel lontano 1986, e divenuto con gli anni un long-seller in tutto l'Occidente. 

Uno studio che affronta il legame vitale tra ciò che si perde nella vita e ciò che si guadagna, e atutto ciò che si deve rinunciare per poter crescere. 

Viorst parte dalla constatazione che la vita umana è continuamente costellate di perdite, che si verificano lungo tutto il corso della vita e che sono necessarie allo sviluppo stesso della vita e alla crescita psicologica.

Sono, naturalmente, perdite dolorose, a partire dalla rinuncia del bambino alla madre, alle prime separazioni con la madre che l'ha generato, passando per tutte le nostre scelte adulte, cui corrispondono sempre a parziali o totali rinunce o compromessi. 

In 20 densi capitoli, Distacchi descrive la faticosa separazione del sé che avviene nell'io-bambino, la fine dell'infanzia, la difficile gestione dei rapporti di amicizia - che non possono essere sempre completi, ma limitati - la separazione e il lutto amoroso, il distacco - comprensivo di amore e odio - nel matrimonio, il distacco dalla propria immagine giovanile quando si comincia a invecchiare, fino all'ultima e più drammatica separazione rappresentata dalla morte.

Dal modo in cui affrontiamo queste separazioni necessarie - sostiene Viorst - dipende la qualità del nostro crescere come esseri adulti e consapevoli. Dalla comprensione che ogni rapporto umano è ambivalente - e quindi non perfetto - dipende  la nostra maturità e la nostra responsabilità.  Nell'abbandonare le nostre aspettative impossibili, scrive Viorst, "diventiamo un Sé che si lega affettivamente, rinunciando alle visioni ideali di un'amicizia, di un matrimonio, di figli, di una vita familiare perfetti per le dolci imperfezioni di relazioni tutte-troppo umane". 

Ci sono insomma tante cose che dobbiamo abbandonare per poter crescere.  Perché non possiamo amare qualcosa profondamente senza diventare vulnerabili una volta che lo perdiamo.  E non possiamo diventare persone separate, persone responsabili, "persone che stringono rapporti, persone che riflettono, senza perdere qualcosa, senza abbandonare, senza lasciare andare via".

Naturalmente ciascun essere umano sa quanto possa essere doloroso il distacco dalle cose che si amano, fuori e dentro di noi. 

Il libro di Viorst, pur partendo da assunti strettamente freudiani - e questo è il limite, non trascurabile di questo lavoro - non indora la pillola: alcuni capitoli, anzi, come quello sull'invecchiare, sulla morte, e sulla separazione dall'essere bambini, sono dolorosi, necessariamente dolorosi, e non offrono facili vie d'uscita. 

E' però un libro importante anche - e proprio - per questo, in tempi piuttosto vacui e inconsistenti. Ripartire dalla necessità della perdita e dalla consapevolezza lucida e faticosa del lutto - in tutte le nostre cose - può offrire un modo nuovo - e certamente più pieno e vero, di vivere le nostre esistenze. 

Fabrizio Falconi
2018 - riproduzione riservata




12/03/18

Il trionfo degli incompetenti e il rischio per la democrazia: un importante studio di Tom Nichols, in un nuovo libro.


The Death of Expertise di Tom Nichols – tradotto in italiano da Chiara Veltri con il titolo La conoscenza e i suoi nemici  è uno di quei libri che bisognerebbe far leggere a tutti per la rilevanza dei temi che tratta e per la loro assoluta attualità. 

Come non è difficile comprendere dal titolo originale, il libro parla della crisi dell’expertise e del trionfo dell’incompetenza che la accompagna

È senza dubbio qualcosa cui assistiamo spesso di questi tempi, e –come sostiene con buona vigoria retorica l’autore- è qualcosa che dovrebbe preoccuparci se teniamo alla democrazia e ai suoi valori.   Sempre più di frequente il parere di esperti e professionisti viene messo alla berlina e non solo rifiutato ma guardato con rabbia inusitata. Non si tratta così di indifferenza ma di vera e propria ostilità rispetto a chiunque esibisca competenza.

Al pregiudizio in favore della propria opinione o bias di conferma, che ci fa preferire le tesi che la rinforzano indipendentemente dalle prove che si hanno a sostegno, si aggiunge sovente un bias egualitario che forse è il più pericoloso di tutti. Questa forma di pregiudizio basato sull’eguaglianza ci sussurra all’orecchio «io valgo quanto te!». 

