Visualizzazione post con etichetta morte. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta morte. Mostra tutti i post

20/05/11

Cimiteri deserti luoghi, strade piene di fiori. Un segno dei tempi.


Girando, noto da tempo questo strano fenomeno: i nostri cimiteri ormai sono luoghi abbandonati. Eppure le strade pullulano di altari laici, memorie, scritte, fiori sempre freschi per ricordare qualcuno che si è spento.

Credo sia una cosa su cui poco si è riflettuto, che indica un cambiamento profondo della nostra mentalità. I cimiteri sono i luoghi dove i corpi dei morti riposano. Per noi, sembrano essere diventati luoghi poco interessanti. Una volta - fino a pochi decenni fa - i cimiteri erano sempre luoghi molto frequentati, molto curati dai congiunti, dai sopravvissuti di chi se n'era andato.

Non lo si faceva soltanto per compassione o per carità cristiana: lo si faceva perché si credeva che il luogo della sepoltura fosse molto importante. Lo si è creduto per millenni, dato che la stessa nascita della civiltà è correlata al culto dei morti e alla loro sepoltura - sepoltura sulla quale si edificavano case, templi, memorie, archi, università.

Oggi questi luoghi sono deserti: io che li frequento con una certa regolarità constato che sono del tutto abbandonati. Durante la settimana gli avventori sono pochissimi, pochissime le tombe che hanno fiori freschi, quasi nessuna. Molte ragnatele, molti tristissimi fiori finti, sbiaditi dal sole e dalla pioggia.

In compenso 'fioriscono' le nostre strade. E questo è molto interessante: il luogo dove una persona è morta, è diventato MOLTO più importante per noi, del luogo dove è sepolta.

E questo implica un rovesciamento completo della nostra forma mentis: siccome ci è molto difficile pensare, credere alla sopravvivenza dei morti in qualche forma che coinvolga il loro corpo morto, preferiamo negare questo luogo, cancellarlo dal nostro orizzonte immaginario e concentrarci sul luogo dove la VITA ha tessuto il suo ultimo istante.

E' insomma una delle forme con cui abbiamo fatto fuori la morte dal nostro orizzonte psicologico, scegliendo di celebrare la vita, seppure nel suo misterioso e drammatico istante ultimo.

E' una mutazione antropologica e culturale notevole. Di cui forse non siamo nemmeno coscienti.


Fabrizio Falconi.

10/04/09

L'ora del Grande Silenzio.


E' l'ora del Grande Silenzio.
L'ora in cui il mondo si ferma. E il Mistero avvolge ogni cosa. Non ha altro da opporre, l'uomo, in questa ora, che il Silenzio. Qualunque altra sua manifestazione, ogni altra manifestazione umana sarebbe insensata.
Non è stato per quello che Lui è morto: non è stato per lasciarci qui a discutere tra chi di noi abbia avuto o abbia ragione.
Non è stato per attribuire meriti o colpe.
Non è stato per riempire per tornare sulle nostre debolezze.
Non è stato per esprimere un giudizio.
Non è stato per riavvolgere il film, non è stato per imprecare al legno storto dell'umanità, che ogni cosa porta a rovina.
Non è stato per amore del Golgota. Tutt'altro.
Non è stato per impartire una lezione, nè per infrangersi contro le nostre orecchie sorde.
Siamo anche noi, Lui.
Siamo noi quell'uomo offeso, a morte, incrociato, bestemmiato, cancellato. Siamo noi, e non c'è distinzione.
Per questo, è l'ora del Silenzio che può salvarci.
Dobbiamo entrare dentro questa ora.
Viverla, soffrirla, passare il guado.
Dobbiamo varcare la soglia tenebrosa.
Recitare il nostro silenzio di questa ora è veramente rinascere.
E' credere, per sempre, al destino di un nuovo appello, che non si potrà più dimenticare.
E' l'ora della croce. Del sangue e dei chiodi. Degli occhi, tragicamente stanchi, che si chiudono. Delle ultime 7 parole pronunciate e pronunciabili.
E l'ora in cui il cielo si squarcia e calano le tenebre.
E' l'ora di ogni silenzio umano.
Che renderà grande ogni possibile risveglio.
.

