Visualizzazione post con etichetta roma. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta roma. Mostra tutti i post

02/11/22

2 Novembre: La Lettera d'Amore a Mastroianni sulla sua tomba al Verano a Roma

 

La Tomba di Mastroianni al Verano fotografata qualche giorno fa /foto Rashide Andrade

Oggi, il giorno dei morti, vorrei ricordare il grande Marcello Mastroianni (1924-1996) sepolto al Cimitero Monumentale di Roma al Verano. 

Proprio qualche giorno fa, abbiamo realizzato questa foto e quella che segue: ci sono infatti morti che continuano a parlare e a ricevere messaggi anche molto tempo dopo la loro morte, per quello che hanno lasciato artisticamente certo, ma anche per la persona che sono stati. E' così bellissimo questo bigliettino lasciato da una ammiratrice che si definisce "giovane" e che si firma Claudia. Un semplice bigliettino con l'inchiostro scolorito dalla pioggia. 

La lettera lasciata da una ammiratrice sulla Tomba di Mastroianni al Verano/foto di Rashide Andrade

Si scopre, avvicinandosi, che il biglietto contiene nient'altro che alcune delle frasi più famose nella storia del cinema: quelle pronunciate da Marcello Mastroianni (Guido Anselmi) nel suo monologo contenuto nel capolavoro di Fellini, 8 e Mezzo e che rappresenta pienamente lo spirito del film. 

Tu saresti capace di piantare tutto e ricominciare la vita da capo? Di scegliere una cosa, una cosa sola e di essere fedele a quella, riuscire a farla diventare la ragione della tua vita, una cosa che raccolga tutto, che diventi tutto proprio perché è la tua fedeltà che la fa diventare infinita, saresti capace? 

Qui sotto il video.

E un ricordo oggi, per tutti i nostri morti.

Fabrizio Falconi - 2022


Fabrizio Falconi


01/11/22

La Poesia di Ognissanti: "Er Mortorio" di Aldo Fabrizi







Er mortorio 
Aldo Fabrizi 

Appresso ar mio num vojo visi affritti,
e pe’ fa’ ride pure a ‘ st’occasione
farò un mortorio con consumazione… 
in modo che chi venga n’approfitti. 

Pe’ incenso, vojo odore de soffritti, 
‘gni cannela dev’esse un cannellone, 
li nastri –sfoje all’ovo e le corone 
fatte de fiori de cocuzza fritti. 

Li cuscini timballi de lasagne, 
da offrì ar momento de la sepportura 
a tutti quelli che “sapranno” piagne. 

E su la tomba mia, tutta la gente 
ce leggerà ‘sta sola dicitura: 
Tolto da questo mondo troppo al dente”.


26/09/22

Una storia veramente misteriosa: L'anello di Grace scomparso e la Biga di Monteleone

 


Un carro etrusco unico al mondo che 120 anni fa dall'Umbria e' finito a New York a far bella mostra di se' al Metropolitan Museum

Un intrigo ordito da generali, conti e cavalieri tra distrazioni, incapacità e connivenze nell'Italia del primo Novecento. 

Ma anche la testimonianza inedita di una donna con un anello dai magici poteri, che aggiunge mistero a mistero

A Roma al museo di Villa Giulia è tornata alla ribalta la vicenda contrastata della biga di Monteleone di Spoleto.

, protagonista di un docu firmato da Dario Prosperini - in anteprima questa sera all'Etru - che per la prima volta ne ricostruisce passo passo le tappe con la voce dei protagonisti di allora e diversi documenti inediti. Mentre apre nuovi interrogativi sulla disattenzione collettiva che ha regnato a lungo nel nostro Paese nei confronti del patrimonio dell'arte. 

Oggetto di una battaglia che dura da vent'anni con i 600 abitanti del borgo umbro che ne richiedono a gran voce il ritorno in patria, la biga, che gli americani hanno ribattezzato il Carro d'oro, e' un capolavoro del VI secolo a.C. fatto di legno di noce e lamine di bronzo scolpite, opera della sapienza etrusca ma ispirato dall'arte greca, alla quale si riallaccia narrando le gesta di Achille. 

Fabbricato a Vulci, la biga era passata di mano, offerta a un militare che alla fine se la porto' nella tomba insieme a tutto il suo tesoro di oggetti di bronzo e terracotta. 

A ritrovarlo, 2600 anni dopo, furono due contadini, Isidoro e Giuseppe Vannozzi, che l'8 febbraio del 1902 scavando davanti al loro casolare si trovarono sotto gli occhi la tomba del comandante etrusco. Ceduta dai Vannozzi per 900 lire (oggi sarebbero poco piu' di 4mila 100 euro) e oggetto all'epoca di uno scandalo che occupo' a diverse riprese le pagine dei giornali, la biga passo' comunque velocemente di mano per poi arrivare nel 1903 a New York. 

Le carte ritrovate nel 2018 da Guglielmo Berattino, 16 lettere autografe tra i protagonisti della compravendita, dimostrano oggi senza piu' ombra di dubbio che l'allora direttore del Met, Luigi Palma di Cesnola, sedicente generale canavese che aveva contribuito a fondare il prestigioso museo americano, l'acquisto' per 250 mila lire dall'antiquario romano Ortenzio Vitalini, numismatico del re, che si firma col titolo di cavaliere

Questo con il tramite di un altro italiano, il conte Gioachino Toesca Caldora di Castellazzo, amico di Cesnola. 

Ma soprattutto in barba all'editto del 1820, ereditato dallo stato Pontificio e allora ancora in vigore in Italia, che gia' vietava l'esportazione di opere d'arte

La prima legge di tutela del patrimonio dello Stato italiano arriva pero' nel giugno del 1902, quando la biga aveva gia' lasciato l'Italia, diretta a Parigi dove rimase mesi prima di essere spedita a New York.

