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20/09/19

Nulla succede per caso. Sincronicità e coincidenze nei periodi di transizione della nostra vita




Ci sono nella vita periodi che possiamo chiamare di transizione: sono quei periodi in cui la stabilità non è tale da darci soddisfazione interiore, e allora sentiamo di dover operare dei cambiamenti in un'esistenza diventata noiosa e paralizzante;  oppure momenti in cui eventi incontrollabili gettano lo scompiglio in una situazione che avevamo ormai accettato.   Talvolta questi periodi di transizione possono essere provocati da entrambi gli elementi: una necessità interna di cambiamento e una serie di eventi esterni che ci fanno uscire da un solco nel quale non sapevamo neppure di trovarci. 

Molti individui, durante questo processo di transizione, ricevono un aiuto non soltanto esterno o sociale, ma di carattere interno e psicologico: senza che lo desideri o lo si cerchi esso giunge nella forma di una sequenza accidentale di eventi che si verifica nel momento più adatto per aiutarci a proseguire, spesso proprio quando abbiamo la sensazione che ci sia ormai poco da fare. 

Uno dei tratti distintivi della concezione junghiana della psiche è la convinzione che essa sia un fenomeno naturale e che tutti i suoi aspetti, compresi quelli in apparenza patologici o distruttivi, abbiano in realtà la funzione di far sì che lo sviluppo psicologico non si arresti. 

La visione di Jung, secondo la quale i fenomeni psicologici hanno sempre una loro funzione, rafforza la sua concezione di sincronicità. Quando accadono eventi acausali, significativi sotto il profilo emotivo e sotto quello simbolico, il fatto di sperimentare psicologicamente una sincronicità consente in qualche modo di procedere.  

Ecco perché le sincronicità si verificano sempre in momenti di transizione cruciali.

Come l'aiuto che spesso riceviamo dall'esterno, la psiche ci fornisce a volte un aiuto interno e psicologico in forma di coincidenze significative. 





18/04/19

Libro del Giorno: "Così Parlò Zarathustra" di Friedrich Nietzsche


Fa impressione rileggere lo Zarathustra, dopo che lo si è fatto quando si avevano 20 anni.  Le prospettive cambiano, ovviamente.  Ma è anche una operazione salutare, perché si scoprono continuamente cose nuove, rispetto alle rimasticature che - soprattutto nel mare magnum del web - hanno trasformato (anche) l'opera di Nietzsche in un prontuario di aforismi completamente estraniati dal testo e quindi completamente fraintesi. 

Come è noto, Nietzsche cominciò a scrivere Zarathustra nel 1881, quando si trovava in Italia e aveva affrontato  un breve viaggio in traghetto a Messina e Taormina, al termine del quale aveva cominciato a frequentare "l'Arcadia" locale.

La lavorazione andò avanti per 4 lunghi anni, durante i quali il filosofo conobbe Lou von Salomé, una giovane studentessa russa in viaggio d'istruzione attraverso l'Europa e iniziò con lei e con il comune amico Paul Rée, che gli aveva presentato lei, una singolare (e casta) liason a trois.

Dopo ripetute proposte di matrimonio rifiutate e sconvenienti baci in pubblico ricevuti(ma nulla di concreto accadde tra di loro, restando il rapporto su un piano puramente platonico), Lou si allontanò da Nietzsche e anche da Rée. 

Questa delusione accelerò il lavoro di Nietzsche sullo Zarathustra, che portò a termine nel 1885, tre anni prima del trasferimento a Torino e del celebre crollo mentale di Nietzsche (3 gennaio 1889 la prima crisi di follia in pubblico) dal quale non si riprese più fino alla morte (25 agosto 1900).

Zarathustra è dunque l'ultima delle grandi opere di Nietzsche e quella che viene ritenuta unanimemente il suo Testamento.

Al contrario di ciò che si crede si tratta di un'opera assai difficile, anzi "la più difficile", come sottolinea Roberto Escobar nella preziosa introduzione, come è evidente fin dal sottotitolo che il filosofo scelse: un libro per tutti e per nessuno

Realizzato nella forma di un diario intimo predicatorio, ed esplicitamente ispirato allo stile dell'Antico e del Nuovo Testamento,  Zarathustra è un libro esplosivo, in cui il profeta e mistico iranico fondatore dello Zoroastrismo e vissuto presumibilmente nel IX secolo a.C., diventa colui che sovverte ogni morale, che bandisce verità nuove, che preannuncia e prefigura l'avvento di un Superuomo (purtroppo questo termine ha prevalso, nella traduzione italiana, su quello più corretto di Oltreuomo), che si pone al di là del Bene e del Male, che il Bene e Male comprende e supera, che raccoglie la notizia della morte di Dio, per far-si protagonista del proprio destino e del proprio passato (Eterno Ritorno). 

