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19/12/14

"Le spoglie di Poyton", un capolavoro di Henry James.




La macchina narrativa di Henry James è una delle più perfette della intera storia della letteratura.

Se ne ha conferma nei grandi, brevi romanzi, qui collezionati, da Il giro di vite a Il Carteggio Aspern, a Daisy Miller. 

Un vero e proprio gioiello è Le spoglie di Poyton, che troverete qui insieme agli altri, nella seconda parte del volume, nella traduzione di A.M. Giannitrapani. 

Solo quattro protagonisti: la signora Gereth, vedova; suo figlio Owen che deve sposare la volgare Mona; Fleda, la giovane sensibile che è innamorata di Owen e che la vedova, la signora Gereth, ha individuato come "custode ideale" delle spoglie di Poyton, i beni (mobili, gioielli, arredi) che lei ha collezionato e messo insieme nella sua casa per una vita.

Sono le spoglie, in realtà, le vere protagoniste: finiranno in un rogo, distrutte dopo che Fleda ha perso tutte le occasioni, rinunciando a Owen e riconsegnandolo nelle mani della promessa sposa.

Con elementi quasi inesistenti, con una trama quasi inesistente, James costruisce un dramma fantastico, di tensione quasi insostenibile, tutto interiore, sulla rinuncia, sulla stupidità, sulla vanità delle cose, sulla responsabilità di scegliere, di essere felici. 

Fabrizio Falconi

Henry James

20/11/14

'Lo zen e l'arte della manutenzione della motocicletta.' Un libro-cometa, difficile da dimenticare.




Ci sono libri che ti ronzano dietro per 30 anni e alla fine scelgono loro quando è il momento.

Così è stato con Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta.  

Sono arrivato in ritardo, perché questo fu il libro di una generazione e 30 anni fa, tutti dovevano averlo letto. 

Leggerlo oggi è perfino blasé. 

Forse in Italia.  Questo libro, infatti si è conquistato stabilmente un posto nella letteratura contemporanea e le sue vicende sono curiose e per molti versi inspiegabili (a cominciare dal misterioso motivo per cui questo libro toccò subito il cuore di una massa enorme di persone, pur essendo un libro difficile, con interi capitoli e pagine di pura speculazione tecnica filosofica). 

A partire dalla sua pubblicazione. Come forse qualcuno sa, è quasi incredibile la storia editoriale del libro: il manoscritto inviato dal suo autore Robert M. Pirsig, fu infatti respinto nel corso di 4 anni da 121 diversi editori. 

Pubblicato dal piccolo editore William Morrow nel 1974 con un anticipo pagato all'autore di 3.000 dollari, stampato in quell'anno, ottenne un successo immediato di proporzioni mondiali, continuamente ristampato, con più di 5.000.000 di copie vendute in tutti i paesi del mondo. 

William Morrow, dopo aver letto il manoscritto, telefonò a Pirsig e gli comunicò che intendeva pubblicare quello strano libro perché "lo aveva costretto a chiedersi perché facesse l'editore. Era molto scettico sull'esito di vendite: "questi sono i primi e gli ultimi soldi che ti procureranno i tuoi libri," disse a Pirsig.  Non andò così.

Come è noto, l'autore Pirsig, compì il viaggio descritto, da Est a Ovest, attraverso gli Stati Uniti nel turbolento 1968. Questa foto ritrae il primo giorno di viaggio insieme al figlio Chris nel North Dakota.


Quest'altra foto del viaggio invece, scattata dallo stesso Pirsig, ritrae Chris e gli amici John e Sylvia, più le due moto, protagoniste del lungo viaggio (in realtà i due amici lasciano l'impresa a metà del libro).  
                                 

Questa invece è la piantina dettagliata del viaggio. 



Ma quello che conta nel libro non è il viaggio (o comunque non solo quello) e nemmeno i riferimenti allo Zen che sono del tutto secondari, o alla manutenzione della motocicletta che è soltanto la metafora di quel cammino interiore che riguarda tutti, prima o poi nella vita. 

Il libro non ha  nemmeno una qualità letteraria particolare. Ci sono romanzi stilisticamente molto più importanti di questo, in quello scorcio di Novecento. 

E' un libro importante per altri motivi

Ci sono libri infatti libri così, di tanto in tanto, che sono come meteore, oggetti strani. Che appaiono nel cielo per motivi imperscrutabili. 