Mentre la normativa che avrebbe disciplinato il funzionamento di quella legge e' del 1909. 

Anche per questo di fronte al finimondo che a un certo punto scoppia in Italia su quel carro etrusco e all'interrogazione parlamentare del senatore Felice Barnabei, fondatore del museo di Villa Giulia, i protagonisti della compravendita rimangono tranquilli. 

E lo erano in fondo sempre stati, tanto che la biga era stata esposta in vetrina, a Roma, nel negozio di Vitalini. 

A rivelarlo in una testimonianza recuperata in una pubblicazione del 1927 da Valentino Nizzo, l'etruscologo oggi alla guida di Villa Giulia, e' il singolare racconto di una signora inglese, Grace Filder sposata al conte Solone di Campello, che alla descrizione del carro aggiunge quella di un prodigioso anello, che le sarebbe stato venduto a Monteleone, anch'esso proveniente dalla tomba del capitano. 

Un monile grazie al quale avrebbe trovato la forza per imprese decisamente notevoli, che la portarono a sorvolare in areostato mezza Italia e persino a scalare la vetta piu' alta del Monte Rosa. 

Sepolta nel cimitero acattolico di Roma, Grace potrebbe essersi portata nella tomba il magico anello, unica testimonianza, tutta da verificare sottolinea Nizzo, della presenza di gioielli nella tomba del capitano. 

Chissa', "quello che e' davvero grave e' proprio la dispersione di informazioni, insieme ai tentavi di depistaggio che hanno accompagnato questa scoperta e che rendono frammentaria la nostra conoscenza di uno dei contesti piu' importanti del VI sec. a C", fa notare il direttore del museo.

Dopo due decenni di manifestazioni di piazza, denunce, appelli ai vari ministri che si sono succeduti, gli abitanti di Monteleone, intanto, sperano ancora. Guido Barbieri, tenente colonnello dei carabinieri per la Tutela del patrimonio culturale di Perugia, come pure Berattino, invitano a puntare sulla diplomazia culturale: "i margini di manovra ci sono", sottolinea il colonnello. Marisa Angelini, la battagliera sindaca di Monteleone, spiega di aver appena scritto una nuova lettera al ministero. 

Chiunque sara' il prossimo ministro della cultura e' avvisato: sul ritorno della biga d'oro i monteleonesi non mollano. 


La tomba di Charlotte "Grace" Filder, al Cimitero Acattolico alla Piramide, a Roma 


10/08/22

L'incredibile storia del ristoratore romano che finì protagonista del Fellini's Satyricon


Nel Satyricon, realizzato nel 1969 da Federico Fellini, film oggi assai ostico, colmo di visioni apparentemente scollegate, privo di una vera e propria trama, cupo e volutamente respingente, è centrale il personaggio di Trimalcione, che Fellini riprende fedelmente dal testo di Petronio.
Anzi, il peso della cena da Trimalcione (liberto arricchito che sfoggia un lusso volgare) risulta inferiore nella pellicola. Diciannove minuti e cinquanta secondi, il sedici per cento del totale del film. Mentre nel “romanzo” l’episodio occupa più di un terzo di spazio, il trentasei per cento per la precisione.
Altra differenza fondamentale è che nel libro il poeta Eumolpo, interpretato dal grande Salvo Randone non è presente nella cena, e nel film sì.
La cosa geniale è che Fellini scelse per il ruolo di Trimalcione, così importante, il "Moro", all'anagrafe Mario Romagnoli, oste capitolino, titolare del ristorante “Al moro” e come tale (“il Moro”) accreditato nei titoli di coda.
Il ristorante, piccolo, intimo, era uno di quelli preferiti da Fellini, a due passi da Fontana di Trevi.
Fellini fu colpito dallo sguardo “sabbioso” dell’uomo, dalla sua faccia di “Onassis tetro”, immobile, quasi una mummia.
Una faccia più "romana" di questa, in effetti, sembra impossibile che potesse essere trovata.
"Il Moro" si era portato sul set la moglie e la figlia che, nei primi giorni, avevano tentato invano di fargli ripassare le battute.
Nonostante tutta la sua buona volontà da alunno delle scuole elementari se ne stava li col faccione buio e greve.
La lentezza, la concentrazione per cercare di ricordare una parola erano tali per cui l'impresa risultava patetica e impossibile.
Racconta Fellini: "Allora per sbloccarlo gli dissi: senti Moro, prova a dire i numeri, unoduetrè, quattrocinque... Senonché il ritmo della mia voce che gli dava le battute a questa nuova emozione di dover dire dei numeri non combinava nulla di buono. Come fare? Alla fine fu lui, geniale, a suggerire una soluzione. "Potrei dire dei menù. Perché lì io vado come un treno". E così Trimalcione raccontava al poeta Eumolpo, un artista cialtrone, miserabile e scroccone, come aveva fatto le sue ricchezze dicendo "Oggi ciavemo du' cotolette a scottadito che ve magnate pure le dita, poi n' insalata con la rughetta, ' na goccia d' olio, tutto limone e niente aceto che l' aceto sulla rughetta non ci sta bene..."
Geniale.

22/07/22

Tornano a splendere - e aperte al pubblico - a Roma, le Corsie Sistine! 1200 metri quadrati di affreschi!

 



Mille e 200 metri quadri di affreschi. Il ciborio con i gigli Farnese in foglia d'oro e la pala d'altare firmata da Carlo Maratta. E soprattutto gli otto secoli di storia, accoglienza e bellezza. 

