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02/11/18

La strana tribù degli Hemingway, segnata dalla depressione. Un libro.



"Quando mio nonno apri' la porta e vide suo figlio, cioe' mio padre, con i collant da donna, non disse nulla e richiuse la porta. Poi avrebbe detto soltanto 'noi Hemingway apparteniamo a una strana tribu''.

John Hemingway, nipote del grande scrittore, ricorda cosi' in modo toccante un momento difficile della sua famiglia, riportato nel libro "Unastrana tribu'" (Marlin), presentato giorni fa al Caffe' degli Specchi, 70 anni dopo la visita del nonno in quella città e in quel luogo.

Il libro, pubblicato nel 2007 negli Stati Uniti e da allora uscito in tanti Paesi e in Italia soltanto da pochi mesi, e' un ritratto affettuoso ma impietoso della famiglia Hemingway, segnata da un tratto depressivo che "avrebbe portato mio nonno a subire l'elettrochoc, cosi' come mio padre Gregory, piu' volte - racconta John - Mio padre era bipolare, poi all'eta' di 65 anni circa, ha cambiato sesso. Mia madre era schizofrenica, un mio bisnonno si e' suicidato", precisa ancora. 

Insomma, come scrive nell'introduzione del libro Roberto Vitale, "John riesce a mostrare il lato umano e vero di un uomo che ha usato la propria immagine come corazza per proteggersi dalle difficolta' e da quella quotidianita' difficile da affrontare".

Ha avuto il coraggio di "aprire l'armadio di famiglia", come ha detto alla presentazione. Hemingway, uno scrittore che, come ha indicato il docente di Letteratura angloamericana all'Universita' di Trieste Leonardo Buonomo, "con la sua modernita', lo stile monastico e la precisione" ha influenzato "non soltanto la letteratura alta ma anche quella popolare, si pensi ad esempio al noir americano, alla figura del detective di poche parole. E in Italia ancora di piu'".

John oggi vive a Montreal (Canada), ma e' stato a lungo a Milano e conosce bene i luoghi che contribuirono a fare di Ernest uno dei principali scrittori al mondo.

"La guerra combattuta in Italia dove rimase ferito rimanendo miracolosamente vivo, e l'Italia stessa hanno forgiato mio nonno", racconta oggi.

Fonte ANSA

09/10/18

Libro del Giorno: "Bartleby lo scrivano e altri racconti" di Herman Melville.



Tornano, in nuova e bellissima edizione, nella traduzione di Alessandro Roffeni, 5 racconti di Herman Melville, tra cui il famosissimo Bartleby, pubblicato per la prima volta nel 1853 sul "Putnam's Monthly Magazine", due anni dopo il clamoroso insuccesso si Moby Dick che, uscito nel 1851, non portò al suo autore né vendite né riconoscimenti. 

Prossimo alla rovina finanziaria e dopo che un incendio aveva distrutto molte copie dei suoi libri nella sede della casa editrice di New York, Melville a 33 anni avvertiva la propria carriera di scrittore già volta al termine.

Eppure, non interruppe del tutto la sua produzione, tornando a lavorare in solitudine ai racconti e a L'uomo di fiducia, l'ultimo romanzo (pubblicato nel 1857) che avrebbe visto le stampe mentre l'autore era in vita, cioè fino al 1911, anno della morte di Melville. 

Lo scrittore dunque decise, pochi anni dopo averlo creato, di imitare il suo Bartleby, il protagonista del suo celebre racconto: come lo scrivano "preferisce" non scrivere più scegliendo in pratica il suicidio, così lo scrittore deluso - come scrive Alessandro Roffeni  nella nota alla traduzione - "preferisce anch'egli sottrarsi allo sguardo dei lettori, scegliendo di suicidarsi come figura pubblica".

Anche Melville terminerà i suoi anni da vecchio brontolone: come uno dei personaggi di questi racconti. 

Rileggere oggi Bartleby ci fa apprezzare ancora di più il manifesto esistenziale di Melville, quello di un rifiuto sostanziale e radicale dei meccanismi di complicità e di sottomissione su cui si basa la società civile.  Ma una lettura ancora più attenta, oggi, ci aiuta a sfrondare questo gigantesco racconto dalla prosopopea "politica" che gli è stata attribuita nel corso dei decenni: quella cioè di un semplice proclama a favore della disubbidienza (politica).  In realtà il finale patetico del racconto, con la "voce" raccolta dal narratore, a proposito del misterioso Bartleby prima del suo apparire sulla scena, prima perciò di essere assunto a servizio come scrivano dall'avvocato-narratore, ci illumina sul fatto che Bartelby è sostanzialmente un tragico deluso dalle cose del mondo: la sua occupazione (precedente) all'ufficio postale delle "lettere smarrite" (vero colpo di genio di Melville), ci fa intuire che Bartleby  ha sperimentato grazie a quel surreale impiego, l'inutilità di ogni cosa - passioni, interessi, faccende, litigi, ecc.. - umana.  Tutte quelle cose incompiute e perse, mai consegnate, mai recapitate, mai portate a termine, suggellano il fallimento di ogni aspettativa umana.  

La sua protesta dunque - "preferisco di no" - è dunque una ribellione nei confronti della condizione umana tout-court piuttosto che una ribellione/rivendicazione sociale. 

Meno fulminanti, ma ugualmente magistrali sono gli altri quattro racconti presenti nel volume: Il tavolo di melo, dove il narratore è un uomo sconvolto dall'apparizione di un elemento misterioso e inesplicabile:  il rumore di un ticchettio proveniente da un vecchio tavolo in legno di noce trovato in una soffitta, dal quale scaturirà un insetto meraviglioso; anche in Io e il mio camino si parla di mistero, perché c'è chi vuole sondarlo, violarlo e metterlo a nudo: cioè un presunto scomparto segreto nel vecchio camino della casa, che invece l'anziano proprietario vuole difendere a ogni costo; infine ne Il violinista e in Jimmy Rose Melville torna sui temi del successo e del fallimento e della decadenza, di cui i due rispettivi protagonisti sono in diversi modi l'incarnazione.

Si tratta comunque di cinque perle di grande valore, che meritano di essere riscoperte e ammirate nuovamente. 

14/09/18

Libro del Giorno: "Il Falco" di Hernan Diaz.




Hernan Diaz, l'autore di Borges, Between History and Eternity (Bloomsbury, 2012), direttore associato dell'Istituto spagnolo presso la Columbia University, ma americano di nascita, ha giocato una bella battaglia con questo romanzo, Il falco (In the distance il titolo originale), uscito l'anno scorso, ma non l'ha vinta. 

L'idea era molto interessante: rivalutare il genere western, da troppo tempo abbandonato dalla grande narrativa americana, rivitalizzandolo da una prospettiva nuova, immaginandone protagonista nientemeno che un gigante svedese, Hakan, sfuggito nel mezzo dell'Ottocento dalla miseria della sua terra e della sua famiglia e imbarcatosi su una nave diretta verso il Nuovo Mondo. 

Il romanzo, che pure ha avuto successo in patria, giungendo finalista al Pulitzer e al Pen/Faulkner Award, non convince, nonostante - o forse proprio per questo - il talento narrativo di Diaz. 