Ri-leggere oggi Nietzsche, ri-leggere oggi lo Zarathustra significa andare definitivamente oltre le aberrazioni del nazismo che usò e deformò queste teorie (come anche quelle di Darwin) per i propri terribili fini, e restituire al filosofo l'autentico valore della sua grande visione che così profondamente ha influenzato il pensiero del Novecento e che - al contrario di altri - continua a influenzare anche quello di oggi, essendo strutturalmente attuale. 

Zarathustra poi, essendo un libro-mondo, può essere letto da diversi punti di vista: anche da quello strettamente poetico, che ancora maggiormente scava nell'abisso del cuore umano con figure e scene metaforiche che non si dimenticano più.

Insomma, c'è sempre un motivo - ce ne sono tanti - per rileggere questo libro pericoloso, sovversivo, radicale, visionario. 

Fabrizio Falconi




09/07/18

"Lo Scopone Scientifico" di Comencini, una grande metafora del gioco della vita. Una pagina de "Le Rovine e l'Ombra" .




LuigiComencini era considerato un autore popolare. Forse perfino troppo per la critica militante: non gli si perdonavano i film d’esordio con Totò e la Pampanini, ma il successo clamoroso del Pinocchio televisivo gli aveva guadagnato consensi unanimi

Del resto la sua formazione era impeccabile: l’infanzia parigina, i trascorsi al Politecnico di Milano e alla Cineteca Italiana (come curatore) ne avevano fatto uno dei più solidi registi italiani.  Nel 1972, fresco del successo televisivo collodiano, Comencini aveva deciso di tentare il successo definitivo all’estero, mettendo insieme un super cast nel quale si fronteggiavano le due coppie: Alberto Sordi - Silvana Mangano e Joseph Cotten – Bette Davis.

Rodolfo Sonego aveva scritto un copione formidabile sulla follia del gioco e quando si trattò di pensare all’interprete della vecchia miliardaria americana, grande e cinica giocatrice di carte, Comencini tentò l’azzardo di rivolgersi alla diva americana. Bette Davis si trovava in vacanza in quel periodo alle terme di Carlsbad nel sud della California

Quando ricevette il copione, si entusiasmò.  Impulsivamente, com’era il suo carattere, prese il primo aereo per l’Italia e firmò il contratto, accorgendosi soltanto in un secondo momento – con notevole disdoro - che il film era girato in italiano.

Troppo tardi. La villa dove fu girato il film – la residenza romana della vecchia miliardaria – era la splendida VillaMiani, a Monte Mario. La miserabile borgata dove vivono invece Sordi e la Mangano, con i loro quattro figli e i loro stracci  era quella di Via Anzio, alla periferia sud di Roma, all’Arco di Travertino.

Comencini, sul copione di Sonego, allestì una crudelissima fiaba sul gioco, sul valore dei soldi, sulla povertà e la ricchezza: lo stracciarolo Peppino, e sua moglie Antonia aspettano come ogni anno l’arrivo della vecchia miliardaria americana che gira il mondo insieme al fedele autista George.  Morbosamente appassionata di giochi di carte, la vecchia ogni volta sfida i due poveracci (che si sono allenati per un anno intero) allo scopone scientifico, un gioco che – come spiega il Professore (Mario Carotenuto) della borgata ai suoi due allievi – presenta miliardi di varianti possibili e che «su miliardi e miliardi di partite, non mette mai in mano le stesse carte».

Anche stavolta i due sperano una buona volta di sbancare il patrimonio della vecchia e dare una svolta alle loro vite e a quelle di tutti quelli che vivono con loro nella borgata. Ma l’arpia ne sa una più del diavolo. E dopo aver perso la cifra di duecento milioni, nell’ultima partita che si disputa su quello che sembra essere il suo letto di morte, la miliardaria rivince tutto, gettando i due sul lastrico.
   

Peppino ha sbagliato proprio nella mano fatidica, a scartare la carta giusta.  La rovina si abbatte su di lui, non solo quella economica: Antonia, delusa definitivamente dal marito, consapevole della sua  inadeguatezza, lo tradisce con Righetto (Domenico Modugno), giocatore professionista e baro smaliziato.
   