11/02/09

La morte negata.


Non c’è epoca nella storia dell’uomo che sia stata più lontana dall’idea di morte, che questa che stiamo vivendo.


Per secoli e millenni l’uomo ha con-vissuto con la morte. La morte è stata una sorella fedele, la morte ha fatto parte a tutti gli effetti della vita. Vita e morte si sono mischiati continuamente, nelle guerre, nelle epidemie, nel piccolo mondo di ruvide certezze delle comunità contadine.

La morte, il lutto, il sacrificio, la carne erano parte – a tutti gli effetti – della vita di ogni giorno.

Oggi la morte è scomparsa.

I funerali vengono celebrati frettolosamente, il lutto è scomparso. Parlare di morte, o di lutti, in società, è considerato di cattivo gusto.

La morte è esorcizzata, tenuta lontano, sull’onda di un’euforia pagana, che rende sempre più adrenalinici e sempre più disperati.

Ma è una esperienza tipicamente umana, che più una cosa si allontana forzatamente dal nostro orizzonte psicologico, più la si esorcizza, e più essa ritorna, più potente e simbolica, più minacciosa.

Quindi, anche se siamo nell’epoca della storia umana in cui siamo più lontani dall’idea di morte, siamo certamente nell’epoca in cui la morte fa più paura.

E la ragione è proprio questa.

Conosciamo sempre meno la morte, ed essa ci fa sempre più paura.

La morte continua a dominare i nostri pensieri – è normale, e il pensiero della morte che non riusciamo più ad elaborare, ritorna sotto forma di incubi, depressione, disagio, disturbo, nevrosi.

Sì, perché l’uomo non riesce a vivere sotto il peso schiacciante della morte. Come infatti ci ricordano gli antichi Greci – ha scritto recentemente U. Galimberti - l’uomo per vivere ha bisogno di una costruzione di senso, in vista della morte, che è l’implosione di ogni senso.

Questa visione tragica del greco, che non nutriva speranze ultraterrene, venne oltrepassata dal Cristianesimo che ha iscritto l’uomo in un orizzonte di senso che ha il suo riferimento nell’immortalità dell’anima e quindi, come ci ricorda Paolo di Tarso, nella vittoria sulla morte.

Oggi questa speranza e questa costruzione di senso del cristianesimo sembra – dal comune sentire, ce ne accorgiamo specialmente in un paese ‘cattolico’ come l’Italia – spappolata.

Domina una rimozione collettiva del problema della morte, in vista della nostra incapacità di dare alla morte un senso, e quindi di accettarla nelle nostre vite.

Così, mi sorprendo moltissimo della meraviglia di quanti scoprono con ipocrita scandalo che la sera della morte di Eluana, la puntata del ‘grande fratello’ con le beghe da cortile dei palestrati e il loro futile e insensato vociare, abbia ottenuto il record di ascolti.

Se la proposta è:
- da una parte la morte come OGGI la viviamo e la sentiamo
- e dall’altra il dis-impegno, la disinvoltura, il dis-interesse, la deriva di un ostinato NON-domandarsi nulla,
CHI – secondo voi - potrà mai prevalere ?
.

07/02/09

L'unica cosa santa è il silenzio di Eluana.


Stordito come la maggioranza degli italiani - credo - dall'incredibile accanimento mediatico, politico, giudiziario, giornalistico che si è scatenato in questi ultimi giorni sul caso di Eluana Englaro, rifletto nella calma di una mattina piovosa, e mi dico che davvero, davvero, l'unica cosa santa di questa vicenda è il silenzio di Eluana.

Perchè dico 'santa' ? Perchè il silenzio di Eluana non è sottile, non fa distinzioni e distinguo, non spacca il capello in quattro, non argomenta in un modo e nell'altro, non cerca di portare dalla tua parte, non tenta, non insinua, non vuole instillare nessun dubbio, non mette zizzania, non fa scontrare armate di garanti della vita, e garanti della buona morte, non chiede nulla e non pretende nulla (tutte caratteristiche tipicamente demoniache che vedo dispiegarsi alla grande in queste ore, su un fronte e sull'altro).

Il silenzio di Eluana è, e basta.