La vicenda di Hakan coinvolge subito dalle prime pagine: in un immediato e lunghissimo flashback - che dura per tutto il libro - scopriamo l'incubo del viaggio di Hakan: partito per l'Inghilterra insieme al fratello per imbarcarsi da Portsmouth per l'America, Hakan perde Linus. I due si mischiano alla folla, e Hakan, sicuro che il fratello sia salito a bordo della stessa nave, si imbarca per scoprire che invece il fratello non c'è.  E probabilmente ha preso una differente nave diretta a New York. 

Lungo il percorso Hakan scopre anche - complici le difficoltà della lingua (parla solo lo svedese e non capisce una parola di inglese) che la sua nave non è diretta a New York, ma a San Francisco, doppiando il capo Horn e la Terra del Fuoco.

Da qui ha inizio il lunghissimo e allucinante viaggio - a cavallo, a piedi, sull'asino - del povero Hakan verso oriente, nel tentativo di raggiungere New York e ricongiungersi con Linus. 

Il motore del romanzo dunque, è quello giusto (quello che Hitchcock chiamava il Mc Muffin), ma l'attenzione del lettore è tradita dall'estenuante sviluppo della vicenda che si snoda in bizzarri incontri, stermini altrettanto casuali, sezionamenti di cadaveri, sete, fame, caccia all'uomo attraverso il deserto, una fuga interminabile in cui al centro c'è soltanto il paesaggio.  

Una specie di Into the wild  tradotto sulla pagina (e riecheggiato anche nel titolo originale), che però scolorisce e non avvince, pagina dopo pagina; verso un malinconico finale che non termina nulla e tradisce ogni aspettativa del lettore. 

Insomma, una occasione mancata.  Forse, per poter diventare un grande romanzo, a questo Falco (il titolo italiano si riferisce al soprannome dato a Hakan dagli americani che non sanno pronunciare il suo nome svedese lo arrangiano in Hawk, cioè Falco), mancava poco. 

Forse un po' più di coraggio all'autore, troppo occupato ad esibire la sua bravura. 

P.S. l'edizione italiana del libro è macchiata da un clamoroso errore tipografico, laddove a pag. 236 viene ripetuto per intero un lungo brano contenuto in un paio di pagine precedenti del romanzo. Una gaffe non degna di un editore come Neri Pozza. 

Fabrizio Falconi



06/08/18

Libro del Giorno: "Il mio mortale nemico" di Willa Cather.



Scritto nel 1926, questo è un altro dei grandi romanzi brevi scritti da Willa Cather (1873 - 1947) di cui abbiamo già parlato pochi giorni fa a proposito di Una signora perduta.

La vicenda prende il via dalla provincia profonda americana - dalla quale proveniva anche la Cather - in una cittadina dove è ancora vivo il ricordo della bella Myra Henshawe, rimasta orfana e allevata dal ricco zio, che ha rinunciato all'eredità per amore.

Una notte, la giovane Myra è infatti scappata di casa portando con sé solamente un manicotto e un portamonete. A passo svelto e testa alta, se n'è andata per sempre. Ha raggiunto Oswald Henshawe, giovane spiantato di cui è innamorata, e lo ha sposato, rinunciando così ai beni dello zio che le spetterebbero. Un gesto audacemente romantico, che in famiglia diventa una leggenda colpendo non poco la fantasia della ragazzina Nellie, la quale qualche anno più tardi ha la possibilità di incontrare da vicino, a New York, l'eroina di cui ha così tanto sentito parlare.

Ha così la conferma del carisma della donna, del suo innegabile charme: né gli amici artisti, cui riserva una conversazione dove vibra «una lingua speciale» e un’incorreggibile prodigalità, né gli «amici ricconi», che subiscono rassegnati il suo sarcasmo fulmineo riescono a resisterle.

A mano a mano però Nellie scopre - osservando la coppia da vicino -  che è come se nella casa degli Henshawe, dove regnano spensieratezza e buone maniere e ogni cosa appare unica e irripetibile, penetrasse uno spiffero gelido, suscitando un misterioso terrore e crepe minacciose minassero quell'apparente incanto. 

Dieci anni più tardi, incontrando di nuovo Myra e il marito sulla West Coast, Nellie capirà che quella coppia perfetta era un esempio di legame fondato sull’odio non meno che sulla passione, giacché «si può essere nemici e amarsi allo stesso tempo».

Anche la madre di Nellie del resto, quando lei ancora bambina, le aveva chiesto se Myra e Oswald fossero poi sono stati felici, le aveva rivolto una risposta glaciale: «Felici? Oh, sì! Come la maggior parte della gente». E allora a che cosa è servito quel sacrificio? Che senso ha avuto barattare grandi fortune per una vita banalmente normale? Quelle che emergono, in questo romanzo breve ma stratificato, sono le mille sfumature di una figura ambigua e tormentata, una donna tanto risoluta nelle sue clamorose rinunce, quanto incapace di godere di una felicità che di clamoroso non ha nulla. 

Uno spirito libero che si trova a combattere contro i limiti della quotidianità e la crescente, esasperante consapevolezza di essere una donna totalmente diversa da quella che pensava di essere in giovane età. Tanto che in un momento di quieta disperazione, ridotta quasi all'immobilità, Myra definisce il marito "il mio mortale nemico".

Willa Cather descrive queste variazioni così sensibili sul tema della felicità e delle illusioni, in un piccolo capolavoro: pagine davvero indimenticabili, intrise di una grande carica drammatica. 

«Cather non è solo una brava scrittrice: è unica, è grandiosa», scrive Antonia S. Byatt nella bellissima introduzione al volume, «Il mio nemico mortale è una vera tragedia costruita a partire da una vera storia d’amore. La scrittrice che è in me pensa a questo libro più che a ogni altro dell’autrice. Ogni breve episodio è la rivelazione perfetta di qualcosa di nuovo e inaspettato. Non c’è una sola parola superflua o ridondante. È un romanzo al tempo stesso distaccato e dolorosamente commovente».

Fabrizio Falconi

Willa Cather 
Il mio mortale nemico 
Traduzione di Monica Pareschi 
Piccola Biblioteca 
Adelphi 2006, pp. 112

03/08/18

Libro del Giorno: "Ritratto di Signora in Viaggio" di Gottardo Pallastrelli.


Prezioso questo nuovo libro, da poco uscito da Donzelli, scritto da Gottardo Pallastrelli, che da anni studia il mondo di Henry James. 

Tutto parte dal fortunoso ritrovamento di una ventina di lettere inedite del grande scrittore ritrovate nell'archivio privato di una famiglia italiana, indirizzate ad una signora americana dell'epoca, finita sposa ad un italiano, Caroline Fitzgerald. 

È a lei che è dedicata questa biografia ricostruita attraverso il minuzioso studio di lettere, diari e documenti d’epoca, che ricostruisce un reale ritratto di signora nel quale è inevitabile scorgere in filigrana le fattezze di un’ideale eroina jamesiana. 

