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28/01/13

Pietro Citati - Elogio delle Chiese silenziose e vuote.



La fede solitaria al posto di quella solenne, il vero cristianesimo Qualche tempo fa — il giorno di Santo Stefano — sono andato in una chiesa del mio quartiere. Tutte le porte erano chiuse a chiave o con robusti catenacci. La chiesa era impraticabile, come certe chiese protestanti olandesi, che aprono un'ora al giorno o meno, solo durante le striminzite funzioni che il pastore accorda ai suoi fedeli.

È così bello entrare nelle chiese vuote, dove non soffia nemmeno un respiro umano; e sedersi su un banco o una seggiola, pensando, ricordando, fantasticando, rimuginando. La mente sembra più libera, più vasta, più oggettiva, più sicura di sé; e vaga dovunque attraverso i cieli oppure si concentra in un punto fisso del cielo.

Vive di pura contemplazione, nello spazio pieno di silenzio e di echi. Essere soli nella chiesa vuota dà all'anima una quiete e una profondità, che altrimenti non conosce. La fede solitaria, da solo a solo con il Figlio o il Padre: non c'è nulla di così intimamente cristiano. Tutto il resto del mondo è dimenticato. Non ci sono più i sentimenti, le passioni, la coscienza dell'io, l'orgoglio, il desiderio di potere, il desiderio di scrivere.

L'Islam conosce un'altra esperienza dello spazio religioso. Quando si entra in una moschea egiziana o persiana, centinaia di persone stanno sedute a terra, su un tappeto o con le spalle contro il muro.

Qualche volta parlano con Dio: più spesso parlano, chiacchierano, cinguettano tra loro. Tanti sono gli argomenti possibili: gli amori, gli odi, la politica, gli affari del giorno o della settimana. Si compra, si vende. 

Qualche ragazzo studia, a mezza voce, su un libro di testo gualcito. Un europeo ha l'impressione che nella moschea piena una sola figura manchi: quella di Dio.

Non è vero. Sotto la cupola della moschea, Dio esiste, ma confuso con tutti gli esseri umani, con tutta l'immensa e colorata realtà, della quale è Signore unico e nella quale sembra perdersi. Se le nostre chiese sono vuote, la ragione è semplice e tutti la conosciamo. Come deplora il Pontefice, il cristianesimo, almeno in apparenza, è stanco: i cristiani, che frequentano le chiese occidentali, diminuiscono ogni giorno. La nostra religione si sta dunque estinguendo?

Non lo credo affatto. In questi ultimi sessant'anni, il cristianesimo ha perduto i fedeli che veneravano il Cristo perché così volevano il potere e la società: dunque, mai o quasi mai per un impulso religioso. Ora, dopo tante perdite, sono rimasti i cristiani puri: quelli che siedono o pregano nelle chiese vuote, che leggono i Vangeli e le migliaia di libri, che la fede e la tradizione hanno ispirato durante quasi venti secoli.

Labbra silenziose discorrono con il loro nascosto ispiratore. C'è una prova. Oggi, quando il loro numero è diminuito, i cristiani dell'Occidente leggono molti più libri di ispirazione cristiana o religiosa, di quanti non ne leggevano sessant'anni prima.


Elogio delle chiese silenziose e vuote Fonte: PIETRO CITATI - Corriere della Sera Lunedì 28 Gennaio 

10/08/12

A un filosofo americano 5 milioni di dollari per studiare l'immortalità.



Un professore dell'universita' dellaCalifornia a Riverside ha ricevuto 5 milioni di dollari per studiare i segreti dell'immortalita'. 

Lo annuncia lo stesso ateneo californiano, secondo cui la cifra e' messa a disposizione da una fondazione privata. I fondi sono stati stanziati dalla John Templeton foundation per il filosofo JohnFischer, che avra' tre anni per capire tutti gli aspetti dell'immortalita', comprese le esperienze di "quasi-morte" e l'impatto delle convinzioni religiose nell'aldila' sul comportamento umano. 

"Le persone hanno pensato all'immortalita' per tutta la storia - spiega Fischer - abbiamo un bisogno innato di sapere cosa ci succedera' dopo la morte. Molto del dibattito ha riguardato la letteratura, in particolare fantastica, e la teologia in termini di aldila', paradiso, purgatorio o karma. Nessuno ha ancora offerto uno sguardo complessivo al tema che metta insieme la scienza, la teologia e la filosofia". 

Meta' della cifra verra' impiegata per progetti di ricerca, spiega l'universita', mentre il progetto comprende anche due conferenze, la prima delle quali da tenersi alla fine del secondo anno, e un sito web dove seguire i progressi. 

fonte AGI

clicca qui per approfondire

02/06/12

Erich Fromm e la religione.




La religione è nulla. Vivere religiosamente è tutto. Ciò che intendo per vivere religiosamente è ciò che pensavano i profeti, ciò che Gesù pensava: fare ciò che è giusto, dire la verità, amare il prossimo tuo come te stesso. Questo è tutto. 

Erich Fromm (Francoforte sul Meno, 23 marzo 1900 – Locarno, 18 marzo 1980), Il coraggio di essere, pag. 31

16/05/12

Albert Einstein e il Mistero.




