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25/08/23

"Il senso di una fine", il meraviglioso romanzo di Julian Barnes diventa un film, con Charlotte Rampling - su Amazon Prime Video


E' sempre molto difficile portare sullo schermo un romanzo importante. Ancora di più se si tratta di un romanzo "perfetto", uno dei migliori scritti nell'ultimo ventennio: "Il senso di una fine", di Julian Barnes (Einaudi, 2011), vincitore del Man Booker Prize 2011.

Come si fa a trasferire sullo schermo la magia della prosa di Barnes, che in sole 160 pagine costruisce una tragedia in due atti (o parti) sul mistero degli affetti umani, con uno straordinario colpo di scena che si rivela solo nelle ultime 3 pagine?
In Inghilterra ci ha provato la rete nazionale (BBC), che a differenza di quel che accade da noi, non manda in onda solo quiz dementi e show di imitatori, ma propone e produce anche alta qualità cinematografica, seriale, documentaristica.
Il film è uscito nel 2017, anche se in Italia nessuno lo ha visto (naturalmente i titolisti italiani hanno pensato bene di stravolgere il titolo originario, sia del romanzo che del film - che è "The Sense of an Ending" , letterariamente "Il senso di un finire", o "Il senso di una fine", come è stato tradotto da Einaudi - in "L'altra metà della storia").
Il cast è di primo livello, con Charlotte Rampling nei panni della misteriosa Veronica (da anziana) e Jim Broadbent in quelli di Tony Webster, che con Veronica ha avuto una incompiuta storia d'amore, ai tempi del college. Nel cast anche Michelle Dockery (la Lady Marian di Downton Abbey) e Joe Alwyn (visto recentemente in Conversazione tra amici, la serie tratta dal romanzo di Sally Rooney), nei panni di Adrian, l'amico di college di Tony, misteriosamente suicidatosi da giovane.
Per misurarsi con un romanzo così intenso e denso, il film non se la cava male (la regia è dell'indiano Ritesh Batra), ma lasciano a desiderare i tempi morti, i dialoghi irrisolti, il finale da "happy ending" che non è affatto quello del romanzo.
La Rampling praticamente appare in tutto in 4 scene, anche se bastano per manifestare il suo inquietante talento; le musiche di Max Richter sono molto belle; la Londra del film è come sempre, piovosa e malinconica (come si addice al mood della storia).
Barnes non è intervenuto nella sceneggiatura, che è del solo Nick Payne, il quale ha dilatato (troppo) l'attesa che si respira nel romanzo, stemperandone anche (purtroppo) l'inquietudine.
Complessivamente, tenendo conto delle suddette difficoltà, un film che supera la prova. Il romanzo, però, è - come sempre - un'altra cosa.

22/08/23

"Un Beau Matin" un film che fa bene al cuore (ma perché non si riesce a fare un film così in Italia?)


Vedo Un Bel Mattino (Un Beau Matin) su Mubi, uscito nel 2022 e mi chiedo perché sia inimmaginabile oggi un film così, fatto in Italia.
Lo firma una regista franco-danese (danese è la famiglia del padre), Mia Hanson Love, quarantenne, ex moglie di Olivier Assayas, già vincitrice con i suoi precedenti film, di molti premi in festival importanti, tra cui l'Orso d'Argento per la migliore regia alla Berlinale del 2021.
Un Bel Mattino è un film di bellezza disarmante, perché vero. Un film che parla della vita vera, con luminosità, dolore, intensità. La storia semplice e "ordinaria" (senza la minima ombra di retorica) di Sandra, giovane donna rimasta vedova troppo presto, con una figlia piccola, che deve affrontare la malattia del padre - professore di filosofia (come il vero padre di Mia), colpito da una grave malattia neurologica (Sindrome di Benson) e che nello stesso periodo, dopo lunghi anni di solitudine, vive una intensa storia d'amore con un uomo sposato e a sua volta padre di un bambino.
Tutti i tempi dell'amore e della passione, tutto il dolore per la malattia del padre, vivono e passano sul volto di Léa Seydoux, straordinaria attrice, che "vive" il ruolo di Sandra, più che interpretarlo. Con i silenzi, i gesti ordinari, le lacrime, i sorrisi, le fatiche, i dolori a tratti insostenibili.
C'è la lezione, modernizzata dei grandi maestri, c'è la poesia e la leggerezza di Truffaut, c'è lo scandaglio fotografico di Bergman.
E alla fine, quando questo film ti arriva al cuore con le sue immagini e il suo racconto coerente, apparentemente senza bisogno di altro, ti chiedi perché un film così oggi non possa essere fatto da noi.
E puoi darti una risposta tra una serie che provo a elencare in ordine sparso:
- perché in Italia non esiste una attrice come Léa Seydoux
- perché in Italia si "recita" e non si sa più essere, interpretando.
- perché il mondo borghese - o meglio, piccolo borghese, che è quello di quasi tutti - non sappiamo più raccontarlo.
- perché non sappiamo scrivere un copione così essenziale, funzionante, senza bisogno di trucchi o strizzate d'occhio allo spettatore
- perché la vita - come cantava Franco Battiato con Sgalambro - in Italia, è diventata una "parvenza di vita" o perché non è così e semplicemente è vita vera ma nessuno sa più raccontarla.
Non lo so, scegliete voi quale.
Nel frattempo fatevi un bel regalo, con Un Bel Mattino.