Ma se è vero che, in democrazia, siamo eguali nei diritti fondamentali, non è affatto vero che siamo eguali al cospetto di opinioni che richiedono un expertise. Per metterla giù chiaramente, se parliamo di relatività generale la mia opinione non è eguale a quella di un fisico teorico e se parliamo di vaccini o di ogm l’opinione di un ignorante in materia non vale tanto quanto quella di uno specialista.

Ora, come l’autore sottolinea correttamente, non è che gli esperti non sbaglino mai. Tutt’altro. Ma bisogna riconoscere che sul tema di cui sono esperti è probabile che sbaglino meno degli altri. Come mai allora una verità tanto evidente non è colta da tutti? In parte lo si deve alle nuove tecnologie a cominciare da Internet. Il web moltiplica a tal punto la quantità di informazione che diventa difficile un controllo serio, e i social media non fanno altro che peggiorare il caos.

I rimedi dovrebbero essere costituiti da giornalismo e sistema dell’istruzione, ma le cose si complicano quando l’informazione si confonde sempre più con l’intrattenimento e quando scuole e università trattano gli studenti come «clienti». 

Il tutto è assai rischioso per la democrazia, come ci disse tra i primi Platone, perché le decisioni pubbliche sono troppo spesso dettate da ignoranza e disinformazione. 

D’altra parte ciò è stato evidente a tutti nella campagna di che preceduto Brexit e in quella che ha visto l’elezione di Trump.

La campagna di Trump in particolare rappresenta quasi un modello per chi – come il nostro Nichols – guarda con preoccupazione alla fine della competenza. Trump infatti in pochi giorni –durante la campagna in questione è riuscito: a ammettere che gran parte della sua informazione in politica estera derivava dai programmi televisivi del mattino; a insinuare che il giudice di destra della Corte Suprema Antonino Scalia non fosse morto di cause naturali ma assassinato; a suggerire che Barak Obama non fosse americano e che addirittura dovesse dare prove esplicita di avere la cittadinanza US; a elogiare il potere distruttivo delle armi nucleari; a fare dichiarazioni sui rapporti tra i generi sessuali che in America non sono assolutamente ammissibili; a accusare uno dei suoi rivali per la nomination repubblicana (Ted Cruz) di avere un padre implicato nel “complotto” che condusse all’omicidio di John Kennedy; a schierarsi con i no-vax.

Ora, siamo tutti consapevoli che i comizi elettorali costituiscono un terreno sdrucciolevole, ma qui si tratta non di semplici passi falsi ma di errori clamorosi

Eppure Trump ce l’ha fatta: ha vinto prima la competizione per la nomination repubblicana ed è diventato poi Presidente degli Stati Uniti. Non è chiaro se gli elettori americani si siano accorti degli errori di Trump, e neppure è lecito sapere se –una volta consapevoli- lo abbiano poi perdonato in nome della sua personalità “forte”.

La cosa importante è che, consapevoli o no, alla fine della fiera lo hanno votato assai più del previsto. Difficile non pensare a questo punto che Trump sia stato premiato per avere impersonato quella diffusa ostilità verso gli esperti di cui parla Nichols nel libro.

Come si è detto, favorire l’incompetenza non è solo un problema epistemologico, è anche politicamente rischioso. Dovessi dire perché, sosterrei che la causa principale del pericolo in questione consiste nella sostanziale mancanza di fiducia nelle élites che così si rivela. Ma la fiducia è un carburante indispensabile per far lavorare bene una democrazia, così come lo è l’equilibrio tra expertise e popolo. Questo prezioso saggio ci mostra una frattura pericolosa all’interno di questo equilibrio. E ci fa riflettere sulla necessità di correre ai ripari per cercare di salvare la democrazia dalla tirannia dell’incompetenza.


11/03/18

Poesia della Domenica: "Ciò che resta" di Mark Strand.


Ciò che resta
Mi svuoto del nome degli altri. Mi svuoto le tasche.
Mi svuoto le scarpe e le lascio sul ciglio della strada.
Di notte metto indietro gli orologi;
apro l’album di famiglia e mi guardo bambino.
A che giova? Le ore hanno fatto il loro dovere.
Dico il mio nome. Dico addio.
Le parole si inseguono nel vento.
Amo mia moglie ma la caccio.
I miei genitori si alzano dai troni
nelle stanze delle nuvole. Come posso cantare?
Il tempo mi dice ciò che sono. Cambio e resto lo stesso.
Mi svuoto della mia vita e rimane la mia vita.

