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28/06/12

'Il ponte di San Luis Rey' di Thornton Wilder, un romanzo che parla a ciascuno di noi.



Ho appena finito di leggere un grande romanzo: Il Ponte di San Luis Rey, scritto da Thornton Wilder nel 1927, con il quale il famoso drammaturgo americano vinse il Premio Pulitzer.

E' un romanzo molto strano.  Che tocca i nostri temi.  Wilder imbastisce una storia ambientata in Perù, nel 1700.  Dopo molti secoli che se ne sta lì tranquillo al suo posto, crolla il vecchio ponte di San Luis Rey, costruito dai Maya.   Quel ponte, dice Wilder, è una istituzione per tutti gli abitanti di Lima.

Intere generazioni, per secoli e secoli sono transitate su quel ponte, unico mezzo di comunicazione per attraversare un profondo burrone. Fino al giorno fatidico, in cui il ponte crolla.

E in quel giorno fatidico muoiono 5 persone. 5 persone tra le migliaia, i milioni di persone che nei secoli hanno attraversato quel ponte.

Wilder immagina che un frate francescano, fratel Ginepro, non dandosi pace del perchè proprio a quelle 5 persone sia toccato in sorte di transitare sul ponte al momento del crollo, decide di ricostruire le loro vite, alla ricerca di un elemento comune, di una traccia che giustifichi il loro coinvolgimento nella sciagura.

L'intelligenza di questo romanzo sta proprio nell'aver toccato uno dei punti cruciali di fronte al quale, tutte le religioni del mondo, si trovano come impotenti.

Se infatti, quando c'è di mezzo una morte individuale, si può andare alla ricerca di una motivazione, di una logica che giustifichi l'intervento divino,  quasi impossibile è fare altrettanto quando in una tragedia collettiva - pensiamo a un aereo che cade, o alle Torri Gemelle, tanto per restare vicini a noi - perdono la vita contemporaneamente persone diversissime, il buono al fianco del cattivo, l'innocente, il bambino, il solitario, il ladro e l'assassino.

Questo tipo di eventi è stato per ogni religione, sempre, motivo di scandalo.

Ed è stato, da sempre, un motivo a favore di tutti coloro che interpretano la vita come una pura successione di eventi casuali, spinti dalla fortuna o dalla sfortuna (alla Woody Allen insomma).

Il Ponte di San Luis Rey è grande, in questo:  Il povero Fratel Ginepro, nella disperata ricerca di un senso, arriva a compilare una tabella per le persone coinvolte, assegnando un punteggio da 1 a 10 e da -1 a -10 per tre diverse categorie: bontà, devozione, utilità (alla società).   


A Ciascun morto Ginepro assegna un punteggio, in base alle testimonianze degli amici, dei conoscenti, dei famigliari, degli estranei.


Non voglio rivelare troppo del romanzo, fatto sta che Ginepro si trova ad un certo punto a gettare nel mare le sue carte statistiche, allorquando si rende conto che: sono proprio i più meritevoli, i più buoni, i più utili alla causa umana, quelli che sono morti.

Non è proprio questo quello che la saggezza popolare (cristiana) tramanda da tanti secoli: e cioè che - detto in soldoni - se ne vanno sempre i migliori ? E che invece le persone malvagie, quelle rancorose, quelle che odiano e fanno guai, godono di lunga e durevole salute, morendo spesso di morte naturale, in tardissima età ?

Come si spiega questo mysterium iniquitatis ?


Fabrizio Falconi


06/09/11

Le vite concitate, il caos, e il senso che non si trova.



Si avvicina la ricorrenza del decennale dell'11 settembre, l'attentato alle Torri Gemelle di New York.  Su La Stampa mi è capitato di leggere l'intervista ad Edward Fine, il celebre sopravvissuto che fu immortalato con la sua valigetta 24 ore negli attimi successivi alla tragedia, diventando di essa un simbolo.

Mi ha colpito questa sua frase: "Prima lavoravo anche quando ero in vacanza, telefonate, computer e non sapevo neanche chi fosse mia moglie. Ora conosco e apprezzo le cose della mia vita che contano."


Questa frase ha ronzato nelle mie orecchie per alcuni giorni, sommandosi a quest'altra, che il grande Woody Allen - sempre più avvitato in una specie di ostentato nichilismo personale - ha rilasciato a 'La Repubblica':

"continuo a girare film in modo forsennato perché se lavoro e sto sul set, non ho tempo di fermarmi. Se mi fermassi mi deprimerei constatando che la vita non ha alcun senso."