Fabrizio Falconi - 2023

11/07/23

Eco, Ottieri, Bompiani, Quasimodo: Tutti nella stessa scena, nel capolavoro di Antonioni, "La Notte" - 1961

In una delle prime scene de La Notte di Antonioni (1961) lo scrittore Giovanni Pontano/ Mastroianni va con la moglie Lidia/Jeanne Moreau alla presentazione del suo nuovo romanzo. Che si tiene nella sede di una grande casa editrice esplicitamente citata, ovvero la Bompiani.
Così nel film (e nel cocktail per l'autore) finiscono un ventinovenne Umberto Eco (a destra di Jeanne Moreau nella foto qui sotto), Ottiero Ottieri (che sceneggerà il film seguente di Antonioni, L'Eclisse) e poi lo stesso grande editore, Valentino Bompiani, che presenta e fa firmare una copia del suo libro al "famoso Premio Nobel" che non è esplicitamente citato, ma è ovviamente Salvatore Quasimodo (Premio Nobel per la Letteratura due anni prima, nel 1959).



Ora, fa una certa impressione vedere qui riunito in una piccola scena di un grande film un tale parterre de roi.

Viene da pensare che c'è stata un'epoca in cui in Italia la parola "intellettuale" era correttamente pronunciata: in fondo lo stesso Pontano (il cui cognome allude così esplicitamente al pantano esistenziale in cui sembra muoversi) è uno che tenta di vivere con il proprio lavoro intellettuale.

Oggi gli intellettuali sono più propriamente i milionari delle fazende multinazionali digitali, che prestano il loro intelletto - prosperando - alla invenzione di beni immateriali digitali sempre più pervasivi, confortevoli, ottimizzatori.
Gli intellettuali della parola o delle arti, invece, di questi tempi, se la passano male, e si attribuiscono questo titolo sovente coloro che hanno l'unico merito di godere dei favori e delle leggi del mercato dei consumi.



Ma Antonioni e i suoi film ricordano un'età dell'oro in cui la finzione e la realtà giocavano amabilmente: Ennio Flaiano e Tonino Guerra a quel cocktail avrebbero potuto tranquillamente partecipare, ma invece preferirono restare dietro e scrivere la sceneggiatura di quel magico film. A futura memoria, si direbbe.

Fabrizio Falconi - 2023

26/06/23

"A proposito di Davis", un grande film dei Fratelli Coen - da recuperare su Amazon Prime Video


Chi vuole può recuperare "A proposito di Davis" ("Inside LLewyn Davis") dei fratelli Coen, uscito nel 2013, adesso disponibile sulla piattaforma di Amazon Prime Video.

E' per me la miglior prova in assoluto dei geniali fratelli, dai tempi de "L'uomo che non c'era" (2001, il loro ultimo grande capolavoro), cui aggiungerei il favoloso "Macbeth" (2021) che però è firmato dal solo Joel.
"A proposito di Davis", come è stato tradotto in italiano dall'originale americano, che suona assai diverso (è il titolo dello sfortunato LP pubblicato dallo sfortunato Davis, che nessuno compra e nessuno vuole ascoltare), è uno dei più riusciti ritratti di losers che si è visto sullo schermo.
Gli presta il volto (e la voce) l'eccellente Oscar Isaac, uno dei più talentuosi attori oggi in circolazione (protagonista fra l'altro, insieme a Jessica Chastain, della versione 2021 di "Scene da un matrimonio").
Davis è un personaggio immaginario, ma più vero del vero. I Coen lo hanno disegnato sul modello di due veri folksingers newyorchesi, Dave Van Ronk e Ramblin' Jack Elliott, che ebbero l'immane sfortuna di presentarsi da esordienti sulla stessa scena e nello stesso identico periodo in cui Robert Zimmerman, alias Bob Dylan, muoveva i suoi primi passi, nei fumosi locali di Brooklyn e del Greenwich Village.
Davis è quindi, nella poetica dei Coen, un perfetto contraltare del grande Bob. Mettendo in scena i suoi fallimenti, le sue goffagini, le sue sofferenze esistenziali (chiamiamole anche con il nome più rozzo per quello che sono: "sfighe"), Davis è per i Coen l'eroe della nobile sconfitta: colui che non può farcela (a diventare famoso), colui che è costretto a restare un fallito, un senza casa, un fuori posto, uno che vede la storia scorrergli davanti, da vicino o da vicinissimo, ma la può soltanto sfiorare.
E' oro per il talento dei Coen, che hanno costruito molta della loro fortuna, sul canto (ironico o disperato) degli sconfitti.
La fotografia (pluripremiata) di Bruno Delbonnel, le musiche (T Bone Burnett) e le canzoni tradizionali del folk anglosassone, il cast di grandi attori (tutti accorrono quando i Coen chiamano): Carey Mulligan, Justin Timberlake, John Goodman, F. Murray Abraham, Adam Driver, contribuiscono alla riuscita del film, perfetto e toccante in ogni inquadratura.
Poteva poi essere anche quasi un racconto in prima persona, ma i Coen amano a tal punto le storie e il cinema, che qui inventano un assai tenue, eppure magico macGuffin con le fattezze di un gatto ribelle che riesce a rendere ancora più tortuosa e difficile la vita del povero Davis.
Il film ha ricevuto numerose candidature ai premi più importanti (Oscar e Golden Globe compresi) e ha (stra) meritatamente vinto il Gran Premio Speciale della Giuria al Festival di Cannes del 2013.