Molto nota nell’alta società newyorchese, Caroline ben presto si trasferì a Londra. Fu in un brillante salotto di Kensington che avvenne il primo incontro con lo scrittore americano, il quale, in una lettera a Edith Wharton, la descrive con un ricercato termine: "handsome blowsy", qualcosa come una «bellezza trascurata»

James frequentava le donne dall’eleganza sofisticata della migliore società internazionale, e Caroline certamente  non ricalcava lo stereotipo della giovane ereditiera americana in Europa tanto in voga in quegli anni. 

Lei che era colta, ricca, innamorata della poesia e talmente affascinata dall’Oriente da aver studiato il sanscrito e da vestire lunghe tuniche esotiche, era infatti decisamente lontana da quel cliché. 

Dopo il divorzio da un Lord inglese, si era innamorata di un medico ed esploratore italiano, Filippo De Filippi, famiglia dai cui archivi (oggi in possesso degli eredi) è uscito oggi questo carteggio.  

Sia pur tra le righe delle sue lettere James sembrò incoraggiare quella scelta e, negli anni che seguirono, spesso incontrò Caroline costatandone la nuova felicità, dopo il primo matrimonio fallito e sciolto perché non consumato.

Imperdibili sono alcuni resoconti che James scrive delle sue gite in Italia a bordo di una delle primissime automobili del secolo di proprietà della coppia. 

Il viaggio fu, del resto, la cifra stessa dell’esistenza di una donna intraprendente che andò fino in Caucaso e poi in India al seguito delle esplorazioni del marito. 

Da ogni parte del mondo Caroline riportava bellezze ed emozioni nel carteggio con James e gli altri amici della vecchia Europa. 

Una vita inconsueta vissuta appieno in poco più di quarant’anni e finita a Roma il giorno di Natale del 1911. 

Leggere oggi la sua biografia, attraverso le tante pagine di suo pugno, è come leggere in controluce un romanzo jamesiano mai scritto, o meglio ancora sbirciare nel vissuto di James fatto di incontri con donne e uomini reali da cui lo scrittore attingeva spunti per i suoi capolavori. 

Molto interessante è anche l'appendice del libro dedicata alla vita dei due fratelli di Caroline, l'uno Augustine, pittore, l'altro, Edward, alpinista famoso (fu il primo a salire sulla vetta dell'Aconcagua, la montagna più alta d'America), che anche loro certamente finirono per ispirare lo scrittore americana, come scriveva la stessa Caroline: «Henry James è venuto da noi per il tè questo pomeriggio – annotava in una lettera del 22 maggio 1896 – e ha continuato a farmi domande su Edward il quale, ne sono certa, finirà in uno dei suoi prossimi romanzi». 

Di certo la vita stessa di Caroline, e il suo carattere indipendente, fu ispirazione per James per le sue indimenticabili protagoniste femminili, accomunate dall'essere ereditiere americane in cerca di fortuna in Europa. 

Seguire la vita di Caroline Fitzgerald e della sua famiglia significa non solo fare luce su esistenze affascinanti di cui si erano perse le tracce, ma anche godere di quell’intimità emotiva che legò così profondamente Henry James a una donna dalla personalità complessa e originale. T

Il libro si avvale anche di uno splendido apparato fotografico, con le rare immagini di quell'epoca felice in cui a un ristretto numero di privilegiati era concesso di compiere esperienze uniche, inedite, in giro per i cinque continenti. 

Ritratto di signora in viaggio 
Un'americana cosmopolita nel mondo di Henry James 
Donzelli Editore 2018, 
pp. 256 Euro 25.

12/07/18

Libro del Giorno: "Una signora perduta" di Willa Cather.





Può essere perfetto un romanzo di sole 140 pagine che racconta una vita intera e di questa vita un carattere indimenticabile ? 


La risposta è sì. Se l'autrice è Willa Cather (1873-1947), scrittrice americana, in Italia ancora assai poco conosciuta e penalizzata come altre sue colleghe tra fine ottocento e primi del Novecento dal genere femminile a cui apparteneva. 

Proprio l'equivoco della letteratura di genere  ha contribuito ad oscurare Willa Cather e altre come lei, rispetto a più blasonati colleghi maschili. Ma il tempo sta restituendo loro il posto che meritano, come testimonia il fatto che la Cather sia amatissima di John Updike e da molti altri autori contemporanei. 

Nata in Virginia nel 1873, cresciuta in Nebraska, la Cather ha raccontato l'America della frontiera, quella dei primi migranti europei che cercavano fortuna nel libero e promettente Midwest cantandone la lenta e inesorabile decadenza suscitata dall'avanzare dallo strapotere delle metropoli dell'East e della West Coast. Proveniente dalla critica teatrale e dal giornalismo la Cather finì per dedicarsi completamente alla scrittura vincendo il Premio Pulitzer 1923 col romanzo Uno dei nostri (in Italia uscito da Elliot nel 2014) e pubblicando altri fortunati romanzi come La morte viene per l'Arcivescovo (Neri Pozza), considerato da molti il suo capolavoro o Una signora perduta pubblicato da Adelphi nel 1990 e continuamente ristampato.

Con la sua prosa asciutta ed elegantissima che rimanda gli echi di Flannery O'Connor e di Carson McCullers e ancora più indietro, di  Hawthorne e Melville, Willa Cather scrisse questo breve romanzo nel 1923, poco tempo prima della Grande Depressione che cambiò faccia al continente e all'Occidente intero. 

Sulla nuova strada ferrata costruita dalle ferrovie Burlington, lungo il tragitto tra Omaha e Denver, la Cather ambienta la sua storia in una piccola località sperduta nelle immense praterie dei territori, dal nome promettente: Sweet Water. 

Qui si è ritirato a vivere il Capitano Forrester, che della costruzione della ferrovia è stato l'eroe indiscusso cambiando per sempre la vita e la fortuna di tanti coloni arrivati a rendere patrimonio la nuova terra promessa.  

Sweet Water, un piccolo snodo di sosta, è per il Capitano un luogo del cuore.  Qui decide di fermarsi e vivere, in mezzo alla natura incontaminata, con una giovane sposa, una vedova conosciuta in California. 

Marian Forrester è dunque la vera protagonista di questa storia: bellissima, nobile, affascina ogni visitatore; è la regina della magione di Sweet Water, la casa dei Forrester. La conosciamo dagli occhi adoranti di un ragazzo, Niel, che insieme ai suoi compagni gioca e cresce nei terreni dei Forrester, ammaliato dalla eleganza della donna, dal suo sincero, limpido buonumore, dalla sua capacità di rendere meravigliosa la giornata di chiunque la incontri. 

Crescendo, Niel impara però che l'immagine radiosa della donna - e della sua dedizione al Capitano - nasconde qualcosa di sordido e di difficilmente confessabile che non ha a che fare soltanto con il passato della donna, ma anche col suo presente. Una sorta di desiderio di consunzione e di deriva. 

Limpido e controllatissimo, lucido fino alla fine, il racconto della Cather è il racconto minuzioso di un carattere, di un carattere che resta - per definizione - non del tutto conoscibile, ma che si esprime in una sottile e inquietante continua ambivalenza. 

La lunga malattia del Capitano rende sempre più difficile per Marion sostenere il ruolo che ha scelto di ricoprire, per una donna come lei che non è disposta, e non sarà mai disposta, a rinunciare alla vita. 