A Peppino tocca l’infamia di essere considerato impotente al gioco e impotente nel ruolo di marito. Ma anche a Righetto non va meglio.  Quando sembra che stavolta il fato giri dalla parte dei borgatari, la vecchia nell’ultima partita, sbaraglia nuovamente gli avversari. Righetto perde i suoi ultimi guadagni investiti, Antonia perfino la baracca che si è ipotecata.
   
Nel finale da melodramma, Righetto tenta il suicidio, mentre Antonia e Peppino finiscono col riconciliarsi davanti a tutti i compagni di borgata con la dichiarazione: «che m’emporta de la ricchezza.. basta che c’è l’amore!»

Ma il sottofinale amarissimo del film di Comencini è affidato alla saggia figlia quindicenne Cleopatra, la quale ha già visto tutto, sa già quello che succederà il nuovo anno, quando l’americana tornerà un’altra volta a sconvolgere le loro vite e di nuovo il destino – che non è caso e non è caos – si ripeterà immutabile. Per spezzare finalmente la catena, Cleopatra, senza dir niente a nessuno mette il veleno per topi nel dolce che è stata incaricata di preparare per la vecchia in partenza per l’America. 


È l’unico modo per rivoltarsi definitivamente contro i potenti, l’unico modo per liberarsi dalla schiavitù (del gioco e del potere dei ricchi): quello di ricorrere alla eliminazione fisica dell’avversario.  E se questo sicuramente piacque poco al pubblico americano (che lesse il film come un apologo sulla lotta di classe), oggi dice molto sull’ombra personale (sotto forma del gioco), che se non può essere evitata e se ritorna sempre a perturbare e sopraffare, va estirpata.
   

Durante la proiezione di quel giorno, al cinema Augustus, il mio amico John a tratti se la rise di gusto, mentre durante alcune scene – soprattutto le lunghe sequenze delle partite a scopone – rimase con gli occhi ipnotizzati da quel che succedeva sullo schermo.