Fabrizio Falconi - 2023

16/06/23

"Blue Jay" (2016), un gioiello su Netflix, per commuoversi senza sentirsi in colpa


'Blue Jay' (2016)
è uno strano, toccante film indipendente, che dura solo 80 minuti, ora visibile su Netflix.

E' così strano che è anche difficile chiamarlo 'film', somigliando più a una confessione 'in presa diretta' o a una duplice prova d'attore.
Lo ha realizzato in un elegante bianco e nero Alex Lehmann, su un copione scritto da Mark Duplass, che è il protagonista maschile del film.
La storia - se storia si può chiamare - è presto detta: in un supermercato si rincontrano dopo molti anni, Jim e Amanda, che sono stati insieme da giovanissimi: un primo amore intenso, finito male.
Il caso li ha riportati lì nello stesso momento: lui deve chiudere la casa della madre che è morta, lei è venuta in visita alla sorella che è incinta.
Il film descrive le ore di questa giornata e della notte trascorsa insieme, tra allegria - ritrovando molta di quella magia che li aveva fatti innamorare l'uno dell'altro da giovanissimi - e principio di realtà - misurando la distanza tra quel che si era, quel che si voleva diventare e quel che si è diventati.
Un pretesto narrativo che sembrerebbe fin troppo facile.
Eppure il film vince la scommessa, facendosi apprezzare proprio per semplicità, misura, autenticità.
Gran merito è dei due attori, sempre in scena: Mark Duplass (impacciato e simpatico, ironico, irrisolto) e soprattutto Sarah Paulson, incantevole e di bravura davvero mostruosa.
'Blue Jay' ha girato molto nei festival di cinema indipendente, poi è riaffiorato grazie alla piattaforma globale e ha trovato un suo pubblico. Meritatamente. Si ride e ci si commuove, senza facili ricatti.

Fabrizio Falconi - 2023

11/06/23

"Via dalla Pazza Folla" di Thomas Vinterberg, una convincente trasposizione da Thomas Hardy, con una splendida Carey Mulligan

Ancora una volta ho apprezzato la grande qualità e la versatilità del regista di "Festen", "Il sospetto", "Un altro giro" (vincitore lo scorso anno dell'Oscar come miglior film straniero).
Visibile a noleggio su Google Play e Amazon Prime Video a 3.99 euro, "Via dalla Pazza Folla" è un adattamento assai scrupoloso del romanzo di Hardy, e meno ingombrante di quello che fu realizzato da John Schlesinger nel 1967, con protagonisti mostri sacri come Julie Christie, Alan Bates, Terence Stamp, Peter Finch.
L'eterna storia di Bathsheba Everdene, bellissima e intelligente, forte, fragile e desiderosa di indipendenza, prima contadina e poi fittavola in una immaginaria contea inglese, contesa da tre uomini molto diversi - naturalmente lei si concede a quello meno raccomandabile - è uno dei classici studi di Hardy che rappresentano la sua concezione totalmente pessimista del mondo.
Il mondo nel quale la natura sa essere punitiva e ingiusta, ma gli esseri umani fanno di tutto per condannarsi all'infelicità.
Bathsheba è uno splendido ritratto femminile, cui Carey Mulligan concede corpo e anima, ed intensa espressività ad ogni sguardo o gesto (del resto la Mulligan è da tempo una delle migliori attrici sulla scena del cinema internazionale).
Il colosso Matthias Schoenaerts è un perfetto Gabriel Oak, il primo a dichiararsi, respinto, a Bathsheba all'inizio della storia, e colui che le resta fedele fino alla fine.
Michael Sheen è il ricco fittavolo William Boldwood, che incastrato da un poco innocente scherzo di Bathsheba ne finisce completamente soggiogato.
Tom Sturridge è invece il famoso sergente Troy del romanzo, scapestrato e fatuo, irresistibile, dannato.
Per sceneggiare un romanzo così complesso - 600 pagine - Vinterberg si è affidato a David Nicholls che ha operato scelte radicali e coraggiose: le prime 200 pagine del libro vengono infatti risolte nei primi 10 minuti del film, che si concentra, come è giusto, nella seconda metà della storia, dove accadono i fatti più rilevanti.
La bellissima fotografia, che ricostruisce meticolosamente gli esterni e gli interni della campagna inglese dell'Ottocento, è di Charlotte Bruus Christensen (danese come il regista), mentre le musiche sono dell'inglese Craig Armstrong, compositore molto amato anche nei circoli rock e jazz.
"Via dalla Pazza Folla" di Vinterberg è insomma un convincente (e pienamente soddisfacente per lo spettatore) adattamento di un grande classico della letteratura, che indaga con fredda e appassionata lucidità gli anfratti e le ombre delle personalità umane, la loro incompletezza, i loro desideri, la speranza di poter un giorno essere felici, perché finalmente consapevoli.