The Remains
from “Darker”
I empty myself of the names of others. I empty my pockets.
I empty my shoes and leave them beside the road.
At night I turn back the clocks;
I open the family album and look at myself as a boy.
What good does it do? The hours have done their job.
I say my own name. I say goodbye.
The words follow each other downwind.
I love my wife but send her away.
My parents rise out of their thrones
into the milky rooms of clouds. How can I sing?
Time tells me what I am. I change and I am the same.
I empty myself of my life and my life remains.

da Mark Strand L’uomo che cammina un passo avanti al buio (Poesie 1964-2006) Oscar Mondadori, 2007, pp. 392 € 15 – traduzione di Damiano Abeni

10/03/18

Byung-Chul Han: "Lo smartphone ci promette la libertà, ma è diventato un campo di lavoro, un confessionale e uno strumento di sorveglianza".



Byung-Chul Han è uno dei più brillanti pensatori contemporanei:  insegna Kulturwissenschaft presso la Universität der Künste di Berlino, in Germania, ed è uno scrittore e teorico della cultura, di origine coreane (è nato, infatti, a Seoul nel 1959). Dopo gli studi iniziali di metallurgia in Corea del Sud, ha conseguito il dottorato in Filosofia (1994) all’Università di Friburgo in Brisgovia con una tesi su Martin Heidegger e ha insegnato dapprima a Basilea e, fino al 2012, a Karlsruhe – dove è stato collega di un altro influente pensatore contemporaneo, Peter Sloterdijk. A partire dagli anni 2000, con La società della stanchezza (tr. it. di F. Buongiorno, nottetempo, Roma 2012), Han ha costruito un percorso intellettuale di critica dell’odierna società capitalistica e neo-liberale, indagando i (dis)funzionamenti e le conseguenze antropologiche e sociali dei processi di globalizzazione, ricorrendo a categorie tratte dalla letteratura (come la stanchezza, ripresa dall’opera di Handke) e dalla filosofia sociale (come la trasparenza, cfr. La società della trasparenza, tr. it. di F. Buongiorno, nottetempo 2014), per decostruire le strutture dell’odierno neoliberalismo mercatista. Personalità dal profilo eclettico e sfuggente, Han rifiuta generalmente di rilasciare interviste ed evita di divulgare dettagli riguardanti la sua biografia.
Questo brano è tratto dalla bellissima intervista rilasciata a Federica Buongiorno per Doppiozero:


Oggi viviamo nell’illusione di essere liberi, ma non lo siamo affatto: vediamo infatti come la comunicazione, che si presenta come libertà, si rovescia in controllo. Comunicazione e trasparenza producono anche una costrizione al conformismo: oggi crediamo di non essere soggetti sottomessi ma liberi, crediamo di essere un progetto che si delinea in maniera sempre nuova, che si reinventa e si ottimizza. Il problema è che questo progetto, nel quale il soggetto sottomesso si libera, si rivela esso stesso una figura della costrizione. 

L’io come progetto sviluppa delle costrizioni interiori, per esempio nella forma della prestazione e dell’ottimizzazione sempre maggiori. Oggi viviamo in una fase storica particolare, nella quale la stessa libertà implica costrizioni. Per Karl Marx il lavoro conduce all’alienazione: il Sé viene distrutto dal lavoro. Attraverso il lavoro si viene alienati dal mondo e da se stessi: per questo ho sostenuto che il lavoro è una de-realizzazione del Sé. 

Oggi il lavoro assume la forma della libertà e dell’auto-realizzazione. Sfrutto me stesso nella convinzione di realizzarmi. Il sentimento dell’alienazione, qui, non sorge; così, questo è anche il primo stadio dell’euforia da burnout. Mi butto entusiasticamente nel lavoro, fino a esserne annientato: mi realizzo morendo. Mi ottimizzo nella morte. Mi sfrutto volontariamente, fino a distruggermi. Questo auto-sfruttamento è più efficace dello sfruttamento estraneo di Marx, proprio perché procede insieme al sentimento della libertà

Il dominio neoliberale si nasconde dietro la libertà percepita: si dà, anzi, esso stesso come libertà. Il dominio raggiunge la forma più stabile laddove coincide con la libertà. L’odierna società non è la società della repressione, anche se la fine della repressione non implica la libertà. Oggigiorno, piuttosto, noi siamo depressi: la società della repressione cede il passo alla società della depressione.

Prima di tutto, c’è lo smartphone: ho sostenuto che lo smartphone è una forma di campo di lavoro. Con lo smartphone noi ci portiamo dietro un campo di lavoro.

