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29/04/24

"La Zona d'Interesse" NON è un film sulla "banalità del male", ma sulla "banalità di CHI COMPIE il male" !


A proposito de "La Zona di Interesse" di Jonathan Glazer, mi rammarica che ad esso sia stata appiccicato lo slogan stra-logoro e ormai insentibile (che di esso il film dovrebbe essere emblema) di "Banalità del male".

Il titolo del famoso saggio del 1964, di Hannah Arendt, che assistette da giornalista all'intero processo Eichmann a Gerusalemme, è infatti ormai diventato uno straccio buono per tutto, che viene pronunciato a casaccio e senza tenere minimamente conto del contesto originale in cui fu utilizzato dalla grande filosofa.
Mi dispiace, in particolare, che lo abbia usato, per "La Zona di Interesse" anche Steven Spielberg ( "La zona d'interesse è il miglior film sull'Olocausto che ho visto dai tempi del mio" ha detto recentemente il regista al The Hollywood Reporter. "Questo film fa un ottimo lavoro nel sensibilizzare l’opinione pubblica, soprattutto sulla banalità del male") in un commento poco elegante sul film di Glazer che era candidato e ha vinto meritatamente l'Oscar 2024, come miglior film internazionale.
Ancora una volta, bisognerebbe chiarire (e tener conto) che Hannah Arendt, quando andò ad occupare i banchi del pubblico/stampa che assisteva al processo ad Adolf Eichmann, il "tranquillo burocrate" che organizzò minuziosamente e diresse l'intero piano di sterminio degli ebrei, rom, omosessuali, disabili, ecc... nei lager nazisti, osservò, giorno dopo giorno, quanto fosse "umanamente" così poco interessante quel tizio, che qualche settimana prima gli agenti del Mossad avevano finalmente rintracciato in Argentina dove si nascondeva da 20 anni sotto falso nome, prelevandolo con un'azione spettacolare e portandolo fino a Gerusalemme per processarlo di fronte ad un'autorità giudiziaria israeliana.
Eichmann apparve alla Arendt per quello che era: un grigio e insignificante burocrate, che viveva la sua vita mediocre e meschina, occupandosi di organizzare i forni crematori per gli ebrei e ogni loro tortura con la stessa "efficente cecità" con cui un altro si occuperebbe di pratiche del catasto.
Un uomo che fuori di questo suo compito, che svolgeva senza porsi la minima domanda morale, era un uomo "normalissimo", che la sera, dopo aver disposto l'uccisione per fame, inedia, o docce allo zyklon di migliaia di persone, tornava a casa, giocava con il suo cane lupo e con i bambini, esattamente come si vede ne "La Zona di Interesse" tratto dallo sconvolgente libro di Martin Amis che descrive la vita familiare, a pochi metri dal campo, del direttore di Auschwitz, Rudolf Hoss.
Bene, ciò che è molto chiaro, a chiunque legga o abbia letto il libro della Harendt, è che la filosofa non parla mai di un "male banale", come purtroppo suggerisce la frase diventata ormai un cliché anche offensivo nei confronti delle vittime. Il male per la Arendt non può MAI essere banale (come potrebbe esserlo del resto?): il male è spaventoso, agghiacciante, orrendo, repulsivo e tutto quello che si può definire. E chiunque lo subisce, lo sa.
Per la Arendt "banale" non è il "male", ma sono - molto spesso - QUELLI CHE LO COMPIONO. Per compiere il male, infatti, non bisogna essere geni o molto intelligenti (anche se viviamo in un'epoca nella quale si mitizzano perfino i serial killers o i gangsters): Stalin e Hitler erano due pover'uomini, intellettivamente limitati, semi-analfabeti, falliti nelle loro rispettive vite prima di inventarsene una dedicata a esercitare il terrore.
Il male è qualcosa che può essere fatto da chiunque, anche da un idiota, anche da chi non sa o non conosce niente. Per questo è praticato molto spesso da persone "ordinarie", meschine, mediocri.
E' semmai il bene che, anche in un'anima semplice, è molto più difficile da compiere sul serio. E per il quale è necessario lo sviluppo di doti umane più elevate e profonde.
Il generale Hoss - descritto da Glazer - non è molto diverso dall'Eichmann della Arendt: un uomo spaventosamente vuoto, senza nessuna conoscenza o consapevolezza di se stesso, un manichino al servizio di un potere che lo utilizza come un arnese, uno strumento, e da cui lui si fa utilizzare a peso morto, con l'illusione di poter, per questo, avere diritto a una qualunque identità.
La Banalità del Male è dunque molto più propriamente: "La Banalità di CHI COMPIE il male". E forse bisognerebbe cominciare a riformularla in questi termini, anche per rispetto di chi non è morto e non può mai essere morto, per una "banalità", ma per qualcosa di spaventoso che (ci) rende al termine della proiezione di un film come quello di Glazer, pieni di vergogna per appartenere alla stesso genere umano cui sono appartenuti mostri (anche i mostri, ahimé possono essere banali) come Eichmann e Hoss.

Fabrizio Falconi - 2024

22/04/24

Ma perché così tanti errori in "Ripley", la serie Netflix di Steven Zaillian ?


"Ripley" (su Netflix) va a diventare la serie dell'anno, ma perché tutti quegli errori?