Epigono di altri modelli letterari femminili, Marion Forrester è un carattere che non si dimentica, perché lo si percepisce come vero, fino alla fine. 

La vera letteratura, del resto, per la Cather, nasceva dalla umiltà dello sguardo: "Lascia che le storie nascano dalla terra che calpesti", diceva.

La terra dei Forrester, la terra di Sweet Water, i grandi cieli notturni, il fango degli acquitrini e dei fossi, l'effimera bellezza delle rose coltivate dal Capitano, la grande meridiana in pietra arenaria rossa sono le immobili sentinelle di un racconto che si snoda perfetto fino a toccare ogni corda del versatile cuore umano. 

Fabrizio Falconi 

Willa Cather
Una signora perduta
Traduz. Eva Kampmann
Adelphi 1990

27/05/18

La Pagina della Domenica: da "Everyman" di Philip Roth.



Intorno alla fossa, nel cimitero in rovina, c’erano alcuni dei suoi ex colleghi pubblicitari di New York che ricordavano la sua energia e la sua originalità e che dissero alla figlia, Nancy, che era stato un piacere lavorare con lui. C’erano anche delle persone venute su in macchina da Starfish Beach, il villaggio residenziale di pensionati sulla costa del New Jersey dove si era trasferito dal Giorno del Ringraziamento del 2001: gli anziani ai quali fino a poco tempo prima aveva dato lezioni di pittura

E c’erano i due figli maschi delle sue turbolente prime nozze, Randy e Lonny, uomini di mezza età molto mammoni che di conseguenza sapevano di lui poche cose encomiabili e molte sgradevoli, e che erano presenti per dovere e nulla più. C’erano il fratello maggiore, Howie, e la cognata, venuti in aereo dalla California la sera prima, e c’era una delle sue tre ex mogli, quella di mezzo, la madre di Nancy, Phoebe, una donna alta, magrissima e bianca di capelli, col braccio destro inerte penzoloni sul fianco. 

Quando Nancy le chiese se voleva dire qualcosa, Phoebe scosse timidamente il capo, ma poi finì per dire con voce sommessa, farfugliando un po’: – È talmente incredibile… Continuo a pensare a quando nuotava nella baia… Tutto qui. Continuo solo a vederlo mentre nuota nella baia -. E poi c’era Nancy, che aveva organizzato tutto e fatto le telefonate a quelli che erano venuti per evitare che al funerale venissero solo sua madre, lei, il fratello del defunto e la cognata. 

C’era solo un’altra persona la cui presenza non era stata sollecitata da un invito, una donna robusta con una simpatica faccia tonda e i capelli tinti di rosso che era venuta spontaneamente al cimitero e si era presentata col nome di Maureen, l’infermiera privata che lo aveva assistito dopo l’operazione al cuore di qualche anno prima. Howie si ricordava di lei e andò a darle un bacio sulla guancia.

Nancy disse a tutti: – Posso iniziare dicendovi qualcosa di questo cimitero, perché ho scoperto che il nonno di mio padre, il mio bisnonno, non solo è sepolto nelle poche centinaia di metri quadrati del nucleo originario accanto alla mia bisnonna, ma fu anche uno dei suoi fondatori nel 1888. L’associazione che per prima finanziò ed eresse il cimitero era composta dalle società incaricate delle onoranze funebri delle organizzazioni caritatevoli e delle congregazioni ebraiche sparse nelle contee di Union ed Essex. Il mio bisnonno era il proprietario e il gestore di una pensione di Elizabeth che accoglieva soprattutto immigrati arrivati di fresco, e si preoccupava del loro benessere piú di quanto in genere facesse un possidente. Ecco perché fu tra i soci originari che acquistarono il campo che c’era qui e lo spianarono e lo disegnarono personalmente, ed ecco perché diventò il primo presidente del cimitero. Allora era un uomo relativamente giovane ma nel pieno vigore delle forze, e c’è solo il suo nome sui documenti nei quali si specifica che il cimitero era destinato ad «accogliere i soci defunti in armonia con le norme e i riti ebraici»

Come appare fin troppo evidente, la manutenzione dei singoli lotti e del recinto e dei cancelli non è piú come dovrebbe essere. Le cose sono marcite e crollate, i cancelli sono arrugginiti, i lucchetti spariti, ci sono stati dei vandalismi. Ormai questo posto è diventato il retrobottega dell’aeroporto, e quello che sentite a qualche miglio di distanza è il rumore costante dell’autostrada, la New Jersey Turnpike. 

Naturalmente avevo pensato, prima, ai posti veramente belli dove mio padre poteva essere sepolto, i posti dove andava a nuotare con mia madre quando erano giovani, e le località costiere dove amava fare il bagno. 

Ma nonostante il fatto che guardarmi intorno e vedere il degrado che c’è qui mi spezza il cuore – come probabilmente spezza il vostro, e forse addirittura vi spinge a domandarvi perché ci siamo riuniti in un luogo cosí deturpato dal tempo – volevo che riposasse accanto alle persone che lo amavano e dalle quali è disceso. Mio padre amava i suoi genitori e deve stare vicino a loro. Non volevo che fosse solo, chissà dove -. Tacque un momento per ritrovare la padronanza di sé. 

Era una donna fra i trenta e i quarant’anni, dall’aria dolce, semplice e carina com’era stata la madre, e all’improvviso perse tutta la sua autorevolezza e il suo coraggio e finì per somigliare a una bambina di dieci anni schiacciata da quella situazione

Voltandosi verso la bara, prese una manciata di terra e, prima di lasciarla cadere sul coperchio, disse con leggerezza, sempre con quell’aria da bambina frastornata: – Be’, cosí vanno le cose. Non c’è piú niente da fare, papà -. Poi le venne in mente la stoica massima che lui ripeteva decenni addietro, e scoppiò in lacrime. – È impossibile rifare la realtà, – gli disse. – Devi prendere le cose come vengono. Tener duro e prendere le cose come vengono.


Philip Roth, Everyman (2006). Edizione italiana di riferimento: P.R., Everyman. Traduzione di Vincenzo Mantovani, Einaudi 2007, pp. 5-8

04/12/17

Libro del Giorno: "Mrs. Bridge" di Evan S. Connell.



Nato a Kansas City - la stessa città nella quale è ambientato questo romanzo - nel 1924, Evan S. Connell è uno scrittore finora piuttosto marginale nel panorama statunitense, appartato come la sua vita è stata fino alla fine. 

Trasferitosi in California, dopo aver studiato scrittura creativa a Stanford, Connell infatti ha vissuto per sempre a Sausalito, senza mai sposarsi, fino a terminare i suoi giorni in una casa di riposo nel New Mexico, nel 2013.

Solo sul finire della sua esistenza, ha ottenuto riconoscimenti, fino ad essere candidato al Man Booker International Prize nel 2010, dopo che James Ivory aveva portato al successo Mrs. Bridge e Mr. Bridge, due suoi romanzi, riuniti in un solo film, Mr. e Mrs. Bridge uscito nel 1990, con Paul Newman e Joanne Woodward. 

Da allora, questo Mrs. Bridge, primo romanzo di Evan S. Connell, pubblicato nel 1959, è diventato un piccolo classico.  La Einaudi, che lo pubblica in italia con la traduzione di Giulia Boringhieri, usa nelle bandelle il paragone con Stoner di John Williams, per rilanciarne il successo. 