Esso ci promette la libertà, ma di fatto è diventato un campo di lavoro, un confessionale e uno strumento di sorveglianza. Il tratto peculiare del contemporaneo campo di lavoro è che siamo al tempo stesso detenuti e sorveglianti. Non siamo servi, soggetti allo sfruttamento di un padrone. Piuttosto, siamo insieme servi e padroni.

I servi, infatti, devono accettare ogni lavoro: non sono liberi. Il neoliberalismo produce l’obbligo ad accettare ogni lavoro, perché non conosce il concetto della dignità umana. L’ha interamente sostituito con il prezzo

09/03/18

A Roma una bella mostra celebra il fascino e la bravura di Monica Vitti.


Otto grandi veli fotografici in bianco e nero da attraversare, con la Divina Monica in primissimo piano, tra scena e fuori scena, mentre la sua voce cosi' unica racconta perche' sia diventata attrice ("Adoro la sincerita', la realta', rappresentarmi mi dava la possibilita' di vivere piu' vite").

E' l'entrata immersiva de La dolce Vitti, la mostra multimediale dedicata a una delle interpreti simbolo del nostro cinema, a Roma dall'8 marzo al 10 giugno al Teatro dei Dioscuri al Quirinale.

La grande attrice, 86 anni, ammalata da tempo, si e' ritirata dalle scene dall'inizio degli anni '90 ed e' apparsa in pubblico per l'ultima volta nel marzo del 2002, alla prima teatrale italiana di Notre-Dame de Paris a Roma.

Curata da Nevio De Pascalis, Marco Dionisi e Stefano Stefanutto Rosa, ideata e organizzata da Istituto Luce Cinecitta', l'esposizione esplora la personalita' e l'universo artistico di Maria Luisa Ceciarelli in arte Monica Vitti, in diversi capitoli: dall'Accademia, dove un suo grande maestro, Sergio Tofano, scopre il suo talento comico, al teatro, insieme fra gli altri ad Albertazzi diretta da Zeffirelli e anni dopo con Rossella Falk; dal doppiaggio (con tanto di postazione di video-ascolto) anche per Fellini e Pasolini all'incontro fondamentale, sentimentale e artistico con Michelangelo Antonioni, che la dirige in capolavori come L'avventura, La notte, L'eclisse, Deserto rosso e la ritrova nello sperimentale Il mistero di Oberwald.

"Per me e' stato un padre, un fratello, un amico. Era tutta la mia vita, perche' mi sentivo estremamente sicura vicino a lui, poi mi guardava con degli occhi che erano talmente pieni di attenzione.... - ha detto Monica Vitti -. Le storie sono nate dalla nostra vita, da lui e da me. Tutto comincio' insieme".

Si prosegue con la svolta della commedia che ha come simbolo La ragazza con la pistola di Mario Monicelli (uscito 50 anni fa) e viene portata avanti con registi come Scola, Risi, Steno, Salce, per 40 film tra anni '60 e '70. "Monica Vitti ha interpretato donne di tutte le estrazioni sociali, borghesi e popolari, spesso alla ricerca di autonomia e indipendenza" spiega Stefano Stefanutto Rosa.

Senza dimenticare le prove da autrice e regista con gli altri due grandi amori della sua vita, Carlo Di Palma, e il marito, sempre accanto a lei anche in questi ultimi anni segnati dalla malattia, Roberto Russo, da cui vengono anche alcune immagini della mostra (accompagnata anche dall'uscita di un omonimo volume) che ha visitato ieri nell'abituale riserbo.

Un ritratto della donna e dell'icona che prende forma grazie a oltre 70 foto (molte rare, provenienti oltre che dall'Archivio Luce, da quelli, fra gli altri, dell'Accademia Silvio D'Amico, del centro Sperimentale, di Elisabetta Catalano, Umberto Pizzi e Enrico Appetito); libri 'espansi' in digitale da sfoglia; documenti inediti, locandine, copioni, sue copertine famose in Italia e all'estero; interviste video e apparizioni televisive da Milleluci a Domenica in; interventi di amici e colleghi, di chi l'ha amata e conosciuta (fra gli altri, Giancarlo Giannini, Michele Placido, Dacia Maraini).

Fino a tanti filmati d'archivio e alcuni dei film piu' importanti della sua carriera (L'avventura, La ragazza con la pistola, Dramma della gelosia, Teresa la ladra, Flirt) che e' possibile scoprire o rivedere nella sala cinema del Teatro. 

Fonte: Francesca Pierleoni per ANSA

Qui sotto il video di una delle ultime - e più toccanti - apparizioni in video di Monica Vitti.