Fabrizio Falconi - 2023

08/05/23

"Il Sol dell'Avvenire" - RECENSIONE - Moretti vive, Nanni non tanto


"Il sol dell'Avvenire" è un ritorno, o meglio un tentativo di ritorno - dopo film piuttosto convenzionali culminati nel brutto "Tre piani" - al Nanni delle origini e della prima maturità (per intenderci, fino ad Aprile compreso).

Moretti celebra il Nanni che fu, con tutti i suoi topos - la coperta patchwork, la fissa sulle scarpe, Battiato, il giro in monopattino (al posto dello scooter), i calci al pallone - ma sarebbe meglio dire che ne celebra le rovine. Perché - come avviene a tutti - anche Moretti è invecchiato, e quel Nanni che fu, non può più essere lui, ma solo una nostalgia di quello.
Detto questo, il film è efficace e ben scritto, ma è opera sostanzialmente di un lavoro a tavolino, con ben tre sceneggiatrici che si sono affiancate a Moretti per scrivere il copione, fin troppo didascalico, dialogato (con dialoghi che appunto sembrano scritti e letti, parola per parola, non naturali), soppesato.
Ciò che manca qui, come mancava molto più drasticamente nei precedenti film a questo - quelli del dopo "Aprile" - è la vera ispirazione, cioè la poesia.
Moretti la tenta, ma non c'è più lo scatto folgorante di Nanni, l'invenzione folle, c'è solo la ripetizione dei già conosciuti cliché, che vanno bene per il suo pubblico, che lo ama da sempre, e che se ne sente consolato e rassicurato (e in fondo anche lui).
Ci sono le strizzate ai francesi, che lo adorano - dal personaggio di Pierre, alla comparsa di Renzo Piano, che ai cugini d'oltralpe ha regalato il Beaubourg. C'è il pieno omaggio a Fellini (vero riferimento di Nanni dai tempi di Ecce Bombo), con un circo dove però nulla è realmente felliniano, ma solo imitazione del felliniano, e con la citazione esplicita del finale di La Dolce Vita e il meraviglioso primo piano finale di Valeria Ciangottini, che è uno dei momenti più felici del Sol dell'Avvenire.
C'è un film nel film - anzi tre - sui fatti d'Ungheria visti dall'Italia, ci sono i soliti Silvio Orlando e Margherita Buy, bravi ma convenzionali (la migliore è di gran lunga Barbora Bobulova). Ci sono i soliti "giovani" che vanno per conto loro, con la figlia improbabilissima innamorata del grande Jerzy Stuhr che fa la parte dell'ambasciatore polacco. Ci sono troppe canzoni che strizzano l'occhio allo spettatore. C'è la sequenza imbarazzante del cast e Moretti che cominciano a roteare per un'ora come i dervisci tourner. C'è l'immancabile crisi matrimoniale di Moretti, uno psicologo da barzelletta, un finale nostalgico girato ai Fori Imperiali (il film non deve essere costato poco) con elefanti veri e corteo dove ricompaiono molte delle figure di attori dei film del vecchio Nanni.
Tutto fatto bene, tutto che scorre (anche se a tratti devo dire purtroppo di essermi anche annoiato), ma senza mai spiccare veramente il volo.
Ci sono almeno un paio di scene molto belle dove per qualche secondo si scorge dietro questo bel vestito compunto, il vero vecchio Nanni: la prima, il piano sequenza al termine della bellissima tirata di Moretti contro la violenza gratuita nei film, ormai dilagante. La macchina da presa lascia sullo sfondo l'orrenda esecuzione con la pistola e Nanni si allontana lentamente sulla musica di Franco Piersanti; la seconda è il monologo "suggerito" da Nanni dal finestrino della macchina a una bravissima giovane attrice - Blu Yoshimi che ho scoperto essere figlia d'arte e sembra un reale talento - che sta lasciando il suo fidanzato.
Insomma, Moretti vive (Nanni no, o poco). Il voto è 6.5. E tutto il bene per Nanni-Moretti resta immutato.