Un paragone che a dire il vero, non regge. E' molto molto diverso la qualità di scrittura e l'intensità dell'inespresso in Stoner - romanzo capolavoro - rispetto a Mrs. Bridge, romanzo che si sviluppa in una teoria di 117 brevi o brevissimi capitoletti, che non raggiungono mai il vero respiro di una narrazione, soprattutto sotto l'aspetto della tensione psicologica e delle atmosfere rarefatte dei caratteri dei personaggi, che in Stoner raggiungono il massimo della perfezione. 

Ciò che può accomunare i due romanzi è solo la descrizione di un fallimento, o meglio di una vita inespressa.  Ma Stoner e Mrs. Bridge sono personaggi diversissimi: quanto il primo è probabilmente del tutto consapevole, tristemente consapevole e stoicamente saldo nei suoi principi di resistenza all'ordine del mondo, così Mrs. Bridge è invece totalmente passiva, rassegnata allo svolgersi nemmeno degli eventi, ma della nuda e insignificante ordinarietà. 

Nulla di nulla accade infatti in questo romanzo, che prende le mosse dal fidanzamento e dal matrimonio di questa ragazza della middle class, con un uomo taciturno e ordinario, che lavora e fa soldi, e nient'altro. 

Un matrimonio ordinario, tre figli ordinari, con ordinarissime ribellioni interiori e piccole ribellioni esteriori, e lei, Mrs. Bridge che guarda e osserva tutto, e segue senza riuscire ad essere mai veramente scossa da quel che accade intorno a lei.  Ogni piccolo disordine della vita viene riassorbito in breve tempo e come se non fosse mai accaduto. 

Invano si aspetta, per 230 pagine, una reazione della borghese signora: invano si spera in una catarsi della sua quieta depressione; invano si auspica che il misterioso assente marito dia un segnale di sé, si manifesti come persona, oltre che come personaggio. 

E' naturalmente anche questo il merito del romanzo, che nulla aggiunge ai personaggi di Todd Haynes visti al cinema (Lontano dal Paradiso), o alla casalinga disperata di Revolutionary Road. 

Insomma, una lettura che scorre via senza lasciare tracce sensibili: soltanto la descrizione a flebili colori pastello, di una ordinaria dissipazione di vita, dai toni fin troppo misurati, esacerbati e alla fine nemmeno troppo letterari. 

Fabrizio Falconi



10/11/17

Il Libro del Giorno: "La regina degli scacchi" di Walter Tevis. Un grande romanzo.



Scritto nel 1983, La Regina degli Scacchi (The Queen's Gambit) è il capolavoro di Walter Tevis, morto l'anno seguente, e il suo penultimo romanzo. 

Autore raffinato e appartato Tevis ha scritto una raccolta di racconti e sei romanzi, i quali hanno avuto molta fortuna, con celebri adattamenti cinematografici, come quelli tratti da L'uomo che cadde sulla Terra, scritto nel 1963 e portato sullo schermo da Nicholas Roeg (con Bowie protagonista), Lo spaccone (1959), diventato un classico del cinema con Paul Newman protagonista e Il colore dei soldi (1984), il suo ultimo romanzo, trasposto al cinema da Martin Scorsese, ancora con Newman protagonista e il giovanissimo Tom Cruise. 

La Regina degli Scacchi però, merita un posto a parte. 

Si tratta di un romanzo perfetto, che ha come protagonista l'orfana Beth Harmon e ne segue passo passo le vicende dalle stanze dell'oscuro orfanotrofio cattolico nel quale viene accolta dopo la morte dei genitori, fino ai palcoscenici più illustri del gioco degli scacchi, nel quale si dimostra precocemente un puro genio.

Beth inizia a giocare quasi per caso, quando scopre nello scantinato della scuola, il vecchio e burbero custode giocare da solo davanti alla scacchiera al lume di una fioca lampada.

Come avviene per i colpi di fulmine dell'anima descritti da James Hillman ne Il codice dell'anima, Beth si sente risucchiata da quello strano oggetto - la scacchiera - e dalla dinamica misteriosa del gioco. Impara in breve tempo, in breve tempo il suo cervello comincia a concentrarsi unicamente su quello. Riesce a battere in poco tempo il suo maestro, poi vola rapidamente sempre più alto, imparando da un manuale trafugato i rudimenti del millenario gioco.

Una volta adottata dalla stramba signora Withley e dal suo pessimo marito, Beth comincia a giocare ad alto livello: torneo dopo torneo, anche i media cominciano ad accorgersi di lei e negli anni '60-'70 in cui il libro è ambientato, Beth finisce addirittura per diventare - a soli sedici anni - l'orgoglio della nazione americana che ha finalmente un grande maestro da opporre agli invincibili dominatori sovietici.

Il pregio di questo meraviglioso libro - la Regina degli Scacchi è fra l'altro una impropria traduzione italiana del titolo originale che è The Queen's Gambit (Il gambetto della Regina è una mossa degli Scacchi) - è soprattutto nello stile e nella narrazione fulgida ed essenziale che ricorda un altro capolavoro coevo, Stoner di  John Williams, da poco riscoperto e diventato un caso editoriale mondiale.

Non ha cadute, non ha pause, e tutto procede come un treno senza fermate fino alla fine. Beth è un commovente, vivo personaggio, che resta nel cuore di ogni lettore. Tevis riesce a mantenersi così neutro da evitare ogni smaccata empatia, ogni partecipazione eccessiva con il suo personaggio, che vive di vita propria e non ha bisogno di nessuna sovrastruttura, di nessuna costruzione narrativa.

Così anche il lettore è costretto ad osservarla, senza "tifare": per molte e molte pagine il lettore non sa anzi se sperare che Beth vinca o perda. E' chiaro che vincere per lei, e vincere fino alla fine, trionfando nella partita finale contro il campione del mondo russo Borgov sarebbe l'apoteosi di un riscatto esistenziale. Ma dietro questo successo si nascondono anche molte ombre e gli scacchi - come l'insegnamento universitario per Stoner - sono anche un modo per Beth per eludere la vita, per non affrontarla veramente, per attenuarne le feroci sofferenze.

Il fatto però che la ragazza sopravviva così strenuamente alla autodistruzione è plausibile e catartico.  E' una lezione anzi, che oggi sembra più che mai importante.

Anche i personaggi di contorno sono fenomenali: l'amica di orfanotrofio Jolene, la madre adottiva, così fragile e vera, la signora Withley,  il Signor Schaibel, il custode, , e lo stesso Benny, ragazzo prodigio come Beth e come lui autisticamente isolato dal mondo.

Un romanzo veramente perfetto.

Fabrizio Falconi

WALTER TEVIS
LA REGINA DEGLI SCACCHI
Traduzione dall'inglese di Angelica Checchi
Minimum Fax, Roma, 2007-2014.



07/09/17

Da Stasera in TV una miniserie dedicata alla eccezionale vita (e opera) di Jack London !






Il destino eccezionale dello scrittore famoso in tutto il mondo per "Il richiamo della Foresta", "Zanna Bianca" e "Martin Eden", una delle figure americane piu' importanti del XX secolo. 