Leggendolo, ho capito perché.

Quel che appassiona è la storia umana del libro. E' struggente scoprire che Chris, il ragazzino del libro, il figlio di Pirsig, che accompagna il padre in questo lungo viaggio  a tratti crudele e folle, e ne è in fondo il vero protagonista, sia stato ammazzato durante una rapina, a San Francisco, in modo assurdo appena 4 anni dopo l'uscita e il successo mondiale del libro.

Lo racconta drammaticamente Pirsig nella postfazione al libro e le cronache di allora ne riferirono abbondantemente. 

Forse è anche per questo che il libro ha avuto questo destino singolare. 

Perché il suo spirito, lo spirito di questo libro, è legato a quello di persone vive che hanno lottato con la follia, con la consapevolezza e con l'insensatezza: il cammino che tutti sfioriamo ogni giorno nella vita, e che da ogni padre si trasmette ad ogni figlio, da ogni generazione ad ogni generazione, il compito della vita: quello di districarsi nelle trappole dell'entusiasmo, attraversare le ombre, riconoscere la Qualità delle cose (che preesiste alle cose, il vero tema del libro) e attraverso questo dare un senso. 

Si tratta anche di un aspro confronto tra due modi (platonico e aristotelico, in definitiva), di interpretare il mondo. Scrive Pirsig:

All'intelligenza classica interessano i principi che determinano la separazione e l'interrelazione dei mucchi (di sabbia), i nessi, le cause gli effetti, i torti le ragioni, le conseguenze, gli errori, le responsabilità le mancanze gli arbitrii i bisogni, l'intelligenza romantica si rivolge alla manciata di sabbia ancora intatta (guarda cioè all'essenza, a quello che le cose sono). Sono entrambi modi validi di considerare il mondo, ma sono inconciliabili. 

In fondo da questa dicotomia dipende anche il risultato che lo Zen induce nel lettore di turno. Chi è dotato di prevalente intelligenza classica, sarà portato a valutare il libro come un tentativo pretestuoso di dare nome all'innominabile; viceversa, chi dispone di intelligenza romantica sarà portato a entrare senza indugio nella disputa filosofica pazzoide di Pirsig con tutte le scarpe e a lasciarsi travolgere dal vissuto del legame di vita drammatico e unico che si ripete in ogni passaggio generazionale. 

Comunque la si pensi e comunque lo si senta, il libro eccolo qua: che gira ancora il mondo (nell'anno di grazia 2014) e porta il suo... disegno ancora lontano, come appunto una cometa. 

Fabrizio Falconi

27/08/14

Erica Jong: "Ho detto tante cose terribili, ma ero giovane e cinica."



Al volante di un fuoristrada nero, Erica Jong aspetta davanti alla stazione di Westport, Connecticut. C’è una coperta sul sedile posteriore per evitare che, quando i cani saltano a bordo, lo coprano di peli. Poco dopo, Ken arriva puntuale in treno da Manhattan, con il Times, il Post e il Daily News sotto il braccio e, a tracolla, una borsa che gli curva la schiena. Lei gli cede il posto alla guida. Lui imposta il navigatore per trovare il ristorante Whelk. «Questa macchina è nuova, ci sta facendo impazzire» commenta Erica nell’elegante tubino nero e giallo.

Scene di una tranquilla vita di coppia in questa specie di colonia estiva dei newyorchesi. Ma quello che colpisce è quanto siano cambiate le cose da quando l’autrice di Paura di volare aprì il suo bestseller con la seguente massima: «Bigamia vuol dire un marito di troppo, monogamia pure».

Sono passati quarant’anni e, due settimane fa, Erica ha festeggiato le nozze d’argento. Venticinque anni con lo stesso uomo. «Non ci avrei creduto se me l’avessero detto» racconta infilzando i gamberetti fritti in salsa barbecue, inframmezzati da sedanini sottaceto.

Proprio lei che sentenziò che «anche se si ama il proprio marito, arriva inevitabilmente il momento in cui scopare con lui è come mangiare un formaggino alla panna: riempie, ingrassa perfino, ma niente sapori eccitanti… e quello che si vuole invece è un pezzo di camembert stagionato» — adesso spizzica dal piatto di Ken le vongole con bacon, anch’esse in salsa barbecue.