Ho provato a capire perché in un prodotto di così grande qualità vi siano così tante inverosmiglianze, dettagli, ricostruzioni sbagliate, incoerenze dei luoghi, dei tempi e della sceneggiatura, e alla fine l'unica risposta che mi convice è quella che scherzando, ma non tanto, un amico mi ha dato: "Perché Zaillian (regista e sceneggiatore della serie, colosso del cinema americano, premio Oscar per Schindler's List, e sceneggiatore di molti film di Scorsese) si sente come il Cavaliere Nero, nella celebre barzelletta raccontata da Gigi Proietti, e a lui non puoi... "rompere le scatole" (eufemismo).
La fulminante battuta sembra in effetti l'unica spiegazione possibile: Zaillian è un maestro troppo esperto per mettere in scena questa sequela di piccoli e grandi errori/orrori senza averlo voluto. Probabilmente, dunque, trattasi di una ostentazione/provocazione voluta: "la storia la conoscete già, ora mi diverto a fare quello che voglio".
Il fatto è che sono talmente tante e alla fine - almeno a me- hanno un po' rovinato il gusto estetico di una grande serie che trova i suoi due punti di forza 1) nella magnifica interpretazione di Andrew Scott (un cupo misantropo, misogino, bugiardo, cinico, manipolatore che in fondo non ha nessuno scopo che quello di produrre il male - per tutta la serie non ha praticamente il conforto di un solo amico, di una persona che conosce, di una situazione relazionale (uomo o donna), il suo è un moto perpetuo fine a se stesso, che non è basato sull'appagamento); 2) nel grandioso bianco e nero di Rober Elswit, anche lui premio Oscar e fotografo di film importantissimi.
Ecco dunque in ordine sparso, le molte cose che - specialmente a un pubblico italiano (l'intera serie è ambientata in Italia tranne un brevissimo prologo newyorchese) - risultano incomprensibili e in alcuni casi veramente grottesche:
- La prima volta che Ripley passa per Napoli, Zillian ci mostra le consuete "cartoline", scorci della città. Il primo tipo che vediamo seduto al bar però legge chissà perché "La Stampa" di Torino.
- Quando Dickie propone a Tom di andare a Sanremo nessuno spiega il perché. Che cosa deve andare a fare Dickie a Sanremo e d'inverno, poi?
- Appena scesi a Sanremo, i due vanno a dormire in un albergo. La mattina dopo seguiamo Dickie che va a cercare un profumo per Margie. Tom lo aspetta fuori dal negozio. Subito ci accorgiamo che tutti gli scorci fotografati all'esterno, non sono di Sanremo ma di Roma, finché non compare addirittura e resta per parecchio, la facciata della Chiesa di Sant'Eustachio a Roma, con l'immancabile cervo e il suo campanile. Non possono essere nemmeno "ricordi" di Tom, perché lui fino a quel momento non è mai stato a Roma. Tutta Sanremo, chissà forse per questioni di budget, è stata filmata con scorci tutti riconoscibili di Roma.
- La scena dell'omicidio sulla barca (lunghissima, occupa quasi tutta la puntata) è una sequenza di assurdità: dopo aver ucciso Dickie, Tom cade in acqua come Fantozzi dopo aver acceso involontariamente il motore della barca. Come si è raccontato nelle puntate precedenti lui non sa nuotare bene e ha paura dell'acqua: eppure, da vero supereroe, resta a galla mentre per due o tre volte la barca gli passa sulla testa, riceve un colpo in testa dal blocco di cemento che fa da ancora, sviene, resuscita sempre in acqua, riesce a prendere al volo la corda che passa trainata dalla barca a tutta velocità, si issa a forza di mani, arriva a 1 centimetro dall'elica senza essere risucchiato, riesce a spegnere il motore e risale sopra.
Poi, quando torna a riva e dopo mille capriole in acqua, ha ancora tutti gli oggetti di Dickie nelle tasche e perfino l'accendino - che gli serve per incendiare la corda dell'ancora e tagliarla - funziona perfettamente al primo clic. E' tutto ben pettinato, non si cambia i vestiti, rimane con quelli inzuppati addosso, e sale sul treno con quelli.
- Anche l'omicidio di Freddy Miles è pieno di assurdità. Dopo averlo ucciso e avergli spaccato il cranio, lo porta a spalle a mezzanotte (non le cinque di mattina) giù in ascensore e per le scale del palazzo; naturalmente per tutto il tempo non incontra anima viva, imbratta di sangue tutto, ascensore che si blocca e lo costringe a uscire a metà delle rampe, scale, pianerottolo, ecc... si assenta per un sacco di tempo per arrivare fino all'Appia Antica, tornare a piedi e in taxi, quando torna nessuno l'ha scoperto e lui pulisce gli ettolitri di sangue lasciati in giro con una pezzetta di 10 cm. quadrati (la mattina dopo, l'imbranata portiera-Buy pensa che le chiazze di sangue siano quelle di un topo...)
- Il commissario romano Ravini, è il personaggio più divertente e assurdo: nei primi anni '60 è un romano poliglotta, che parla un inglese più fluido di quello di Carlo d'Inghilterra e anche il francese, perfetto, ma non sa pronunciare il cognome Miles (nome comunissimo) che invece di "Mails" pronuncia incomprensibilmente per tutta la serie "Milasi". Ravini è un brocco, e però un brocco simpatico. Uno a cui piace fare conversazioni, ma parlare lui. Le notizie sui crimini su cui sta indagando gli interessano poco o niente. Nonostante i sospetti evidenti, lascia Tom libero di andarsene a villeggiare a Palermo.
- Anche molti altri personaggi italiani della serie parlano un inglese fantastico, ma poi chissà perché il noleggiatore delle barche di Sanremo ha l'accento romano, come anche un antiquario di un negozio di Napoli.
- Dopo l'omicidio di Dickie, Tom va in giro per due giorni presentandosi in giro, anche nelle reception degli alberghi, con il passaporto di Dickie e la foto di Dickie. Ma nessuno, guardando la foto sembra capace accorgersi che con ogni evidenza, non è lui. E soltanto dopo il secondo giorno cambia la foto sovrapponendo la sua foto su quella di Dickie.
- La questione delle foto poi è assurda: l'omicidio di Miles, di cui Dickie/Tom viene ritenuto responsabile, va a finire su tutti i giornali italiani, tutti i giorni, ma nessuno mette mai una foto dello scomparso e ricercato Dickie, anche semplicemente quella del passaporto o una delle mille che potrebbe fornire Marge, che Ravini va a trovare fino ad Atrani e che fa la fotografa (una qualsiasi foto di Dickie, ovviamente metterebbe fine immediatamente al giallo, evidenziando che Tom si spaccia per lui). E naturalmente lo stesso Ravini non pensa neanche lontanamente a chiedere a Marge che gliene mostri qualcuna.
- Marge, la fidanzata di Dickie è poi una specie di bella addormentata nel bosco. Scompare (a Sanremo per fare cosa?) il suo fidanzato in compagnia di un uomo di cui lei subito diffida e che gli appare come un truffatore, e non fa nulla. Ci mette una vita a mettersi in moto, arriva a Roma e anziché aspettare Dickie sotto casa, si accontenta delle 3 cose in croce che gli dice Tom e se ne torna serenamente a casa.
- Il massimo dell'inverosimiglianza poi è quando, nell'ultima puntata, Ravini viene al corrente del fatto che Tom è vivo e che vive a Venezia. Naturalmente lo va ad incontrare, e alla prima occhiata dovrebbe accorgersi che è il falso Dickie (cioè la stessa persona che ha incontrato sotto le vesti di Dickie fino a quel momento e con cui si è incontrato e ha parlato tante volte) camuffato sotto un burlesco travestimento a metà tra diabolik e la commedia dell'arte, e invece non solo non lo riconosce (anche se perfino la voce è identica e inconfondibile, e poi il volto è praticamente lo stesso), ma ci conversa abilmente del più e del meno, gli stringe la mano da 2 cm. di distanza e se ne torna serenamente a casa.
A nota bisognerebbe poi aggiungere tutte le inesattezze/errori/assurdità a proposito di Caravaggio i cui quadri, a Roma, e poi a Napoli e Palermo diventano l'ossessione del fuggitivo Tom. Una per tutte, nella ricostruzione seicentesca all'inizio della 6a puntata, in costume, Ranuccio Tomassoni - l'uomo che fu assassinato da Caravaggio viene fatto morire sulla riconoscibilissima Salita dei Borgia, che non c'entra niente con i luoghi originari, visto che il ferimento a morte avvenne notoriamente nel campo della Pallacorda, in Campo Marzio. Quando poi le guardie pontificie fanno irruzione nella casa/studio del pittore, vi trovano la Crocefissione di San Pietro, il quadro che si trova oggi nella Cappella Cerasi di Santa Maria del Popolo e che Caravaggio ha dipinto parecchio tempo prima del fattaccio che lo costringe a lasciare Roma.
Vabbè, questo è soltanto una piccola selezione ed era un po' per puntualizzare un po' per divertimento. Onore comunque al merito di Zillian, Elswit, Andrew Scott e tutti i bravi attori (purtroppo Malkovich si vede per 30 secondi in tutto) stranieri e italiani, e pure del povero imbranato Ravini, per sei serate trascorse comunque nella beatitudine di immagini meravigliose.