Fabrizio Falconi

01/03/23

Ma perché nessuno parla di "Athena"? Il grande film di Romain Gavras


Ma perché nessuno parla di Athena?

Dopo l'inaugurazione del Festival di Venezia 2022, in concorso ufficiale, e gli applausi, il film di Romain Gavras, 43enne figlio d'arte, del grande Costa-Gavras, sembra caduto nell'oblio.
Eppure si tratta di uno dei film più importanti della stagione, destinato a durare. L'affresco epico - in presa diretta, virtuosisticamente girato - dei durissimi scontri che avvengono ad Athena, banlieu parigina abitata soprattutto da immigrati e figli di immigrati musulmani, prende il via dopo che il video della uccisione di un ragazzo di 13 anni, Idir, apparentemente da parte di poliziotti, diventa virale.
Quando il quartiere viene occupato e messo a ferro e fuoco dai rivoltosi, il film segue le vicende dei 3 fratelli di Idir, direttamente coinvolti nei propositi di vendetta, da una parte e l'altra delle barricate, con la polizia che cerca di riprendere il controllo dei territori occupati e i rivoltosi che prendono in ostaggio un poliziotto per ottenere la consegna dei responsabili della morte di Idir.
E' un film visivamente, esteticamente, drammaturgicamente straordinario, che si vive come se si fosse lì, in mezzo al frastuono e all'orrore - tra Pasolini e Pontecorvo - e non si dimentica.
Alla critica di sinistra - in patria - compresa Libération, non è piaciuto perché distribuito da una grande piattaforma - Netflix - e per motivi politici (alla fine la polizia viene discolpata, non sono stati loro i responsabili, ma un gruppo di estrema destra con false divise della polizia).
All'estero invece, i consensi e gli entusiasmi sono stati pressoché unanimi, da Variety a Rolling Stone.
Già solo il long take iniziale - prodigioso, più di 10 minuti, con utilizzo di droni - varrebbe da solo il prezzo del biglietto, come si diceva una volta.
Ma tutto il film si fa ammirare per coraggio, crudezza, forza emotiva, contenuti impliciti.
Se davvero si voleva un'opera di denuncia contro la follia umana, contro la follia delle faide umane, delle guerre, della violenza, e se soprattutto dalle parti di Hollywood fossero più coraggiosi, sarebbe stato più giusto e doveroso dare 9 candidature ad Athena, piuttosto che all'innocuo e preconfezionato The Banshees of Inisherin, adesso sulla bocca di tutti.

Fabrizio Falconi - 2023

08/02/23

Un piccolo inno all'intelligenza e al cinema: "Motherless Brooklyn" di e con Edward Norton - Da non perdere


Se avete perso questo film, cercate di recuperarlo, è un consiglio franco. Ora potete farlo, noleggiandolo per 3.99 euro su Amazon prime video.
Motherless Brooklyn - che i soliti titolisti italiani hanno pensato bene di corredare di un'aggiunta, "I segreti di una città", che non c'entra nulla - è un gran bel film diretto da Edward Norton, alla sua seconda prova di regia dopo "Tentazioni d'amore" (altro titolo italiano ridicolo, in originale Keeping the Faith), del 2000.
Siccome credo che l'intelligenza sia attualmente in lenta via d'estinzione, questo film è particolarmente raccomandabile perché è intelligente ed è opera di un attore/regista assai intelligente, Edward Norton. Ed è tratto dal romanzo di uno dei più brillanti scrittori americani viventi, Jonathan Lethem.
Racconta la storia di un gruppo di detective negli anni '50 a New York, che si trova ad indagare sulla morte del loro capo, implicato in una serie di ricatti e corruzioni, dentro all'amministrazione cittadina, il cui assessore all'edilizia vuole sbancare quartieri poveri e neri di Brooklyn per i suoi affari.
Il più brillante di questi detective è per l'appunto Lionel "Brooklyn" Essrog, intepretato da Norton, che è affetto dalla sindrome di Tourette, il che lo rende geniale, ma continuamente sottoposto a tic incontrollati che producono effetti esilaranti.
La vicenda sarà risolta proprio da "Brooklyn" che come gli altri compagni è cresciuto in un orfanotrofio. Ironia, romanticismo, strizzate d'occhio al cinema americano di quel decennio, tutto in questo film sprizza intelligenza.
Il cast è di grande livello: Bruce Willis è il capo, Alec Baldwin il cattivo, Willem Defoe il suo fratello diseredato, la bellissima Gugu Mbata-Raw la paladina che si batte per la sua gente nera, Bobby Cannavale il collega detective di Brooklyn.
Il film ha avuto molte vicissitudini durante la produzioni, che ne hanno ritardato l'uscita nelle sale, nel 2019.
Le musiche, bellissime, sono di Daniel Pemberton, il più geniale musicista sulla scena americana, autore anche di quelle di "Amsterdam" di David O. Russell uscito recentemente.
Non perdetelo.