«Ho detto tante cose terribili sul matrimonio, ma ero giovane e cinica. Ora penso che la cosa più preziosa sia avere qualcuno che ti guarda le spalle». Lancia uno sguardo al marito, seduto al suo fianco sullo sfondo delle acque verdi e placide del Long Island Sound, il braccio di mare che separa Long Island dal Connecticut.
«Penso che il matrimonio sia molto importante… se è quello giusto» conclude. Ma Ken puntualizza: «È importante anche se non è quello giusto. È così che mi guadagno da vivere». Fa l’avvocato ed è specializzato in divorzi difficili (etero e gay).

Venticinque anni fa, li ha presentati un’amica comune a New York. «Ma la storia interessante — interviene l’avvocato, sollevando prontamente lo sguardo dai cavatelli al nero di calamari — è come abbiamo deciso di sposarci. Ci frequentavamo da un paio di mesi, ma non avevo mai incontrato i genitori di Erica. Anche loro avevano una casa per i weekend qui in Connecticut e così un sabato sono venuti a trovarci. Ho conosciuto suo padre, uomo incantevole, e ho conosciuto sua madre. Più tardi, in auto su Riverside Avenue, ho detto a Erica: “Ti ho amato dal momento in cui ti ho incontrata, ma non capivo perché. Adesso so che hai bisogno di me».




17/05/14

'Il cardellino' di Donna Tartt: il piacere (effimero) di leggere una storia.




Di solito - premetto - non leggo libri così.   
Intendo libri che arrivano preceduti da un enorme battage pubblicitario, da premi (Pulitzer 2014) e investiture sul campo come 'libro dell'anno', che non si può evitare di leggere. 

Ma non avendo letto nulla di Donna Tartt ero abbastanza incuriosito. I libri poi arrivano sempre nel momento deciso da loro, ed era evidentemente il momento giusto per sobbarcarsi una lettura come questa, quasi 900 pagine, una storia perfino estenuante, scritta interamente in prima persona, in unità di tempo e luoghi, senza flashbacks, senza quegli espedienti di frammentarietà che vanno così di moda oggi. 

La Tartt è molto brava, nel congegno narrativo: la macchina funziona - non per niente proviene da quel Bennington College dal quale sono usciti anche Bret Easton Ellis e Jonathan Lethem - con efficacia implacabile, pagina dopo pagina, con tutti gli snodi che rendono un libro leggibile e una storia accattivante. Si va a dormire incuriositi e con la voglia di farci raccontare cosa succederà quando riprenderemo in mano il libro. 

Theo, un ragazzino di dodici anni, resta orfano di madre - il padre, un ex attore sbevazzone ha già mollato il tetto coniugale da tempo, sparendo nel nulla - durante un misterioso attentato in un museo, nel centro di Manhattan.  Sepolto dalle macerie - la scena madre del libro si dipana all'inizio per cinquanta pagine ed è scritta con la necessaria magniloquenza e precisione dei dettagli di chi sa che è essa ad innescare il meccanismo narrativo che ti terrà avvinto per le successive 850 pagine - Theo scoprirà solo in seguito che la madre è morta, ma intanto avrà fatto in tempo a portare con sé, nello stordimento generale, un preziosissimo piccolo quadro, Il Cardellino, dipinto dal fiammingo Carel Fabritius nel 1654. 

Quella tela diventa il talismano di Theo, la sua àncora per sopportare i dolori del mondo che gli proverranno dalla nuova condizione di orfano: la scoperta del mondo di Hobie, l'antiquario nobile e silente che prende ad occuparsi di lui;  l'adozione da parte di una ricca famiglia di Manhattan, i Barbour; il ritorno del padre, che torna a farsi vivo accompagnato da Xandra, una svitata e lo porta a vivere con loro a Las Vegas; l'amicizia totalizzante con Boris, il Lucignolo che avvia Theo sulla strada della perdizione e della droga; la fuga solitaria per tornare a casa a New York; l'escalation nel mondo dell'antiquariato occupandosi della bottega di Hobie; i guai che ne seguiranno e le vicende gangsteristiche che porteranno il libro alla sua conclusione. 

Il Cardellino è un libro con molte ambizioni. Ma la qualità letteraria non è adeguata, ahimé, a supportarle.  