Fabrizio Falconi - 2024

19/04/24

"L'età grande" di Gabriella Caramore - Recensione


E' un bellissimo libro e merita il successo che ha avuto finora, quello di Gabriella Caramore, "L'età grande", uscito per Garzanti.
E' importante per il tema affrontato, certamente, quello della vecchiaia, un tema che oggi veleggia tra la rimozione generalizzata e la banalizzazione merceologica/consumistica.
La vecchiaia nell'era del libero liberismo e dell'irresponsabilità inconsapevole ha perso i contenuti di autorevolezza e rispetto per i quali era da secoli riconosciuta e considerata.
Eppure è un tempo a cui bisognerebbe tornare a dare struttura oltre che dignità. E' quello che fa Gabriella Caramore in questo libro molto lucido, che evita i toni consolatori, che chiama le cose per il loro nome e affronta di petto la durezza di trovarsi ad affrontare il "tempo penultimo" della vita, quello nel quale il corpo e la mente, solitamente, cominciano a cedere il passo, e l'orizzonte degli eventi e degli interessi si restringe progressivamente.
E' però un tempo di vere opportunità, sostiene Caramore, se si ha la fortuna di arrivarci (purtroppo molti se ne vanno prematuramente) e di arrivarci in condizioni buone o accettabili, di salute.
Caramore incoraggia a tenere gli occhi e le orecchie aperte, anche e soprattutto in questo tempo. Anche se il traguardo appare già scritto e l'autrice è profondamente convinta, come molti, che la morte sia la reale fine di ogni tutto e quindi anche di quello che si è fatto e che si lascia, che può sopravvivere - labilmente e per poco - come la traccia del volo di una foglia quando si distacca dal ramo.
Ciò nonostante, Caramore insiste che questo tempo - e il modo in cui lo si può "spendere" - è molto importante o può esserlo.
E numerose considerazioni di uomini e donne illustri confortano questa convinzione, oltre al volo dello spirito che si è incarnato o ha preteso di farlo, nella storia mortale umana, come sa bene Caramore, per decenni conduttrice di un magnifico programma radiofonico su RadioTre, "Uomini e profeti".
Le parti più preziose del libro sono forse quelle in cui le considerazioni "oggettive" e le analisi sempre equilibrate sulle implicazioni del vivere "da vecchi", cedono il passo a ricordi personali dell'autrice, memorie, impressioni rimaste come impronte, frammenti poetici offerti dal presente, come le passeggiate solitarie che la Caramore si concede in luoghi di pace miracolosa, come la Basilica di San Giovanni a Porta Latina, a Roma, uno spazio di "paradiso" in terra, nel bel mezzo del caos infernale di una metropoli.

Una lettura che fa bene, non solo al cuore. 