29/01/23

Un film di puro godimento per le vostre serate: "Amsterdam" di David O. Russell


Ci sono stati pochi film che ultimamente mi hanno dato un godimento assoluto, come "Amsterdam", firmato dal genio di David O. Russell (regista di American Hustle nel 2013, dieci nominations agli Oscar e nessuna statuetta, credo cosa mai successa) e uscito quest'anno.
Godimento perché più che la vicenda raccontata - poco più di una fiaba, la storia di tre amici, due reduci della Prima Guerra e una infermiera che si trovano coinvolti, negli anni '30 in una cospirazione per insediare anche negli Stati Uniti una dittatura simil fascista - conta il piacere della messinscena, dalla quale ci si lascia incantare.
Tutto in questo film è intelligente. I dialoghi sono tra i più brillanti visti ultimamente, non c'è una pausa, sono carichi di ironia e a volte si aprono al gusto per la massima, per la sentenza morale.
I tre protagonisti, incarnati da Christian Bale (per il quale sono finiti gli aggettivi), Margot Robbie e David Washington (figlio di Denzel), fanno a gara di bravura, rimpallandosi le battute e soprattutto i tempi tra esse.
Perfetta la ricostruzione dell'epoca, la fotografia, il gioco sottile delle citazioni al cinema di quegli anni, la bellissima musica, scritta da quel geniaccio di Daniel Pemberton. Mi ero augurato che i premi Academy non sottovalutassero questo lavoro è infatti è arrivata la strameritata candidatura all'Oscar per la migliore canzone a Time, che ne fa parte.
C'è una lunga scena, circa a metà del film, nella quale sono contemporaneamente, tutti insieme, 5 attori: i tre suddetti più Rami Malek e Anya Taylor-Joy (la protagonista de La regina degli scacchi). 5 attori di così alto livello è difficile vederli tutti insieme nella stessa (lunga) scena, ed è veramente uno spettacolo.
Il film si fa amare anche (e forse proprio) per la sua imperfezione, giacché è un film imperfetto, costruito sul gusto personale e sullo stile di Russell.
Robert De Niro giganteggia da par suo (senza gigioneggiare) nella seconda parte del film.
E fra i "comprimari" figurano gente come Taylor Swift (che vende milioni di dischi ed è brava anche come attrice) e l'abbagliante Zoe Saldana (protagonista di Avatar).
Insomma, fregatevene degli orrendi "aggregatori", del tipo di Rotten Tomatoes e dei suoi numerini del cacchio, e concedetevi il lusso di una gran bella serata.

Fabrizio Falconi - 2023

 

19/01/23

"The Pale Blue Eyes" non vincerà l'Oscar, ma è un bellissimo film


The Pale Blue Eyes
è un gran bel film, che purtroppo non vincerà gli Oscar di cui farà razzia The Fabelmans, già solo per il fatto di essere uscito il 23 dicembre, quindi troppo alla fine dell'anno - e troppo tardi per suscitare le attenzioni dei membri Academy.

Il piacere di vederlo è stato nel mio caso rovinato da un vergognoso articolo online di una "rivista" di cinema, che al 3o rigo, senza nessun pudore, fa esplicito spoiler, svelando tranquillamente tutto il finale e quindi, diciamo, il colpevole.
Io purtroppo, in cerca di informazioni sul film, avevo letto l'articolo qualche giorno prima.
Ciò non toglie che il film di Scott Cooper sia magnifico. Non ho letto il romanzo da cui è tratto, ma il pretesto della trama è noto: un episodio reale della vita di Edgar Allan Poe - la sua esperienza come cadetto nella sperduta Accademia Militare di West Point- inserito in una trama di fiction all'altezza.
L'ambientazione, la messinscena, la regia, sono di livello. La fotografia straordinaria (quasi tutti gli interni sono girati al lume naturale di candele).
Ma la cosa più preziosa è il cast. Protagonista a parte, Christian Bale, per il quale sono finiti da tempo gli aggettivi, Cooper è riuscito a radunare nello stesso film Gillian Anderson, Charlotte Gainsbourg, Lucy Boynton (una delle attrici più interessanti e talentuose tra le nuove leve inglesi), Toby Jones, Herry Melling (su cui tornerò tra poco) e addirittura il leggendario Robert Duvall, che ha 94 anni (!) ma che ancora è in grado di recitare, alla grande, una piccola ma importante parte di un film.
Melling è il coprotagonista - interpreta la parte di Poe - e il confronto con Bale/Landor regge tutto il film.
Francamente finora conoscevo poco l'attore londinese - Melling - che deve essere una vecchia conoscenza dei fans di Harry Potter (io non ho mai visto nessun film della saga). Lo ricordo solo nel recente La regina degli scacchi (serie) e in Waiting for the Barbarians, di Ciro Guerra (film) tratto dal romanzo di Coetzee.
Melling però mi ha fatto una impressione straordinaria. Se gli Oscar avessero un senso, dovrebbe stravincere la statuetta come miglior attore maschile protagonista o coprotagonista, per questo film.
Nella migliore tradizione della recitazione britannica, Melling interpreta questo ruolo molto difficile, duettando in bravura con Bale. Interpretare Poe sarebbe dura per chiunque, e con un concreto rischio di essere ridicolo (in Italia la parte di Poe finirebbe sicuramente a Castellitto). Melling supera la prova, "reiventando" Poe senza tradirlo, facendone un essere lunare, spiritato, naif ma intensissimo. Senza gigionamenti. Semplicemente inventando, con l'arte della recitazione.
Insomma, chi può, non lo perda. Merita di essere visto anche solo per queste prove d'attore.
E' bello pensare che in tempi come questi, escano ancora prodotti così ben fatti, di alta qualità.