L'esperienza più bella e profonda che un uomo possa avere è il senso del mistero: è il principio sottostante alla religiosità così come a tutti i tentativi seri nell'arte e nella scienza. Chi non ha mai avuto questa esperienza mi sembra che sia, se non morto, allora almeno cieco. È sentire che dietro qualsiasi cosa che può essere sperimentata c'è qualcosa che la nostra mente non può cogliere del tutto e la cui bellezza e sublimità ci raggiunge solo indirettamente, come un debole riflesso. Questa è la religiosità, in questo senso sono religioso. 


Albert Einstein, discorso a Berlino, citato da Thomas F.Torrance nella voce 'Einstein' del Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, consultabile sul sito www.disf.org e citato da Denis Brian, Einstein, A life, Wiley, New York 1996, pag.234.

24/04/12

La conseguenza del bene. E il male.




Qualche giorno fa, durante una bella conversazione, un caro amico (e poeta), Fabrizio Centofanti mi ha detto che un sacerdote - come è lui - "trascorre la metà del tempo della sua giornata a rispondere a domande (dei fedeli)  come queste: perché esiste il male nel mondo; perché c'è tanta gente che è dedita al male; e a cosa serve il male, e chi lo manda, se è Dio o cosa." 

Mi ha fatto pensare. 

Il nodo del male è quello intorno al quale ci interroghiamo sempre, senza venir mai a capo: mette a nudo ogni dubbio, ogni certezza. 

Quel che penso è che c'è una ragione abbastanza semplice per la quale per gli uomini sembra molto più semplice inclinar-si verso il male (nelle sue più diverse gradazioni, dai mali più veniali a quelli più violenti) anziché verso il bene. 

La ragione è nella conseguenza dei comportamenti. 

Dal male - da chi compie il male - non ci si aspetta infatti di essere conseguente:  chi commette il male, anzi, sa già in partenza che quel che ci si aspetta da lui sarà che egli smetta di compierlo. 

Il male ha come conseguenza che ci si attende un atteggiamento contrario: un ravvedimento, un pentimento, una riparazione.   E' un elemento archetipico delle comunità umane.   Che oggi raggiunge forme paradossali e tragico-surreali quando per esempio a qualcuno che ha appena compiuto un omicidio, o una malefatta qualsiasi arriva puntuale l'insulsa domanda di qualche interlocutore:  "è pentito?" "Si è pentito".  

E alla vittima: "lo perdonerà ?"  "Perdonerà?"

Quasi il pentimento e il perdono fossero procedimenti automatici come il gorgogliare delle fiches nella vaschetta di una slot machine dopo che si è azionata la leva. 

Chi fa il male dunque, sa che non deve promettere niente. 

Anzi, se smentirà quel che ha fatto, se contraddirà il male compiuto, riceverà probabilmente un coro di plauso e ognuno gli dirà bravo (ammesso che si sia capaci di perdonare veramente). 

Al bene invece, al contrario, si chiede, anzi si pretende, di essere conseguente. 

Avete mai provato ad osservare cosa accade quando ponete in essere nei confronti di qualcuno un atto realmente gratuito, buono, non dovuto ? 

La persona che riceve il vostro gesto da quel momento si attende qualcosa da voi: più esattamente si aspetta che i vostri comportamenti siano conseguenti (coerenti) con quel gesto.

E sarà, come è ovvio, anche molto lesta a giudicare nel caso che l'annunciato bene non sia conseguente con i vostri comportamenti futuri.

Al bene si chiede sempre di essere conseguente perché il bene comporta responsabilità - al contrario del male che non ne comporta alcuna perché "c'è sempre un alibi, c'è sempre una scusa, c'è sempre un motivo per cui si è fatto il male." 

Il bene invece, il bene vero, non ha motivo. E' - appunto - gratuito, è pura gratuità. 

Per questo è così difficile compiere il bene. Per questo gli uomini, se possono scegliere, inclinano se stessi verso il semplice (arendtianamente banale) male.  Perché il male è facile, e non comporta impegno, non comporta nessuna responsabilità - se non quella della legge penale degli uomini - nessuna irrevocabilità. 

C'è sempre un tempo per redimersi, un tempo per pentirsi, un tempo per perdonare.

Il bene invece, non ha tempo.  Il bene è una linea diretta e il cuore degli uomini ha paura di attraversarla, come un highliner sospeso ad alta quota sulla sua linea di nylon:  sempre con la paura di cadere, e di non essere all'altezza.

Fabrizio Falconi

20/04/12

"George Harrison - Living in the material world" di Martin Scorsese - La recensione.



Ho visto ieri sera, "Living in the material World-George Harrison" il docu-film realizzato da Martin Scorsese sulla vita di George Harrison, uscito nell'ottobre scorso negli USA.

E' un'opera pregevolissima, che raccomando a tutti - non solo agli amanti dei Beatles e della musica in generale-  con l'unica avvertenza che consiglio di considerare,  e cioè che si tratta di un'opera molto lunga, della  durata complessiva di ben 3 ore e 38 minuti (sconsigliabile dunque l'ultimo spettacolo..!)

Si tratta comunque di un film splendido, tenuto in mano dalla saldissima regia di Martin Scorsese che ormai alle opere documentariste sul rock ha dedicato una parte rilevante della sua filmografia, da Woodstock (di cui curò, in modo misconosciuto il montaggio) a The Last Waltz a Shine a Light, del 2008, dedicato ai Rolling Stones. 