«Ha ragione Freud,”mi disse alla fine quando si riaccesero le luci in sala, mentre scorrevano i titoli di coda».
In che senso, chiesi.
«Loro non volevano veramente vincere. Peppino e Antonia».
«Come non volevano ?»
« Ma sì, non ti sei accorto ? Loro in fondo amano la vecchia. Amano lei e l’autista, i loro carnefici. Per questo non possono mai vincere. La amano perché lei rappresenta quello che loro non hanno e che non potranno mai avere».
Aveva ragione, ripensando alle immagini iniziali del film, quando il nuovo arrivo della miliardaria è salutato quasi come un trionfo dal popolo dei borgatari, con i cioccolatini e i dolci dispensati da lei ai ragazzini e alle famiglie povere.
Ma che c’entrava questo col gioco ?
«Antonio è contento di perdere, perché in questo modo può mettere alla prova l’amore di Antonia per lui. Non vuole vincere veramente».
«E Cleopatra allora ?»
«Cleopatra no. La ragazzina forse è l’unica che vorrebbe vincere veramente. Per riscattare la sua vita contro l’ingiustizia di quei ricchi.  Ma sa che i suoi genitori non potranno mai vincere, e perciò preferisce ammazzare la vecchia».
«Quindi lo scopone scientifico è la metafora del potere ?»
«No, non credo.  Lo scopone scientifico è un gioco difficile che sembra facile», disse John, «io l’ho imparato da mia nonna, una vecchia che potrebbe reggere il confronto con Bette Davis.  Lei mi ha spiegato che il segreto dello scopone è solo quello di non stare sotto giro: non devi essere tu il primo a scartare, nel giro. Ma devi essere sempre il primo a prendere. È un problema di sottomissione».
Gli risposi che conoscevo il gioco anch’io e che non è per niente facile non stare sotto giro.
«Dipende dalle carte che hai in mano», dissi.
 John sorrise:
«Ma come ha detto il Professore nel film, le combinazioni delle carte sono infinite, sono miliardi di miliardi, e tu non avrai mai due volte le stesse carte. Il tuo compito è quello di uscire dall’ombra. Con le carte che hai ogni volta, non devi farti rinchiudere nell’angolo, cioè dover scartare ogni volta, cominciando il giro. Con il rischio di non avere più carte buone, sicure in mano».
 Facile a dirsi, molto difficile a farsi.
 «Neanche i vincenti sono felici. Bette Davis non era felice di vincere», aggiunse.
 «Davvero ? Sembrava felicissima invece».
 «No. Lei vorrebbe perdere per essere umana, ma è costretta a vincere per assecondare il suo demone».
Queste considerazioni filosofiche, per due ragazzi che erano alle prese con la scoperta di Freud, aprivano scenari interessanti.
«E qual è il tuo demone ?» chiesi, mentre tornavamo a piedi attraversando il Ponte Sant’Angelo che era già notte.
«Il mio ? È quello di tutti: la paura di perdere …»
«Che intendi ?»
« I giocatori professionisti sanno che si perde tutto quando hai paura di perdere …»
«Non si direbbe», puntualizzai, «anche Righetto, che è un professionista, fa la fine degli altri due..»
«Perché anche lui ha paura di perdere. Ha paura di perdere la sua reputazione e soprattutto l’ammirazione incondizionata di Antonia che glielo ha fatto preferire al marito».
 «E la vecchia ? Non ha forse paura ?»
 «Sì anche lei ha paura, ma meno degli altri. È vecchia, può morire da un momento all’altro. Ha meno da perdere».
Più tardi, tornati a casa, John tirò fuori dal cassetto un mazzo di piacentine.   «Questa è la Polla»,rise indicando l’Asso di denari: la grande aquila con le ali aperte e il bollo d’imposta sul ventre, «dicono che quando arriva questa, vinci di sicuro. Ma non bisogna mai fidarsi delle carte.. ricordati di Antonia e Peppino. Ci hanno creduto … »
«Insomma, l’unico modo per vincere è perdere … »
«Proprio così. Quando perdi o quando ti perdi, si imparano molte cose».
Sembravano parole incongruenti dette da lui, che era sempre avanti a tutti, lui con i vestiti sempre appena usciti dal guardaroba, il taglio di capelli impeccabile, la grossa moto con le marmitte tirate a lucido, la collezione di dischi in ordine alfabetico, i panni rossi sulle tastiere, la pila di libri da leggere, le giuste idee in testa, le contestazioni alla vecchia insegnante, la sottile strafottenza di chi aveva visto di più e aveva vissuto molto, molto più di noi.
L’immagine vivente del perfect guy.
Eppure anche questa bella immagine, si incrinò. John, con il suo cognome italiano, e con il suo brillante futuro, fu come ingoiato dalla spirale del tempo. Di lui si persero definitivamente le tracce.
Le nostre strade si separarono, ma la sua non so dove l’ha portato.  Nell’epoca della totale rintracciabilità, di lui non esistono nemmeno segnali digitali; ed è ben strano, considerato quanto fosse interessato alla tecnologia.
Da lui ricevetti soltanto un biglietto, diversi anni dopo il nostro ultimo incontro.
Aveva appena rivisto in televisione California Poker, di Robert Altman, e doveva essergli tornata in mente la nostra conversazione dei tempi delle medie.
«Avevo ragione», c’era scritto, «i vincitori non sono mai felici».
Si riferiva al finale del film, quando una immane tristezza si dipinge sul volto del giornalista Bill Denny (George Segal) dopo che insieme al suo sodale, lo spiantato  Charlie Waters (Elliott Gould), ha sbancato il casinò di Reno, in Nevada, vincendo 82 mila dollari.
Mi era chiara la rovina dei perdenti. Su quella dei vincenti, invece, avrei voluto chiedere ancora molte cose al mio amico.

19/01/18

L'amore infelice di Cesare Pavese per Constance Dowling. Un brano da "Le rovine e l'ombra".