09/04/24

Appunti a margine della lettura de "Il dottor Živago" di Boris Pasternàk


 Appunti a margine della lettura de Il Dottor Zivago

Pur non appartenendo al periodo d'oro tra il 1850 e il 1910, ed essendo invece stato scritto più avanti e completato soltanto nel 1957, Zivago risente della grande tradizione russa, innanzitutto perché Pasternak cominciò a lavorarvi quando aveva 20 anni, e alcune parti risalgono dunque al 1910 e al 1920.
Forse anche per questo lunghissimo periodo di gestazione, Zivago è uno strano romanzo, poco organico nelle diverse parti e nella intensità del racconto.
Il fatto che nel pieno degli anni Sessanta, grazie anche all'incredibile spy story che permise al romanzo di arrivare in Italia (per opera di Giangiacomo Feltrinelli) e poi di essere tradotto in tutti i paesi occidentali, sicuramente ne ampliò a dismisura l'impatto sui lettori di allora.
Si era in piena Guerra Fredda. Ciò che filtrava dalla Cortina di Ferro, di quella vita, di quel mondo, era poco e incerto. La Russia Sovietica una specie di mondo a parte, di cui si sapeva quasi niente, lontano e minaccioso.
Quando arrivò Zivago, dunque, fu subito clamore. Amplificato dalla riduzione per il cinema che subito ne fece David Lean (1965), con il kolossal divenuto fenomeno di massa sopra ogni previsione (nell'intera storia del cinema in sala italiana, Zivago è ancora oggi il film più visto in assoluto, con circa 23 milioni di spettatori - quasi il doppio di "Titanic").
Eppure Zivago è un romanzo di difficile lettura. Quanti, all'epoca, lo lessero veramente? Quanti di quelli che lo comprarono? Quanti di quelli che poi corsero a vedere il film? Credo una piccola parte.
Il film di Lean è poi una riduzione molto molto libera del romanzo. La storia d'amore, che nel film è centrale, in tutto il libro di Pasternàk occupa non più di 120 pagine (sulle 600 del romanzo). Lara Fedorovna, la "protagonista", compare in ancora meno pagine di queste:
l'incontro di Zivago e Lara descritto nel romanzo, che si svolge in un modo quasi del tutto casuale (il colpo di pistola di Lara a Komarovskij) ed è lungo soltanto due pagine, i giorni in cui la rivede al fronte- lei crocerossina alla ricerca del marito Pasa, lui arruolato come medico - e poi nelle due incantate settimane che trascorrono insieme alla fine della guerra civile, quando Tonja, la moglie, e i figli sono scappati all'estero, a Parigi, e il marito di Lara, Strelnikov è diventato il capo dei rossi.



Per questo Lean decise di inserire, nella sceneggiatura, altre occasioni di incontri, che nel romanzo non ci sono, come quello di Zivago come assistente del professore, per soccorrere l'amante di Komarovskij in fin di vita, al termine del quale Zivago e Lara intercettano i loro sguardi attraverso un vetro.
Per il resto, il vero protagonista del romanzo è l'incomprensibile - specie per chi non è russo - mondo russo, nel suo periodo più caotico, dalla rivoluzione d'ottobre alla terribile guerra civile che ne seguì.
Il romanzo è popolato da almeno un centinaio di personaggi, ciascuno con un suo limitato spazio, però molto spesso ricorrente, ciascuno con i classici nomi russi resi ostici per via della presenza del patronimico (il dizionario finale della edizione Feltrinelli, che è lungo quindici pagine, è poco utile, perché non inserendo l'ordine alfabetico dei patronimici risulta di difficile consultazione).
La lettura è resa impervia oltre che dall'affollarsi di mille personaggi, anche da descrizioni lunghissime (ma spesso stupende) dei luoghi, degli ambienti, delle vicende, dei viaggi estenuanti, degli incontri casuali, che non generano conseguenze.
Carmelo Bene raccontava di aver lasciato il romanzo a metà. Per un lettore di oggi questo è ancora più facile, e con i criteri editoriali di oggi - specialmente in Italia - nessuno dei famosi "editor" pubblicherebbe oggi, temo, un romanzo così poco strutturato sui violenti parametri imposti oggi dalla legge "commerciale".
Detto questo, Zivago è un romanzo straordinario. Forse l'ultimo grande romanzo "umanista": Juri Andreevic è l'eroe passionale, vittima e testimone della follia del mondo degli uomini, che si ammazzano e si scannano per assurdità e non sanno nulla della vera vita, perché non ne riconoscono nulla della sua poesia e dell'incanto.
Ogni pagina di questo romanzo, è una sofferente lezione di vita.
Leggerlo o ri-leggerlo oggi è altamente consigliabile: un puro antidoto alla superficialità (non "leggerezza") inane del mondo contemporaneo.

Fabrizio Falconi - 2024

30/03/24

A proposito di Carlo Rovelli e del teologo Tanzella Nitti e del "fine tuning", la "fine regolazione" che permette all'Universo di esistere


Ho letto qualche giorno fa sul Corriere l'interessante articolo nelle pagine centrali della cultura firmato a quattro mani dal brillante fisico Carlo Rovelli e dal teologo cattolico Giuseppe Tanzella-Nitti, nel quale i due intendono smontare dalle fondamenta le congetture che riguardano il “fine tuning” e il “principio antropico”.

Come forse qualcuno saprà, "fine tuning", che significa "regolazione precisa (o fine o accurata)" è quella corrente attuale del pensiero scientifico che meravigliandosi non poco della "precisione" incredibile delle condizioni iniziali e delle costanti fondamentali (si contano sulle dita di una mano, ma sono precisissime e reggono in piedi tutto l'universo dal momento in cui si è formato - il Big Bang e per 13.5 miliardi di anni della sua storia e anche noi che ci siamo dentro), che presiedono la dinamica dell’Universo e che secondo alcuni scienziati sono “provvidenzialmente” tali da garantire la nostra vita e l’esistenza del mondo animato o inanimato che ci circonda.