Splendido perché ricostruisce con materiali di archivio stupefacenti - e mai visti - gli anni d'oro del percorso creativo di Harrison insieme ai Beatles, gli anni della Swinging London, la crisi definitiva del gruppo, la carriera solista, ma soprattutto il percorso personale di ricerca interiore di quello che era certamente il più 'solitario'  e meditativo - il più attratto dal lato spirituale dell'esistenza - dei Fab Four

Lo fa, oltre che ripescando i materiali sonori e visivi dell'epoca (molti dei quali messi a disposizione dalla vedova di Harrison, concedendo molto spazio alle interviste dei testimoni, che raccontano il loro lato di George:  Paul McCartney e Ringo Starr,  Eric Clapton e George Martin, Yoko Ono e Terry Gilliam,  Phil Spector e Ravi Shankar, e via discorrendo..

Il quadro che si compone è quello di un'anima, più che una persona, che si trovò coinvolta in un fenomeno senza precedenti - quello della popolarità del quartetto di Liverpool che in meno di dieci anni riuscì a conquistare il mondo intero, cambiando per sempre la storia della musica contemporanea - e che però riuscì a non farsi sopraffare, cercando sempre di tendere a quel 'centro' , a quella ricerca intorno al senso dell'esistenza, per la quale si può dire di non essere vissuti invano. 

Un tributo colto e approfondito, umano e non distaccato, che non poteva lasciare indifferente un autore come Scorsese da sempre attratto dai temi spirituali . "Tutta la musica dell'ultimo Harrison funziona da supporto alla meditazione, come avviene nelle tradizioni orientali " ha raccontato Scorsese a Richard Schickel nel libro autobiografico "Considerazioni su me stesso e tutto il resto" uscito da poco per Bompiani. 

E dunque un vero atto 'meditativo' è anche la visione di questo film.

Fabrizio Falconi

16/02/12

“Se la feroce religione del denaro divora il futuro” di GIORGIO AGAMBEN


Per capire che cosa significa la parola “futuro”, bisogna prima capire che cosa significa un´altra parola, che non siamo più abituati a usare se non nella sfera religiosa: la parola “fede”. 

Senza fede o fiducia, non è possibile futuro, c´è futuro solo se possiamo sperare o credere in qualcosa. Già, ma che cos´è la fede? David Flüsser, un grande studioso di scienza delle religioni – esiste anche una disciplina con questo strano nome – stava appunto lavorando sulla parola pistis, che è il termine greco che Gesù e gli apostoli usavano per “fede”. 

Quel giorno si trovava per caso in una piazza di Atene e a un certo punto, alzando gli occhi, vide scritto a caratteri cubitali davanti a sé Trapeza tes pisteos. Stupefatto per la coincidenza, guardò meglio e dopo pochi secondi si rese conto di trovarsi semplicemente davanti a una banca: trapeza tes pisteos significa in greco “banco di credito”. Ecco qual era il senso della parola pistis, che stava cercando da mesi di capire: pistis, ” fede” è semplicemente il credito di cui godiamo presso Dio e di cui la parola di Dio gode presso di noi, dal momento che le crediamo. Per questi Paolo può dire in una famosa definizione che “la fede è sostanza di cose sperate”: essa è ciò che dà realtà a ciò che non esiste ancora, ma in cui crediamo e abbiamo fiducia, in cui abbiamo messo in gioco il nostro credito e la nostra parola. 

Qualcosa come un futuro esiste nella misura in cui la nostra fede riesce a dare sostanza, cioè realtà alle nostre speranze. Ma la nostra, si sa, è un´epoca di scarsa fede o, come diceva Nicola Chiaromonte, di malafede, cioè di fede mantenuta a forza e senza convinzione. Quindi un´epoca senza futuro e senza speranze – o di futuri vuoti e di false speranze. Ma, in quest´epoca troppo vecchia per credere veramente in qualcosa e troppo furba per essere veramente disperata, che ne è del nostro credito, che ne è del nostro futuro? Perché, a ben guardare, c´è ancora una sfera che gira tutta intorno al perno del credito, una sfera in cui è andata a finire tutta la nostra pistis, tutta la nostra fede. Questa sfera è il denaro e la banca – la trapeza tes pisteos – è il suo tempio. 

Il denaro non è che un credito e su molte banconote (sulla sterlina, sul dollaro, anche se non – chissà perché, forse questo avrebbe dovuto insospettirci – sull´euro), c´è ancora scritto che la banca centrale promette di garantire in qualche modo quel credito. La cosiddetta “crisi” che stiamo attraversando – ma ciò che si chiama “crisi”, questo è ormai chiaro, non è che il modo normale in cui funziona il capitalismo del nostro tempo – è cominciata con una serie sconsiderata di operazioni sul credito, su crediti che venivano scontati e rivenduti decine di volte prima di poter essere realizzati. 

Ciò significa, in altre parole, che il capitalismo finanziario – e le banche che ne sono l´organo principale – funziona giocando sul credito – cioè sulla fede – degli uomini. Ma ciò significa, anche, che l´ipotesi di Walter Benjamin, secondo la quale il capitalismo è, in verità, una religione e la più feroce e implacabile che sia mai esistita, perché non conosce redenzione né tregua, va presa alla lettera. La Banca – coi suoi grigi funzionari ed esperti – ha preso il posto della Chiesa e dei suoi preti e, governando il credito, manipola e gestisce la fede – la scarsa, incerta fiducia – che il nostro tempo ha ancora in se stesso. 