Il silenzio di Eluana è il mistero della vita, è l'imperscrutabilità del disegno della nostra vita, che niente e nessuno di noi umani è riuscito finora a sciogliere.

Il silenzio di Eluana è santo perchè nessuno può scalfirlo, e perchè è l'evidenza di ciò che deve essere - nonostante noi, e nonostante quel che noi siamo o pensiamo. Il silenzio santo di Eluana meriterebbe soltanto il rispetto. Un rispetto che non è stato accordato, finora.

Ma lei continua a restare in silenzio, anche senza rispetto.

Il suo silenzio è il suo testamento di vita e di morte, per tutti noi che sappiamo soltanto parlare.
.

11/12/08

Canto alla Bellezza.





Per tutta la vita cerchiamo bellezza.

E la mancanza di bellezza intorno, quando non la vediamo e non la sappiamo e non la viviamo, genera guasti irreparabili.

Abbiamo così bisogno di bellezza.

Hermann Broch, ne La morte di Virgilio, scriveva un meraviglioso canto alla bellezza:

Così in dolente tristezza
la bellezza si svela all'uomo,
gli si svela nella sua compiutezza, che è quella
del simbolo e dell'equilibrio,
affascinante e sospesa nell'opposizione
dell'io che guarda la bellezza del mondo colmo di
bellezza,
l'uno e l'altro nel proprio spazio, l'uno e l'altro limitato
in se stesso,
chiuso in se stesso nel proprio equilibrio, e proprio per
questo
entrimani in equilibrio reciproco, proprio per questo in
uno spazio comune
...
il gioco saturo di bellezza, che satura di bellezza e che,
innamorato della bellezza,
ha luogo ai confini della realtà e
ingannando il tempo senza annullarlo,
giocando col caso senza dominarlo,
infinitamente ripetibile, e tuttavia
fin da principio destinato a perdersi,
perchè solo l'umano è divino.

.

15/10/08

I nostri morti.

I nostri morti non ci hanno abbandonato. Se ne sono andati lasciandoci senza parole.

Avremmo voluto ancora dire loro qualcosa. Qualcosa che non siamo riusciti. E quella parola ci è rimasta dentro.

Immaginiamo i loro occhi che ci guardano di notte, ci sentiamo sfiorati quando meno ce lo aspettiamo. Li sentiamo mormorare parole indistinte, nella penombra.

I nostri morti si sono dileguati troppo presto. Hanno stabilito un vuoto nelle nostre vite. E qualche volta pensiamo di risolvere quel vuoto, non pensandoci. Invece, quel vuoto è sempre lì. E ogni giorno è sempre più vuoto, sempre più fondo. Nasconderlo, non serve.

I nostri morti ci chiedono di vivere
. Hanno nostalgia della vita. Ci chiedono di essere la loro prosecuzione su questa terra che hanno lasciato a fatica. Non soltanto perchè portiamo in giro i loro geni, il loro stesso materiale biologico, che è il nostro. Padri, madri, sorelle, fratelli, figli. Vivono separati da un vetro.

Ci osservano. Ci chiedono di interrompere il nostro insensato incedere di tutti i giorni. Di fermarci ad osservare le nostre vite fatte spesso di niente. Ci chiedono di fare loro spazio. Di non annullarli, di non far finta di niente, di non dimenticarli. Ci chiedono di portarli in giro, di far vedere loro il mondo ancora, e sempre, con occhi nuovi.

Ci proteggono. Ci mandano segnali. Noi non li sentiamo, quando siamo troppo presi, troppo indaffarati o indifferenti. Allora ci chiamano di nuovo, e ci mandano altri segnali. E ci proteggono quando non vogliamo ascoltarli, e siamo in pericolo. Sperano che ci accorgiamo di loro. Sperano che gli parliamo, ancora, e sempre, nel buio, nella pioggia del giorno, nelle giornate che non finiscono mai.

Ci aspettano. Vogliono essere con noi, insieme, nella ultima speranza che contiene ogni mistero, e che ci attende, alla fine di questo viaggio finito.

05/10/08

L'abiura di Roberta de Monticelli - L'addio a ogni collaborazione con la Chiesa cattolica - La risposta di Mons. Betori.