È "Jack London, un'avventura americana" la miniserie in onda in prima visione tv da giovedi' 7 settembre alle 21.10 su Rai Storia per il ciclo "a.C.d.C." con Alessandro Barbero

Nato nel 1876, sul finire della "conquista del West" e l'ingresso dell'America nell'eta' contemporanea, Jack London vive a cavallo tra questi due mondi differenti, partecipando a tutte le principali vicende politiche, sociali e culturali del tempo.

Il documentario in due episodi racconta di come la sua vita avventurosa si sia specchiata nella storia americana: crescere nei quartieri poveri con i pirati della Baia di San Francisco, scoprire il Grande Nord nella corsa all`oro del 1897, sperimentare il foto giornalismo durante il conflitto russo-giapponese e il grande terremoto e incendio del 1906 a San Francisco, e ancora l'impegno socialista e la navigazione dei mari del sud sullo "Snark"

Questa serie commemora il centenario della morte dello scrittore e, con oltre 12.000 fotografie e numerose ore di pellicola, aspira ad essere la piu' ambiziosa biografia filmata sul grande maestro del romanzo d'avventura nordamericana.

25/04/17

E' morto negli USA Robert M. Pirsig, l'autore geniale de "Lo zen e l'arte della manutenzione della motocicletta".



Una perdita dolorosa per il mondo della Letteratura:  E' morto all'eta' di 88 anni lo scrittore e filosofo statunitense Robert M. Pirsig, autore del romanzo filosofico bestseller 'Lo zen e l'arte della manutenzione della motocicletta' (1974)

Lo rende noto la sua casa editrice, la William Morrow and Company. 

Pirsig era da tempo malato ed e' deceduto ieri nella sua casa di South Berwick, nel Maine.

fonte ANSA - AP

Per ricordare questo scrittore così particolare, quest'uomo così spirituale, riporto qui il mio articolo pubblicato qualche mese in occasione della ristampa del suo celebre romanzo: 



Ci sono libri che ti ronzano dietro per 30 anni e alla fine scelgono loro quando è il momento.

Così è stato con Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta.  

Sono arrivato in ritardo, perché questo fu il libro di una generazione e 30 anni fa, tutti dovevano averlo letto. 

Leggerlo oggi è perfino blasé. 

Forse in Italia.  Questo libro, infatti si è conquistato stabilmente un posto nella letteratura contemporanea e le sue vicende sono curiose e per molti versi inspiegabili (a cominciare dal misterioso motivo per cui questo libro toccò subito il cuore di una massa enorme di persone, pur essendo un libro difficile, con interi capitoli e pagine di pura speculazione tecnica filosofica). 

A partire dalla sua pubblicazione. Come forse qualcuno sa, è quasi incredibile la storia editoriale del libro: il manoscritto inviato dal suo autore Robert M. Pirsig, fu infatti respinto nel corso di 4 anni da 121 diversi editori. 

Pubblicato dal piccolo editore William Morrow nel 1974 con un anticipo pagato all'autore di 3.000 dollari, stampato in quell'anno, ottenne un successo immediato di proporzioni mondiali, continuamente ristampato, con più di 5.000.000 di copie vendute in tutti i paesi del mondo. 

William Morrow, dopo aver letto il manoscritto, telefonò a Pirsig e gli comunicò che intendeva pubblicare quello strano libro perché "lo aveva costretto a chiedersi perché facesse l'editore. Era molto scettico sull'esito di vendite: "questi sono i primi e gli ultimi soldi che ti procureranno i tuoi libri," disse a Pirsig.  Non andò così.

Come è noto, l'autore Pirsig, compì il viaggio descritto, da Est a Ovest, attraverso gli Stati Uniti nel turbolento 1968. Questa foto ritrae il primo giorno di viaggio insieme al figlio Chris nel North Dakota.




Quest'altra foto del viaggio invece, scattata dallo stesso Pirsig, ritrae Chris e gli amici John e Sylvia, più le due moto, protagoniste del lungo viaggio (in realtà i due amici lasciano l'impresa a metà del libro).  

                                 

Questa invece è la piantina dettagliata del viaggio. 



Ma quello che conta nel libro non è il viaggio (o comunque non solo quello) e nemmeno i riferimenti allo Zen che sono del tutto secondari, o alla manutenzione della motocicletta che è soltanto la metafora di quel cammino interiore che riguarda tutti, prima o poi nella vita. 

Il libro non ha  nemmeno una qualità letteraria particolare. Ci sono romanzi stilisticamente molto più importanti di questo, in quello scorcio di Novecento. 

E' un libro importante per altri motivi

Ci sono libri infatti libri così, di tanto in tanto, che sono come meteore, oggetti strani. Che appaiono nel cielo per motivi imperscrutabili. 

Leggendolo, ho capito perché.

Quel che appassiona è la storia umana del libro. E' struggente scoprire che Chris, il ragazzino del libro, il figlio di Pirsig, che accompagna il padre in questo lungo viaggio  a tratti crudele e folle, e ne è in fondo il vero protagonista, sia stato ammazzato durante una rapina, a San Francisco, in modo assurdo appena 4 anni dopo l'uscita e il successo mondiale del libro.

Lo racconta drammaticamente Pirsig nella postfazione al libro e le cronache di allora ne riferirono abbondantemente. 

Forse è anche per questo che il libro ha avuto questo destino singolare. 

Perché il suo spirito, lo spirito di questo libro, è legato a quello di persone vive che hanno lottato con la follia, con la consapevolezza e con l'insensatezza: il cammino che tutti sfioriamo ogni giorno nella vita, e che da ogni padre si trasmette ad ogni figlio, da ogni generazione ad ogni generazione, il compito della vita: quello di districarsi nelle trappole dell'entusiasmo, attraversare le ombre, riconoscere la Qualità delle cose (che preesiste alle cose, il vero tema del libro) e attraverso questo dare un senso. 

Si tratta anche di un aspro confronto tra due modi (platonico e aristotelico, in definitiva), di interpretare il mondo. Scrive Pirsig:

All'intelligenza classica interessano i principi che determinano la separazione e l'interrelazione dei mucchi (di sabbia), i nessi, le cause gli effetti, i torti le ragioni, le conseguenze, gli errori, le responsabilità le mancanze gli arbitrii i bisogni, l'intelligenza romantica si rivolge alla manciata di sabbia ancora intatta (guarda cioè all'essenza, a quello che le cose sono). Sono entrambi modi validi di considerare il mondo, ma sono inconciliabili. 

In fondo da questa dicotomia dipende anche il risultato che lo Zen induce nel lettore di turno. Chi è dotato di prevalente intelligenza classica, sarà portato a valutare il libro come un tentativo pretestuoso di dare nome all'innominabile; viceversa, chi dispone di intelligenza romantica sarà portato a entrare senza indugio nella disputa filosofica pazzoide di Pirsig con tutte le scarpe e a lasciarsi travolgere dal vissuto del legame di vita drammatico e unico che si ripete in ogni passaggio generazionale. 

Comunque la si pensi e comunque lo si senta, il libro eccolo qua: che gira ancora il mondo (nell'anno di grazia 2014) e porta il suo... disegno ancora lontano, come appunto una cometa. 