E lo fa nel modo più irresponsabile e privo di scrupoli, cercando di lucrare denaro dalla fiducia e dalle speranze degli esseri umani, stabilendo il credito di cui ciascuno può godere e il prezzo che deve pagare per esso (persino il credito degli Stati, che hanno docilmente abdicato alla loro sovranità). In questo modo, governando il credito, governa non solo il mondo, ma anche il futuro degli uomini, un futuro che la crisi fa sempre più corto e a scadenza. E se oggi la politica non sembra più possibile, ciò è perché il potere finanziario ha di fatto sequestrato tutta la fede e tutto il futuro, tutto il tempo e tutte le attese. 

Finché dura questa situazione, finché la nostra società che si crede laica resterà asservita alla più oscura e irrazionale delle religioni, sarà bene che ciascuno si riprenda il suo credito e il suo futuro dalle mani di questi tetri, screditati pseudosacerdoti, banchieri, professori e funzionari delle varie agenzie di rating. E forse la prima cosa da fare è di smettere di guardare soltanto al futuro, come essi esortano a fare, per rivolgere invece lo sguardo al passato. Soltanto comprendendo che cosa è avvenuto e soprattutto cercando di capire come è potuto avvenire sarà possibile, forse, ritrovare la propria libertà. L'archeologia – non la futurologia – è la sola via di accesso al presente. 

28/12/11

25 anni dalla morte di Andrej Tarkovskij - "Avvenire" pubblica intervista inedita.



Ricorrono domani i 25 anni dalla scomparsa, che avvenne a Parigi, di Andrej Tarkovskij, uno dei più grandi registi della storia del cinema, e grande anima.   In questa occasione il quotidiano Avvenire pubblica oggi una intervista inedita che ripercorre il pensiero e l'opera di questo grande artista. 

(mi permetto di segnalare soltanto una imprecisione - o quella che si percepisce come tale - nella introduzione all'intervista laddove si afferma che in quella conferenza stampa del 1984 Tarkovskij avrebbe preso la decisione di "tagliare il cordone ombelicale con l'adorata madre Russia", ecc...
Per la precisione, Tarkovskij quel cordone l'aveva tagliato già molto tempo prima, già dal 1979 quando aveva raggiunto Roma per contattare i dirigenti RAI per la realizzazione del progettato film italo-russo scritto con Tonino Guerra, e poi, dopo un breve intermezzo moscovita, con il definitivo distacco dell’aprile 1980, quando Tarkovskij sfruttò l’invito del premio David di Donatello - Lo Specchio aveva ottenuto il massimo riconoscimento dalla giuria - per raggiungere nuovamente l’Italia.  Da allora, non fece mai più ritorno in Russia, ma soprattutto fu impedito dalle autorità sovietiche a lungo alla moglie Larisa prima, e al figlio piccolo Andrej poi, di raggiungerlo liberamente. Una separazione lunga e dolorosa che minò il cuore (e il corpo) del grande regista.")
Fabrizio Falconi

Andrej Tarkovskij: "Il mio stalker é Don Chisciotte." 

Faceva molto caldo, quel giorno del luglio 1984, a Milano. Ancor più nel salone del Circolo della Stampa, stipato di giornalisti, fotogra­fi, cameramen, intellettuali disorgani­ci. L’afa era insopportabile, ma un bri­vido corse nella schiena di tutti quan­do apparve quell’omino nervoso, dal­la fisionomia vagamente tartara; occhi vivacissimi, baffi ispidi, una foresta di rughe sul volto. Andrej Tarkovskij quel giorno era teso come una corda di vio­lino. Pensavo al suo primo cortome­traggio, noto solo ai cinefili più acca­niti: Il rullo compressore e il violino . Se ora il violino era lui, il rullo compres­sore era il regime sovietico che voleva spezzarne le sue corde, impedirgli di suonare. Tanto che quel giorno di lu­glio il geniale regista di Andrej Rubliov e di Solaris, de Lo specchio e di Nostal­ghia, aveva deciso di annunciare che avrebbe tagliato il cordone ombelica­le con l’adorata Madre Russia, avreb­be scelto l’Occidente. «Ragioni ve ne sono tante», spiegò alla stampa di tut­to il mondo che gli chiedeva le ragioni del suo 'basta' urlato in faccia al Crem­lino. «Ma me ne vado soprattutto per­ché le autorità del mio paese ormai mi considerano una non-persona: per il Cremlino non esisto». E a chi insiste­va per sapere a quale paese avrebbe chiesto asilo politico, ribatteva con sar­casmo: «Domanda strana: è come se vedendomi distrutto per la morte di u­na persona cara mi chiedessero dove voglio seppellirla. Che importanza ha?» Il dolore dell’esilio era davvero troppo. Chissà se fu quello a fare ammalare Tarkovskij: due anni dopo, il regista si spegneva a Parigi, a soli 54 anni. Era il 29 dicembre 1986, esattamente 25 an­ni fa. In Svezia, aveva ancora fatto in tempo a girare il profetico Il sacrificio .
Un film che, quel caldo giorno di lu­glio, era già ben chiaro nella sua testa. Come ci aveva spiegato, appena poche ore dopo la storica conferenza stampa, in un lungo colloquio a metà fra la con­fessione e il testamento. Parole, le sue, che un quarto di secolo dopo stupi­scono per la loro attualità. Le propo­niamo qui per la prima volta al lettore italiano. Roberto Copello 


26/10/11

La morte secondo Steve Jobs. Una riflessione.