08/03/18

Le vite incredibilmente intrecciate di Nelly Sachs e Paul Celan.


Ci sono vite che sono misteriosamente intrecciate, come quella di Nelly Sachs, nata a Berlino nel 1891, sopravvissuta alla Shoah e  quella di Paul Celan, anche lui ebreo, e uno dei massimi poeti del Novecento. 

Nelly (Leony) Sachs era riuscita a scampare ai nazisti grazie ad una lettera scritta quando aveva poco più di 15 anni a Selma Lagerlhof, grande scrittrice svedese prima donna insignita del Premio Nobel per letteratura nel 1909.  

Dopo la morte del padre di Nelly, fu proprio Selma ad aiutare Nelly e la madre, ormai cadute in miseria e con lo spettro incombente della deportazione. Selma Lagerlhof morì nel 1940, poco prima che le due donne arrivassero in Svezia, salve.  

Le condizioni di vita di Nelly a Stoccolma furono inizialmente molto precarie ma, anche lavorando come lavapiatti, le permisero di entrare nel circolo culturale svedese, come traduttrice in tedesco della grade poesia svedese. 

La fuga, promossa dalla Lagerlhof, consentì a Nelly di salvarsi, insieme alla madre, dal campo di concentramento, dove finì l'intero resto della loro famiglia. 

La sindrome del sopravvissuto colpì Nelly nei suoi decenni in Svezia, dopo la fine della guerra, esattamente come accadde a Paul Celan - il quale, di origini rumene, visse direttamente le deportazioni che condussero gli ebrei di tutta Europa all'Olocausto, riuscendo a sfuggire, pur spedito  in diversi campi di lavoro in Romania; al contrario dei genitori catturati dai nazisti e fucilati nel campo di concentramento di Michajlovka, in Ucraina.  

Per Nelly, come per Celan, la poesia divenne il luogo in cui sublimare una parabola di dolore infinito, con l'interrogazione incessante sul senso del destino tragico umano. 

Era forse inevitabile che i due prima o poi si incrociassero. 

Nel 1954 la Sachs infatti inizia una lunga corrispondenza epistolare con Celan. 

Lettere bellissime e accorate che testimoniano di un comune sentire e di una stessa profonda sensibilità, oltre che di una immensa stima reciproca. 

In una di queste lettere Celan scrive alla Sachs: Penso a te, Nelly, sempre, pensiamo sempre a te e ciò che vive grazie a te! Ricordi ancora quando abbiamo parlato di Dio per la seconda volta, a casa nostra, del tuo Dio, il Dio che ti attende, ricordi che c'era il riflesso dorato sulla tua parete ? Sei tu, è la tua vicinanza, che permette di vedere il riflesso, c'è bisogno dite, anche in nome di coloro ai quali tu sei e ti pensi tanto vicino, c'è bisogno della tua presenza qui e tra gli uomini, c'è bisogno di te ancora e a lungo, c'è chi cerca il tuo sguardo; mandalo, quello sguardo, mandalo ancora all'aperto, consegnagli le tue parole vere, le tue parole liberatrici, affidati a lui, affida a noi, tuoi compagni di vita, della tua vita, questo sguardo, fai in modo che noi, già liberi, diventiamo i più liberi in assoluto, facci stare ritti, con te, nella luce! 

Qualche anno dopo, nel 1966, Nelly Sachs veniva insignita del Premio Nobel per la Letteratura. 

Al termine di anni molto duri, con grandi sofferenze psichiatriche e crolli fisici e psichici, Nelly mori il 12 maggio 1970, lo stesso giorno esatto in cui a Parigi si stava celebrando il funerale di Paul Celan, suicidatosi pochi giorni prima, gettandosi nelle acque della Senna.


Fabrizio Falconi
2018 - riproduzione riservata

notizie tratte da: Elena Buia Rutt, La scrittura come unico appiglio, in Donne Chiesa Mondo, numero 66, marzo 2018, pag. 36 e seguenti. 

+++ Identificati i resti della Leggendaria Pilota Amelia Earhart nel Pacifico.



I resti trovati nel 1940 su una remota isola dell'Oceano Pacifico appartengono ad Amelia Earhart, la leggendaria pilota americana scomparsa nel 1937mentre volava sopra il Pacifico. 

Lo ha stabilito una nuova analisi pubblicata sulla rivista Forensic Anthropology e condotta da Richard Jantz, del Centro di Antropologia Forense all'Universita' del Tennessee, che ha riesaminato le misurazioni fatte nel 1940: all'epoca i resti erano stati attribuiti ad un uomo. 