Fabrizio Falconi

02/11/16

"Le vergini suicide" di Jeffrey Eugenides (Recensione)



Jeffrey Eugenides (Detroit, 8 marzo 1960), ha firmato con Le vergini suicide, uscito nel 1993, uno dei migliori esordi contemporanei (Sofia Coppola ne ha tratto un film qualche anno dopo). Ripetendosi poi con romanzi come Middlesex  (che gli è valso il Premio Pulitzer nel 2003 e La trama del matrimonio (2011).

E' un racconto particolarissimo, a partire dalla voce narrante, per la quale Eugenides ha scelto un narratore "collettivo", voce di un gruppo di coetanei maschi, il quale rievoca a vent'anni di distanza la vicenda delle cinque sorelle Lisbon, oggetto proibito della loro adolescenza, avvolte in un'aura di mistero che la tragica fine comune - si sono tutte tolte la vita nel breve spazio di un anno - ha fissato per sempre. 

Più che l'originalissima trama, però - per niente gotica, semmai sospesa in un territorio quasi surreale, intercettato dalla ironia e dalle considerazioni dei testimoni -  Le vergini suicide è un capolavoro di stile. 

La vera protagonista del romanzo è la casa della famiglia Lisbon. Un territorio oscuro e inaccessibile, castello di reclusione, in putrefazione, che ospita la muta agonia delle cinque giovani, impossibilitate a vivere una vita normale. 

La casa vive su se stessa e attraverso se stessa la consunzione fisica e psichica delle cinque ragazze e dei due pietrificati genitori. 

Una angoscia strisciante e pervasiva intride ogni pagina di questo romanzo, in cui i dialoghi sono ristretti al minimo indispensabili, quasi inesistenti, e dove la narrazione prosegue come un unico flusso di memoria dalla prima all'ultima pagina. 

Il malessere delle cinque sorelle deriva dall'accettare il mondo così com'è, come è stato trovato. L'impossibilità di essere normali e di concedersi alla piccola e fertile infelicità che fa parte di ogni vita. 

Eugenides costruisce il ritratto di una piccolissima porzione della provincia americana, che può o potrebbe  a ragione essere un qualsiasi angolo remoto del mondo.

Perché il disagio esistenziale delle cinque ragazze Lisbon, così vive, così presenti, è quello delle stesse cose viventi - come la casa della famiglia - predisposte alla lacerazione, al disfacimento, al distacco, destino di ogni mortalità. 

L'idolatria del gruppo di maschi, la perpetuazione della memoria, la rivendicazione di quel segreto vissuto e mai sbocciato, è l'unica fragile ribellione possibile, al passare del tempo.

Fabrizio Falconi

Jeffrey Eugenides
Le vergini suicide
Traduzione di Cristina Stella
Mondadori 2008


25/10/16

Don De Lillo a Roma: "non sarei quello che sono senza Fellini e Antonioni".



Il modo "in cui scrivo ha cominciato ad assumere una certa forma grazie al cinema europeo. Mi hanno formato autori come Antonioni, Fellini ma anche Kurosawa". 

Lo ha detto uno dei piu' grandi scrittori americani viventi, Don DeLillo protagonista di uno degli incontri ravvicinati con il pubblico della Festa del Cinema di Roma

Circa un'ora di conversazione fra Antonio Monda e l'autore di capolavori come Rumore bianco e Underworld, tornato da poco in libreria con 'Zero K', costruita intorno all'amore di DeLillo, per il cinema di Michelangelo Antonioni. 

Ha infatti aperto l'incontro leggendo un suo breve testo scritto ad hoc su 'Deserto rosso'. Un viaggio tra colori, suggestioni e conversazioni intime del film. 

"Qui la bellezza e' un'ossessione, sembra che il film non possa evitare di essere bello" spiega. DeLillo rende anche omaggio alla protagonista, che definisce "bellissima", Monica Vitti: "e' l'anima inquieta del cinema di Antonioni, incaricata di non interpretare ma semplicemente esistere"

Deserto rosso secondo lui "insiste a dire che vale la pena di notare tutto, fino alla piu' sottile sfumatura". 

Commentando poi le scene della trilogia in bianco e nero del regista (L'avventura, La notte e L'eclisse), sottolinea, che anche oggi "nella societa' delle immagini, la letteratura non e' messa in pericolo dal cinema

Ci sono ancora persone con il bisogno di scrivere come altri hanno quello di fare film. Eppure i ragazzi dovrebbero essere consci che il futuro, se ti metti a scrivere romanzi, sara' difficile... ma lo fanno lo stesso". 

Un accenno, infine all'ispirazione che viene ai registi dalla violenza, da Bonnie e Clyde a Il padrino, da La rabbia giovane a Il mucchio selvaggio, "dove viene illustrata in modo quasi surreale" e al primo film che ha visto: "potrebbe essere stato un cartone animato sui Viaggi di Gulliver".

fonte ANSA

03/09/16

Un Bukowski intimo alla Mostra del Cinema di Venezia, in un docufilm di Matteo Borgardt.






"I complimenti e la fama ti infiacchiscono, l'odio invece ti fa attaccare ancora di piu' a quello ami fare". 

Parola di Charles Bukowski, protagonista di You never had it - An evening with Bukowski, il documentario di Matteo Borgardt costruito con i filmati della videointervista realizzata con lo scrittore nel gennaio del 1981 dalla madre del regista, la giornalista Silvia Bizio. 

Il film non fiction, presentato alla Mostra del cinema di Venezia come evento speciale delle Giornate degli autori, regala un Bukowski intimo, conviviale, che non nasconde le sue fragilita' e si confida bevendo vino, fumando e facendo visitare alla reporter (anche coproduttrice del film), diventata un'amica, la sua casa di San Pedro in California. 

Nelle immagini, che erano rimaste negli scatoloni per 30 anni nel garage di Silvia Bizio, Bukowski parla d'amore, sesso, del suo percorso d'autore, degli altri scrittori, che preferisce evitare ("meglio gli idraulici e i venditori di auto usate"), di quello che ha imparato negli anni. 

Un racconto arricchito dalle letture che fa di proprie poesie e dai disegni che realizzava per i suoi libri. "Dopo aver passato la vita a bere e scopare bene, ho capito che queste due cose non sono poi cosi' importanti" dice sorridendo. Accenna anche a come la sua difficilissima infanzia ("papa' mi picchiava con la cinta del rasoio..."), gli sia servita per diventare scrittore."Mio padre e' stato un maestro di letteratura?. Mi ha insegnato cos'e' il dolore".

12/07/16

"La casa della gioia" di Edith Wharton (RECENSIONE).




La casa della gioia (The House of Mirth) è il secondo grande romanzo in ordine di tempo, di Edith Wharton, dopo The valley of decision (1902), e risale al 1905. 

In quegli anni è già cominciato il lungo pellegrinaggio della Wharton, definita dall'amico Henry James, Il grande pendolo, per il suo moto perpetuo. 

La scrittrice nata a New York nel 1862 da una ricca e aristocratica famiglia, quella dei Newbold Jones, ha sposato a ventitrè anni Edward Wharton, un amico di famiglia di tredici anni più vecchio di lei. 