Fabrizio Falconi - 2023

14/01/23

"The Fabelmans" di Steven Spielberg, il fascino di un film non riuscito


The Fabelmans
nonostante tutti i premi che ovviamente ha vinto e vincerà, non è un film riuscito.

Parlar male di Steven Spielberg è come parlar male del papà o della mamma, per chi ama il cinema. E' qualcuno che ci ha regalato in 40 anni di carriera, talmente tanto, che non si può che essere eternamente grati.

Ma qui non si tratta, ovviamente, di parlar male. Perché The Fabelmans è un film che può essere amato anche per i suoi difetti.

Ciò non toglie che espressivamente, artisticamente, sia non riuscito.

Forse troppo emotivamente coinvolto dal contenuto del film - la ricostruzione di una dolorosa vicenda biografica - Spielberg ha realizzato un'opera troppo drasticamente divisa in due livelli (di contenuto, di tono, di scelta stilistica) : quello della storia familiare - il più convincente e riuscito; e quello della propria vocazione personale artistica, che trasformò un bambino sognatore in un grande e acclamato regista internazionale - enfatico, superficiale.

Il primo livello è materia dolorosa e compatta. I personaggi si avvertono come veri, si soffre, si empatizza, si condivide: il film raggiunge pienezza. Soprattutto nella lunga e bellissima scena nella quale il ragazzo, Sam, scopre, del tutto casualmente, il segreto inconfessabile della famiglia.

Il secondo livello, quello della scoperta e della realizzazione della vocazione artistica è invece sfrangiato, di tono quasi sempre farsesco, i personaggi sono appiattiti, bidimensionali, figurine inconsistenti, che sembrano uscite da un film disney degli anni '60.

In questo secondo binario tutto è convenzionale e già visto e non aiutano gli attori che - compreso anche il protagonista, cioè Spielberg ragazzo - hanno facce e pose banali, in situazioni più da soap che da film d'autore.

Paul Dano è il migliore nella prova d'attore, perché interiorizza il suo personaggio e lo rende vero. Michelle Williams è invece sempre un po' sopra i toni, e nello stile si apparenta più a una Doris Day che a una Meryl Streep.

E' ovvio che comunque si tratta di un film che è un vero e proprio atto d'amore nei confronti del cinema.

E che vale la pena di essere visto anche solo per i 10 minuti finali in cui un grande e scarnificato David Lynch presta la sua faccia e la sua barba ispida al grande John Ford, con tanto di benda sull'occhio.

Fabrizio Falconi - 2023 

24/11/22

Il giorno dei funerali di Grace Kelly: la maschera di dolore di Cary Grant

 


Alcune volte basta soltanto una foto per esprimere un intero mondo emotivo.

E' il caso di questa foto scattata il giorno dei funerali di Grace Kelly, il 18 settembre 1982, presso la Cattedrale di Monaco, dove si tennero le esequie dopo il drammatico incidente automobilistico in cui la principessa perse la vita e che riunì membri della famiglia principesca e quella dei Kelly, ma anche tante personalità tra cui la principessa Diana , il presidente dell'Irlanda Patrick Hillery , le mogli dei presidenti francese e americano, Danielle Mitterrand e Nancy Reagan , e molti dei suoi amici come l'attore Cary Grant. 

Il legame tra Cary Grant e Grace Kelly fu, in vita, molto stretto.

"L'attrice più straordinaria di sempre," così la definì quel giorno Cary Grant. E i ricordi di tutti, sono andati alla chimica sullo schermo che tra i due era naturale e innegabile, anche se, a scapito della storia del cinema, "Caccia al ladro", ovvero "To Catch A Thief", è stata l'unica volta che hanno condiviso sul grande schermo. 

Le loro scene avventurose e seducenti insieme immortalano le strade e le ville della Costa Azzurra e hanno portato il romanticismo a nuovi livelli con un momento iconico dopo l'altro. A quanto pare, la gioia condivisa di lavorare insieme e l'ammirazione reciproca sono continuate per il resto della loro vita. 