Mi colpisce molto la dura presa di posizione di Roberta De Monticelli - che reputo una delle migliori menti oggi al servizio della riflessione spirituale, in Italia - la quale ha abiurato, con una clamorosa lettera, pubblicata su Il Foglio, qualsiasi collaborazione con la Chiesa Cattolica, a causa delle posizioni espresse da Mons. Betori - segretario generale della CEI in uscita - sulla fine-vita e le volontà ultime del malato.
Penso che sia un'occasione di riflessione profonda, per tutti quelli che si riconoscono come cristiani - e anche per tutti gli altri - leggere questa lettera, e la risposta che ne ha dato lo stesso Mons. Betori il giorno successivo su 'Avvenire'.

Abiura di una cristiana laica

di Roberta de Monticelli *

Questo è un addio. A molti cari amici - in quanto cattolici. Non in quanto amici, e del resto sarebbe un fatto privato. E’ un addio a qualunque collaborazione che abbia una diretta o indiretta relazione alla chiesa cattolica italiana, un addio anche accorato a tutti i religiosi cui debbo gratitudine profonda per avermi fatto conoscere uno dei fondamenti della vita spirituale, e la bellezza. La bellezza delle loro anime e quella dei loro monasteri - la più bella, la più ricca, e oggi, purtroppo, la più deserta eredità del cattolicesimo italiano. O diciamo meglio del nostro cristianesimo.

L’eredità di Benedetto, di Pier Damiani, di Francesco, dei sette nobili padri cortesi che fondarono la comunità dei Servi di Maria, di tanti altri uomini e donne che furono “contenti nei pensier contemplativi”. E anche l’eredità di mistici di altre lingue e radici, l’eredità, tanto preziosa ai filosofi, di una Edith Stein, carmelitana che si scalzò sulle tracce della grande Teresa d’Avila.

Questo addio interessa a ben poche persone, e come tale non meriterebbe di esser detto in pubblico. Ma se oggi scrivo queste parole non è certo perché io creda che il gesto o la sua autrice abbiano la minima importanza reale o morale: bensì per un senso del dovere ormai doloroso e bruciante. Basta.

La dichiarazione, riportata oggi su “Repubblica”, di Mons. Betori, segretario uscente della Cei, e “con il pieno consenso del presidente Bagnasco”, secondo la quale, per quanto riguarda la fine della propria vita, alla volontà del malato va prestata attenzione, ma “la decisione non deve spettare alla persona”, è davvero di quelle che non possono più essere né ignorate né, purtroppo, intese diversamente da quello che nella loro cruda chiarezza dicono.

E allora ecco: questa dichiarazione è la più tremenda, la più diabolica negazione di esistenza della possibilità stessa di ogni morale: la coscienza, e la sua libertà. La sua libertà: di credere e di non credere (e che valore mai potrebbe avere una fede se uno non fosse libero di accoglierla o no?), di dare la propria vita, o non darla, di accettare lo strazio, l’umiliazione del non esser più che cosa in mano altrui, o di volerne essere risparmiato. Sì, anche di affermare con fierezza la propria dignità, anche per quando non si potrà più farlo. E’ la possibilità di questa scelta che carica di valore la scelta contraria, quella dell’umiltà e dell’abbandono in altre mani.

Ma siamo più chiari: quella che Betori nega è la libertà ultima di essere una persona, perché una persona, sant’Agostino ci insegna, è responsabile ultima della propria morte, come lo è della propria vita. Fallibile, e moralmente fallibile, è certo ogni uomo. Ma vogliamo negare che, anche con questo rischio, ultimo giudice in materia di coscienza morale sia la coscienza morale stessa?

Attenzione: non stiamo parlando di diritto, stiamo parlando di morale. Il diritto infatti è fatto non per sostituirsi alla coscienza morale della persona, ma per permettergli di esercitarla nei limiti in cui questo esercizio non è lesivo di altri. Su questo si basano ad esempio i principi costituzionali che garantiscono la libertà religiosa, politica, di opinione e di espressione.

Oppure ci sono questioni morali che non sono “di competenza” della coscienza di ciascuna persona? Quale autorità ultima è dunque “più ultima” di quella della coscienza? Quella dei medici? Quella di mons. Betori? Quella del papa?