Mi ha molto colpito leggere nei giorni scorsi l'intervista realizzata dal Corriere a Walter Isaacson, l'autore della corposa biografia di Steve Jobs conclusa pochi giorni prima della sua morte, e data alle stampe a tempo di record. Mi hanno particolarmente colpito i passaggi nei quali Jobs parla a cuore aperto della morte e dell'oltremorte, dei suoi dubbi e delle sue speranze.

Riporto i passaggi salienti. 

«E' fifty-fifty" mi diceva. "Cinquanta e cinquanta. A volte credo che Dio esista. A volte no. Vorrei credere nella vita ultraterrena. Ma ho il timore che alla fine ci sia solo un tasto on-off. Un clic, la luce se ne va. E tu non ci sei più. Per questo non mi è mai piaciuto mettere tasti di accensione sui prodotti della Apple"». i tormenti di Steve Jobs, il suo interrogarsi sull'aldilà. 

È la prima intervista concessa a un giornale italiano dopo aver consegnato all'editore (in Italia Mondadori) la sua biografia del fondatore della Apple. 

Abbiamo già letto molte anticipazioni del suo libro, ma poco del temperamento irascibile di Jobs, i tratti duri del suo carattere. Quanto a Dio, l'aveva evocato parlando di musica. Lui, che aveva riempito il suo iPod coi brani di Bob Dylan, i Beatles, Joan Baez, i Rolling Stones e Yo-Yo Ma, una volta disse al violoncellista franco-cinese: «Le tue esecuzioni sono la migliore prova dell'esistenza di Dio perché non credo che un essere umano da solo possa fare tutto questo». 

«Con me Steve cominciò a parlare di Dio man mano che prendevamo confidenza e che la malattia riguadagnava terreno. Non era paura, si interrogava: "Voglio credere nella vita ultraterrena" mi diceva, "perché questo fa parte della mia formazione buddista. Tutta la saggezza che hai accumulato, la tua conoscenza non svanirà nel nulla quando tu non ci sarai più". Poi, però, veniva assalito dal dubbio che alla fine della vita ci sia solo un "off switch"». 

Credo che sia difficile, molto difficile trovare una migliore esposizione, in poche righe - S.Jobs era del resto un uomo di intelligenza superiore - dell'impasse nel quale si dibatte e si ritrova l'uomo contemporaneo, di fronte ai cosiddetti ultimi: la morte, la vita dopo la morte, il senso della vita, il nulla o Dio.

Decaduto il principio di fede, persi per strada i cammini iniziatici, disintegrati i dogmi di qualunque tipo, l'uomo occidentale si trova sempre più in bilico tra speranza (cuore) e disperazione (ragione).  Tra voglia di affidarsi ad una speranza ultraterrena (Dio) e paura/terrore di un nulla profondo, tra annichilimento e permanenza di ciò che sei stato.

Il tasto on-off al quale si riferisce Jobs è quanto mai simbolico ed in effetti solo ora mi spiego perché le sue meravigliose diavolerie elettroniche non prevedano un tasto di spegnimento, ma solo un eterno stand-by. 

Il tasto dell'i-pod switcha e... basterà sfiorare nuovamente l'apparecchio perché la musica desiderata, la storia meravigliosa, torni a srotolarsi nuovamente dal punto in cui era stata interrotta.  Riporto qui un estratto dal libretto di istruzioni apple:

Spegnere iPod 
Non esiste un vero e proprio tasto Stop (spegnimento) per iPod. iPod può essere messo in pausa e dopo qualche minuto di inattività si spegne da solo, entrando in una fase denominata Sleep, seguita dalla fase Deep Sleep (dopo 36 ore di inattività). 


Metafora migliore, nessun mistico sarebbe riuscito a trovarla.

E forse non è un caso che a realizzarla sia stato il 'padrone dei sogni tecnologici', proprio lui.



24/10/11

'La quistione ancora ne pinde.' Una lezione moderna da Boccaccio.


C'è una bellissima favola. "La favola dei tre anelli", che Boccaccio racconta nel Decameron, e che ci dice molte cose, incredibilmente, anche sugli estremismi religiosi e sul relativismo di oggi, ma anche sul conflitto tra civiltà, che va tanto di moda sbandierare. La favola è antichissima, e secondo Renan è di origine islamica: viene dai tempi del sufismo nei tempi della dominazione araba in Andalusia.

La favola narra dunque di Saladino, che chiamato al suo cospetto un grande saggio ebreo, gli chiede quale sia a suo parere fra le tre Leggi - quella di Mosè, quella di Gesù e quella di Maometto - la vera. Il saggio ebreo gli risponde con questa favola.

Un uomo aveva un anello preziosissimo, passato nella sua famiglia di generazione in generazione. 


Poco prima di morire, non volendo fare torto a nessuno dei suoi tre amatissimi figli, si fa riprodurre da un orafo due copie dell'anello originale, e muore, lasciando credere a ciascun figlio di essere lui l'erede dell'anello. 


Ed ecco la conclusione di Boccaccio: " E così vi dico, Signor mio, delle tre Leggi alli tre popoli dati da Dio Padre, delle quali la quistion proponeste: ciascuno la sua eredità, la sua vera Legge, e i suoi comandamenti si crede aver a fare; ma chi se l'abbia, come degli anelli, ancora ne pinde la quistione." 