Come ha chiarito la scienza astrofisica, basterebbe uno "sforamento" minimo o impercettibile di una di queste costanti che regolano tutto l'universo, perché esso non esistesse affatto e nemmeno noi dentro ad esso.
Tanto per fare un esempio, per il biofisico Harold Morowitz la probabilità che la più semplice cellula di vita nasca per caso, è esprimibile da un numero pari a 0, seguito da altri 340.000 zeri.
Oppure secondo il grande cosmologo di Cambridge, Fred Hoyle per tanti anni ateo e poi convertitosi all'antiateismo: "la teoria che vuole che vuole che la vita sia stata creata da una intelligenza superiore è talmente ovvia che ci si chiede perché non sia comunemente accettata. Le ragioni sono di ordine psicologico, anziché scientifico."
Le osservazioni sul "fine tuning", sono state recentemente rilanciate da un libro di due studiosi, diventato un enorme successo in Francia e ora tradotto in italiano dall'editore Sonda, dal titolo "Dio, la scienza, le prove."

Ed è proprio contro questo libro - e più in generale contro qualunque versione del "disegno intelligente" che i due - Rovelli e Tanzella Nitti si scagliano, con toni assertivi, che non ammettono replica (sono "sciocchezze" e "maldestri" e "sbagliati" gli argomenti portati a favore).
Rovelli e Nitti si lanciano anzi, nell'articolo, in una confutazione della tesi del "fine tuning" come indizio della presenza di un ente o creatore, che sembra davvero tranchant e anche piuttosto debole.
Per affermare che la teoria del "fine tuning" non ci può dire nulla sulla particolarità e sull'origine dell'universo, Rovelli e Tanzella-Nitti adducono infatti che sembrano uscite fuori dal riuscito film "Sliding Doors" ( e dei moltissimi film e serie, emuli di quello) di qualche anno fa.
Scrive ad esempio Rovelli: “Se il nonno paterno e la nonna paterna di Carlo [Rovelli (?)] non si fossero visti per la prima volta in una festa di paese nelle Marche…” noi e il mondo che ci circonda saremmo altri, diversi etc. etc.
Ora, queste argomentazioni sembrano abbastanza deludenti. Il bisogno cioè di spiegare il mistero della esistenza di regole così incredibilmente precise e poche e costanti in un universo praticamente in-finito (e forse presenti - uguali o diverse - anche negli altri universi di un multi-verso della cui esistenza la grande parte della scienza e la fisica moderna si dicono convinti), con l'osservazione che le cose sarebbero andate in un altro modo, se gli incroci delle casualità fossero stati altri è quanto meno riduttivo.
Paragonare insomma il destino del nonno paterno di Rovelli, pur con tutto il rispetto, con quello dell'intero infinito universo, forse è un po' eccessico.
Eppure Rovelli, insieme a Tanzella-Nitti è del tutto categorico: non solo il disegno intelligente non esiste, non solo tutto è quasi sicuramente frutto del caso, ma questi argomenti sono tirati fuori apposta solo da chi (quei pochi scienziati minoritari e irrilevanti) cerca di "difendere - in modo maldestro - le rispettive lealtà religiose.
Ma davvero qui, in un argomento come questo, è importante il numero di scienziati che votano a favore? Non ha insegnato la storia della scienza in tante circostanze, che scienziati in totale solitudine - e con la totale contrarietà dei loro colleghi e con autorità di ogni tipo, religioso e no - affermavano verità che nessuno voleva sentire e che poi si sono rivelate esatte? Quando ci si avvicina alle verità ultime, la scienza non dovrebbe essere più prudente, specie in presenza di misteri così straordinariamente grandi, nei quali la conoscenza moderna sta entrando a tentoni, passo passo, come un bambino che gioca con le conchiglie sulle rive di un oceano smisurato (tanto per citare Isaac Newton) ?
Quello che sa quel bambino a proposito dell'oceano che ha di fronte, è quello che sappiamo noi dell'ambiente cosmico che ci circonda e ci ha partorito.
Dunque perché pronunciare verità - scientifiche - immutabili o assolute e negare il diritto di cittadinanza - definendole "sciocchezze" o posizioni in malafede - a posizioni differenti?
Rovelli per primo e Tanzella Nitti dovrebbero sapere che ogni verità scientifica è - per sua natura - provvisoria, e lo resta finché una nuova verità scientifica arriva, spazzando via la precedente.
Rovelli per primo e Tanzella Nitti dovrebbero sapere che "la scienza è uno dei settori in cui gli sbagli sono più eclatanti" (Piero Martin, Storie di errori memorabili, Laterza, 2024) e che il fatto che un solo scienziato, anche uno solo, si ritrovi in piena discordanza con tutto il resto della comunità scientifica, non significa che questo sia in errore.
Nella storia della Scienza accadde sovente che scienziati "dalla vista più lunga" abbiano affermato cose impossibili o inconcepibili, che la verità degli altri scienziati e la verità delle confessioni religiose (qui ben rappresentate da Rovelli e da Tanzella Nitti) negavano categoricamente.
Perché non ricordarselo mentre si scrivono articoli dai toni così categorici, quando si toccano temi così enormi, così misteriosamente intricati, sui quali nessuno di noi (nessuno Rovelli o Tanzella Nitti), può dire una parola ultima (cioè "è andata così" o "non è andata così")?

13,5 miliardi di anni fa noi non c'eravamo, e nemmeno Carlo Rovelli e Tanzella Nitti c'erano, e non ci sarebbero stati nemmeno oggi se non fossero esistite quelle "miracolose" e pochissime regole raffinate che tra le milioni o miliardi possibili, si sono messe in fila in modo tale che l'universo nascesse, si propagasse al posto del nulla, e consentisse perfino l'incredibile vita biologica e la vita intelligente e consapevole dell'essere umano al suo interno.