Contrariamente al facile entusiasmo di quelli che anche qui in Italia hanno scomodato paragoni con Saul Bellow o Henry Roth,  la scrittura della Tartt non è assolutamente all'altezza di questi confronti. 

Siamo cioè molto più dalle parti di Stephen King - che infatti ha recensito entusiasticamente il romanzo - che di Saul Bellow. 

Pur nella ricchezza del testo, nelle invenzioni narrative, nell'impianto Dickensiano così apparentemente solido, Il Cardellino ha un vuoto di fondo che non si riempie. 

Non si tratta soltanto della filosofia nichilista che pervade il romanzo, quasi come un teorema scontato. L'anima della storia resta ad un livello superficiale. 
Funzionano alcuni personaggi - il migliore è Hobie - altri molto meno, così come non funzionano affatto quelle trappole per il lettore che sono molto artificiose e di facile individuazione per chi non è proprio di primo pelo. 

Il personaggio di Theo resta, ma sono insopportabili a lunghi tratti le sue tirate vittimistiche, autocompiacenti e autocompiaciute, così come è insopportabilmente descritta - con eguale compiacimento - la parossistica caduta nel gorgo delle droghe (del vomito, della nausea, dei collassi, delle visioni) che avvita il libro su ritmi più stantii. 

Il vuoto comunque resta. E forse è proprio questo vuoto che sta a cuore alla Tartt, come lei stessa ci mostra nelle ultime pagine del romanzone. 

Senza compiere nessuno spoiler, si può affermare che il Cardellino resta alla corda, alla catena, esattamente come l'uccellino dipinto da Carel Fabritius nel 1654. 

Si ha cioè l'ìmpressione che un tale sfoggio di tecnica narrativa - al contrario dei grandi maestri che, dando voce poetica alla tecnica trasformano l'immateriale narrativo in reale-concreto-per-le nostre-vite - resta, come i vivaci colori del Cardellino fiammingo: pura manifestazione esteriore. 

Il pianto di Theo non riesce mai a scuoterci o a commuoverci fino in fondo.  La vita interiore richiede un surplus di  mondo reale e di mediazione poetica che nessuna raffinata tecnica narrativa, da sola, può restituire. 


Fabrizio Falconi © - proprietà riservata/riproduzione vietata. 






07/01/14

Perdere il compagno di una vita, l'elaborazione del lutto secondo Oates e Barnes.



Julian Barnes 


Esistono vari livelli in cui uno si trova a vivere, nota l'inglese Julian Barnes, che racconta prima di chi cercava nell'Ottocento di alzarsi da terra con precarie mongolfiere, poi di come lui, morta sua moglie, la compagna di oltre 30 anni, sia invece sprofondato sotto terra. Il racconto di una lunga caduta nell'abisso del dolore e' anche quello autobiografico di Joyce Oates, una delle piu' prolifiche e importanti scrittrici americane, che ha scritto il proprio diario a seguito della morte, dopo 48 anni di vita in comune, del marito. 

Due libri sull'elaborazione del lutto, ma molto diversi. Barnes, l'acclamato autore di "Il senso di una fine", ricorda che una mongolfiera poteva, per qualsiasi minimo imprevisto, precipitare a terra sino a conficcarsi nel terreno e cosi' capita a chi arriva improvvisa una disgrazia e si trova costretto a affrontarla in un'epoca in cui non e' piu' possibile, come Orfeo, scendere agli inferi per riportare indietro la propria Euridice, tanto piu' che poi e' praticamente impossibile resistere a non guardarla, quando la si sente di nuovo viva e parlare alle proprie spalle. 

Perche' Barnes Oscilla tra il dirsi che la morte fa parte del meccanismo naturale dell'universo e il bisogno di continuare la propria conversazione interrotta con Pat, giungendo per gradi, per sofferenza ("i dolenti non sono depressi, sono semplicemente, giustamente, matematicamente tristi"), per necessita' a capire che "il fatto che una persona sia morta puo' voler dire che non e' viva, ma non che non esiste". 



                                                                     Joyce Carol Oates 


Un libro intenso, mai retorico, un'elaborazione anche letteraria, sapendo come sempre che la scrittura e' terapeutica, nel cercar di ritrovare un senso dell'essere, con emotivita' ma senza sbavature, recuperando con stile cio' che e' stato e che non puo' andare perduto.