Questo sentimento della rovina amorosa che conduce e introduce alla morte fu incarnato nella forma perfetta di una morte scandalosa e poetica (non fate pettegolezzi... le ultime parole sul biglietto lasciato prima del suicidio) da Cesare Pavese.
   Nel capodanno del 1950,  a casa degli amici Giovanni Rubini e Alda Grimaldi, a Roma, Pavese aveva conosciuto l'attrice Constance Dowling. Giunta con la sorella Doris in Italia, a trent'anni non ancora compiuti, Constance aveva collezionato qualche apparizione in film minori e il fallimento di una relazione decennale con Elia Kazan. Umiliata da lui (aveva sperato a lungo e inutilmente che il regista si separasse dalla moglie, ma era stata liquidata anche in modo sprezzante) e alla ricerca di un improbabile riscatto, Constance si portava dietro il fascino del glamour hollywoodiano e la frustrazione del successo negato.  Pavese la rincontrò qualche mese più tardi a Cervinia e se ne innamorò perdutamente.  Le scrisse lettere piene di disperazione e dedizione, preparò soggetti nella illusione di spalancare per lei (e per la sorella) le porte per una carriera italiana.  Ma i progetti naufragarono e Constance decise di prendere un volo per l’America, con la promessa vana di tornare nel giro di due mesi.  Il 20 aprile salì sul volo per New York. Nelle settimane precedenti era diventata l'amante di Andrea Checchi, un attore conosciuto sul set dell'ultimo film (sfortunato come gli altri) girato in Italia, La strada finisce sul fiume.
   «Ho sperimentato con te «orrore e meraviglia», le scrisse Pavese in una delle lettere spedite in America,  disse di perdonarla e di perdonare «tutta questa pena che mi rode il cuore».
   Pavese percepì che questo inciampo della sua vita era quello definitivo.  Nulla lo consolava, nemmeno il premio Strega ricevuto per La bella estate la sera del 24 giugno.
   Appena due mesi più tardi, il 27 agosto il suicidio con i barbiturici nella stanza dell'Hotel Roma, in via Carlo Felice a Torino.
   Poco prima, in un solo mese, dall'11 marzo all'11 aprile, Pavese aveva scritto, proprio a Torino, le 10 poesie che compongono l'ultima raccolta dei suoi versi. Alla morte dello scrittore furono ritrovate in una cartella nella scrivania del suo ufficio alla casa editrice Einaudi.  Scritte a macchina, le poesie – otto in italiano e due in inglese – portavano titoli e date di pugno dell'autore, insieme al frontespizio e furono pubblicate in un volume postumo, nel 1951 con il titolo scelto da Pavese.

   Verrà la morte e avrà i tuoi occhi -
questa notte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola
un grido taciuto, un silenzio.

….

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.
  
   Sono i celebri versi scritti il 22 marzo del 1950. Constance è forse in quello stesso momento tra le braccia di Checchi. Ma soprattutto Pavese ha raggiunto quella dolorosa consapevolezza che gli è impossibile abitare il territorio della rovina amorosa.  Quel territorio, per lui che si sente da tempo inadatto al vizio pericoloso di vivere («La felicità è qualcosa che si chiama Jo, Harry o John, non Cesare» scrive amaramente in una delle lettere destinate a Constance) è fatale, lo svuota anche del desiderio creativo, che lo ha tenuto in vita fino a quel momento.
«Le poesie sono venute con te e se ne vanno con te».
   È un territorio infido, quello delle rovine.  Che non è sempre illuminato dal sole, che è pieno di ombre e di abissi e che qualche volta fa perdere del tutto.
   Non so se Marcel si sia perduto. Non so se Pavese abbia trovato una Constance angelicata ad attenderlo, come in un film, non so se Jeanne abbia mai potuto realizzare un riscatto personale o interiore prima di lasciare la vita immaginata da Maupassant.   Quel che è certo è che da queste traiettorie di vita si apprende quanto le rovine abitino il cuore e l'interiorità, oltre che il nostro mondo, e quanto sia importante apprendere la lezione severa e illuminante che ci tramandano.


20/11/17

"Il mondo è dei mediocri - E la politica in Primis". L'intervista a Alain Deneault.


è da leggere questo saggio di Alain Deneault, filosofo canadese, ora tradotto anche in Italia da Neri Pozza.  Analizza un fenomeno oramai diffuso in tutto l'Occidente e che ha ormai riscontri da tempo anche nel nostro paese.  Perché i mediocri hanno in mano la politica ? Perché le èlites e le eccellenze, ma più in generale le intelligenze, si tengono lontano dalla politica ? Risponde Alain Deneault, in questa intervista rilasciata a Sara Ricotta Vaza per la Stampa di Torino. 

Il mondo è dei mediocri. Sarà che è un assunto non difficile da sperimentare - e anche consolatorio per spiegarsi certi successi o insuccessi ugualmente distanti dalle vette del genio e dagli abissi dell’indegnità - ma il saggio La mediocrazia(Neri Pozza, pp. 239,  18) del filosofo canadese Alain Deneault a un anno dall’uscita è ormai un longseller internazionale. E dire che in centinaia di pagine, dense di pensiero e di citazioni, ne ha davvero per tutti. In politica, da Trump a Tsipras, vede solo un «estremo centro», nell’impresa la «religione del brand», il «consumatore-credente», la «dittatura del buonumore». Nel lavoro «devitalizzato» individua la skill fondamentale nel «fare propria con naturalezza l’espressione: alti standard di qualità nella governance nel rispetto dei valori di eccellenza». E, in ogni ambito, rileva certi tic verbali come «stare al gioco», «sapersi vendere», «essere imprenditori di se stessi». Insomma, dice, «non c’è stata nessuna presa della Bastiglia ma l’assalto è avvenuto: i mediocri hanno preso il potere».  