06/03/18

Il Mistero dei Buchi nel Colosseo.




Tra le molte leggende che hanno accompagnato la vita del Colosseo - se ancora oggi procura una così grande impressione ai turisti che vengono a vederlo, figurarsi cosa dovesse sembrare questo monumento in epoca medievale, già diversi secoli dopo il crollo dell'Impero Romano - alcune, assai curiose, hanno riguardato i famosi buchi, quelle fessure che costellano tutta la superficie visibile dell'Anfiteatro, nella sua parte più antica. 

Tra queste una delle più curiose e persistenti fu quella secondo cui i buchi erano stati fatti dai lanzichenecchi che li riempirono di polvere da sparo con l'idea di far saltare in aria il monumento. 

La stessa leggenda riferiva che il tentativo fosse andato a monte, ribadendo e rinforzando l'alone di immortalità che da sempre avvolgeva il Colosseo.  

Molto più prosaicamente, in tempi più recenti, si è giunti alla conclusione che queste fessure altro non sono che le tracce lasciate dalle cosiddette grappe, che i romani usavano - nel loro genio architettonico - per rinforzare le strutture del travertino, e collegare i diversi blocchi. 

Questo ferro - una quantità imponente che secondo alcuni raggiungeva il peso complessivo di 300 tonnellate - fu gradualmente asportato durante il Medioevo, rendendo certamente il monumento più fragile. Anche se, proprio in virtù della grandezza degli antichi costruttori, il Colosseo è riuscito a rimanere sempre in piedi, nonostante questo. 

Questi buchi, comunque, si sono poi dilatati con il tempo, e certamente anticamente non erano visibili, perché tutta la superficie del gigantesco monumento era rivestita da enormi lastre di travertino, anche queste spogliate senza ritegno nel corso dei secoli e usate per edificare dimore di nobili e principi romani. 

Fabrizio Falconi
2018 - riproduzione riservata



05/03/18

A Roma, al Vittoriano, la prima mostra di Liu Bolin, l'artista che "scompare dentro le cose".


Si immerge nelle cose e scompare, cambia colore e si mimetizza come un camaleonte, entra a far parte dell'ambiente circostante usando il corpo come strumento di conoscenza: arriva a Roma "the invisible man" Liu Bolin, protagonista della prima grande antologica in Italia allestita al Complesso del Vittoriano dal 2 marzo al 1 luglio. 

A cura di Raffaele Gavarro, la mostra presenta al pubblico l'intera storia dell'artista cinese, celebre per la sua capacita' di restare immobile come una statua e mimetizzarsi in ciò che ha intorno grazie a un accuratissimo body painting. 

Il percorso di snoda lungo 72 opere che documentano la nascita e lo sviluppo di quel linguaggio personalissimo, frutto di un mix di pittura e fotografia ma anche di performance e installazioni, che rende Bolin del tutto originale. 

Ormai acclamato in tutto il mondo, l'artista ha iniziato la rivoluzione del 'camouflage' nel 2005: in quell'anno infatti il governo cinese decise di abbattere il quartiere Suojia Village di Pechino, dove Bolin, cosi' come tanti altri artisti, aveva il suo studio

Come atto di ribellione, Bolin si mimetizzo' tra le macerie del suo studio e si fece fotografare, iniziando una protesta silenziosa attraverso la sua presenza corporea

E proprio da quell'immagine e' iniziata una carriera, ormai lunga 13 anni, dal successo sorprendente, che la mostra romana racconta attraverso 7 sezioni tematiche

Il visitatore vedra' Bolin 'nascondersi' nella sua Cina, da Piazza Tienanmen alla Grande Muraglia, e poi riconoscera' il nostro Paese, dove l'artista ha vissuto l'esperienza di un vero e proprio Grand Tour italiano, misurandosi con le bellezze del nostro patrimonio artistico, dal Colosseo alla Reggia di Caserta (questi scatti sono stati realizzati appositamente per la mostra), dal Canal Grande di Venezia alla Scala di Milano fino all'Arena di Verona

Non mancano incursioni nella moda dei grandi stilisti, come Valentino e Missoni o Moncler, per il quale Bolin e' protagonista di una nota campagna pubblicitaria, o nel mito della Ferrari. 

La sua ricerca artistica e' pero' molto di piu' che un semplice nascondersi nell'ambiente. 