Dopo due anni di restauro, tornano a mostrarsi in tutta la loro luce al pubblico le Corsie Sistine al complesso Monumentale di S. Spirito in Saxia, l'ospedale piu' antico d'Europa

Un incredibile esempio di architettura civile e arte, voluto nel 1475 da Papa Sisto IV, alla cui riapertura è intervenuto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

"La corsia Sistina - racconta la soprintendente speciale di Roma, Daniela Porro - era la corsia storica dell'ospedale voluto Sisto IV Della Rovere in occasione del Giubileo". 

Reclutando l'architetto Baccio Pontelli e lo scultore Andrea Bregno, il Pontefice aveva infatti voluto ristrutturare tutto l'Arcispedale

L'edificio era costituito da due imponenti sale che prenderanno il nome dei medici Lancisi e Baglivi, raccordate da un tiburio ottagonale sotto il quale svetta un elegante ciborio, probabilmente unica opera romana di Andrea Palladio, arricchito dalla pala d'altare dedicata a San Giobbe, eseguita da Carlo Maratta. 

Ma ci sono anche due maestosi portali, il piu' esterno del Bernini e quello interno, detto del Paradiso, opera di Bregno

E poi la seicentesca Ruota degli Esposti dove venivano depositati i neonati, altrimenti tragicamente abbandonati sulle rive del Tevere.

"E' una sorta di cappella Sistina degli ospedali storici, sia per l'importanza del committente, sia per la straordinaria bellezza dell'apparato decorativo e l'ampiezza del luogo - prosegue la Porro -. Gli affreschi ci raccontano la storia degli anni '70 del '400 e le imprese voluta dal Papa, dalla costruzione di ponte Sisto alle chiese realizzate in quegli anni". 

In tutto, oltre 60 scene realizzate da artisti di scuola umbro-laziale e da discepoli di Melozzo, Ghirlandaio, Pinturicchio e Antoniazzo Romano. 



"Poi, pero', la storia continua - aggiunge la Porro - e il complesso è stato arricchito con il Palazzo del commendatore, con la Chiesa di S. Spirito in Sassia, con la Biblioteca Lancisiana".

Finanziati dalla Regione Lazio per la Asl Roma 1, i lavori di restauro si sono concentrati anche sul ciborio, nei secoli, racconta la restauratrice Maria Rosaria Di Napoli, "segnato da sporco e percolamenti dall'alto. La difficolta' maggiore, equilibrare i diversi materiali, perche' questo e' un gioiello: abbiamo il legno policromo e dorato, lo stucco, la tela, i marmi. I colori non si vedevano quasi piu'. Anche il lanternino, tutto di legno, proprio per l'acqua, aveva perso molta superficie pittorica. Ma l'emozione piu' grande è stata riportare finalmente alla luce la firma originale di Maratta sulla pala dedicata a San Giobbe". 

Per l'occasione, il complesso dell'Arcispedale verra' valorizzato con un progetto di illuminotecnica, aperto ai cittadini dal 22 al 24 luglio.

21/07/22

Il Circo Massimo (46 a.C.) diventato ormai un via vai di TIR e megapalchi da migliaia di watt. Arresi a un declino inarrestabile?

 


Scrivo una cosa completamente contro corrente rispetto al sentire contemporaneo e al sentire di questa città meticcia che ormai si è abituata - assuefatta, meglio dire - a tutto. Roma:

Ma perché l'area archeologica del Circo Massimo (il più grande anfiteatro dell'antichità - 46 a.C.) deve essere diventato a Roma l'unico spazio per qualsiasi concerto da Vasco a Ultimo con 100.000 persone a botta?
Ma possibile che anche questa giunta "progressista" sia così povera di idee e soluzioni?
Davvero bisogna sottoporre ogni santa settima estiva, o ogni due giorni il centro archeologico più famoso e prezioso del mondo intero allo strazio selvaggio, con i mega Tir sull'arena, i cessi in file chilometriche sullo sfondo della Passeggiata Archeologica, i mega amplificatori che sparano 800.000 watt addosso ai palazzi imperiali del Foro Romano, le 100.000 persone che lasciano un porcaio ogni sera in tutta la zona a 100 metri dal Colosseo ??
Lo so che sembra una figata per tutti. Ma che non si riescano ad allestire concerti in altri luoghi di Roma, meno nobili e fragili, mi sembra una vera eresia.
E la Sovrintendenza, la famosa sovrintendenza romana ai Beni Archeologici, che quando c'è da spostare un sampietrino avanza mille vincoli? Che fa, dorme? Va tutto bene? Aspettiamo i crolli definitivi?
Quod non fecerunt barbari fecerunt moderni ludus !

Fabrizio Falconi - 2022

30/04/22

Libro del Giorno: "La Roma di Pasolini" (Dizionario urbano) di Dario Pontuale

 


Tra le molte, moltissime uscite editoriali (anche troppe) concomitanti con il centenario della nascita del poeta, si segnala degno di nota questo volume uscito dalla Nova Delphi e firmato da Dario Pontuale, che si concentra sulla Roma di Pasolini, scandagliando in trecento serrate pagine, il rapporto e la vicenda sentimentale esistenziale e letteraria che Pasolini ha intessuto con la città che lo accolse, nel gennaio del 1950, insieme alla madre, entrambi sfollati dal nord-Italia dopo i tragici accadimenti della sua famiglia, con la morte dell'amato fratello diciannovenne Guido, ucciso nel 1944 durante i fatti di Porzus. 

A Roma, come è noto, Pasolini cambiò vita e poi anche mestiere. In un irrequieto e continuo spostamento, insieme alla madre, di quartiere in quartiere, alla ricerca di una sistemazione e di un lavoro, Pasolini, durante il periodo dell'insegnamento in una scuola privata di Ciampino, fece il suo apprendistato romano appropriandosi soprattutto di quel mondo di diseredati e poveracci che popolava le borgate e le periferie della Capitale, le quali a partire da quegli anni, conobbero una espansione micidiale e incontrollata, "effetto collaterale" del cosiddetto "boom economico" che avrebbe trasformato rapidamente gran parte della gente di Roma, per l'orrore di Pasolini, testimone furibondo di questi cambiamenti, in piccoli borghesi o aspiranti tali. 