Scrittura terapeutica e' certo anche quella della Oates, che del resto ci propone un racconto di 600 pagine (cinque volte il libro di Barnes) che e' sostanzialmente diario minuzioso della propria disperazione, sino al pensiero non occasionale del suicidio, dopo aver reso conto dell'ultimissimo periodo con Ray, della sua malattia improvvisa, una polmonite, che improvvisamente si aggrava proprio quando sembrava ormai risolversi, tanto che la scrittrice era tornata a casa dall'ospedale e era riuscita a addormentarsi. 

fonte: ANSA/ Libro del giorno: Oates e Barnes, elaborazione di lutti Due racconti diversi di chi ha perso il compagno/a di una vita (di Paolo Petroni) (ANSA)

10/11/13

Intervista a Ian Mc Ewan su 'Stoner' di John Williams:




Vi propongo oggi una intervista a Ian Mc Ewan, di  Sarah Montague: spiega perché Stoner, il romanzo di John Williams sia stato salutato (seppure pubblicato nel 1965) come uno dei più grandi del XX secolo: Stoner di John Williams. 

In Italia molti hanno amato e stanno amando questo libro e anche io qui ne ho parlato tempo fa. E' una intervista acuta e consapevole, che spiega anche il motivo perché nessuno dei romanzi scritti fin qui da Mc Ewan (con l'eccezione di Bambini nel tempo) o quelli di Javier Marias (altro ottimo scrittore, forse troppo prolifico e prolisso) possa essere paragonato ad un semplice, meraviglioso romanzo come Stoner. 


Cosa c'è di così bello in questo romanzo?
"Appena lo inizi a leggere senti di essere in ottime mani. Ha una prosa molto lineare. La trama, se ci si limita a elencare i suoi elementi, può suonare molto noiosa e un po' troppo triste. Ma di fatto è una vita minima da cui John Williams ha tratto un romanzo davvero molto bello. Ed è la più straordinaria scoperta per noi fortunati lettori".

È piuttosto singolare che dopo così tanto tempo un romanzo di cui non si è scritto né parlato, quindi sconosciuto, improvvisamente sia sulla bocca di tutti come sta accadendo adesso.
"È una vecchia storia. È successo con altri scrittori, pensi a Irène Némirovsky, che era piuttosto conosciuta in vita, poi dimenticata e poi di nuovo riscoperta. E poi anche il caso di Hans Fallada, che visse a Berlino, un altro caso di scrittore morto ed escluso dalla mappa culturale. E ora accade di nuovo, credo sia una scoperta gioiosa".

Dunque il romanzo parla della vita di William Stoner, che appare relativamente povera di accadimenti. 
"Relativamente. Stoner viene da una povera famiglia di contadini, frequenta la scuola di agraria, dove accede nel 1910 e segue, come ne esistono in un altro migliaio di università americane, un corso di Lettere e Filosofia. Il professore di letteratura durante una lezione legge il sonetto di Shakespeare n. 73 ("In me tu vedi quel periodo dell'anno") e qui lo studente ha un'epifania. Stoner lo ascolta e ne è trasformato, l'insegnante gli chiede cosa voglia dire il sonetto e tutto ciò che Stoner riesce a dire, flebilmente, è "significa...". E l'insegnante capisce immediatamente che il ragazzo è stato colpito dalla letteratura inglese. Stoner poi diventa un professore associato all'università e insegnerà fino alla sua morte, che avverrà molte decadi più tardi. Si sposa, il matrimonio va male, ha una figlia e anche la figlia va male, entra in una faida amara, o meglio è perseguitato da un collega per venticinque anni e conosce l'unico momento di riscatto della sua vita in una tenerissima storia d'amore che poi svanirà. C'è tutta la sua vita".

Ma è la scrittura, ovviamente, che ha conquistato lei e tutti gli altri. 
"Sembra aver toccato la verità umana come succede nella grande letteratura. È quel tipo di prosa che non vuole mostrarsi. È quel tipo di scrittura simile a una superficie di vetro, riesci a vedere immediatamente le cose di cui parla. E credo che questo sia entusiasmante di per sé. Ha una tale chiarezza, è una scrittura molto limpida. È straordinario ed è un avvertimento per tutti noi scrittori: potresti essere anche molto conosciuto in vita e poi, qualche anno dopo la tua morte, essere dimenticato".