E' il problema di molti, oggi.

Molte persone sembrano convinte che il senso della vita non esista, ma non fanno nulla per fermarsi a riflettere.  Temendo, anzi,  che la riflessione corrisponda a un vuoto, ed essendo del tutto terrorizzati da quel vuoto, non fanno altro che rimpinzare la vita di quante più cose possibili, per la maggior parte del tutto inutili.

Sono convinte, più o meno inconsciamente, che questo rappresenti una formidabile protezione da quel vuoto che attira e terrorizza, per l'appunto.

Il problema però è che, dentro esistenze così stipate, così enormemente sovradimensionate,  si pretende di trovare un 'senso' a questa vita.

E' ovvio che nessun senso si può trovare.

Anche perché con esistenze sempre più caotiche, e sempre meno ordinate (nel flusso di cose semplici) è molto molto difficile percepire un senso, a meno che - come sembra oggi diventata 'vulgata' comune - non si teorizzi che il caos stesso, cioè il disordine E' il senso.

Ma l'uomo, che è principalmente - e resta sempre tale - materiale biologico enormemente organizzato, quindi ordinato (ché altrimenti nessuna vita biologica potrebbe esistere)  non può trovare nessun senso nel caos e nel disordine assoluto. 

E' perfino troppo ovvio che il senso - un senso o IL senso - può essere trovato solo se e quando siamo capaci di fermarci, e di creare un vuoto e di abitare quel vuoto, senza lasciarsene spaventare, ascoltarlo, lasciarlo crescere dentro di noi, e sentire se e come ci parla, se e come ha qualcosa da dirci.

Non è un caso che Edward Fine abbia capito soltanto ora quali sono le cose da conoscere e apprezzare nella vita. Solo ora, quando la giostra si è fermata, indipendentemente dalla sua volontà.

Il problema è proprio questo: che spesso ci fermiamo soltanto quando non possiamo farne a meno, per una crisi improvvisa, per una empasse della nostra vita, un lutto, una crisi, la perdita del lavoro.   Soltanto allora siamo costretti a mettere ordine. A comprendere che la vita è - sarebbe - del tutto semplice, e ha - avrebbe - bisogno di molto poco.

La prima cosa da fare dunque è quella di smetterla di dire "ho troppo da fare per farmi domande."  Dovremmo tutti comprendere che le domande - e solo le domande - danno senso all'esistenza.  E che senza mai porsi domande si possono soltanto compiere disastri, nelle proprie vite individuali e in quella collettiva, come la storia dovrebbe averci abbondantemente insegnato.


Fabrizio Falconi

nella foto in testa: Woody Allen alle prese con la pennichella durante le riprese del suo film romano, agosto 2011. 

20/05/10

Wonderland - Il meraviglioso che non vediamo mai.


Sahara Wonderland from zoomion on Vimeo.

Ho letto recentemente le dichiarazioni di Woody Allen al festival in corso a Cannes, dove il grande regista presenta il suo ultimo film.

In vecchiaia, il grande Woody si è sempre più incupito, e ogni volta che in conferenza stampa qualcuno gli domanda in cosa creda, quale è la sua concezione del mondo, il senso della nostra vita, la sua risposta è sempre più brutale: Woody dichiara - sempre più implacabilmente - che non crede in nulla, che la vita non ha nessun senso, che l'esistenza è un inferno caotico, del quale forse sarebbe stato meglio non fare mai parte - tranne poi aggiungere con la sua consueta ironia alla inevitabile domanda sulla morte, che "è fortemente contrario".

A parte dunque che chi odia così tanto la vita, chi la ritiene un incubo o un inferno dovrebbe desiderare solo di uscirne il più presto possibile, e quindi agognare la morte, mi sembra che Woody incarni molto lo spirito dei tempi: non a caso dichiara che il suo autore preferito è Philip Roth, al quale è accomunato da una stessa visione filosofica della vita.

Questa visione così cupa mi lascia sempre interdetto. Non bisogna sentirsi religiosi - tutt'altro - per considerare la vita come una esperienza formidabile.

Io credo fortemente che il nostro destino su questa terra sia quello di essere felici - o almeno di tentare di esserlo.

Quello di cui disponiamo è un bene immenso, che mirano - o tendono - ad una compiutezza e a un senso che hanno un nome: vita.

Basterebbe passare una notte nel Sahara, forse.


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