E su cosa si fonda ogni autorità, se non sulla sua coscienza? Possiamo forse tornare indietro rispetto alla nostra maggiore età morale, cioè al principio che non riconosce a nessuna istituzione come tale un’autorità morale sopra la propria coscienza e i propri più vagliati sentimenti?

C’è ancora qualcuno che ancora pretenda sia degna del nome di morale una scelta fondata sull’autorità e non nell’intimità della propria coscienza? “Non siamo per il principio di autodeterminazione”, dichiara mons. Betori, e lo dichiara a nome della chiesa italiana. Ma si rende conto, Monsignore, di quello che dice? Amici, ve ne rendete conto? E’ possibile essere complici di questo nichilismo? Questa complicità sarebbe ormai - lo dico con dolore - infamia.

di Roberta de Monticelli

* IL FOGLIO, 02.10.2008


--------------------------------------------------------------------------------

RISPETTOSA OBIEZIONE ALLA PROFESSORESSA DE MONTICELLI

Chiedo anch’io la libertà di coscienza. Altra cosa dall’auto-determinazione

di GIUSEPPE BETORI (Avvenire, 03.10.2008)

Sul ’Foglio’ di ieri, Roberta de Monticelli prende spunto da alcune mie dichiarazioni, nel contesto di una conferenza stampa, per dare il suo « addio » « a molti cari amici - in quanto cattolici » , « un addio a qualunque collaborazione che abbia una diretta o indiretta relazione alla chiesa cattolica » .

Trovarmi coinvolto in una così seria decisione mi turba, ma vorrei ricordare che quella parola, « addio » , percepita di primo acchito sinistra, contiene in sé una radice promettente. E’ la preposizione ’ ad’ che spinge verso altro, in ogni caso fuori dal soggetto.

E in effetti visto che l’argomento del contendere è la ’ fine della vita’, tutto cambia a seconda se la vita è destinata oppure senza scopo. In altre parole se la vita si spiega da sé o sottostà come tutta la realtà a quel principio per cui nessuno trova in se stesso la spiegazione del proprio essere. Se si tiene conto di questo, forse si riesce a capire cosa nasconda la parola ’autodeterminazione’, che vorrebbe fare a meno di questa evidenza.

E se la signora de Monticelli avesse colto tale passaggio, avrebbe certo compreso che dietro le mie parole «non spetta alla persona decidere» si cela non la negazione della coscienza, ma semmai dell’autosufficienza. Per questo, proprio appellandomi alla coscienza, che l’illustre interlocutrice difende con tanta passione, non posso non prendere le distanze dalla posizione che mi costruisce addosso e che mi viene attribuita senza fondamento.

Sono infatti sinceramente amareggiato che la mia dichiarazione sia stata letta come « la più diabolica negazione di esistenza della possibilità stessa di ogni morale » . Insomma, sarei io - e la Chiesa con me - ad autorizzare il male, negando la possibilità di fare il bene, e farei tutto questo perché non sono per « il principio di autodeterminazione » . Qui si sta costruendo un grande malinteso, legato a cosa significhi in questo contesto il « principio di autodeterminazione » : non si può confondere la libertà di coscienza con la possibilità di fare quello che ci pare. Anche se ragionassi in termini puramente laici, non potrei giustificare un assassinio dicendo che l’ho fatto per rivendicare la mia libertà di coscienza. La legge che punisce l’omicidio non elimina la libertà di coscienza: anzi la piena libertà dell’assassino è il primo presupposto della condanna.

Non possiamo confondere, insomma, la libertà della nostra coscienza con la legittimità delle nostre azioni. Il « principio di autodeterminazione » non è mai stato un caposaldo della dottrina della Chiesa: quando S. Agostino scrive « ama e fa’ ciò che vuoi » , indica che le nostre azioni sono buone solo quando si ispirano a Dio, che è Amore. La coscienza è la sede della nostra scelta, è il luogo dove decidiamo, ma non è il criterio della scelta. Il criterio non ce lo diamo da soli: ce lo dona Dio, che è Amore, ed è percepibile ad ogni indagine razionale come il fondamento della nostra stessa identità o natura. Allo stesso modo, la vita non ce la diamo da soli, ma ci viene donata. Difendere questo dono è difendere il bene: difendere la vita significa difendere la possibilità della coscienza, non negarla. Se non sono vivo, certo non posso scegliere. È proprio questa precedenza della vita rispetto ad ogni scelta, questo dono che mi viene fatto, che mi orienta nel valutare le opzioni di fronte a me. Del resto, anche la mia coscienza non me la sono data: genitori, insegnanti, amici mi hanno insegnato a parlare e a pensare.