Lo abbiamo incontrato a Milano dove ha parlato al Wired Fest, il festival dell’innovazione, altra parola che non manca nel vocabolario mediocratico. Oggi sarà al Circolo dei Lettori di Torino.  

Professor Deneault, l’ha colpita questo successo? Anche perché a molti che la leggono lei dice in faccia che sono dei mediocri…  

«Mi aspettavo un’eco molto più ristretta, ma questo libro parla di un malessere sociale condiviso da molti. Detto ciò, ho cercato di evitare moralismi e di puntare il dito. Lo scopo era indicare la pressione sociale molto forte che incoraggia a restare persone “qualunque”». 

Lei è stato particolarmente duro con il mondo accademico a cui appartiene. Qualcuno si è offeso?  
«Sì, visto che sono stato bandito. Tengo corsi stagionali, la mia presenza è episodica. Gli ambienti universitari formano sempre meno una élite capace di gettare luce sulla strada giusta da seguire per l’uomo comune. Sono più simili a una corte d’altri tempi, vendono risultati di ricerca a dei finanziatori. Molta autocensura, molti format replicati per far piacere al potere».  

Ha avuto critiche «non mediocri»?  
«Nell’era della mediocrazia non si discute più… i pensieri seguono dei corridoi, si preferisce ricevere notizie che confortino». 

Perché bisogna temere la mediocrazia?  
«Perché fa soffrire. Chiede a persone impegnate nel servizio pubblico di gestire come si trattasse di una organizzazione privata, così si trovano in conflitto perché avevano un’etica diversa; chiede a ingegneri di progettare oggetti che si rompano in maniera deliberata perché vengano sostituiti, chiede ai medici di diagnosticare malattie che potrebbero diventare davvero pericolose a 130 anni… Senza parlare della manipolazione dei consumatori da parte del marketing». 

La mediocrazia è anticamera di dittature, anche edulcorate?  
«La dittatura è psicotica, la mediocrazia è perversa. Psicotica perché la dittatura non ha alcun dubbio su chi deve decidere. Hitler, Mussolini, Tito sono stati tutti personaggi ipervisibili, affascinanti, che schiacciano con le loro parole; la mediocrazia è perversa perché cerca di dissolvere l’autorità nelle persone facendo in modo che la interiorizzino e si comportino come fosse una volontà loro». 

L’inglese standard è la lingua ufficiale della mediocrazia?  
«L’inglese manageriale sì, e uccide l’inglese. È un suicidio linguistico parlare questa lingua quando si è anglofoni, non si può pensare il mondo nella sua complessità o qualsiasi fenomeno sociale utilizzando un vocabolario che non è utile se non alla organizzazione privata». 

Tecnologia, social, colossi del web. Anche lì domina la mediocrazia?  
«Dobbiamo immunizzarci da un certo lessico che parla di progresso, innovazione, eccellenza. Mi interessa che si utilizzino questi strumenti ma si deve analizzare l’impatto che hanno su pensiero, morale, politica. Un utilizzo mirato dei social media, per esempio durante le elezioni, può rendere le persone estremamente manipolabili».  

Il contrario del mediocre è il superuomo, l’eroe?  
«No. L’antidoto è il pensiero critico, perché smaschera l’ideologia, che è un discorso di interessi sotto la parvenza di scienza. E fa subire un trattamento critico analitico a una nozione che qualcuno ci vuole ficcare nel cervello, per esempio l’inevitabilità della vendita di armi o di una nuova autostrada». 

È più ottimista sul futuro?  
«Qualsiasi impegno politico è a metà tra lo scoraggiamento e la speranza. Ed è proprio quando la situazione è scoraggiante che ci vuole il coraggio». 

03/05/17

Ritorna in Libreria "Roma, la pioggia" di Robert P. Harrison.






Ritorna in libreria, dopo quasi un ventennio dalla prima edizione di Garzanti, il bellissimo libro di Robert P. Harrison dedicato a Roma. 

Un giovane studioso di letteratura e un enigmatico personaggio, entrambi stranieri, discorrono passeggiando per le strade e le piazze di Roma. Nella metropoli caotica e decadente – disorientato fantasma della città eterna – le loro cinque conversazioni si accendono a contatto con il quotidiano vuoto di senso e i suoi nevrotici surrogati. Risucchiate nelle spirali di questo romanzo-saggio, che si legge come un “dialogo” della tradizione classica, le odierne crociate antifumo, l’industria del restauro, le automobili, la visita al cimitero in un giorno di pioggia, si trasformano in altrettante occasioni per interrogarsi sulla letteratura, la vera strada che apre all’interpretazione del mondo.