Volendo meditare questa favola, e la sublime conclusione di Boccaccio, la prima cosa che viene in mente è che essa contiene un profondo messaggio sia contro il fondamentalismo dogmatico, sia contro il relativismo etico, che oggi sembrano essersi spartiti il dominio del mondo. 

Contro il relativismo, perché... l'anello vero ESISTE ! E il padre sa quale è ! Contro il fondamentalismo dogmatico: perché.... Solo il padre - ovvero Dio ? - sa quale è l'anello vero, la certezza più in generale, il riconoscimento, cioè la certezza umana, è sempre fallibile e provvisoria (ovviamente escludendo la rivelazione, che si basa appunto su una 'rivelazione' di fede agli uomini) perché ... come dice Boccaccio, in modo sublime la questione 'ancora ne pinde', cioè la questione è ancora in sospeso. 

Ciò non vale ovviamente solo per il fondamentalismo dogmatico RELIGIOSO. Ma anche per il fondamentalismo dogmatico PRAGMATICO-SCIENTIFICO: Anche nelle scienze sarebbe pazzo chi credesse un giorno di aver finito la ricerca, di aver esaurito la verità. Anche nelle scienze, come per ogni altra questione umana, "la quistione ancora ne pinde."

19/10/11

I diversamente vivi.


Mi piace spesso usare per i nostri morti, la definizione di ‘diversamente vivi’.

Non è un eufemismo e non è un gioco di parole.

Dipende da come ci si pone di fronte al grande mistero della morte. Per molti, specialmente oggi, la morte non è altro che la fine biologica, e quindi la fine – in-sensata – di un’altra cosa in-sensata, che è la vita, frutto del caso.

Per altri, e io sono uno di quelli, la morte non è la fine, ma il fine. Cioè lo scopo della nostra vita.

Ed è molto curioso e interessante che la nostra lingua, la lingua italiana, nasconda nell’etimologia di questa parola, fine, un doppio significato così opposto.

Se si ragiona in termini religiosi, trovare una spiegazione a fenomeni bizzarri di spiriti che scelgono di manifestarsi dall’oltre-morte attraverso persone a loro care, con scritti o manifestazioni di varia natura, è piuttosto semplice.

Fa infatti parte di qualunque tradizione religiosa, la convinzione che esista una vita oltre la morte, e che i morti possano manifestare la loro presenza in diversi modi anche ai vivi.

Ma l’interesse per questo tipo di fenomeni – chi è cristiano e chi crede nella resurrezione, non si meraviglia di certo, non dovrebbe meravigliarsi - trascende le convinzioni puramente religiose. 

C’è infatti da considerare che noi sappiamo attualmente molto poco, quasi niente anzi, di cosa sia la morte, e soprattutto di cosa sia la vita.

Siamo calati in un mistero infinito, che solo ora cominciamo ad esplorare a tentoni, come un bambino che cammina nel buio.

Viviamo in un ambiente cosmico, un universo, che LA SCIENZA – non la religione – ci dice essere ‘vecchio’ di circa 14 miliardi di anni. Questo universo, ci dice LA SCIENZA – non la religione – non è L’UNICO universo, ma uno degli infiniti (?) universi che formano il cosiddetto ‘multiverso’. Questi universi, ci dice LA SCIENZA – non la religione – sono probabilmente collegati tra di loro attraverso quelle ‘smagliature’ chiamate buchi neri. Il tempo e lo spazio, come ci dice LA SCIENZA – non la religione – sono solo un accidente, una convenzione delle dimensioni che formano o fanno da sfondo al multi verso. La materia visibile, come ci dice LA SCIENZA – non la religione – è solo un accidente, appena il 5% di quanto è contenuto nell’universo, o negli universi. E il restante 95% è formato, ci dice LA SCIENZA – non la religione – da ‘materia oscura’ e da ‘energia oscura’, che non sappiamo ancora assolutamente cosa siano. In più, LA SCIENZA – non la religione – ci dice che esiste l’antimateria, e che ad ogni particella di materia, anche la più infinitesimale, corrisponde una particella contraria, invisibile, di carica opposta.

Ora, alla luce di questo, di questo enorme, abbacinante mistero, come si può escludere a priori che le voci e le presenze di coloro che non sono più visibili e presenti in questa vita limitata e ‘reale’, esistano ancora, seppure in una forma per noi in-visibile ?

 A parte la logica, ciascuno di noi, se soltanto fa un po’ di silenzio nella propria chiassosa vita, può sperimentare una ‘forma di dialogo’ con le persone che non ci sono più, che può passare anche attraverso la semplice interpretazione di segni, di segnali che ci sembra di cogliere nel corso delle nostre giornate.

Sono fenomeni di diversa natura, nei confronti dei quali io nutro il più profondo rispetto. Anche e soprattutto perché i ‘diversamente vivi’ spesso sembrano avere molte cose da raccontare, e importanti, a noi che siamo ancora qui; se soltanto noi abbiamo l’accortezza di fare, almeno per un poco, silenzio.

Fabrizio Falconi.

15/06/09

Coscienza e verità - un articolo di Lucetta Scaraffia.