Un matrimonio sfortunato, dovuto ai problemi di salute e psichici del marito, che spinge la Wharton a intraprendere lunghi e fruttuosi viaggi in Europa, soprattutto in Inghilterra e in Francia, dove conosce il mondo letterario che conta. 

La casa della gioia (un titolo-epitaffio per un romanzo che è tutto l'opposto) mostra già la piena maturità stilistica della Wharton, descrivendo le vicende di una ragazza affascinante, bella e intelligente, ma senza possibilità finanziarie, Lily Bart, che cerca di mantenere a tutti i costi il proprio ruolo e il proprio modo di essere nei salotti più eleganti della città. 

Si tratta di un grande affresco: quello della società americana dei primi del Novecento, con lo scontro tra le vecchie famiglie aristocratiche e i nuovi ricchi che si affacciano, speculando sulla ricchezza dei mercati finanziari. 

Lily Bart ha 28 anni, già tanti per una donna dell'epoca, per la ricerca di un marito o di un partito. In più non ha rendite finanziarie e vive mantenuta da una vecchia zia. L'unico amico che la ami veramente per quel che è, è l'avvocato Lawrence Selden. il quale vive ai margini del bel mondo. Per gli altri, per tutte le figure di quella aristocrazia annoiata,  che passa da una festa all'altra, da una gita in campagna alla partita di bridge, dagli spettacoli a teatro alle corse dei cavalli, Lily è soltanto una attrazione, per la sua inusuale eleganza e bellezza.  Ma niente più. 

Lily, che è una parente stretta di Isabel Archer e di Daisy Miller, non ha le stesse fortune, e finisce inesorabilmente in rovina a causa delle sue scelte: decide di ricevere favori da uno dei nobili, innamorato di lei, il grasso e infelice marito George Trenor, il quale finisce per regalarle dei soldi. 

Lily, ossessionata dal debito, finisce ben presto per cadere nella trappola delle allusioni, delle malizie, dei pettegolezzi, delle piccole e grandi cattiverie del mondo aristocratico al quale lei in definitiva non appartiene. 

Di gradino in gradino scenderà fino al fondo, nella più totale solitudine, diseredata perfino dalla zia. 

Un affresco crudelissimo, che fa sanguinare il cuore del lettore, come sa fare la Wharton la quale, rispetto a James, non ha paura di affondare i colpi e di brutalizzare le sorti delle proprie eroine costringendole a fare i conti con la disillusione e la perversione del mondo. 

La purezza di Lily è guastata dalla sua ambizione e della sua superficialità.  La purezza, da sola, non salva. Selden neppure ne esce bene.  Tradito dal  proprio orgoglio finisce anche lui per abbandonare immotivatamente Lily e per contribuire a sradicare e uccidere il loro (possibile) amore. 

La limpidezza della scrittura della Wharton è ineccepibile. La misura - la stessa di James - è associata alla passione. alla partecipazione dolorosa del destino e dei destini individuali. 

La lezione letteraria della Wharton è una potente riflessione sui limiti dell'umano, sulla imponderabile felicità, sul prezzo e sul castigo, sui sensi di colpa e sulla brutalità dell'indifferenza. 

Prefazione di Benedetta Bini
Editori Riuniti
Roma, 1996

30/03/16

"Pastorale americana" di Philip Roth (RECENSIONE).



Ho letto Pastorale Americana, uno degli ultimi Roth che mi mancava da leggere, negli stessi giorni in cui a Roma è accaduto un brutale fatto di cronaca, l'omicidio a sangue freddo - per sapere cosa si prova - di un ragazzo, da parte di altri due, apparentemente tipi normali, provenienti da ottimi genitori e ottimi padri, i quali hanno pensato bene subito dopo l'efferato crimine, a cadavere ancora caldo, di andare in tv in prima serata (o scrivere sul proprio blog personale) a difendere questi figli e rivendicarne la bontà, la probità, l'innocenza. 

C'era dunque parecchio da meditare, mentre si scorrevano le pagine (423) di questo grande romanzo americano, nel quale Roth descrive la discesa agli inferi di Seymour Levov, detto Lo Svedese, aitante e perfetto americano (ebreo figlio di figlio di immigrati dall'est europeo), con perfetta moglie (Miss New Jersey) al fianco, che scopre nell'unica figlia Merry, una pluriomicida, bombarola contestatrice in fuga da tutto, ritrovandola più avanti nella storia in miseria, finita in una sorta di comune giainiana, sempre più disperata e sola, e del tutto immune ai richiami dell'affetto familiare. 

La catastrofe descritta da Roth è perfetta, e si dipana principalmente intorno all'argomento della rimozione dell'ombra.  Seymour è in buona fede, crede "ai valori", al modello di vita americano, crede nelle cose giuste, e la vita gli ha sempre dato ragione premiandolo con riconoscimenti e onori (nello sport, nell'amore, nel lavoro).  Ma questa perfezione è sterile, la famiglia perfetta - si sa - genera mostri (come è il caso anche delle famiglie romane di cui sopra, a quanto pare) e il piccolo mostro Merry - insieme ai suoi compagni d'avventura prima fra tutte la perfida Ruth - sa il fatto suo: sa come distruggere l'icona perfetta dalla quale proviene, sa come minarne ogni certezza, ogni convincimento, ogni sicurezza, ogni appiglio, ogni immagine ideale a dosi di deflagrante realtà. 

Roth tiene in pugno il lettore e lo spreme fino alla fine, essendo qui la sua scrittura al culmine di una abilità non fine a se stessa. 

Semmai, anzi, la scrittura risente anche troppo dell'obiettivo che sta a cuore a Roth. La sua voce parteggia fin troppo apertamente per qualcuno dei personaggi, come Ruth, la messaggera incaricata di scaricare addosso a Seymour il suo completo fallimento, o come Jerry il fratello cinico dello Svedese.

A loro Roth affida la voce di ciò che egli pensa - e non da poco tempo - sul mondo, come luogo di infelicità, di inferno, governato dalla rigida impassibilità del caso (e del caos) che ogni cosa governa, orientando l'esistenza stessa verso un orizzonte completamente privo di senso, dove perfino le nostalgie e i rimpianti non hanno albergo.

Il libro è anche abbastanza disomogeneo nel racconto. Nelle prime cento pagine del racconto, infatti, compare Nathan Zuckerman, l'alter ego dell'autore che torna in tanti suoi libri, il quale si presenta come testimone della storia, e amico dello Svedese, compagno di corso e di università. Zuckerman però, da un certo punto di vista in poi scompare. La voce del narratore diventa impersonale,  mano a mano che Seymour sprofonda nella sua caduta senza limiti.

Peccato, si direbbe: perché a noi sarebbe piaciuto ascoltare i pensieri di Zuckerman, che forse si sarebbero discostati - in profondità e ironia (quella che manca al Roth degli ultimi tempi, e che grandiosamente contrassegnò i suoi inizi) - da quelli dell'anonimo narratore che sembra assistere muto al dissolvimento della personalità di Seymour e delle sue blande certezze.

Fabrizio Falconi

Philip Roth
Pastorale americana
Traduzione di Vincenzo Mantovani
Einaudi 1997