Lei ha detto che la rappresentazione della morte di Stoner è un passaggio supremo della letteratura contemporanea. 
"Sì, noi esperiamo la morte di Stoner. È raccontata in terza persona, ma è molto in soggettiva, è scritta in maniera molto diretta. E quindi vediamo la rappresentazione della sua morte attraverso la percezione di quel momento dello stesso Stoner, tutta la vita che scorre davanti ai suoi occhi. E da lettore hai quasi la sensazione che il libro stesso stia morendo tra le tue mani e che il personaggio stia morendo tra le tue mani, tu stesso sembri percepire un po' della tua morte. La lettura delle ultime pagine è un'esperienza piuttosto forte".

Questo non sembra esattamente il tipo di storia da leggere sotto l'ombrellone.
"Semmai è vero il contrario. Non sarò mai abbastanza convincente nel sostenere che è questo il libro da portare in vacanza. Si insinuerà nelle stanze d'albergo, ovunque. Questa è una scoperta meravigliosa per tutti gli amanti della letteratura".

tratto da Repubblica.it


12/08/13

In viaggio con la zia - di Graham Greene. Una riscoperta.





Mi piace andare controcorrente. Mi piace rileggere vecchi libri che nessuno legge più. E qualche volta anche libri di autori considerati snobisticamente troppo popolari, troppo di successo. 

Graham Greene (1904-1991) è uno scrittore meraviglioso.  Che, un po' come accadde a William Somerset Maugham o a Simenon, capitò in vita l'accidente di avere molto, molto successo. 

Cosa che, per la critica militante e benpensante dell'epoca, era imperdonabile. 

Greene ha venduto milioni di copie di libri in tutto il mondo, tradotti in ogni lingua. E quasi ogni suo romanzo, dei molti che ha scritto, sono diventati film e a loro volta grandi successi al cinema. 

E' accaduto anche a In viaggio con la zia, scritto nel 1969 e divenuto un grande successo internazionale con il film girato da George Cukor nel 1972 per la MGM che aveva come protagonista la grande Maggie Smith.

Come è accaduto a Maugham e a Simenon (ma un po' più a rilento rispetto a loro), anche per Greene è cominciata l'epoca della riscoperta. 

La scrittura facile di Greene, non è mai facile

E come sa bene chi scrive, scrivere bene facile è molto, molto più difficile che scrivere difficile (o complicato). 

Greene possedeva un talento naturale per la leggerezza (che non è mai superficialità).  Ha scritto romanzi importanti e di argomento molto serio e storie apparentemente più esili o divertenti, a cui apparterrebbe anche In viaggio con la zia. 

Che riletto oggi è però, un grande romanzo. 

Un romanzo nel quale il puro divertimento della lettura  si unisce all'intelligenza, alla sagacia, alla comprensione profonda delle leggi umane. 

Il pretesto è noto: Greene mette al centro di questa storia  la zia Augusta (modello neanche tanto nascosto della Zia Mame del recente romanzo che ha avuto successo notevole internazionale), dama smisuratamente eccentrica, formidabile esemplare di quella galleria di vecchie anticonformiste che sono una specialità della letteratura inglese. Insieme con noi ne fa la conoscenza il cinquantacinquenne Henry Pulling, suo nipote, educato, ironico, un po' timido, e che, dopo aver trascorso una decorosa esistenza in una banca della City, già pregusta un tranquillo life-end trascorso coltivando dalie nel suo giardinetto. 

L'incontro, al funerale della madre, sconvolgerà i suoi piani: recatosi a casa della zia avrà la sorpresa di vedere l'urna con le ceneri della madre trasformata in un contenitore di marijuana; verrà poi coinvolto in uno sfrenato carosello che lo trascinerà ai quattro angoli del mondo, al seguito sempre della terribile parente, e gli farà conoscere un variegato universo di loschi trafficanti, di ragazzine hippie in via per Katmandu, di decrepiti avventurieri italici, di agenti della CIA.

Il tutto scandito da una narrazione pirotecnica, sempre brillante, che nella seconda parte del libro diventa sempre più grave e introspettiva, con il lento dipanarsi del segreto che il lettore non tarda a scoprire (prima del protagonista).

Se siete alla ricerca di un libro per l'estate (ma anche per l'inverno), non vi pentirete di aver scelto questo romanzo.  

Fabrizio Falconi

05/09/12

Letteratura: 50 anni fa veniva pubblicato 'On the road' di Kerouac.