Lo dimostrano gli scatti che lo ritraggono in una centrale di smaltimento di rifiuti a Bangalore, o quelli dedicati ai flussi migratori, con la sua immedesimazione nei corpi che viaggiano tra mari e confini alla ricerca di un futuro. "Io mi sono formato come scultore, ma nel 2005 quando il governo ha distrutto il mio studio ho capito che con la scultura non avrei potuto esprimere il senso di ribellione che provavo. Mi era rimasto solo il corpo, non avevo altri strumenti", ha detto oggi Bolin alla presentazione della mostra, "in 13 anni ho cercato di comprendere l'interazione tra l'uomo e la realta', provando a dare voce alla spiritualita'"

Il lavoro dell'artista, come ha affermato il curatore Gavarro, "e' senza dubbio politico, perche' e' connesso a un'idea di conoscenza, e' un farsi parte delle cose", un tentativo di interpretare silenziosamente la complessita' del mondo contemporaneo. 

04/03/18

Poesia della Domenica: "Credevo" di Rabindranath Tagore.

Rabindranath Tagore con Albert Einstein, 1931

Credevo

Credevo che il mio viaggio
fosse giunto alla fine
mancandomi oramai le forze.
Credevo che la strada
davanti a me
fosse chiusa
e le provviste esaurite.
Credevo che fosse giunto
il tempo
di trovare riposo
in una oscurità pregna
di silenzio.
Scopro invece
che i tuoi progetti
per me non sono finiti
e quando le parole ormai
vecchie
muoiono sulle mie labbra
nuove melodie nascono dal
cuore;
e dove ho perduto le tracce
dei vecchi sentieri
un nuovo paese mi si apre
con tutte le sue meraviglie.

03/03/18

Dieci foto, le Dieci Grandi Anime di cui si parla in "Cercare Dio" di Fabrizio Falconi.

Ecco dieci ritratti delle dieci Grandi Anime di cui si parla in Cercare Dio, di Fabrizio Falconi, appena uscito da Castelvecchi Editore, in tutte le librerie. 

Etty Hillesum (1914-1943)

Jiddu Krishnamurti (1895-1986)

Ingmar Bergman (1918-2007)

Frère Roger Schutz (1915-2005)

Dag Hammarskjöld (1905 – 1961)

Antonia Pozzi (1912-1938)

Andrej Tarkovskij (1932-1986)


Raimon Panikkar (1918-2010)


Clive Staples Lewis (1898 – 1963)


Pavel Florenskij (1882-1937)


02/03/18

Libro del Giorno: "Atlante Occidentale" di Daniele Del Giudice, un grande romanzo da recuperare.




Ho riletto questo libro trent'anni dopo la prima volta. 

Daniele Del Giudice, romano, classe 1949, una vita vissuta tra Roma e Venezia aveva esordito un paio d'anni prima con Lo stadio di Wimbledon, sotto l'ala protettiva di Italo Calvino che l'aveva scoperto chiedendosi se quel primo romanzo "costituisse un nuovo approccio al racconto, secondo un nuovo sistema di coordinate". 

La conferma arrivò con Atlante Occidentale, pubblicato nel 1985 che rappresentò una sorta di folgorazione per una giovane generazione di lettori, me compreso. 

Ero perciò curioso di verificare quale sarebbe stata la mia impressione dopo un così consistente numero di anni. 

Nel frattempo la carriera di Del Giudice, dopo altri  3 romanzi pubblicati - Nel museo di Reims (1988) Orizzonte mobile (2009) e In questa luce (2013) - si è incagliata in dolorose vicende personali con una malattia molto seria che ha compromesso in modo rilevante la sua produzione di scrittore. 

Atlante Occidentale, però, rimane un unicum nella produzione letteraria italiana degli ultimi decenni, qualcosa di completamente diverso rispetto alla medietà delle storie, delle ambientazioni e soprattutto dello stile abituale, soprattutto degli esordienti o post esordienti. 

Del Giudice, dunque, nel pieno degli anni '80 dell'effimero italiano, dell'Italia da Bere, dell'edonismo e dei paninari, sfornò un'opera che obbediva sorprendentemente ai canoni delle Lezioni di Calvino: leggerezza (il romanzo si apre addirittura con una lunga scena di volo, durante la quale due aereoleggeri rischiano di scontrarsi), rapidità (soltanto 152 pagine), esattezza (una cura maniacale nella ricerca delle parole) visibilità (è il vero tema del libro, tutto giocato sulla differenza, sul contrasto tra visibile e invisibile), molteplicità (l'utilizzo di uno stile assolutamente originale che utilizza la narrazione al passato e al presente in un continuo alternarsi anche dentro lo stesso capoverso), coerenza (un'opera che si conclude e offre quel che ha da dire, senza perdersi in divagazioni o sviluppi incoerenti).