ROBERT POGUE HARRISON (Smirne, 1954). Insegna Letteratura italiana alla Stanford University ed è membro dell’American Academy of Arts and Sciences dal 2007. Ha dedicato i suoi primi studi a Dante, poi ha approfondito i simboli delle immagini e della letteratura occidentali in diversi saggi, molti dei quali tradotti in italiano: Foreste (1995), Il dominio dei morti (2004), Giardini (2009) e L’era della giovinezza. Una storia culturale del nostro tempo (2016).

08/09/16

"L'era della giovinezza" di Robert Pogue Harrison (Recensione).



Dopo Foreste, Il Dominio dei morti e Giardini, un altro importante, meraviglioso libro di Robert Pogue Harrison, che esce in questi giorni per Donzelli

Un libro che parte da una semplice domanda: che età abbiamo in questo momento della nostra storia culturale, quando l'età della giovinezza non è ancora diventata quel futuro di cui si costituisce un preludio ?
Harrison parte da una constatazione: non siamo mai stati così giovani e neppure così vecchi. 

Siamo vecchi nel senso che la nostra appare come una civiltà senescente, che ha alle spalle millenni di evoluzione culturale, guerre, filosofie, scontri e dispute, creazioni e miti. Allo stesso tempo, è una civiltà, quella occidentale, che non è mai stata così giovane, ed è per questo che si assiste ad una americanizzazione dell'intero occidente (a livello culturale: le storie, la musica, la tecnologia, i modelli culturali, provengono quasi tutti dall'america. una cultura e una civiltà giovane, che gioca e solletica con gli istinti di un puer aeternus). 

Per quale motivo gli occidentali che vanno al cinema oggi prediligono, in numeri di massa, gli spettacoli per adolescenti ? (basta consultare le classifiche del box-office per vederlo); perché gli adulti occidentali hanno assimilato ed assimilano così velocemente un linguaggio tecnologico primitivo, quasi infantile (basti pensare alla diffusione degli emoticon, nella messaggistica digitale)? Perché i vecchi dell'occidente (un termine che oggi comprende anche molti dei paesi del medio ed estremo oriente) somigliano sempre più a giovani che non vogliono crescere ?

In quattro parti densissime - e un epilogo - Harrison, attraverso incursioni nelle culture e nella storia, nella filosofia e nella letteratura,  ripercorre ed evidenzia i modi attraverso cui gli spiriti della giovinezza e della vecchiaia hanno interagito tra loro dall'antichità fino ai tempi nostri, mutuando dal linguaggio scientifico il concetto di neotenia - ossia il mantenimento di caratteristiche giovanili anche nell'età adulta. 

L'impulso giovanile è essenziale per per sviluppare un indirizzo innovativo nel campo della cultura e per mantenere viva la genialità. Non solo: anche per esaltare i rapporti tra gli uomini e costruire società migliori. 

Nel terzo capitolo, Harrison ripercorre alcune cruciali rivoluzioni neoteniche della storia dell'umanità:  quella messa in atto da Socrate, in  Grecia, nel V secolo avanti Cristo, Socrate che appariva ai suoi discepoli non nelle vesti di un vecchio saggio, ma come una più matura incarnazione delle loro stesse aspirazioni giovanili; quella attuata da Platone, il quale sulla base della più vecchia conoscenza umana - i miti - fu in grado di assicurare un futuro alla filosofia, facendone l'unica legittima erede della perduta antichità dell'anima;  quella attuata da Gesù Cristo, che invitò gli uomini a diventare come fanciulli per poter entrare nel Regno e che nel modello della crocefissione, incarnò un uomo definitivamente nuovo - "Un bambino è nato tra noi" ; quella contenuta nella dichiarazione di indipendenza e nella Costituzione americana, e nel discorso di Gettysburg di Lincoln,  la Costituzione più vecchia del mondo ancora vigente, e allo stesso tempo, la più giovane

Il nuovo, ovvero il giovanile, spiega Harrison in un emozionante capitolo che si intitola Amor Mundi, offre al passato un futuro in cui crescere e conferisce a ciò che è nuovo delle fondamenta per resistere saldamente. Questa è la neotenia, il contrario della giovanilizzazione (alla quale assistiamo in questi tempi) la quale conferisce alla gioventù un'anzianità prematura e all'anzianità una immatura giovanilità. 