Veniva pubblicato esattamente 55 anni fa 'On the road' ('Sulla strada'), dello scrittore statiunitense JackKerouac, manifesto della 'beat generation'.

Pubblicato nel '57 ma scritto nel '51, il romanzo e' basato su una serie di viaggi compiuti - per lo piu' in autostop - attraverso gli Stati Uniti d'America, ispirati a quelli realmente vissuti dall'autore insieme all'amico Neal Cassady.

L'opera contribui' a mitizzare l'idea del viaggio in automobile e l'esaltazione dei grandi spazi.

Il romanzo come si sa, divenne un'icona culturale per la generazione degli anni '50 proprio perche' propose uno stile di vita lontano dalla necessita' di avere una fissa dimora, un lavoro e delle responsabilita', e contribui' a mettere in discussione la societa' americana, all'epoca considerata la migliore possibile, facendosi carico della disillusione delle nuove generazioni.

Il romanzo fu duramente censurato dalla politica maccartista dell'epoca e rifiutato da diverse case editrici, anche perche' parlava apertamente di alcol e droga.

Eppure ancora oggi, dopo piu' di 50 anni, 'On the road' conserva il suo ascendente tra le nuove generazioni, restando un immortale best-seller anche nelle vendite in libreria. 

Ad accrescere il mito di quest'opera, il fatto che Jack Kerouac scrisse il libro all'età di 29 anni, dal 2 al 22 aprile 1951, in tre settimane, con l'aiuto di solo caffè e senza benzedrina, come scrisse in un diario, nella propria casa, a Ozone Park, nei sobborghi dei Queens, a New York, sulla base di una serie di appunti raccolti al tempo dei viaggi. e il fatto che fu dattiloscritto su un rotolo di carta per telescrivente o da tappezzeria, lungo 36 metri, che gli fu regalata. 

Il "rotolo" fu aggiudicato in asta nel 2001 per un prezzo superiore ai due milioni di dollari (nel video soprastante una delle occasioni in cui fu 'srotolato). 

fonte ASCA

21/06/12

'Coral Glynn' di Peter Cameron - RECENSIONE.




La giovane Coral Glynn, orfana e sola al mondo arriva in una lussuosa e decadente villa nel Leicestershire, in Inghilterra, nel pieno degli anni '50. Specialista infermiera, deve occuparsi dell'anziana e moribonda Mrs. Hart.

Nella vetusta dimora riceve le attenzioni del figlio di lei, il "maggiore" Clement Hart che, reduce di guerra, ha metà del corpo ustionato. 

Cupo e malinconico, dopo la morte della madre, il maggiore trova il coraggio per chiedere a Coral di sposarlo. Il matrimonio però, appena celebrato, va in fumo: Coral si ritrova coinvolta nell'agghiacciante vicenda di una bambina trovata impiccata nel bosco vicino alla villa.  Costretta a fuggire, su sollecitazione di Clement, Coral si rifugia a Londra dove finisce in sposa a Laszlo, l'aitante figlio unico di una affittacamere polacca.  

Nell'epilogo, che descrive le vicende di 15 anni dopo, Coral si ritrova in viaggio insieme al marito a transitare proprio dalle parti di Villa Hart. Scopre che il maggiore si è infine sposato con Dolly, la ex moglie del suo migliore e unico amico (nonché ex amante) Robin. 

Cameron inventa una favola nera che a tratti sconfina nel gotico, di sapore diverso - e complessivamente meno convincente - dei precedenti due romanzi, Quella sera dorata e Un giorno questo dolore ti sarà utile, in particolare il primo che resta il suo migliore.

Qui la cosa migliore è il personaggio di Coral che da innocente verginea (si scoprirà poi che non è proprio così) vediamo raggiungere insperabili  traguardi di avvedutezza al limite del cinismo, lasciando al personaggio del maggiore il carattere della integrità (seppure minata da impotenza e debolezza). 

La narrazione e questo è il difetto principale, indugia compiaciuta (in particolare i dettagli delle scene erotiche, l'omosessualità vera e latente, le ossessioni noir) e sembra spesso girare a vuoto con una scrittura non sempre misurata, cifra che pure sembrava finora tipica dello stile di Cameron. 

Peter Cameron, Coral Glynn, Adelphi, 2012 (traduz. di Giuseppina Oneto)