La vita di Pasolini a Roma si svolgeva, rutilante, in quegli anni, su un doppio binario: quello della sua vita privata, consumata a metà tra la gente di periferia, dove inseguiva il mito di un "buon selvaggio" ormai in via di estinzione, e i salotti intellettuali di Roma dove venne molto gradatamente accolto grazie all'amicizia di poeti e scrittori (in primis Sandro Penna, Attilio Bertolucci, Caproni, poi Moravia); e quello della sua vita pubblica, con i primi romanzi pubblicati, le controversie con i critici e con la censura e poi il folgorante esordio cinematografico con Accattone (1961) che gli aprì le porte della riconoscibilità, della considerazione internazionale, del mondo polemico e controverso delle battaglie civili di quegli anni, dentro una Italia fossilizzata nella gabbia di valori cattolici non più sentiti veri, molto lontani dal reale sentire di un popolo che era stato stremato dalla dittatura, dalla terribile guerra e voleva ricominciare a vivere, a modo suo. 

Il libro di Dario Pontuale racconta tutto questo e lo fa in modo originale, sotto forma di un pratico dizionario - quasi una sorta di moderno baedeker - che riassume in più di un centinaio di voci i luoghi romani che appartengono a quella che ormai è la mitologia pasoliniana: i suoi ristoranti, i suoi quartieri, le sue strade, le sue case, le tappe che hanno scandito la sua vita romana, consumata in appena venticinque anni eppure densissima di cose, avvenimenti, eventi tragici, fino al suo assassinio nella terribile notte di novembre del 1975. 

Ogni voce, nel libro di Pontuale è minuziosamente descritta; ogni borgata o quartiere periferico di Roma che ha visto il passaggio di Pasolini, la sua presenza. Il libro inoltre sfrutta un pratico espediente ipertestuale, per collegare tra di loro le diverse voci pasoliniane, permettendo al lettore, anche quello più attrezzato, di orientarsi, scovando dettagli e cose nuove. 

Oggi più che mai, riscoprire il cammino di Pasolini dentro Roma, il suo sviscerato amore e il suo sviscerato odio per la città che meglio di ogni altra rappresentava il collasso del mondo arcaico/contadino/proletario italiano e il trionfo del nuovo conformismo borghese, aiuta a capire meglio il nostro paese e anche a riscoprire la città della grande bellezza, in una veste del tutto nuova e ancora più autentica. 



19/04/22

La Basilica di San Lorenzo fuori le Mura - 2000 anni di storia, compreso il bombardamento del 1943


 

San Lorenzo fuori le mura e le spoglie di Santo Stefano il primo martire cristiano.

 

Quando il 19 luglio del 1943 il primo bombardamento degli alleati piovve dal cielo, per Roma fu uno choc  inaudito: dall’inizio della guerra infatti, in città i romani non facevano altro che rassicurarsi a vicenda, garantendosi che mai e poi mai gli alleati americani o inglesi avrebbero osato bombardare la città del Vaticano e del Papa.  

La pioggia di bombe del 19 luglio smentì clamorosamente queste previsioni e mandò un chiaro avviso all’esercito e ai vertici fascisti, alleati con i tedeschi. Le foto del Papa, Pio XII con le braccia allargate in una specie di grido disperato lanciato verso il cielo, scattate proprio nelle vicinanze della Basilica di San Lorenzo fuori le Mura, gravemente danneggiata, fecero il giro del mondo in poche ore.

Oltre ad aver inferto un duro colpo ai romani infatti, quel primo bombardamento aveva anche colpito uno dei più preziosi simboli della cristianità a Roma. San Lorenzo fuori le Mura infatti custodisce i suoi tesori dall’epoca di Costantino Imperatore quando fu edificato il primo nucleo della Basilica sotto la supervisione di Papa Silvestro, per ospitarvi le tombe dei primi martiri cristiani. 

E anche se la Basilica fu intitolata a San Lorenzo, uno dei sette diaconi di Roma, martirizzato sotto l’imperatore Valeriano nel 258 d.C., pochi sanno che essa custodiva da secoli anche le spoglie di Santo Stefano, colui che la Chiesa cattolica venera come primo martire cristiano, la cui festività si celebra il 26 dicembre, il giorno dopo la Natività del Signore. Il martirio di Stefano, tra i primi diaconi scelti dai Dodici Apostoli subito dopo la crocefissione di Gesù, è descritto infatti negli Atti degli Apostoli e viene fatto risalire al 36 d.C. quindi appena pochi anni – o mesi ? (considerando l’errore di datazione sulla nascita di Gesù ) – dalla morte di Cristo.

A Stefano gli Atti degli Apostoli dedicano quasi tre interi capitoli (6,7,8) con informazioni anche piuttosto precise sulla sua morte visto che in quel Testo viene affermato che alla morte per lapidazione di Stefano, a Gerusalemme,  assiste anche Paolo, che ancora non si è convertito (dunque prima del  40 d.C.).            .

Pio XII a San Lorenzo il giorno dopo il bombardamento

In quanto a chi fosse realmente Stefano, a quale fosse la sua professione, e la sua vita, sappiamo soltanto che dovette essere un erudito, perché con la sua eloquenza tenne testa ai suoi interlocutori pagani, al punto che per farlo essi dovettero ricorrere alla violenza.

Essendo poi il primo martire Cristiano, Stefano ha anche una lunghissima vicenda che riguarda le sue reliquie, vere e presunte, che furono disperse e rinvenute in disparati angoli d'Europa.