Fabrizio Falconi - 2024

20/03/24

Sull'ottovolante con "The Gentleman", geniale e divertente serie di Guy Ritchie su Netflix


E' rutilante, dal ritmo indiavolato, divertente e stilosa - e ancora ad alto livello - la nuova serie britannica "The Gentleman" appena lanciata da Netflix, creata dal geniaccio sregolato e incline a capitomboli imbarazzanti di Guy Ritchie, che nonostante alcune cose buone o molto buone che ha fatto, ancora fatica a togliersi di dosso la fama di "(ex) marito di Madonna".
Qui si tratta del riutilizzo (o meglio dello spin-off come dicono quelli che ci capiscono) di un'idea divenuta già a suo tempo un film, scritto e diretto da Ritchie nel 2019, con lo stesso titolo: "The Gentleman", uscito nel 2019, con un gran cast (McCaughney, Hugh Grant, Michelle Dockery, Colin Farrell) che, incappato nella pandemia da Covid, ha comunque incassato 115 milioni di dollari.
Ritchie rilancia dunque l'idea, espandendo la storia in 8 divertenti e elaborati episodi in cui assistiamo alle (complicate e grottesche) vicende riguardanti un giovane nobile inglese, Edward Horniman che eredita inaspettatamente (pur essendo secondogenito) la tenuta di 15.000 acri e il titolo di Duca di Halstead per volontà e testamento del padre recentemente scomparso.
Dietro la nomina prestigiosa, però si nasconde un incubo: Edward apprende infatti che la terra di famiglia è diventata da anni, parte di un impero segreto di coltivazione di erbe infestanti gestito dal gangster Bobby Glass.
Ora deve esplorare un mondo di personaggi eclettici e pericolosi con obiettivi nefasti, cercando allo stesso tempo di proteggere la sua casa e restare in vita.
L'idea di fondo, del film come della serie, che sta a cuore a Ritchie, è quella di mostrare - con una certa perfidia - come la classe aristocratica (britannica, in questo caso) e la criminalità organizzata più violenta siano fatte, in fondo della stessa identica pasta, basata sulla violenza, l'umiliazione e la sopraffazione.
E i buoni propositi morali dell'inizio saranno ben presto travolti da questa evidenza, capace di corrompere anche l'apparentemente savio Edward.
La serie è girata magistralmente, le musiche originali sono fantastiche. Il cast vede protagonista il bel tenebroso Theo James nei panni di Edward e una serie di ottimi comprimari, tra cui tre attrici brave e bellissime: Kaya Scodelario nei panni di Susie (la figlia del boss), la francese Gaia Weiss e Ruby Sear nei panni di Gabrielle.
Si ride molto, la sceneggiatura è scoppiettante ed è un fuoco di fila di trovate (a tratti correndo anche il rischio di rendere esausto lo spettatore), che oscillano sui registri dei Coen, di Scorsese e di Tarantino.
Raccomandato.

Fabrizio Falconi - 2024

 

12/03/24

Un incontro con il grande Manuel Puig, a Rio de Janeiro, poco prima della morte

 



Ho incontrato il grande Manuel Puig l'anno prima che morisse (per le conseguenze di un banale intervento di routine, a Cuernavaca, in Messico, dove si trovava, nel luglio 1990, a soli 58 anni), a Rio de Janeiro, dove mi trovavo per un reportage per RadioRai. 

Lo chiamai al telefono che mi aveva dato l'ufficio stampa della casa editrice italiana. In quel periodo viveva a Rio de Janeiro, poco distante dall'elegante, bellissimo quartiere di Leblon. Fu estremamente gentile e si rese disponibile per un incontro intervista in un caffè del centro. 

Arrivò completamente vestito di lino bianco, abbronzato e molto magro. Conversammo per un po' dei suoi libri, e delle sue esperienze in giro per il mondo, in particolare in Italia, paese nel quale la sua vita e la sua carriera avevano avuto una svolta. 

Nato nella città argentina di General Villegas nel 1932, Puig  era cresciuto in un ambiente di provincia, mostrando sin dall’adolescenza un vivo interesse per il mondo del cinema, nel quale cominciò a lavorare sia negli Stati Uniti, che in Europa; in particolare, in Italia frequentò il Centro sperimentale di cinematografia.

Il suo primo romanzo, Il tradimento di Rita Hayworth (La traición de Rita Hayworth, 1968),  meravigliosa divagazione sui miti hollywoodiani, gli assicurò subito una certa fama. 

Cinema e ambienti piccolo-borghese, costituiscono anche il motivo centrale di Una frase, un rigo appena (Boquitas pintadas, 1969), uno dei suoi capolavori, elaborato con frammenti di lettere, ritagli di giornali, atti amministrativi ecc., un vero e proprio sfoggio di tecnica e creatività.

Il discorso politico, l’esilio che lo scrittore visse per sfuggire alla dittatura argentina, gli elementi del romanzo poliziesco e la tematica omosessuale caratterizzano i romanzi successivi già coronati dal successo internazionale dello scrittore: The Buenos Aires affair (1973) e soprattutto Il bacio della donna ragno (El beso de la mujer araña, 1976), che dopo la riduzione cinematografica di Hector Babenco, gli valse la fama internazionale. 

L'intervista fu pubblicata sul Manifesto del 29 luglio 1996 e la riporto qui sotto integralmente, come contributo alla conoscenza tra uno dei più originali e notevoli talenti del Novecento letterario. 











19/02/24

Chi è l' "Avversario" ? Carrère lo svela nelle ultime 3 righe


Il genio di scrittori come Carrère si riconosce anche dagli (apparenti) dettagli.

E' geniale, ad esempio ne "L'avversario" (pubblicato nel 2000 e suo primo grande successo), che la scoperta del significato del misterioso titolo avvenga nell'ultimissima pagina (e anzi, nelle ultime 3 righe).

La storia del libro è del resto così terribile e il meccanismo narrativo così efficace - perfetto - che il lettore si dimentica anche di chiedersi chi sia quell'avversario del titolo, pensando forse si riferisca al protagonista pluriomicida Jean-Claude Romand, mite e tranquillo borghese che in un giorno di gennaio del 1993, sterminò la sua intera famiglia: gli anziani genitori a colpi di fucile, la moglie con un mattarello, i due figli di 7 e 5 anni sempre a colpi di fucile; quasi strangolò l'amante parigina; e infine diede fuoco alla casa di famiglia, con i cadaveri dentro, sopravvivendo lui soltanto.