Nell'Osservatore Romano di ieri, domenica 14 giugno 2009, è comparso in prima pagina questo bell'articolo di Lucetta Scaraffia, del quale consiglio caldamente la lettura a tutti, perchè contiene, in pillole, un'analisi del pensiero dell'attuale Pontefice; e sul quale come sempre, siamo pronti a discutere insieme.


Coscienza e verità di Lucetta Scaraffia

Non è certo una novità che il Papa intervenga per rendere più chiara ai fedeli la comprensione dei problemi del tempo in cui vivono, ma possiamo dire senza timore di esagerare che nessuno l'ha fatto con l'acutezza e la profondità di Benedetto XVI.

Al punto che i suoi scritti dedicati alla lettura critica del presente sono ormai considerati dei classici che possono - e dovrebbero - interessare quanti vogliano capire meglio l'epoca in cui vivono, e non solo i cattolici.

Proprio per questo sono particolarmente illuminanti i saggi raccolti in un libro da poco pubblicato in Italia (Joseph Ratzinger, Benedetto XVI, L'elogio della coscienza. La Verità interroga il cuore, Siena, Cantagalli, 2009, pagine 175, euro 13,50).

Con il consueto stile limpido e semplice, di quella semplicità che raggiunge solo il pensiero sedimentato e profondo, l'autore vi affronta i principali problemi teorici del nostro tempo, denunciandone i limiti e le manipolazioni, e proponendo una risposta chiara, tratta dal tesoro della tradizione cristiana.

Tutti gli scritti ruotano intorno a due questioni intimamente legate: la coscienza e la verità, entrambe cancellate dalla cultura contemporanea, che le sostituisce con la soggettività e il relativismo, pensando di garantire in questo modo la libertà individuale, unico vero feticcio moderno.

Nel primo saggio, L'elogio della coscienza, viene chiarito un tema complesso e mistificato, quello cioè del ruolo della coscienza. In una cultura che tende a contrapporre una "morale della coscienza" a una "morale dell'autorità", slegando il problema della coscienza da quello della verità, l'unica garanzia di libertà appare essere la giustificazione della soggettività, mentre l'autorità sembra "restringere, minacciare o addirittura negare tale libertà".

Qui tocchiamo il punto veramente critico della modernità: "L'idea della verità è stata nella pratica eliminata e sostituita con quella di progresso" che però, in apparenza esaltato, viene invece privato di ogni direzione. In un mondo senza punti fissi di riferimento, senza verità, non ci sono più direzioni.
La rinuncia ad ammettere che, per l'essere umano, sia possibile conoscere la verità conduce al disinteresse per i contenuti, per dare la preminenza alla tecnica, alla formalità. Un esempio chiaro in questo senso è quello dell'arte: oggi "ciò che l'opera esprime è del tutto indifferente: l'unico criterio è la sua esecuzione tecnico-formale".
Vivendo in una società che influenza e condiziona gli individui, è difficile sentire quella che veniva considerata "la voce della coscienza", cioè "la presenza percepibile ed imperiosa della voce della verità all'interno del soggetto stesso".

Anche se la via alla verità e al bene è stata abbandonata perché ardua, scomoda, considerata troppo difficile da seguire, non per questo dobbiamo rinunciarvi: "dissolveremmo il cristianesimo in un moralismo se non fosse chiaro un annuncio che supera il nostro proprio fare".

In queste condizioni, la stessa verità del bene diventa inattingibile, perché l'unico riferimento per ciascuno è ciò che egli può da solo concepire come bene, rinunciando così a quel minimo di diritti oggettivamente fondati, non accordati tramite convenzioni sociali, sui quali soli si può fondare l'esistenza di ogni comunità politica.

In sostanza, dove Dio scompare, "scompare anche la dignità assoluta della persona umana", e la dignità di ognuno non viene più a dipendere dal solo fatto di esistere, per essere stato voluto e creato da Dio.

Ecco perché "la radice ultima dell'odio e di tutti gli attacchi contro la vita umana è la perdita di Dio".

Benedetto XVI rivela una delle sue preoccupazioni principali, che ha varie volte ripetuta: il timore che la nozione moderna di democrazia non sappia emanciparsi dall'opzione relativista, in un mondo in cui il relativismo appare come l'unica garanzia della libertà.

Mentre il Papa sa bene e ripete senza sosta che "un fondamento di verità - di verità in senso morale - appare irrinunciabile per la stessa sopravvivenza della democrazia". E non dobbiamo dimenticare che, di fatto, "tutti gli stati hanno attinto le evidenze morali razionali - permettendo loro di dispiegare i propri effetti - dalle tradizioni religiose ad essi preesistenti".

Di frequente Benedetto XVI ritorna sul tema della ricerca della verità: "Se Dio è la verità, se la verità è il vero "sacro", la rinuncia alla verità diventa una fuga da Dio".

Persino quando avviene all'interno di una confessione religiosa perché - denuncia il Papa - esiste anche un "positivismo fideista" che "ha paura di perdere Dio nell'esporsi alla verità delle creature".

La verità è il presupposto fondamentale di ogni morale, ma se invece il criterio dell'utilità o del risultato, sostenuto da correnti di teoria politica affermate, prende il posto della verità, il mondo si frantuma in tante parzialità, perché l'utilità dipende sempre dal punto di vista del soggetto che agisce.