L'episodio più famoso è però sicuramente il rinvenimento miracoloso avvenuto nel 415 d.C. a Cafargamala (raccontato anche nella Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine), nei pressi di Gerusalemme, dove poi furono solennemente portate dal vescovo Giovanni II.

Qualche anno più tardi, nel 439 d.C. l'imperatrice Eudossia Atenaide, dopo aver fatto costruire una basilica in onore di Stefano, portò con se a Costantinopoli parte del corpo. E durante il pontificato di Pelagio II (579-590), per interessamento dell'imperatore Giustiniano I, quelle insigni reliquie furono traslate da Costantinopoli a Roma, dove insieme a quelle dei Santi Lorenzo e Giustino, furono sistemate nella Basilica di San Lorenzo fuori le Mura 

La reliquia della testa di Santo Stefano, invece,  si esponeva nella Basilica Ostiense di San Paolo fuori le mura. Il braccio destro, sotto il pontificato di Alessandro III (1159-1181), era esposto in una nicchia dell'Oratorio dedicato a Maria SS.ma a S. Pietro in Vaticano, dove è ancora oggi esposto in un reliquiario d'argento, dono del cardinale Scipione Cobelluzi.

Tratto da: Fabrizio Falconi - Misteri e Segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton 2013-2017


16/04/22

Ingeborg Bachmann e Roma, un destino tragico

 


Sto leggendo in questi giorni l'epistolario tra Paul Celan e Ingeborg Bachmann, meritoriamente pubblicato dall'editore Nottetempo, di cui parlerò più avanti, e mi torna alla mente il tragico destino della grande scrittrice austriaca, innamorata del nostro paese e di Roma, in particolare, dove finì i suoi giorni nel modo più tragico. 

Dopo diversi soggiorni, in gioventù e nell'età matura, la Bachmann era tornata nel 1965 a Roma, a trentanove anni. Era una autrice ormai affermata, anche se il suo stile raffinatissimo, le sue poesie rarefatte e i racconti e i romanzi densi e magici, non potevano essere destinati a un grande pubblico. 

In quel periodo poi, la scrittrice soffriva per la dipendenza da pillole e alcol e scriveva assai poco. 

Nel 1967 aveva lasciato il suo editore, la Piper Verlag in segno di protesta per aver incaricato l'ex leader dell'HJ (la gioventù nazista) Hans Baumann di tradurre il Requiem di Anna Achmatowa, sebbene la Bachmann avesse caldamente raccomandato l'amico Paul Celan, passando alla Suhrkamp Verlag. 

Nella sua ultima lettera a Bachmann del 30 luglio 1967, Celan la ringraziava per aver preso parte all'"Affare Achmatowa". 

Quattro anni dopo, nel 1971 la Bachmann pubblicò Malina, il romanzo considerato il primo volume di una prevista trilogia intitolata Tipi di morte

L'ultimo lavoro di Bachmann è oggi considerato un "paradigma della scrittura femminile". 

Ancora due anni dopo, la fine improvvisa di uno spirito geniale e tormentato: nella notte tra il 25 e il 26 settembre 1973, Ingeborg Bachmann subì gravi ferite nel suo appartamento romano, in Via Giulia, a causa di un incendio appiccato da una sigaretta accesa mentre si stava addormentando. 

Oggi  si sa che la sua dipendenza dalle pillole fu considerata una delle ragioni dell'incendio. 

Alfred Grisel, un amico intimo, riferì di una visita a Bachmann a Roma all'inizio di agosto 1973: “Sono rimasto profondamente scioccato dall'entità della sua dipendenza dalle pillole. Dovevano esserci circa 100 pezzi al giorno, il cestino traboccava di scatole vuote. Aveva un aspetto brutto, era pallida come la cera. E su tutto il corpo coperto di macchie. Mi chiedevo cosa potesse essere. Poi, quando ho visto la Gauloise che stava fumando scivolare dalla sua mano e bruciarsi sul braccio, l'ho capito: ustioni causate dalla caduta delle sigarette. Le tante pillole avevano reso il suo corpo insensibile al dolore.”

Dopo il grave incidente, la Bachmann fu portato all'ospedale Sant'Eugenio. La sua forte dipendenza dai sedativi (barbiturici), di cui i medici curanti inizialmente non erano a conoscenza, innescarono convulsioni simili a crisi epilettiche. 

Il 17 ottobre 1973 morì di sintomi di astinenza fatali all'età di 47 anni. 

Fu sepolta il 25 ottobre 1973 nel cimitero di Klagenfurt-Annabichl. 

Le indagini su un possibile sospetto di omicidio furono chiuse dalle autorità italiane il 15 luglio 1974. 

In un necrologio in Der Spiegel, Heinrich Böll descrisse la scrittrice come una dei pochi "intellettuali brillanti" che "non hanno perso la sensualità né trascurato l'astrazione nella loro poesia". 

Il suo patrimonio di 6.000 pagine si trova nella Biblioteca nazionale austriaca dal 1979 e può essere visualizzato nell'archivio della letteratura . Dal 2018 esiste anche un patrimonio parziale di quasi 1000 pagine con scritti e lettere dei suoi giorni da studente. 

Nel febbraio 2021 è stata decisa la vendita della casa dei genitori di Ingeborg Bachmann in Henselstraße 26 a Klagenfurt, alla fondazione privata carinziana.

I beni privati ​​di Bachmann, che Heinz Bachmann, fratello di Ingeborg Bachmann, riportò qui dall'appartamento romano dopo la sua morte, sono ancora conservati nella casa. 

Si prevede di aprire la casa al pubblico sotto la direzione del Klagenfurt Musil Museum.

Fabrizio Falconi - 2022

07/04/22

Le ultime foto di Kurt Cobain, a Roma, un mese prima di morire

 

Cobain all'uscita dall'Hotel Excelsior nel marzo del 1994 un mese prima di morire


Sono le utime, drammatiche immagini scattate a Roma che ritraggono Kurt Cobain, il frontman dei Nirvana, un mese prima della sua morte. 