E' dunque fondamentale, sostiene Harrison, una nuova pedagogia permanente che consenta ai nuovi di comprendere se stessi, nella solitudine della riflessione e dello studio, fuori dalla accecante attrazione - risucchiante - della luce degli impianti digitali sempre più invasivi, sempre più totalizzanti.  Solo nella percezione della separazione del sè, dal mondo, e dalla consapevolezza della saggezza e della consistenza del vecchio - un vero e proprio Amore Giovanile (un Amor Mundi giovanile) - raggiungeranno lo scopo di migliorare la vita, perché imparare è vita e la vita significa imparare. 

Un libro che è un'avventura dello spirito e una splendida ricapitolazione dell'avventura umana, dall'esito futuro assai incerto. 

Fabrizio Falconi




12/05/15

Montaigne appena pubblicato da Fazi: l'amore e l'eros.


Dopo il successo della prima raccolta Coltiva l'imperfezione, prosegue la pubblicazione di tutti i Saggi in sette agili volumi.  Divisi su base tematica e corredati di apparati critici, questi nuovi volumi ricostruiscono il disegno unitario dell’opera complessiva di Montaigne e legano l’autore agli aspetti più significativi dell’esistenza quotidiana. Questa volta, al centro delle inarrivabili riflessioni del grande filosofo c'è l'amore, l'eros, quell'«alleanza tra immaginazione e corpo» che – se applicata ai sentimenti degli uomini – li rende intensi quanto volubili.

Il libro Leggere Montaigne è come ritrovare un amico. Un amico saggio e stravagante, con una vasta esperienza del mondo e una curiosità intellettuale sempre viva, che ogni volta ascoltiamo con piacere. 
La distanza che sembra separarci da lui scompare quando ci lasciamo conquistare dall'atmosfera di intimità che si respira fin dalle prime pagine dei suoi Saggi.

La fame di Venere raccoglie alcuni tra i testi che il pensatore francese scrisse per ultimi, già in là con gli anni. Disinvolto e disincantato, Montaigne riguarda alla propria vita senza amarezza né sentimentalismi, e come sempre il tema di partenza va presto in frantumi, lasciando il posto a un caleidoscopio di riflessioni, aneddoti e digressioni: spregiudicato e moderno, Montaigne scarta da un pensiero all'altro, arrivando a toccare con straordinaria vicinanza gli aspetti più quotidiani della nostra vita, ed è proprio a partire da uno di questi – la fame di Venere, l'appetito sessuale – che qui ci regala una delle più interessanti testimonianze sul modo in cui la sessualità e il rapporto tra uomo e donna erano intesi nel Cinquecento. Parla dell'amore, del sesso e del matrimonio, ma non solo: si occupa di comportamenti assimilabili alla ninfomania e al priapismo, fornisce un piccolo manuale su come gestire i rapporti con le prostitute – il prezzo, dove incontrarsi, come trattarle e così via –, enuclea gli elementi indispensabili per un corteggiamento di successo e ci offre una pungente analisi della gelosia, che considera la peggior malattia del nostro spirito dopo l'invidia.

Tutto questo con la sincerità di chi non desidera altro che essere fedele a se stesso, senza nascondere nulla del proprio pensiero, perché la sua paura più grande è «essere scambiato per qualcun altro».

L'autore Michel Eyquem nacque nel 1533 a Bordeaux, da una ricca famiglia da poco insignita del titolo nobiliare di "signori di Montaigne". Educato, secondo l'uso dell'umanesimo, nel culto della classicità - e per indole incline allo stoicismo -, dopo gli studi, a ventiquattro anni, esercitò per i successivi tredici come consigliere presso il Parlamento di Bordeaux, città della quale più tardi venne eletto sindaco. Apprezzato e conosciuto diplomatico, spesso in missione per conto del re, visse nel sanguinoso periodo delle guerre di religione, uno dei più bui dell'intera storia francese, tanto che a trentasette anni, amareggiato, decise di abbandonare la vita mondana per ritirarsi nel suo castello - in particolare nella sua tour de librairie, la 'torre della biblioteca'-, dove rimase a meditare, studiare e scrivere. Morì nel 1592. I suoi Saggi, pubblicati per la prima volta nel 1580, sono unanimemente considerati una pietra miliare della letteratura occidentale e - avendo inspirato, tra le altre, personalità come Nietzsche ed Emerson, Rousseau e Proust - hanno avuto una profondissima influenza nella storia del pensiero europeo.