Una trama apparentemente poco accattivante per il pubblico (di allora come di quello di oggi) e altamente sofisticata: un fisico italiano - Pietro Brahe - impegnato a tempo pieno (notte e giorno) nei complessissimi lavori dell'acceleratore nucleare del CERN di Ginevra e un grande scrittore alla soglia del massimo riconoscimento - Ira Epstein - che ha deciso di non scrivere più ed è interessato alla realizzazione di un Atlante della Luce, l'atlante di una geografia diversa, dove si vede a grandezza naturale ed è legata non solo ai luoghi, ma alle persone.

Incrociatisi per caso sul campo di volo, Brahe e Epstein diventano conoscenti e poi amici sullo sfondo della asettica Svizzera di bianche villette e giardini e cielo bianco e azzurro estivo, e villaggi tranquilli e silenziosi, e lungolaghi eleganti e auto di lusso.

Il dialogo è soprattutto filosofico. Brahe è concentrato a trovare le cose che non si vedono: a trovare le tracce di sfuggentissime particelle subatomiche nel grande anello dell'acceleratore; Epstein è invece interessato a capire come si formano le cose che lui vede nella sua mente e che sono già vere, prima di divenire parole.  

Lunghe dispute avvengono dunque su questo sfondo argomentativo, mentre si affiancano altri personaggi: l'assistente di Epstein, Gilda; il collega e sodale di Pietro, il tedesco Rudiger, il capoprogetto Mark.

E' un romanzo fatto di attesa e di tempi sospesi, dove nulla di reale sembra succedere veramente. Dove, come si rivela nelle ultime pagine, ciò che conta è l'esistenza di un sentimento che dà forma alle parole e che allo stesso tempo prende forma dalle parole stesse.

Il virtuosismo di Del Giudice, mai fine a se stesso, è tale, che nell'epilogo del libro, si può mettere in bocca ad Epstein una descrizione di fuochi d'artificio (a cui assistono i due protagonisti) lunga 7 pagine. 

Dopo molti anni, il romanzo di Del Giudice conferma la sua grande novità, mantenendo intatto il suo fascino enigmatico (in fondo anche profetico viste le incredibili sorprese che l'acceleratore Large Hadron Collider ha portato negli ultimi tempi con la scoperta del Bosone di Higgs) e accresce il rammarico che l'opera di questo autore non abbia potuto dispiegarsi completamente.

Un romanzo sui generis, in controtendenza rispetto al gusto comune e non facile, ma strettamente rigoroso, in termini, lingua e contenuti.

Che segna la distanza temporale dall'oggi se non altro per la constatazione che un romanzo come questo, nella Italia di oggi,  non troverebbe mai un editore disposto a pubblicarlo. 

Daniele Del Giudice 
Atlante occidentale 
1985-2009 
Einaudi Scrittori 
pp. 178 € 11,00 

Fabrizio Falconi
- riproduzione riservata 2018.

Straordinario ritrovamento a Roma durante gli scavi per la Metro C: ritorna alla luce la "Casa del Comandante" !




Roma non finisce mai di stupire. La notizia clamorosa è che gli scavi per la Metro C di Roma hanno portato alla luce 'la Casa del Comandante':  una domus collegata ai dormitoria della caserma di impianto traianeo e poimodificata da Adriano, dormitoria scoperti nel 2016. 

"È una scoperta eccezionale perché a Roma non e' mai stata individuata ne' scavata archeologicamente una caserma e mai trovata una domus collegata alla caserma stessa", ha spiegato Rossella Rea responsabile dello scavo

La scoperta e' stata effettuata durante i lavori alla stazione della Metro C Amba Aradam

La "Domus del Comandante" e' stata ritrovata a 12 metri sotto il livello della strada.  


Ora verrà smontata, livello per livello, e delocalizzata, cioe' spostata in container riscaldati per continuare gli scavi della metro C

"Ho gia' parlato con Cantone che mi ha assicurato che il luogo verrà reso fruibile al pubblico e tutto il ritrovamento rimesso al suo posto; come questo avverra', compatibilmente con la metro C, si vedra'. Mi sono gia' assicurato progetto e finanziamenti", ha detto Francesco Prosperetti, soprintendente ai Beni Archeologici di Roma che ha interpellato il presidente dell'Anac, Raffaele Cantone, in quanto l'Autorita' nazionale anticorruzione sovrintende a tutte le opere pubbliche