Furono scattate probabilmente il 3 marzo del 1994 quando Kurt Cobain era a Roma, visto che i Nirvana avevano in programma un tour in Europa, con i concerti già ampiamente pubblicizzati, molti dei quali furono poi annullati, proprio per le condizioni di salute di Cobain. 

Kurt soffriva di una forte depressione e aveva iniziato a stare male già prima del suo arrivo in Italia. Pochi giorni prima del suo soggiorno romano, aveva tenuto il suo ultimo concerto con i Nirvana al Terminal 1 di Monaco, in Germania. 

Ma l'abuso di droghe, la relazione complicata con Courtney Love e i suoi fantasmi personali stavano già portando l’artista sull’orlo del precipizio. 

Lui e Courtney avevano pesantemente litigato e lei se n'era andata in Spagna a lavorare ai suoi progetti. 

Kurt la chiamò al telefono, in lacrime. 

Kurt Cobain nel suo primo viaggio a Roma in visita al Colosseo, nel 1989 

Stava sempre peggio. A Roma era sopraggiunto anche un fortissimo mal di gola, che gli impediva di cantare. 

Courtney Love decise così di raggiungere il marito. Ma nella notte tra il 3 e il 4 marzo del 1994 la situazione cominciò a precipitare: il cantante e la moglie alloggiavano all’Hotel Excelsior, in via Veneto. Con loro c’era anche la figlia, la piccola Frances Bean, di due anni. Nella foto qui sotto si vede Kurt proprio nei pressi dell'albergo, seduto in strada, in difficoltà.



La mattina seguente, quando Courtney si svegliò trovò Kurt sul pavimento privo di sensi e col sangue che gli colava dal naso. Come risultò dai rilievi, Cobain aveva assunto qualcosa come 50 compresse di Rohypnol, un forte farmaco con effetti ipnotici, ansiolitici e sedativi, usato per il trattamento dell’insonnia, in combinazione con alcol – champagne, nello specifico.

La cantante chiamò subito la reception dell’hotel che a sua volta chiamò un’ambulanza: Kurt fu portato di corsa al Policlinico Umberto I dove gli fu fatta una lavanda gastrica, per overdose. In seguito fu trasferito all’American Hospital dove riprese conoscenza qualche ora dopo. Dopo cinque giorni di ricovero Cobain fu dimesso e fece ritorno negli Stati Uniti, annullando il resto della tournée europea. Poco meno di un mese dopo, l’8 aprile 1994, il cadavere di Cobain fu ritrovato dall’elettricista Gary Smith – chiamato per installare un sistema d’allarme - presso la casa che il leader dei Nirvana occupava con la famiglia a Seattle.

Si è molto discusso negli anni se l'episodio romano fu un tentativo di suicidio o un incidente. Courtney Love non ha dubbi, visto che in quella occasione il marito aveva lasciato anche un biglietto con su scritto: 

Ancora Cobain a Roma nel viaggio del 1989 mentre visita San Pietro con i suoi compagni di band

"Il Dottor Baker dice che dovrei scegliere tra la vita e la morte. Io scelgo la morte".  

Incredibilmente comunque, questo campanello d'allarme fu ignorato: si iniziò a valutare questa ipotesi solo dopo che Kurt si suicidò davvero, circa un mese dopo quella overdose, il 5 aprile. 

Di certo l'episodio fu sottovalutato o non affrontato con la giusta determinazione. Quel che è certo è che la morte di Cobain fu l'ennesima tragedia, riservata ad un giovane talento assoluto del rock, una tragedia di sicuro ... preannunciata. 

Fabrizio Falconi -2022 

Kurt Cobain saluta i giornalisti con una Fanta in mano il 3 marzo del 1994 



29/03/22

Pochi lo sanno, ma sotto il Roseto comunale di Roma c'è il grande cimitero ebraico di Roma

 



Il Roseto comunale di Roma, noto per la bellezza e l’enorme varietà di specie che ospita – circa millecento tipi di rose diverse – sorge oggi sul declivio destro del Circo Massimo che sale verso l’Aventino, in un’area divisa in due da Via di Villa Murcia. E per una specie di scherzo del destino, in quest’area sorgeva nel III secolo avanti Cristo un tempio dedicato alla divinità di Flora, dea romana delle piante.

La collocazione attuale del Roseto però è piuttosto recente. Esattamente risale al 1950 quando il Comune di Roma decise di spostare in questo luogo il Roseto comunale che dal 1931 sorgeva invece poco lontano, sul Colle Oppio dove era stato realizzato su incarico del Governatore di Roma Francesco Boncompagni Ludovisi. 

La nuova sistemazione, nell’area attuale dell’Aventino ebbe una storia piuttosto travagliata a causa della particolarità di questa area. Chi oggi visita il Roseto comunale, infatti, non sa di trovarsi proprio sopra una enorme distesa (si calcola siano decine di migliaia) di antiche tombe.   Per l’esattezza tombe ebraiche. Le prime sepolture risalgono al 1645, quando venne istituito in quest’area un cimitero, il cosiddetto Ortaccio degli ebrei. Più anticamente, almeno dal Trecento, il cimitero ebraico di Roma si trovava all’interno della vecchia Porta Portese, nel rione Trastevere. Poi, quando furono costruite le nuove mura, nel 1587, il vecchio cimitero fu abbandonato e spostato proprio nell’area dell’Aventino.

Al primo terreno, concesso da papa Innocenzo X agli israeliti, presto seguirono, a causa del sovraffollamento, altri due lotti.  In questi tre spazi contigui, per circa 250 anni gli ebrei seppellirono i loro morti.