Questo tipo di considerazioni porta San Tommaso a insistere tanto sulla prudenza come regola per l’azione: se non si può scegliere in astratto, ma solo a partire dalle concrete situazioni della vita personale, non si può essere buoni in astratto, come vorrebbe l’astratto « principio di autodeterminazione » .

Bisogna cercare di essere « il più buoni possibile » nelle circostanze date: per questo la Chiesa si è decisa per una legge sul ’ fine vita’. Un realismo, il suo, che è da sempre il criterio ispiratore della riflessione cattolica, nello sforzo di rendere possibile una scelta buona nella vita di tutti i giorni.

La vita che viviamo è frutto di relazioni che la generano, sia nel momento del concepimento, sia durante tutto il suo corso. Queste relazioni non terminano con la sofferenza: il dolore non colpisce solo chi soffre - a volte in condizioni estreme - ma anche chi attorno è testimone di tale sofferenza. Tale comune sentire umano - direi questo consentire - sta da sempre a cuore alla Chiesa: davvero non vale niente? E questa passione per l’uomo sarebbe davvero « nichilismo » come conclude l’articolo su Il Foglio? O forse nichilismo è credere che non ci sia nulla oltre l’individuo e la disperata coscienza della sua solitudine?

Spero che Roberta de Monticelli - e quanti sono interessati a un dialogo sulla bellezza, la libertà, la vita - non rinunci alla possibilità di un incontro con chi segue Gesù, che è venuto non « per condannare il mondo, ma per salvare il mondo » (Gv 12,47). Per questo mi auguro che il suo sia solo un ’arrivederci’
profilo di Roberta de Monticelli:

04/10/08

Il Cardinal Martini: Sento la Morte come imminente.


Mi sono profondamente commosso, leggendo le parole pronunciate ieri dal Cardinal Carlo Maria Martini, in una delle sue ormai rare apparizioni in pubblico, vista la malattia che purtroppo lo sta sempre più limitando. Parole che dimostrano, una volta di più, la grandezza di questo uomo. Ve le ripropongo:

«Io, vedete, mi trovo a riflettere nel contesto di una morte imminente. Ormai sono già arrivato nell'ultima sala d'aspetto, o la penultima...». Il cardinale Carlo Maria Martini parla con un filo di voce ma sorride, «è stato un atto di audacia e anche di temerarietà chiamare a parlare una persona anziana che non sa se potrà esprimere bene le cose o tenersi in piedi», nell'auditorium dei gesuiti di San Fedele non vola una mosca, la gente ha gli occhi lucidi e l'arcivescovo emerito di Milano prosegue sereno, è arrivato appoggiandosi a un bastone ma lo sguardo e il pensiero non vacillano.


La sala è piena, si presenta il libro Paolo VI «uomo spirituale» (ed. Istituto Paolo VI-Studium), una raccolta di scritti martiniani su Montini curata dal teologo Marco Vergottini. E tanti sono rimasti fuori, l'attesa è grande quanto la commozione per il «ritorno» del cardinale biblista a Milano, anche se da qualche mese «padre Carlo» è tornato da Gerusalemme e risiede nella casa dei gesuiti a Gallarate. «Con i vostri tanti gesti di bontà, di amore, di ascolto, mi avete costruito come persona e quindi, arrivando alla fine della mia vita, sento che a voi devo moltissimo», sorride ancora ai fedeli, quasi fosse un congedo. Gli ottantun anni, il Parkinson. E il tema della morte, quello che nel libro Martini chiama con espressione dantesca «il duro calle». Quando l'attore Ugo Pagliai legge il «pensiero alla morte » di Paolo VI, « ...mi piacerebbe, terminando, d'essere nella luce... », il cardinale ascolta col volto affondato nelle mani aperte. «Se dovessi non lo scriverei così. È troppo bello, è meraviglioso, lirico», spiega Martini. «Come ho osservato nel libro, ritengo che il testo di Montini sia stato scritto anni prima, quando sentiva la morte incombente ma non imminente».