Mentre alcuni rapporti di lavoro finiscono quando le telecamere smettono di girare, Cary Grant e Grace Kelly hanno mantenuto un'amicizia per tutta la vita, con Cary che è diventata un ospite frequente al Roc Agel dopo che Grace Kelly è diventata la Principessa Grace di Monaco.

Cary Grant ha notato il talento di Grace molto prima che si trovassero insieme sullo schermo. In un'intervista per il libro del 1987 di James Spada, Grace: The Secret Lives of a Princess, Grant ha descritto di averla vista nei suoi primi film: “L'ho riconosciuta già allora come un'attrice brillante... Lo faceva sembrare così facile. Alcune persone hanno detto che Grace era semplicemente se stessa. Beh, questa è la cosa più difficile da fare se sei un attore, perché se sei te stesso, il pubblico sente come se quella persona stesse vivendo e respirando, semplicemente essendo naturale, non "recitando" - e questa è la cosa più difficile nel mondo da fare”. 

Cary Grant, a causa del suo ruolo indiscusso di star, è stato in grado di scegliere quasi sempre i suoi film e co-protagonisti e, opportunamente, le protagoniste femminili. 

Fortunatamente, il ruolo di John Robie era perfetto per Grant, e da lì il resto è storia: Alfred Hitchcock ha riunito il suo miglior attore e attrice nella sua località preferita: la Costa Azzurra. 

Dopo le riprese, Grant dichiarò: “Ho lavorato con molte belle attrici, ma secondo me la migliore attrice con cui abbia mai lavorato è stata Grace Kelly. Ingrid, Audrey, Deborah Kerr erano attrici splendide, splendide, ma Grace era assolutamente rilassata, l'attrice più straordinaria di sempre."  

Tra loro c'era davvero un legame speciale e innegabile. 

Cary Grant fu invitato al suo matrimonio con il principe Ranieri III nel 1956 e strinse anche la sua amicizia con il principe. Secondo un'intervista con il principe Alberto II sul Daily Mail , il principe Ranieri ricorderebbe i ricordi di Grant che visitava la famiglia e raccontava barzellette ai bambini. Presumibilmente, quelle battute erano spesso sporche, ma il principe Alberto ha insistito: "È sempre stato un gentiluomo". 

Una volta che la Principessa Grace si era affermata come la nuova Principessa di Monaco, Cary Grant e la sua famiglia visitavano regolarmente "The Rock" come ospiti della coppia principesca, partecipando a eventi e galà di beneficenza con la Principessa Grace e il Principe Ranieri. 

La loro ospitalità fu ricambiata quando Grace e il principe Ranieri rimasero con la famiglia di Grant durante i loro viaggi in California. 

Condividendo battute e prendendo in giro il bell'aspetto di Grant, si dice che abbia detto "Tutti invecchiano, tranne Cary Grant". Come principessa, Grace ha istituito fondazioni, ospedali e orfanotrofi per assistenza finanziaria e rifornimenti. Ha tenuto balli di beneficenza per sostenere le sue numerose attività di beneficenza; era una vera umanitaria e filantropa. Cary Grant era spesso al suo fianco in questi eventi filantropici, che si trattasse del Ballo della Croce Rossa di Monaco, iniziato dalla Principessa Grace nel 1958, del Gala del Motion Picture and Television Relief Fund del 1971 o della "Serata di Gala a Monaco" del Dubnoff Center. nel 1981. 


21/11/22

Una straordinaria foto d'epoca: i Pink Floyd a Saint-Tropez con una - neonata - Naomi Watts

 



E' davvero una splendida foto, che rievoca una intera epoca, quella delle summer love, del flower power, del movimento hippie, della meravigliosa creatività della musica rock inglese.

Fu scattata nell'estate 1970 in Francia, a Saint-Tropez, con i Pink Floyd al completo - seduti da sinistra si riconoscono David Gilmour, Nick Mason, Roger Waters (con gli occhiali scuri) e Richard Wright.

I Pink Floyd erano reduci dalla registrazione, negli Abbey Road Studios, di uno dei loro grandi capolavori, Atom heart Mother, che infatti uscirà il 2 ottobre di quell'anno.

Alla località francese, fra l'altro, i Pink Floyd dedicheranno un brano, così intitolato, attribuito al solo Roger Waters, nell'album seguente, Meddle, uscito nel 1971.

L'altra particolarità di questa foto è che vi figura anche una futura star, anche se ancora in fasce:

La bambina in braccio alla madre, ultima in piedi a sinistra è infatti l'attrice Naomi Watts a due anni. Di fianco è il padre dell'attrice, Peter Watts, per anni stretto collaboratore dei Pink Floyd, morto sei anni più tardi, nel 1976 a Notting Hill per overdose di eroina.

Fabrizio Falconi - 2022