L’area dell’Aventino, però cominciò, in tempi più recenti a fare gola alle autorità comunali, per la sua vicinanza alla zona archeologica.  Falliti i primi tentativi di esproprio, per la opposizione della comunità israelitica, nel 1934, in pieno fascismo, tutta l’area fu definitivamente sottratta al cimitero, dopo un lungo e infruttuoso braccio di ferro da parte degli ebrei di Roma che cercarono protezione anche presso il rabbinato europeo.  Ma erano tempi molto difficili e anche da parte delle autorità religiose del continente arrivò il consiglio di cedere per evitare complicazioni ancor più pericolose.

Così il nuovo piano regolatore fascista ricoprì di terra una gran parte dell’antico cimitero per realizzarvi una nuova arteria di collegamento tra Via della Greca e Viale Aventino (l’attuale Via del Circo Massimo) per farvi sfilare gli atleti in ricordo della Marcia su Roma.

Del vecchio cimitero si salvarono circa ottomila sepolture che furono in gran fretta traslate al Verano.

I terreni dell’Aventino, quelli che non erano stato interessato dall’asfalto per la costruzione di Via del Circo Massimo divennero, durante i combattimenti della seconda guerra mondiale, orti di guerra.  E soltanto nel 1950 il comune decise di trasferirvi il Roseto comunale del Colle Oppio, che era stato distrutto dalle bombe.

La nuova sistemazione fu decisa con il consenso della Comunità ebraica ed il Comune, consapevole che il Roseto avrebbe fatto da copertura e da custodia a tombe e sepolture secolari, decise di rendere omaggio e ricordo della originaria funzione del luogo: così anche oggi si può osservare come i vialetti che dividono le aiuole nel settore delle collezioni delle specie pregiate, formino esattamente la trama visibile dall’alto, di una menorah, il celebre candelabro a sette braccio simbolo degli ebrei.

Ancora oggi, i kohanim, i sacerdoti ebrei, non possono calpestare quelle aiuole e quel giardino, per il divieto imposto dal capitolo XXI della Torah.

Tratto da: Fabrizio Falconi, Misteri e Segreti dei Rioni e dei Quartieri di Roma, Newton Compton, Roma, 2013


12/03/22

Pasolini e l'amore per il calcio. Per chi batteva il suo cuore di tifoso, Bologna o Roma?

 



Pasolini romanista? No. Nella sua vita di tifoso non rinnegò mai il suo amore per il Bologna. 

Eppure nei venticinque anni romani imparò a conoscere e ad amare i tifosi romanisti. Nelle nuove borgate e nei popolari rioni del centro c'era solo una squadra. Difficile non farci i conti, prima o poi. 

Chi lo conobbe ricorda che Pasolini andava all'Olimpico anche quando non c'era il Bologna in trasferta. 

Lo faceva con un blocco degli appunti in tasca, per segnarsi espressioni e imprecazioni che per altri erano la normalità, per lui erano preziosi elementi di quella normalità che cercava di assimilare e restituire nei suoi romanzi. 

Ve lo immaginate? Un bolognese con la riga fra i capelli e vestito di tutto punto, che senza scomporsi annotava su carta i "malimortaccitua" sentiti in curva. Il contrasto doveva essere simile a quello delle tante foto che lo vedono sporcarsi di fango inseguendo un pallone in mezzo ai ragazzini già sporchi di fango. È allo stadio che probabimente sentì quel «Forza, a Treré!» che gli amici di Tommaso Puzzilli gridano giocando al biliardino in "Una vita violenta". 

Perché il calcio in borgata era una questione seria, tanto che attribuire a qualcuno il tifo per "quelli là" equivaleva a un insulto: «An vedi questi! Ammazza che broccolo! […] 'Sto laziale stronzo!», grida Tommaso proprio a quelli che non lo lasciano giocare. 

Ed è sempre lui che, escluso da una partita non di biliardino ma di calcio, si lamenta: «Quale giusti, quale giusti, ma che sarebbe? Che, sete 'a Roma?». Per poi inserirsi di prepotenza: «Nun lo vedi che so' Pandorfini so'?».

La Roma non fu la squadra tifata da Pasolini, ma è quella tifata dalle sue opere. Anche nei primi racconti romani, datati 1950-51, è l'unica fede calcistica evocata. In "La passione del fusajaro" il venditore di fusaglie "Morbidone" si innamora di un maglione visto in una vetrina a Campo de' Fiori e l'infatuazione verso il costoso capo d'abbigliamento lo porta a fantasticare su una vita perfetta: «Gli sguardi di ogni pischella erano per lui. Poi, la domenica, a Ostia – no, alla partita di calcio. La Roma avrebbe vinto – a dispetto di Luciano e Gustarè – ed egli col maglione azzurro sarebbe andato a ballare in una sala del Trionfale: e avrebbe ballato con le più belle ragazze»

I suoi personaggi sono romanisti perché i suoi amici erano romanisti

Non una scelta, ma pura mimesi della realtà: era romanista il trasteverino come erano romanisti i dimenticati che vivevano nelle baracche fuori città. 

Chi ha visto e si ricorda l'episodio "Che vitaccia!" in "I mostri" di Dino Risi, in cui Vittorio Gassman spende gli utimi spicci per andare allo stadio, sa di cosa si parla. 

Per Pasolini, i romanisti «più commoventi» erano gli immigrati dalle campagne e dal Meridione: «Il loro amore per la Roma strappa le lacrime. L'amano disperatamente, e gridano poco: ingoiano dolori e macinano gioie in silenzio. E non dimenticano facilmente»

Lo scrisse in un articolo uscito esattamente sessanta anni fa su "l'Unità". Era la cronaca di un derby del 1957 vinto 3-0 dalla Roma. 