Cosa significa allora fare il teologo, in questa situazione culturale? E come si può pensare una nuova evangelizzazione? A queste domande rispondono in modo inedito ed esauriente gli ultimi saggi di un volume che si rivela fondamentale per comprendere il mondo di oggi, e per vivervi da cristiano. Peccato che l'editore a cui si deve l'ammirevole iniziativa di avere raccolto questi testi li abbia pubblicati senza precisare quando sono stati scritti, se dal cardinale Ratzinger o dal Papa. Come se per il lettore questa precisazione fosse irrilevante.

Fonte: Osservatore Romano

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24/09/08

Il rischio della Religione Fai-da-Te, oggi.


Conosco sempre più persone - amici, colleghi di lavoro, semplici conoscenti - battezzati e di famiglia cattolica, che ormai si sono costruiti una specie di Religione-fai-da-te, pescando un po' di qua e un po' di là. Di fondo, si sentono ancora cattolici, e probabilmente - se qualcuno li andasse ad intervistare per un sondaggio - alla domanda: "religione cattolica ?" risponderebbero sì, ma soltanto per evitare di dover spiegare quello che magari non è del tutto chiaro neanche a loro.

Queste persone, in perfetta buona fede, e con spesso con le migliori intenzioni, sentendosi deluse da alcuni aspetti del cattolicesimo - in gran parte la qualità delle liturgie (messe noiose, prediche melense), ma anche la posizione della Chiesa e del Vaticano su alcune questioni del vivere comune - cominciano a rivolgersi altrove, in cerca di 'integratori' spirituali d'altra natura.

Così accade che alcuni di loro comincino a frequentare i circoli buddhisti del Soka Gakkai, dove si recita il Sutra del Loto, il namu myoho renge kyo che "fa sentire meglio, perchè libera l'energia che c'è in te." Il Soka Gakkai, come altre discipline buddhiste, è di 'facile approccio': si comincia con la conoscenza di una persona che ti introduce in un circolo di 'praticanti', la prima volta si va per curiosare, e poi si comincia a ... provare.

Non è soltanto il Soka Gakkai, ovviamente. Oramai va di moda 'pescare' anche da altre religioni, dal Tai-chi (che non è una religione, ma un'arte marziale che si usa a scopi meditativi e di conoscenza interiore), allo Zen, magari a un pizzico di Zoroastrismo o di Scintoismo, o di Confucianesimo e magari, perchè no, di new age ?

Credo che la nostra chiesa cattolica, specie in Italia, sottovaluti parecchio il rischio della trasformazione di un cattolicesimo che ormai - come avverte anche Benedetto XVI - rischia di essere percepito come "un insieme di no", di fronte al quale si cerca la consolazione di più facili "sì". E sottovaluti questa 'moda' di fabbricarsi religioni personali pret-a-porter anche da parte di coloro che si professano cattolici.

Il rischio è, secondo me, che si annacqui ancora di più lo spirito originario del cristianesimo, che non si voglia o non si sia più capaci di viverlo nella sua bellezza radicale, nel suo messaggio forte, originale.

Il rischio è che le persone che 'mischiano' tradizione e professioni di fede magari non completamente 'scelte', ma 'trovate lungo la strada' creino ancora più confusione nei cuori, e smarrimento di fronte a ciò che succede nel mondo.

Perchè la Chiesa non prova ad interrogarsi a fondo su questo, e a cercare di ribadire, di ritrovare e riaffermare lo spirito originario del cristianesimo, cioè Cristo, che non avrebbe e non ha bisogno di nessun integratore per affermarsi come Senso nel Mondo ?

15/04/08

La Chiesa ha rinunciato alla sua anima mistica ?


Che fine hanno fatto i cristiani, in questo paese ?

Guardate questa immagine. Come faceva Bellini a dipingere in questo modo ? Cosa metteva nei suoi quadri per rendere le sue Madonne così sublimi ?

Da vero mistico, Giovanni Bellini sapeva - anche senza averlo studiato sui libri di Teologia - che Maria è l'Umanità e l'interprete della condizione umana.

Ogni volto di donna - in Bellini - si fa volto di Maria e nelle espressioni della nuova Eva ciascuno ritrova la madre, la propria origine umana dal concepimento, al destino finale.

Questo Bellini riusciva a rappresentare, forse anche perchè ai suoi tempi la Chiesa sapeva ancora farsi mistica, essere mistica.

Oggi è come se la Chiesa avesse rinunciato alla sua componente mistica - che è l'essenza.

E i Cristiani, quasi senza volerlo, sono diventati anche loro refrattari alla mistica, cioè alla vera anima del Cristianesimo.

Vanno in Chiesa, si genuflettono (in pochi), pregano stancamente, seguono stancamente la liturgia, ma nelle loro vite, una volta usciti da lì, cambia poco o niente.

Ed è chiaro che cambi poco o niente. Perchè se si partecipa ad un rito senza viverlo profondamente, intensamente, senza capirlo, senza esserne parte, nella propria vita cambia poco o niente.

E quand'è che sentiamo la nostra Chiesa parlare un linguaggio mistico ? Quand'è che sentiamo i nostri sacerdoti, i nostri vescovi, il nostro clero parlare un linguaggio veramente mistico ?

Eppure basterebbe guardare una immagine come questa, guardarla veramente, con attenzione, con emozione, con abbandono, per capire profondamente, che tutto potrebbe cambiare, veramente. E che tutto, ancora una volta e sempre, è solo nelle nostre mani.