In questo caso quindi si sarebbe portati a pensare: Romand "è" l'avversario: l'avversario della sua famiglia, e delle vite che ha distrutto per sempre.

Ma alla fine del libro si ha la certezza che Carrère si riferisce a un "altro" avversario.

Ed è l'Avversario (la maiuscola è opportuna perché si direbbe un avversario piuttosto ingombrante e presente, cioè personificato) DI Romand. Quello che è nella sua testa, o nel suo cuore, e che lo ha spinto non tanto al massacro finale, quanto a una intera vita vissuta nell'Ombra (anche in questo caso la maiuscola, pensando a C.G.Jung, è d'uopo).

Romand infatti, da quando era un diciannovenne, e doveva iscriversi al secondo anno di medicina, ha mentito. Su tutto. Sulla sua intera vita. E per trent'anni ha ingannato tutti, comprese le persone che vivevano insieme a lui, che lo amavano, che erano la sua famiglia. Nessuno ha mai sospettato nulla, è questo il vero nucleo della storia. Come si può vivere una vita completamente doppia: non avere mai lavorato nemmeno 1 giorno della propria vita, non aver mai preso 1 stipendio nella intera vita, non aver mai passato 1 sola giornata dove gli altri credevano che lui la passasse, non aver mai investito 1 solo degli assegni che padre, madre, moglie, amici e perfino amante, gli davano perché lui li investisse in una inesistente banca, con inesistenti procacciatori di affari, mentre lui era un inesistente funzionario e un inesistente medico, prestigiosamente (e inesistentemente) assunto dalla Organizzazione Mondiale della Sanità di Ginevra? Come si può ingannare tutti per 30 anni, senza che nessuno abbia mai un dubbio, senza che l'immenso castello di menzogne, anche solo per sfiga o circostanze sfavorevoli, non venga mandato all'aria da un banalissimo riscontro di pochi secondi?

E' questo il vero mistero della storia. Un mistero insondabile che, anche secondo Carrère, non può essere, in alcun modo, spiegato.
E che forse soltanto nella evocazione di un Avversario (invisibile ma molto molto concreto), può rischiarare l'opprimente tenebra di un tale scialo di male.

Per la cronaca, 24 anni dopo la pubblicazione del libro, Jean-Claude Romand, sta per tornare un uomo libero. Gli ultimi anni li ha passati in un monastero, sotto indiretta sorveglianza. Forse lì dentro ha provato ancora una volta a cercare tracce del "suo" Avversario. E chissà se l'ha trovato.

Fabrizio Falconi - 2024

16/02/24

ONE DAY (LA SERIE) - GLI INGLESI NON HANNO PAURA DELLA LEGGEREZZA

 


Senza scomodare Calvino, ognuno sa che la leggerezza può essere un valore importante, in campo creativo: a patto che non debordi nella superficialità o vacuità.
La fiction inglese pratica con successo la leggerezza (basti pensare al successo planetario di Downton Abbey) di qualità.
Non per niente, di un certo tipo di classico romanticismo-introspettivo psicologico è insuperata modello Jane Austen, la cui opera ha dovuto faticare (in quanto donna e in quanto esponente di una letteratura definita all'inizio "femminile" o "rosa") per essere ammessa senza indugi nel Canone letterario, con piena legittimità.
Anche in tempi moderni, dunque, gli inglesi manifestano una felice propensione per il genere, che viene rinnovata da questa spigliata serie, ONE DAY (su Netflix) in 14 brevi puntate, tratta da un romanzo (di David Nicholls, in italia lo ha pubblicato nel 2009 Neri Pozza) e da un film (regia di Lone Sharfig, 2011), entrambi di successo.
La storia richiama gli archetipi classici (si pensa a Come Eravamo - The Way We Were di Sidney Pollack, 1973), con l'incontro alla festa di laurea di un blasonato college inglese, di un ragazzo e una ragazza apparentemente dissimili: bianco, ricco e bello lui, di origini indiane, di classe sociale più modesta, di bellezza non straordinaria, lei.
L'espediente narrativo è quello di seguire la vita di questa coppia-non coppia (nessun rapporto è stato consumato), dal momento in cui si incontrano e per i venti anni successivi, lo stesso giorno dell'anno - il 15 luglio - in ogni anno diverso.
Sulla definizione della diversità dei caratteri e delle propensioni scandita all'inizio da toni quasi di pura comedy, la storia prende presto altre strade, parlando(ci) di qualcosa che tutti, prima o poi, hanno attraversato nelle loro vite: l'inspiegabilità della specificità di un incontro, gli ostacoli (altrettanto inspiegabili) che si frappongono a una reale evoluzione dello stesso, le paure, le incapacità di esprimersi e di riconoscere i sentimenti (e di viverli).
Se Dexter è un bello inutile (da tutti viene ritenuto più o meno un coglione), incapace di emanciparsi, ma dall'animo gentile che suscita tenerezza, Emma è barricata nelle sue convinzioni e, ai limiti del masochismo, dentro la paura di farsi male.
La storia procede, con tutti i travagli della vita, accompagnata da una straordinaria "compilation sonora", di fantastiche canzoni che ricreano il clima dal 1988 al 2007 (già solo questo, motivo di godimento).
I due attori iper-protagonisti, sono di freschezza fantastica e molto bravi: Leo Woodall, 27enne già star in patria, e Ambika Mod, ragazza indiana di genuina intensità.
Completano il cast Eleanor Tomlison (la Demelza di Poldark) e Jonny Weldon nei panni dell'insopportabile Ian.
Si vede con piacere, emozionandosi senza ricatti narrativi, con semplicità. Operazione assai lodevole.