Per il giornale comunista non andò in tribuna stampa (non ci volle andare nemmeno tre anni dopo, quando fece da cronista per le Olimpiadi): si tuffò nel settore popolare pieno di vita, accompagnato dall'esperto Sergio Citti, che all'epoca non era ancora Sergio Citti ma "er Mozzone" di Tor Pignattara, romanista come era romanista il fratello Franco e com'è romanista Ninetto Davoli. Ragazzi di vita, ragazzi di Roma. 

17/01/22

Storia di una foto veramente incredibile. Gianni Minà racconta come fu possibile mettere seduti allo stesso tavolo Alì, Marquez, Leone e De Niro

 



E' una foto che gira parecchio in rete, e che sicuramente a qualcuno sarà capitato di incontrare, soffermandovisi con curiosità per il parterre de roi che mette insieme. 

Accanto al giornalista Gianni Minà - ultimo a sinistra nella foto - artefice dell'incontro, nella foto è possibile riconoscere, sempre da sinistra, Robert De Niro, il grande Muhammad Alì (alias Cassius Clay), il più grande pugile di sempre, Sergio Leone e Gabriel Garcìa Màrquez, premio Nobel per la Letteratura, nel 1982.

Ma qual è la storia di questa foto e dove e quando e come fu scattata? 

Lo racconta proprio oggi - anniversario della nascita di Muhammad Alì, che avrebbe compiuto 80 anni - sulle pagine de Il Messaggero, lo stesso Gianni Minà. 

Alla fine dell'intervista realizzata da Stefano Boldrini, arriva la domanda sulla celebre foto.

Parliamo della foto storica - chiede Boldrini - Ali, De Niro, Leone, Marquez e Minà. Come fu possibile? 

Fu scattata a Trastevere - risponde Minà - davanti al ristorante "Checco er Carrettiere" ed è la summa di quello che è stato il mio modo di essere, del piacere che dà l'amicizia e della possibilità di riunire in una sera d'estate cinque amici avidi di curiosità per ascoltare i racconti del più affascinante, Muhammad Alì, un pugile, ma soprattutto un combattente della vita.  Una combriccola così è irripetibile e ancora adesso non so capacitarmi di come sia potuto accadere.
So  solo che tutto cominciò con Muhammad Alì mio ospite nella puntata di Blitz

Questo particolare permette anche di specificare - nella intervista di Boldrini questo non viene riportato - la data in cui deve essere avvenuta la cena. Perché la puntata di Blitz, la trasmissione allora curata da Gianni Minà, con ospite Muhammad Alì (di cui pubblico una foto, sotto), andò in onda il 28 maggio 1982 e dunque la cena si svolse in uno dei giorni - o la sera stessa - intorno a quella data. 

Fabrizio Falconi



30/12/21

Torna in libreria, in una nuova edizione, "I Fantasmi di Roma" di Fabrizio Falconi

 



La storia della città eterna attraverso i suoi misteri, le sue inquietanti presenze, le sue figure spettrali

Lo spirito di Messalina, le ombre che frequentano le catacombe cristiane, i celebri spettri di Beatrice Cenci e Lucrezia Borgia; altri meno conosciuti come la bella Costanza De Cupis, il fantasma dalle mani mozze o l'infelice Emmeline che abitò la splendida Villa Stuart, e poi i fantasmi di Shelley e Keats fino alle ossessioni di Dario Argento: questo libro ripercorre la storia millenaria della città dei papi e degli imperatori da un punto di vista insolito, attraverso i racconti dei suoi fantasmi e delle sue presenze occulte. Ne emerge una Roma dai tratti magici, legata alle religioni e ai riti misterici del passato, alla tradizione etrusca, ai culti orientali, ai primi riti cristiani. Si parte dai fantasmi che si dice infestino i teatri della città antica e imperiale, per passare a quelli creati dai roghi e dai processi della Santa Inquisizione, e arrivare infine ad alcune presenze più vicine a noi: una finestra su una Roma esoterica misteriosa, inquietante e dal fascino sorprendente.

Tra i fantasmi di Roma:

Storia infelice di Berenice, l'amante dell'imperatore Tito, e del suo fantasma
Il Pantheon, monumento esoterico per eccellenza, e i suoi abitanti misteriosi
La notte delle streghe e il fantasma di Salomè al Laterano
Le geometrie di Athanasius Kircher e il suo spaventoso museo del Collegio Romano
Il fantasma di Donna Olimpia Maidalchini, la Pimpaccia, la donna più temuta di Roma
Piazza Vittorio e la porta magica degli alchimisti
Il terribile fantasma di Lorenza, moglie del Conte di Cagliostro
I fantasmi del Museo delle Anime del Purgatorio
Beatrice Cenci, il più famoso fantasma di Roma
I Borgia a Roma, una storia di fantasmi
Costanza de Cupis, la nobildonna dalle mani mozze
Il fantasma della chiesa dei Cappuccini e il racconto gotico di Hawthorne
Shelley e Keats, fantasmi a Roma
I fantasmi di Emmeline e di Lord Allen e Villa Stuart
Il Quartiere Coppedè, set per Dario Argento


Fabrizio Falconi

Nato a Roma, ha scritto i saggi Osama bin Laden. Il terrore dell'Occidente (con Antonello Sette), Dieci luoghi dell'animaIn Hoc vinces (con Bruno Carboniero) e i romanzi Il giorno più bello per incontrarti, Cieli come questoPer dirmi che sei fuoco, Porpora e Nero. Saggi e articoli di argomento storico e archeologico sono apparsi su varie riviste italiane. Con la Newton Compton ha pubblicato I fantasmi di RomaI monumenti esoterici d'ItaliaMisteri e segreti dei rioni e dei quartieri di Roma, Roma esoterica e misteriosa, 501 domande e risposte sulla storia di Roma.


Pre-ordina qui la tua copia