Della sua morte, invece, il cardinale parla come «imminente». Ed è qui che ha accenti wittgensteiniani, il pensiero sul limite della vita diventa un'interrogazione sui limiti del linguaggio, «chi si trova in questa situazione, dovrebbe piuttosto sentirsi scarnificato nelle parole, e questo è per me un problema irrisolto: come descrivere una realtà tutta negativa con parole razionali che tuttavia, in quanto razionali, devono esprimere una esperienza positiva». «Dire» la morte. È una riflessione che nel cardinale si è fatta via via più urgente negli ultimi anni. L'anno scorso, nella basilica dei Getsemani a Gerusalemme, aveva salutato i pellegrini ambrosiani con una lectio vertiginosa sulla Passone e l'«angoscia » di Gesù, «il greco il termine è agonia e significa lotta, conflitto, tensione profonda». Martini non ama i discorsi facilmente consolatori, come sempre trova il modo di parlare «al credente e al non credente che è in ciascuno di noi» e guarda in faccia «il duro calle». Davanti all'«affidamento totale a Dio» di Montini, scrive nel libro, «mi sento assai carente. Io, per esempio, mi sono più volte lamentato col Signore perché morendo non ha tolto a noi la necessità di morire. Sarebbe stato così bello poter dire: Gesù ha affrontato la morte anche al nostro posto e morti potremmo andare in Paradiso per un sentiero fiorito».

E invece «Dio ha voluto che passassimo per questo duro calle che è la morte ed entrassimo nell'oscurità che fa sempre un po' paura». Ma qui sta l'essenziale: «Mi sono riappacificato col pensiero di dover morire quando ho compreso che senza la morte non arriveremmo mai a fare un atto di piena fiducia in Dio. Di fatto in ogni scelta impegnativa noi abbiamo sempre delle "uscite di sicurezza". Invece la morte ci obbliga a fidarci totalmente di Dio». È l'insegnamento di Montini, «per me fu un po' come un padre». Perché ciò che ci attende dopo la morte «è un mistero » che richiede «un affidamento totale»: «Desideriamo essere con Gesù e questo nostro desiderio lo esprimiamo ad occhi chiusi, alla cieca, mettendoci in tutto nelle sue mani».


Grazie, Padre, anche per queste parole che ci hai donato.

03/05/08

Gialal ad-Din Rumi - Il Giorno della Morte



Quando il giorno della morte, si muoverà la mia bara,
non pensare che il cuore mio sia rimasto nel mondo.

Non piangere per me, non dire "ahimè! Ahimè!"
Cadresti nella rete del diavolo, ahimè, allora !

Quando vedrai il mio feretro non dire: "è partito lontano !"
E' proprio quel giorno, per me, giorno d'unione e d'incontro!

E quando mi deporrai nella tomba non dire: "addio, addio !".
Perchè la tomba è un velo che cela l'eterna comunione col cielo.

Hai visto lo sprofondamento, contempla la resurrezione:
reca forse danno, il tramonto al sole e alla luna ?

A te sembra tramonto, mentre invece è aurora;
la tomba sembra un carcere ma è, all'anima, liberazione.
Qual seme mai sprofondò in seno alla terra che non germinò poi ?
Perchè questo dubbio, allora, per quel seme che è l'uomo ?

Qual secchio scese nel pozzo che non tornò pieno d'acqua freschissima ?
Perchè dunque il Giuseppe dell'anima avrebbe paura del pozzo ?

Chiudi la bocca da questa parte e riaprila dall'altra parte del cosmo,
chè il suo canto trionfale risuoni alto nell'Oltrespazio !

Scritta da Gialal ad Din Rumi intorno all'anno 1250.

Vita di Rumi:
http://it.wikipedia.org/wiki/Gialal_al-Din_Rumi
Movimento Sufi:
http://www.movimentosufi.com
Dervisci Rotanti:
http://www.youtube.com/results?search_query=dervisci+rotanti&search_type=