Fabrizio Falconi - 2024

29/01/24

"Quintetto Romano" - cinque racconti di Raoul Precht che diventano un romanzo (su Roma)

 




"Roma assegna a ciascuno il proprio posto", così scriveva Ludwig Feuerbach, uno dei tanti uomini illustri stregati dalla magia di Roma, quando gli capitò di visitarla. 

E' qualcosa che viene in mente quando si legge il nuovo libro di Raoul Precht, uno dei più interessanti autori italiani (anche se vive in Lussemburgo), recentemente finalista al Premio Comisso, con il suo Stefan Zweig - L'anno in cui tutto cambiò (Bottega Errante, 2023).

Lettore accanito e studioso quasi onnivoro, Precht con questo libro - dalla classificazione piuttosto difficile - sceglie dal mazzo dei suoi autori preferiti (o inseguiti o ammirati), con gusto eterogeneo, cinque grandi, uniti da un fil rouge  "territoriale", ovvero accumunati dalla stessa esperienza di aver attraversato la Città Eterna, di averla visitata, di averci vissuto per qualche tempo o esserci semplicemente capitato per un breve viaggio, e comunque, di esserne stati trasformati, come è successo a tanti, in ogni epoca, prima di loro. 

Questo sottile fil rouge - apparentemente labile - diventa invece consistente durante la lettura perché lo "sguardo emotivo" come direbbe Wim Wenders di questi grandi scrittori, intercetta anche senza volerlo, l'essenza impalpabile di Roma, quella che - faceva notare Georg Simmel - si esprime attraverso l'accostamento "casuale" di cose e resti che come relitti si abbinano insieme, a Roma costituendo qualcosa di nuovo e di diverso rispetto alle parti singole. Qualcosa di quasi organico se è vero, come sottolineava Sigmund Freud (anche lui ammaliato da Roma), che l'Urbe assomiglia ad una entità psichica, dove ad ogni strato, ad ogni epoca, ad ogni livello di rovine, corrisponde un livello psichico, dall'esteriorità del carattere (la superficie, il caos quotidiano) fino all'inconscio più profondo delle catacombe, dei mitrei, delle cavità inesplorate. 

E' dunque un viaggio "dell'anima" quello di cui Precht si fa voce, reinventando (sempre sulla base di rigorosissimi referti "veri", cioè lettere, racconti personali, diari, biografie dei 5 diversi autori) una sorta di "romanzo collettivo" o "a più voci", che nell'ambito di racconti contingenti - le "panzane" di Stendhal sulla sua qualità di testimone del celebre e disastroso incendio di San Paolo fuori le Mura o il seppellimento di un topolino nel prato di Villa Borghese compiuto un giorno da John Cheever - costituiscono un continuum dentro il quale si finisce per abbandonarsi. 

I cinque autori scelti da Precht - ciascuno portatore della sua voce e del suo contributo - sono Stendhal, Nikolaj Gogol, Romain Rolland, Malcom Lowry e John Cheever e l'intervallo di tempo che coprono i loro soggiorni vanno, in ordine cronologico, dal 1823 (quello di Stendhal) al 1956 (quello di Cheever). 

I cinque "racconti" scritti da Precht, tutti senza dialoghi, alcuni in prima persona (Stendhal mediante una lunga lettera "inventata" ma del tutto realistica), altri in terza persona, non hanno però lo scopo di imitare lo stile e la voce degli autori (tranne forse Stendhal per la necessità di dover scrivere una lettera "come avrebbe fatto lui"), quanto di aggiungere una interpretazione, di leggere attraverso la lente di ingrandimento della Città - Roma (che Precht ama (pur odiandola, a volte, come tutti quelli che la amano) e in cui è nato - i mutamenti impercettibili, gli spostamenti interiori, subiti da queste cinque grandi anime, come una sorta di redde rationem delle loro vite. 

Nel primo racconto, dunque, Stendhal scrive una lettera apocrifa alla sua amica Clémentine Curial, descrivendo scene di vita vissuta e popolare, descrivendo l'impressione delle maestose rovine, in particolare di quelle lasciate appunto dall'incendio della Basilica di San Paolo avvenuto nel luglio del 1823; nel secondo racconto Nikolaj Gogol descrive i piaceri culinari della Roma dell'epoca, la sua frequentazione della nutrita comunità russa che lì vive o è di passaggio, le esperienze nei salotti romani dove gli capita di incontrare e di fare conoscenza con Giuseppe Gioacchino Belli; nel terzo racconto Romain Rolland è alle prese con i continui paragoni che Roma gli suscita con Parigi, mentre soggiorna nello splendido Palazzo Farnese grazie alla borsa di studio ricevuta dell’Ambasciata francese; nel quarto racconto, quello relativo a Malcolm Lowry è di scena invece la Roma del dopoguerra, misera e stracciona, che lo scrittore inglese attraversa immerso in una sorta di febbre etilica, come un antesignano del Toby Dammit felliniano; nel quinto racconto, seguiamo invece John Cheever mentre sta cercando di seppellire il cadavere di un topolino, anzi di una topolina bianca a Villa Borghese, compagna di giochi del figlio. E anche per Cheever questa strana peregrinazione finisce per diventare una sorta di bilancio personale della sua vita, dei rapporti che è stato capace di tessere con le persone che ama, con i suoi fallimenti, con le mancanze. 

Insomma, la polifonia che Precht mette in piedi, in questo romanzo lungi dall'essere dissonante, riesce a ricreare proprio quel magico, imprendibile equilibrio caratteristico di Roma, di cui parla Simmel, quello di tenere insieme, accostate le une alle altre cose che sembrano molto diverse, ma che insieme formano qualcosa di nuovo e di diverso. Proprio grazie alla linfa vitale della Città che da tremila anni non fa che produrre - e raccontare - storie. I cinque protagonisti scelti da Precht - e la voce stessa di Precht che li racconta a Roma - sono un nuovo capitolo di un romanzo più grande che non si sa dove sia cominciato e che non è ancora finito. E di cui il libro di Precht è pienamente degno.